ADAM SMITH

LE TEORIE

I contributi di Smith riguardano vari campi: la retorica, la filosofia morale, la giurisprudenza, l’economia. Naturalmente, non possiamo considerare ciascuno di questi campi specifici, ma solo quello al quale Smith deve la sua fama, l’economia. Tuttavia è importante ricordare che le sue riflessioni su questo argomento (e quindi il libro in cui sono esposte) sono parte di una ricerca più generale sull’uomo e sulla società: due elementi che, come insegnava il suo maestro Hutcheson, costituiscono in realtà un unico oggetto di studio. Il punto di partenza della riflessione economica di Smith è costituito dalla divisione del lavoro. Il suo obiettivo, dunque, è spiegare come funziona un sistema economico in cui ogni persona è impegnata in un compito specifico e ogni impresa produce una merce specifica. La divisione del lavoro non è un fenomeno nuovo, sul quale Smith per primo richiami l’attenzione. Come dice un grande storico del pensiero economico, Joseph Schumpeter (1883 -1 950), si tratta di "un eterno luogo comune della teoria economica", di cui avevano già parlato autori della Grecia classica come Senofonte o Diodoro Siculo, o autori del secolo precedente quello di Smith come William Petty (1623-1687)1. Smith tuttavia è il primo a porre la divisione del lavoro alla base della riflessione analitica con cui cerca di spiegare quali fattori determinano il tenore di vita di un paese, e le sue tendenze a progredire o a regredire. La tesi di Smith può essere riassunta come segue. Innanzi tutto, la ricchezza delle nazioni" viene identificata con quello che oggi chiamiamo il reddito pro capite, cioè in sostanza con il tenore di vita dei cittadini di un paese. Si tratta di un ‘identificazione che ormai consideriamo scontata, ma che non era affatto tale quando Smith la introdusse. Con essa infatti viene superata la tendenza degli economisti cameralisti e mercantilisti, "consiglieri del principe" nei decenni precedenti, a considerare come obiettivo la massimizzazione del reddito complessivo di un paese, in quanto fonte di potere economico e quindi di potere militare e politico (una concezione per la quale la Svizzera sarebbe meno "ricca" dell’India). In secondo luogo, ricordiamo che il reddito nazionale è pari alla quantità di prodotto ottenuta in media da ciascun lavoratore (o produttività del lavoro) moltiplicata per il numero dei lavoratori occupati nella produzione. Se dividiamo il reddito nazionale per la popolazione, otteniamo il reddito pro capite; di conseguenza, il reddito pro capite risulta eguale alla produttività del lavoro moltiplicata per la quota dei lavoratori attivi sul totale della popolazione. In altri termini, il tenore di vita della popolazione dipende da due fattori: la quota di cittadini impiegati in un lavoro utile, e la produttività del loro lavoro. Qui entra in gioco la divisione del lavoro. Infatti, secondo Smith, la produttività dipende soprattutto dallo stadio raggiunto dalla divisione del lavoro. A sua volta, questo dipende dall’ampiezza dei mercati. Un ‘impresa che aumenta le sue dimensioni per realizzare al suo interno una migliore divisione del lavoro deve infatti collocare sul mercato un prodotto che è cresciuto sia per l’aumento del numero dei lavoratori impiegati sia per l’aumento della loro produttività. Di qui il liberismo di Smith: tutto ciò che ostacola i commerci costituisce anche un ostacolo allo sviluppo della divisione del lavoro, e quindi all’aumento della produttività e alla crescita del benessere dei cittadini, cioè della ricchezza delle nazioni. Gli "aritmetici politici" come Gregoty King (1648-1 712) e Charles Davenant (1656-1714), noti per i loro tentativi di descrivere in termini quantitativi la società dell’epoca, avevano illustrato la situazione economica dell’Inghilterra utilizzando una divisione del sistema economico nazionale in geografiche: un modo di procedere comprensibile per un ‘epoca in cui aree commerci erano assai ostacolati dalle difficoltà dei trasporti. Successivamente, invece, si afferma il criterio di suddividere la società in classi sociali Sulla scia di Richard Cantillon (c. 1680-1734), autore del Saggio sulla natura del commercio in generale (pubblicato postumo nel 1755) e di Quesnay, Smith considera una società divisa in tre classi. Tuttavia la sua tripartizione — lavoratori, capitalisti, proprietari terrieri (con le tre forme di reddito corrispondenti: salari, profitti e rendite) — è diversa da quella dei suoi predecessori — agricoltori, artigiani, nobiltà e clero —. Quest’ultima classificazione rispecchia una società in transizione dal feudalesimo al capitalismo, quella di Smith una società capitalista (pur se oggi la classe dei proprietari terrieri ha ormai perso in pratica tutta la sua importanza, mentre si sono affermati i ceti medi). Anche per quest’aspetto, dunque, Smith segna l’affermazione dello schema concettuale che caratterizzerà la scienza economica moderna. Date le differenze di potere contrattuale tra i capitalisti e i lavoratori, questi ultimi ricevono un salario appena sufficiente a mantenere se stessi e le proprie famiglie. Il reddito dei capitalisti e dei proprietari terrieri, cioè profitti e rendite, è pari nel complesso al sovrappiù ottenuto nel sistema economico. 11 sovrappiù — un concetto che Smith riprende da Petty, Cantillon e Quesnay — è pari a quella parte del prodotto che eccede quanto serve a ricostituire le scorte iniziali di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel processo produttivo. Questo concetto è il perno della rappresentazione classica del funzionamento dell’economia come "produzione di merci a mezzo di merci". Periodo dopo periodo, nel sistema economico le imprese utilizzano le scorte iniziali di mezzi di produzione (e i lavoratori utilizzano le scorte iniziali di mezzi di sussistenza) nel corso del processo produttivo; al termine di esso ottengono un prodotto che serve innanzitutto a ricostituire quelle scorte iniziali per permettere il ripetersi del ciclo; quel che avanza, il sovrappiù, può essere utilizzato per accrescere le scorte di mezzi di produzione e di sussistenza, aumentando il numero di lavoratori impiegati nella produzione e quindi il prodotto, oper consumi "improduttivi" (oltre ai consumi di lusso, i consumi di sussistenza di quanti non lavorano o di quanti svolgono un lavoro che non dà risultati concreti, cioè non mette capo a merci vendibili sul mercato). Smith attribuisce notevole importanza al processo di accumulazione, cioè all ‘impiego produttivo del sovrappiù, ma soprattutto attribuisce importanza centrale come fattore di sviluppo economico alla crescita della produttività derivante dal progresso nella divisione del lavoro. Come si è accennato, la divisione del lavoro pone un problema di coordinamento tra i vari soggetti economici. Ogni impresa produce una merce o un gruppo di merci, e per continuare a produrre ha bisogno di cedere almeno una parte di quanto ha prodotto in cambio dei mezzi di produzione che le sono necessari per continuare la sua attività. Allo stesso modo i lavoratori ottengono un salario che devono poter convertire nei mezzi di sussistenza di cui necessitano. Il "miracolo del mercato" consiste appunto nel fatto che le forze spontanee della concorrenza assicurano questo coordinamento, per cui merce per merce le quantità prodotte dall’insieme delle imprese operanti in ciascun settore corrispondono grosso modo alle quantità domandate in condizioni normali dagli acquirenti. Il meccanismo di aggiustamento che permette di raggiungere questo risultato consiste nei movimenti dei "prezzi di mercato", cioè dei prezzi effettivi ai quali si verificano gli scambi. In una situazione di squilibrio, questi prezzi si muovono in modo tale da indurre acquirenti e produttori a modificare i loro comportamenti spingendo il sistema economico verso l’equilibrio. Infatt4 quando per una qualche merce la domanda supera l’offerta, la concorrenza tra gli acquirenti che rischiano di restare insoddisfatti spinge il prezzo di mercato verso l’alto. Viceversa, quando l’offerta supera la domanda, la concorrenza tra i produttori che rischiano di non riuscire a vendere la propria merce spinge il prezzo verso il basso. Quel che Smith essenzialmente intende mettere in luce è che, indipendentemente dalle motivazioni sottostanti il comportamento dei singoli individui, l’economia di mercato nel suo complesso riesce a funzionare in modo più o meno soddisfacente. I meccanismi di mercato operano come una "mano invisibile" che guida l’economia in modo da assicurare quel benessere materiale che è precondizione indispensabile per una vita civile. In questo modo Smith dà una precisa risposta a tre dibattiti che si intersecano nel XVIII secolo: quello sul diritto all’autodeterminazione individuale, almeno in campo economico, quello sugli effetti indesiderati dell’agire umano e quello sulle motivazioni degli individui. Per questi due ultimi temi, la sua risposta è per vari aspetti analoghi a quella di Bernard de Mandeville (1670-1733), che nella celebre Favola delle api (1714) sostiene che i vizi privati indirizzano le azioni umane in modo da avere come esito le pubbliche virtù; di conseguenza non vi è da preoccuparsi se gli uomini non sono mossi da stimoli altruistici, ma dall’interesse personale. Il tema è ricco di sfumature, perse di vista da quanti hanno troppo frettolosamente attribuito a Smith una concezione stereot4pa di homo oeconomicus, freddamente razionale e intento unicamente alla ricerca del proprio tornaconto. Questa concezione è attribuibile piuttosto ai filoni più estremisti dell’utilitarismo benthamita, che individuano in un meccanico "calcolo felicifico" dei piaceri e delle pene la guida dell’agire umano. La costruzione benthamita è stata in effetti accolta e utilizzata nella costluzione di teorie economiche. Tuttavia ciò non è avvenuto ad opera degli economisti classic4 da Smith stesso a David Ricardo (1772-1823) e John Stuart Mill (1806-1873), che pure fu allievo diretto di Bentham, ma che se ne scostò esplicitamente proprio su questo punto. L’idea del "calcolo felicifico" è stata invece ripresa dagli economisti marginalisti come William Stanley Jevons (1835-1882), prevalenti a partire dal 1870 circa; èsulla scia di questa impostazione che Lionel Robbins (1898 -1984) ha proposto la fortunata definizione del problema economico come un problema di utilizzazione razionale delle scarse risorse disponibili, di fronte alla scelta tra una molteplicità di desideri. È opportuno sottolineare che Smith parla di "self-interest" (interesse personale), non di "selfishness" (egoismo), e che la teoria sugli effetti positivi del perseguimento dell’interesse personale sviluppata nella Ricchezza delle nazioni va letta alla luce di — e non in contraddizione con —quanto lo stesso Smith aveva scritto nel suo precedente lavoro, la Teoria dei sentimenti morali. In esso, come si è già accennato, Smith propone una "morale della simpatia", per la quale l’individuo ricerca continuamente l’approvazione dei suoi simili.Questa propensione morale agisce da contrappeso alle motivazioni più egocentriche: il perseguimento dell’interesse personale avviene all’interno di un quadro di regole morali, oltre che giuridiche (Smith ricorda che le seconde hanno scarsa efficacia, se non sono sostenute dalle prime), che garantisce un esito socialmente positivo. Cosi, Smith può affermare che "non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse" (oltre, p. 73), escludendo implicitamente un esito negativo causato dal diffondersi di sofi •sticazioni alimentari o frodi in commercio. Nel perseguire l’arricchimento personale, dice Smith, "ognuno può correre con tutte le proprie forze, sfruttando al massimo ogni nervo e ogni muscolo per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l’indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. E una violazione del fair play che non si può ammettere" 2 Proprio su questi temi — l’importanza delle fondamenta sia giuridiche sia culturali e morali dell’economia di mercato — è tornata recentemente a soffermarsi l’attenzione degli studiosi di Smith, che propendono ormai per una lettura integrata delle sue opere anziché per una cesura netta dell’analisi economica dalle riflessioni etiche e dallo studio delle istituzioni giuridiche 3. Questi temi si riflettono anche nel dibattito sulla concezione smithiana del liberismo. Le tesi di Smith poggiano su una petizione di principio che ha valenza generale, e non solo economica, contrapponendosi alpatemalismo tipico della struttura sociale e della cultura di una società feudale, e più precisamente all’idea che il comportamento degli individui debba essere regolato dall’alto: "Ogni uomo è certamente, da ogni punto di vista, più capace e più adatto di ogni altra persona a prendersi cura di se stesso" ~. Smith muove da una concezione realistica e non idealizzata degli uomini, che non sono considerati né santi né onniscienti, ma neppure abietti e incoscienti; d’altra parte, ricorda Smith, anche i governanti sono uomini. La concretezza dell’analisi smithiana porta così, in campo più strettamente economico, a un atteggiamento generalmente ostile all’intervento pubblico, ma in modo tutt’altro che dogmatico. Come altri temi del pensiero smithiano, comunque, anche quello del liberismo è stato oggetto di vivaci dibattiti interpretativi.

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