WEBER , IL POLITICO E LA GUERRA


Per l'uomo politico […] l'aspirazione al potere è lo strumento indispensabile del suo lavoro. "L'istinto della potenza" (Machtinstinkt) - secondol'espressione in uso - appartiene perciò di fatto alle sue qualità normali. Ma nella sua professione il peccato contro lo Spirito Santo comincia quando tale aspirazione al potere smarrisce le "cause" per cui esiste (unsachlich wird) e diviene un oggetto di autoesaltazione puramente personale, invece di porsi esclusivamente al servizio della "causa". Giacché si danno in definitiva due sole specie di peccati mortali sul terreno della politica: mancanza di una "causa" giustificatrice (Unsachlich-keit) e mancanza di responsabilità (spesso, ma non sempre, coincidente con la prima). La vanità, ossia il bisogno di porre in primo piano con la massima evidenza la propria persona, induce l'uomo politico nella fortissima tentazione di commettere uno di quei peccati o anche tutti e due. Tanto più, in quanto il demagogo è costretto a contare sull'"efficacia", ed è perciò continuamente in pericolo di divenire un istrione, come pure di prendere alla leggera la propria responsabilità per le conseguenze del suo agire e di preoccuparsi soltanto dell'"impressione" che egli riesce a fare. Egli rischia, per mancanza di una causa, di scambiare nelle sue aspirazioni la prestigiosa apparenza del potere per il potere reale e, per mancanza di responsabilità, di godere del potere semplicemente per amor della potenza, senza dargli uno scopo per contenuto. Infatti, quantunque, o meglio proprio in quanto la potenza è l'indispensabile strumento di ogni politica e l'aspirazione al potere una delle sue forze propulsive, non si dà aberrazione dell'attività politica più deleteria dello sfoggio pacchiano del potere e del vanaglorioso compiacersi nel sentimento della potenza, o, in generale, di ogni culto del potere semplicemente come tale. Il mero "politico della potenza" (Machtpolitiker), quale cerca di glorificarlo un culto ardentemente professato anche da noi, può esercitare una forte influenza, ma opera di fatto nel vuoto e nell'assurdo. In ciò i critici della "politica di potenza" hanno pienamente ragione. Dall'improvviso intimo disfacimento di alcuni tipici rappresentanti di quell'indirizzo, abbiamo potuto apprendere per esperienza quale intrinseca debolezza e impotenza si nasconda dietro questo atteggiamento borioso ma del tutto vuoto. Esso è il prodotto di uno scetticismo estremamente meschino e superficiale riguardo al significato dell'azione umana, non avente nulla in comune con la coscienza del tragico di cui è in realtà intessuta ogni attività, e soprattutto quella politica.

 

È perfettamente vero, ed è uno degli elementi fondamentali di tutta la storia (sul quale non possiamo qui soffermarci in dettaglio), che il risultato finale dell'azione politica è spesso, dico meglio, è di regola in un rapporto assolutamente inadeguato e sovente addirittura paradossale col suo significato originario. Ma appunto perciò, non deve mancare all'azione politica questo suo significato di servire a una causa, ove essa debba avere una sua intima consistenza. Quale debba essere la causa per i cui fini l'uomo politico aspira al potere e si serve del potere, è una questione di fede. Egli può servire la nazione o l'umanità, può dar la sua opera per fini sociali, etici o culturali, mondani o religiosi, può esser sostenuto da una ferma fede nel "progresso" - non importa in qual senso - oppure può freddamente respingere questa forma di fede, può inoltre pretendere di mettersi al servizio di una "idea", oppure, rifiutando in linea di principio siffatta pretesa, può voler servire i fini esteriori della vita quotidiana - sempre però deve avere una fede. Altrimenti la maledizione della nullità delle creature incombe effettivamente - ciò è assolutamente esatto - anche sui successi politici esteriormente più solidi.

 

Con quanto ora abbiam detto siamo già entrati nella discussione del problema finale di cui ci occupiamo stasera, del problema, cioè, dell'ethos della politica in quanto "causa" (Sache). Quale compito può essa adempiere, a prescindere del tutto dai suoi fini, nell'ambito dell'intera organizzazione etica della vita? Qual è, per così dire, il luogo etico ove essa dimora? Qui evidentemente entrano in conflitto le supreme concezioni del mondo, tra le quali in definitiva bisogna scegliere. Affrontiamo risolutamente il problema che di recente - e, a mio avviso, in maniera assolutamente errata - è stato nuovamente esaminato.

 

Sgombriamo innanzitutto il terreno da una deformazione di bassa lega. L'etica può cioè assumere in primo luogo un ufficio che moralmente è deleterio al massimo grado. Facciamo qualche esempio. È raro che un uomo il quale si stacchi da una donna per essersi innamorato di un'altra, non senta il bisogno di giustificarsi davanti a se stesso coi dire che la prima non era più degna del suo amore o che lo aveva ingannato, o adducendo altri "motivi" del genere. Si tratta di una scortesia con cui si cerca di dare una indoratura di "legittimità" al semplice fatto ineluttabile che non si ama più e che la donna deve sopportarne le conseguenze; cosicché si accampa pure un diritto, e, oltre all'infelicità, si cerca di addossare alla donna anche un torto. In modo identico si comporta il concorrente fortunato in amore: il rivale deve per forza valere di meno, altrimenti non sarebbe rimasto soccombente. Ma si ha lo stesso genere di evidenza quando, dopo una qualsiasi guerra vittoriosa, il vincitore proclama con tracotanza priva di ogni dignità: "Ho vinto perché avevo ragione". Oppure quando l'animo viene meno di fronte agli orrori della guerra e invece di dire francamente: "Era troppo", si sente il bisogno di giustificare davanti ai propri occhi la stanchezza della guerra, sostituendovi questo sentimento: "Non potevo sopportarlo, perché dovevo combattere per una causa immorale". E così pure nel caso dei vinti. Dopo una guerra, anziché andare in cerca del "colpevole", con mentalità da donnicciole - laddove è stata la struttura della società a determinare la guerra -, un atteggiamento virile e austero detta queste parole: "Abbiamo perso la guerra, voi l'avete vinta. Questa è cosa fatta: parliamo ora di quali conseguenze bisogna trarne in relazione agli interessi concreti che erano in gioco, e - questo è l'essenziale - in vista della responsabilità di fronte all'avvenire, la quale grava specialmente sul vincitore". Tutto il resto manca di dignità e si sconta più tardi. Una nazione perdona una lesione dei propri interessi, non l'offesa al proprio onore, meno che mai quando questa è perpetrata con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla luce dopo decenni attizza nuovamente l'indegno accanimento, l'odio e lo sdegno, mentre la guerra, una volta finita, dovrebbe esser sepolta almeno sul piano morale. Ciò è possibile solo mediante l'oggettività e la cavalleria, ma soprattutto mediante la dignità. Non mai mediante una "etica", la quale in realtà significa mancanza di dignità da ambo le parti. Invece di preoccuparsi di quel che deve interessare l'uomo politico, ossia il futuro e le possibilità di fronte ad esso, quella persegue la questione -politicamente sterile perché insolubile - della colpa commessa nel passato. Se mai ve n'è una, questa è colpa politica. E inoltre l'inevitabile travisamento dell'intero problema viene occultato da interessi crudamente materiali: gli interessi del vincitore a trarre il massimo guadagno - morale e materiale -, le speranze del vinto di ricavar qualche vantaggio riconoscendo la propria colpa; se vi è qualcosa di "abietto", è appunto questo, ed è la conseguenza di quel modo di valersi dell'"etica" come mezzo per la "soperchieria".

 

Ma qual è ora il rapporto reale tra l'etica e la politica? Sono forse esse, come si è detto talvolta, affatto estranee l'una all'altra? O è vero viceversa che la "medesima" etica vale per l'azione politica come per tutte le altre? Si è talvolta ritenuto che tra queste due affermazioni si ponesse un'alternativa: giusta sarebbe l'una o l'altra. Ma sarebbe vero allora che una qualsiasi etica potrebbe stabilire norme di contenuto identico per ogni genere di rapporti, erotici e d'affari, familiari e d'ufficio, verso la moglie e l'erbivendola, il figlio e il concorrente, l'amico e l'avversario? Per le esigenze dell'etica rispetto alla politica sarebbe davvero così indifferente il fatto che questa opera con un mezzo tanto specifico com'è la potenza, dietro la quale si nasconde la violenza? Non vediamo forse che gli ideologi bolscevichi e spartachisti, appunto in quanto applicano alla politica questo mezzo, giungono esattamente agli stessi risultati di un qualsiasi dittatore militare? In che cosa, se non appunto nella persona di chi detiene il potere e nel suo dilettantismo, il dominio dei consigli degli operai e dei soldati si distingue da quello di un padrone assoluto dell'antico regime? E in che cosa si distingue la polemica di qualsiasi altro demagogo da quella che contro i loro avversari scatenano la maggior parte dei rappresentanti della presunta nuova etica? Se ne distingue per la nobiltà dell'intento! così si risponde. Bene. Ma qui si parla dei mezzi, e quanto alla nobiltà dei fini ultimi, anche gli odiati avversari pretendono di averla dal canto loro, e, soggettivamente, in perfetta buona fede. "Chi di spada ferisce, di spada perisce", e la lotta è sempre lotta. E allora, l'etica del Sermone della Montagna? Riguardo a questa - e intendiamo con essa l'etica assoluta del Vangelo -la cosa è più seria di quanto non credano quelli che oggi ne citano volentieri i precetti. Non è da prendersi a scherzo. Vale per essa quel che è stato detto a proposito della causalità nella scienza: non è una carrozza di piazza di cui si possa disporre per salirvi o scenderne a proprio piacere. Bensì il suo significato è o tutto o nulla, se si vuol cavarne qualcosa di più che semplici banalità. Così, per esempio, la parabola del giovane ricco, "il quale se ne andò tristemente, giacché possedeva molte ricchezze". Il precetto evangelico è incondizionato e preciso: da' via ciò che possiedi - tutto, assolutamente. Il politico osserverà: "Una pretesa socialmente assurda, fin tanto che non è attuata per tutti". E quindi, tassazioni, espropriazioni, confische: in una parola, ordini e coercizioni per tutti. Ma la legge morale non esige nulla di tutto ciò, e in questo risiede la sua essenza. Oppure, prendiamo il comando: "Porgi l'altra guancia": incondizionatamente, senza domandare qual diritto abbia l'altro di colpire. Un'etica della mancanza di dignità - a meno che non si tratti di un santo. Questo è il fatto: bisogna essere un santo in tutto, almeno nell'intenzione, bisogna vivere come Gesù, come gli Apostoli, come san Francesco e i suoi pari, e solo allora quell'etica ha un senso e una dignità. Altrimenti no. Infatti, laddove in conseguenza dell'etica dell'amore si comanda: "Non resistere al male con la violenza", il precetto che vale viceversa per il politico è H seguente: "Devi resistere al male con la violenza, altrimenti sarai responsabile se esso prevale". Chi voglia agire secondo l'etica del Vangelo, si astenga dagli scioperi - giacché essi costituiscono una coercizione - e si iscriva nei sindacati gialli. Ma soprattutto non parli di "rivoluzione". Giacché quell'etica non insegnerà certo che sia proprio la guerra civile l'unica guerra legittima. Il pacifista che agisca secondo il Vangelo rifiuterà di prender le armi oppure le getterà via, come veniva raccomandato in Germania, ritenendolo un dovere morale, allo scopo di por fine alla guerra e con ciò a ogni guerra. Il politico dirà: "L'unico mezzo sicuro per screditare la guerra per un avvenire entro i limiti delle nostre previsioni, sarebbe stata una pace di statu quo". I popoli infatti si sarebbero chiesti: a che scopo questa guerra? Essa sarebbe stata ridotta ad absurdum: cosa che ora non è più possibile. Infatti, per i vincitori - o almeno per una parte di essi - la guerra è stata politicamente proficua. E di ciò è responsabile quell'atteggiamento che ci ha reso impossibile ogni resistenza. Ma allora - quando sarà passata l'epoca dell'avvilimento - non la guerra, bensì la pace sarà discreditata: conseguenza, questa, dell'etica assoluta.

 

E finalmente: il dovere della verità. Per l'etica assoluta si tratta di un dovere incondizionato. Se ne è dedotta la conseguenza di pubblicare tutto, specialmente i documenti a carico del proprio paese, e, in base a tale pubblicazione unilaterale, di riconoscere la propria colpa, unilateralmente, incondizionatamente, senza riguardo alle conseguenze. Il politico troverà che riuscendo in tale intento non si giova alla verità ma piuttosto la si oscura, abusandone e scatenando le passioni; che solo una chiarificazione generale condotta secondo un piano e senza spirito di parte può portar buoni frutti, mentre ogni altro modo di procedere può avere, per la nazione che vi si accinge, conseguenze che non si riparano nel corso di decenni. Ma l'etica assoluta non si preoccupa delle conseguenze.

 

Qui sta il punto decisivo. Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte: può esser cioè orientato secondo l'"etica della convinzione" (gesinnungsethisch) oppure secondo P"etica della responsabilità" (verantwortungsethisch). Non che l'etica della convinzione coincida con la mancanza di responsabilità e l'etica della responsabilità con la mancanza di convinzione. Non si vuol certo dir questo. Ma v'è una differenza incolmabile tra l'agire secondo la massima dell'etica della convinzione, la quale - in termini religiosi - suona: "Il cristiano opera da giusto e rimette l'esito nelle mani di Dio", e l'agire secondo la massima dell'etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni. A un convinto sindacalista il quale si regoli secondo l'etica della convinzione potrete esporre con la massima forza di persuasione che la sua azione avrà per conseguenza di aumentare le speranze della reazione, di aggravare l'oppressione della sua classe e di impedirne l'ascesa: ciò non gli farà la minima impressione. Se le conseguenze di un'azione determinata da una convinzione pura sono cattive, ne sarà responsabile, secondo costui, non l'agente bensì il mondo o la stupidità altrui o la volontà divina che li ha creati tali. Chi invece ragiona secondo l'etica della responsabilità tiene appunto conto di quei difetti presenti nella media degli uomini; egli non ha alcun diritto - come giustamente ha detto Fichte - di presupporre in loro bontà e perfezione, non si sente autorizzato ad attribuire ad altri le conseguenze della propria azione, fin dove poteva prevederla. Costui dirà: "queste conseguenze saranno imputate al mio operato". L'uomo morale secondo l'etica della convinzione si sente "responsabile" solo quanto al dovere di teneraccesa la fiamma della convinzione pura, per esempio quella della protesta contro l'ingiustizia dell'ordinamento sociale. Ravvivarla continuamente, è questo lo scopo delle sue azioni assolutamente irrazionali - a giudicarle dal loro possibile risultato - le quali possono e devono avere un valore soltanto di esempio.

 

Ma nemmeno con ciò il problema è esaurito. Nessuna etica del mondo può prescindere dal fatto che il raggiungimento di fini "buoni" è il più delle volte accompagnato dall'uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi e dalla possibilità o anche dalla probabilità del concorso di altre conseguenze cattive, e nessuna etica può determinare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono "giustifichi" i mezzi e le altre conseguenze moralmente pericolose.

 

Per la politica, il mezzo decisivo è la forza, e di che portata sia il contrasto tra i mezzi e il fine, dal punto di vista etico, potrete desumerlo dal fatto ben noto che i socialisti rivoluzionari (tendenza di Zimmerwald) già durante la guerra professavano il principio che si potrebbe riassumere efficacemente in questa formula: "Se ci si pone l'alternativa, o ancora qualche anno di guerra e poi la rivoluzione, o subito la pace e nessuna rivoluzione, noi sceglieremo qualche anno di guerra". All'ulteriore domanda: "Quali risultati potrà portare questa rivoluzione?", ogni socialista con una certa preparazione scientifica avrebbe risposto che non era il caso di parlare del passaggio a un'economia che potesse chiamarsi socialista nel senso da lui voluto, ma che sarebbe sorta una nuova economia borghese la quale avrebbe potuto semplicemente sgombrare il terreno dagli elementi feudali e dai residui dinastici. Per un risultato così modesto, dunque, "ancora qualche anno di guerra!" Non è certo temerario affermare che a questo punto anche un socialista fermamente convinto potrebbe rifiutare il fine che esige mezzi siffatti. Nel bolscevismo e nello spartachismo, e in generale in ogni specie di socialismo rivoluzionario, le cose stanno esattamente in questi termini, ed è evidentemente assai ridicolo quando da quel pulpito si rimproverava ai "politici della forza" dell'antico regime, dal punto di vista etico, l'uso di mezzi identici, per quanto giustificato possa poi essere il rifiuto dei fini cui questi tendevano.

 

Qui, su questo problema della giustificazione dei mezzi mediante il fine, anche l'etica della convinzione in genere sembra destinata a fallire. E in effetti essa non ha logicamente altra via che quella di rifiutare ogni azione che operi con mezzi pericolosi dal punto di vista etico. Logicamente. Senza dubbio, nel mondo della realtà noi facciamo continuamente l'esperienza che il fautore dell'etica della convinzione si trasforma improvvisamente nel profeta chiliastico, e che per esempio coloro i quali hanno test predicato di opporre "l'amore alla forza", un istante dopo fanno appello alla forza - alla forza ultima, la quale dovrebbe portare all'abolizione di ogni possibile forza, così come i nostri capi militari ad ogni nuova offensiva dicevano ai soldati: "Questa è l'ultima, ci porterà alla vittoria e quindi alla pace". Chi segue l'etica della convinzione non sopporta l'irrazionalismo etico del mondo. Egli è un "razionalista" cosmico-etico. Chiunque di voi conosca Dostoevskij ricorderà l'episodio del Grande Inquisitore* dove il problema è discusso con estrema acutezza. Non è possibile ridurre a un comune denominatore l'etica della convinzione e l'etica della responsabilità, o decretare, sul piano morale, quale fine debba giustificare quel determinato mezzo, quando si sia fatta qualche concessione in generale a tale principio.

 

* Nei Fratelli Karamazov [N.d.T.].

 

[Max Weber, La politica come professione, in id., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1980, pp. 102 - 112.]