LEON BATTISTA ALBERTI

A cura di Diego Fusaro

"Solo è sanza virtù chi nolla vuole".


LEON BATTISTA ALBERTI
INDICE
CRONOLOGIA
VITA E OPERE
IL PENSIERO
IL MITO DELLA VILLA IN CAMPAGNA
OPERE INTEGRALI



CRONOLOGIA

Nascita

Figlio illegittimo di Lorenzo Alberti, nacque a Genova il 14 febbraio 1404 dopo che la famiglia era stata bandita da Firenze ad opera degli Albizzi a causa del suo coinvolgimento nel tumulto dei Ciompi.

La formazione culturale

Poche notizie si hanno dei suoi primi studi: sappiamo che iniziarono a Venezia, dove il padre si trasferì per motivi di affari, e che continuarono nel 1415 prima a Padova, alla scuola del ciceroniano Gasparino Barzizza, poi a Bologna, dove frequentò la facoltà di diritto e dove nel 1421 ebbe la notizia della morte del padre.

Gli anni seguenti dovette affrontare difficoltà ed amarezze causate da discordie e soprusi familiari

Nel 1428 conseguì la laurea in diritto canonico, dopo aver studiato anche matematica e fisica.

Le attività professionali

Trasferitosi nel 1428 a Firenze (dopo la revoca da parte della Signoria del bando che aveva colpito la sua famiglia) fu molto probabilmente (sino al 1431) in Francia e in Germania al seguito del cardinale Albergati.

Nel 1432 divenne segretario del patriarca di Grado, Biagio Molin, e fu da questi fatto nominare abbreviatore apostolico (notaio) alla corte pontificia. Rimase nell'orbita della corte papale fino al 1464, quando papa Paolo II abolì il collegio degli abbreviatori. Il legame con la corte papale gli permise di dedicarsi alla sua attività di letterato e di studioso senza più avere difficoltà finanziarie.

Nel 1432 intanto aveva ottenuto il priorato di San Martino a Gangalandi presso Signa.

Nel 1435 seguì papa Eugenio IV a Firenze dove entrò in contatto con l'ambiente artistico fiorentino in cui operavano, tra gli altri, Brunelleschi, Ghiberti, Paolo Uccello e Luca della Robbia.

Dal 1436 fu poi a Bologna e a Ferrara, dove nel 1438 si aprì il Concilio delle Chiese romana e bizantina. Consulente per le opere architettoniche alla corte di Lionello d'Este a Ferrara nel 1438, si occupò in particolare del monumento equestre di Niccolò I e del campanile della cattedrale.

Nel 1439 tornò a Firenze dove organizzò nel 1441 il Certame coronario sul tema dell'amicizia.

Nel 1444 fu nuovamente a Roma dove collaborò al programma di interventi urbanistici voluto da Niccolò V, dedicandosi in particolare alla sistemazione del Borgo Curiale, e soprintendendo al restauro di alcuni importanti monumenti antichi ( tra gli altri San Pietro e Santo Stefano Rotondo), alle opere di fortificazione e agli acquedotti.

Tra il 1447 e il 1451 si pone la costruzione di Palazzo Rucellai a Firenze; al 1450 circa risale il progetto per il Tempio Malatestiano di Rimini, al 1455 la facciata fiorentina di Santa Maria Novella (terminata nel 1470). Fu a Mantova nel 1459 con Pio II, dove soggiornò in occasione della celebre dieta per la crociata, nel 1463 e poi nel 1470 e 1471, ideò in questa città le chiese di San Sebastiano e Sant'Andrea. Al 1467-'70, in occasione di un ritorno a Firenze, risalgono infine la cappella del Santo Sepolcro in San Pancrazio e la tribuna della Santissima Annunziata.

La morte

Morì a Roma nell'aprile del 1472.


VITA E OPERE

Leon Battista Alberti fu architetto, letterato e scrittore d'arte e di tecnica artistica. Nato durante l'esilio della sua famiglia, di origine fiorentina, trascorse la giovinezza a Padova, dove divenne allievo dell'umanista Barsizza, e a Bologna; qui si laureò in diritto a ventiquattro anni. Successivamente, impiegatosi presso il cardinale Albergati, legato papale, si reca in Francia e in Germania. Nel 1431-34 lo troviamo a Roma, dove divenne membro della cancelleria pontificia alla corte del papa Eugenio IV, che lo nominò anche priore di San Martino e Gangalandi (1432). In questo periodo scrive il "Della famiglia" e la "Descriptio urbis Romae" (Descrizione della città di Roma), per la quale misurò con strumenti matematici di sua invenzione gli antichi monumenti. Nel giugno del 1434, al seguito del papa, Alberti poté finalmente soggiornare a Firenze, la città dei suoi avi, dove frequentò il circolo umanistico di San Marco ed ebbe il primo contatto, rivelatore, con l'arte nuova del Rinascimento fiorentino. Fu in questa occasione che si entusiasmò per le opere del Brunelleschi, di Masaccio, di Donatello. A Firenze scrisse il "De statua", dove analizzò per primo e sistematicamente le proporzioni del corpo umano, e il "De pictura", dedicato proprio a Brunelleschi, in cui codificò per la prima volta il metodo di rappresentazione prospettico e la pittura venne intesa come veduta prospettica della natura. Sempre con la curia si trasferì nel 1436 a Bologna; nel 1438 soggiornò a Ferrara alla corte di Lionello d'Este, cui fornisce forse idee e disegni per l'arco del Cavallo e il campanile del duomo, prime opere architettoniche in cui si riconosce un suo intervento. Dopo un altro soggiorno a Firenze nel 1439-43, tornò a Roma e da allora vi si stabilì in permanenza. Con l'elezione di papa Niccolò V (1447), Alberti sovrintese a un ampio programma di rinnovamento edilizio, urbanistico e di restauro di antichi edifici, e nel 1450 scrisse il "De re aedificatoria" (1450, Dell'architettura), in dieci libri. Alberti giunge all'architettura solo dopo i quarant'anni da diverse esperienze letterarie e scientifiche nelle quali si afferma una diversa intuizione dell'uomo, riconosciuto ora come artefice del proprio destino e capace, dall'indagine della natura, di conoscere il vero e creare il bello, di fondare la propria dignità su una base razionale. Per questo, mentre divide la fase di progettazione da quella dell'esecuzione, eleva l'aspetto pratico-artistico a operazione intellettuale "separata da ogni materia" (segnando una netta svolta rispetto a Brunelleschi per il quale l'architettura è ancora "arte di costruire", fatto sperimentale di tecniche e materiale) e la fa entrare in circolo con l'umanesimo letterario, filosofico, scientifico, con l'etica della nuova vita civile; egli procede a una sistemazione teorica e a una fondazione filologica del classicismo, che incide nella storia della cultura al di là delle alterne fortune delle sue opere architettoniche. Ritenuto ottimo disegnatore e prospettico, i suoi disegni sono andati perduti. Sua prima opera certa è, a Roma, Santo Stefano Rotondo: demolendo le pareti già in rovina della chiesa, restaurando il colonnato interno e murando l'intercolumnio [spazio compreso tra due colonne] del secondo colonnato, l'Alberti chiuse l'edificio in una nuova disposizione di spazi. Dopo questo restauro creativo, iniziò nel 1450 il rivestimento della gotica chiesa di San Francesco a Rimini, il Tempio Malatestiano. Ma i precisi progetti di trasformazione dell'interno (già manomesso nel 1447 da Matteo de' Pasti e Agostino di Duccio), cioè la volta a botte in legname, il nuovo transetto e il coro, la cupola semisferica, non ebbero mai principio di esecuzione. Solo il celebre esterno fu realizzato come omaggio dell'Umanesimo all'arte romana. Seguono le opere fiorentine: il progetto per palazzo Rucellai, dalla facciata elegantemente scandita dall'intelaiatura lineare delle cornici e delle lesene [Risalto verticale su una superficie muraria avente forma tale da poter essere assimilato a un pilastro incassato, generalmente a sezione orizzontale rettangolare, sporgente leggermente dalla superficie stessa], il prospetto di Santa Maria Novella, la cappella del Santo Sepolcro in San Pancrazio (1467) e la tribuna dell'Annunziata (disegnata nel 1470). Per i Gonzaga l'Alberti progettò e iniziò tra il 1459 e il 1460 la chiesa di San Sebastiano a Mantova. La facciata subì tali modifiche che ne rendono difficile l'analisi. Chiaro, invece, l'interno, il primo a croce greca dell'Umanesimo, che nella sua essenziale stereometria resistette all'ingiuria dei secoli: al centro della croce, la cupola semisferica e il cubo di 15 m di lato creano uno spazio nitidamente definito e insieme grandiosamente sonoro, perfettamente intonato, pur nella sua solennità, alla misura umana. Nella chiesa di Sant'Andrea, pure a Mantova, ideata nel 1470, l'Alberti, accettando apparentemente la forma basilicale latina, coi suoi progressivi piani prospettici, riuscì a trasformarla in assoluta unità plastica col contrapporre e legare in giochi alterni, sotto la volta maestosa e unificante, le masse chiuse delle cappelle minori e i vani sonori delle cappelle maggiori. Morì a Roma nel 1472. Tempio Malatestiano Il tempio Malatestiano che si trova a Rimini è un esempio eccelso dell'architettura rinascimentale italiana, si limita tuttavia al semplice rivestimento esterno, per giunta incompleto, della chiesa che i francescani avevano eretto, ad aula unica non absidata, nella prima metà del XIII sec. Ma già nel 1350 circa, l'essenzialità dell'interno venne modificata con la costruzione di cinque cappelle lungo i fianchi, dalle quali cominciò, con il loro restauro, la riforma del tempio voluta da Isotta degli Atti e Sigismondo Pandolfo Malatesta, che nella chiesa aveva sepolto i suoi avi. Così nel 1447 ebbero inizio i lavori nella cappella degli Angeli e in quella di San Sigismondo, che in dieci anni vennero ultimati da Matteo de' Pasti, medaglista e architetto, coadiuvato da Matteo Nuti. In strettissima collaborazione attesero alla parte scultorea Agostino di Duccio col fratello Ottaviano, Giovanni di Francesco e Pellegrino di Giovanni veneziani. Ne uscì un interno unico in cui sottili lesene classiche, strette tra due cornicioni, legano tra loro pareti e cappelle in un ritmo verticale di sapore gotico: balaustre, portali, pilastri, cornici, capitelli e persino sculture e bassorilievi sostanzialmente rinascimentali riescono a fondersi senza stridori con una decorazione di scudi, vesti, elmi piumati e damaschi, insegne araldiche e festoni del più lussuoso costume del gotico internazionale, tradotti in marmi e pietre colorate con una intensità e ricchezza decorativa senza precedenti. Questo equilibrio deve molto al linearismo nervoso e scattante degli stiacciati di Agostino di Duccio, che rivestì di pannelli marmorei pilastri, pareti e sarcofagi, evocando, tra fiaba e storia, virtù teologali e cardinali, angeli musici e putti in gioco, pianeti e segni zodiacali, storie e paesi. Per l'esterno, affidatogli nel 1450, Leon Battista Alberti disegnò un involucro autonomo dentro il quale resta perfettamente racchiuso il vecchio organismo con le nuove aggiunte. Il rivestimento del tempio fu realizzato da Matteo de' Pasti, protomaestro di tutta l'opera; ma la crisi malatestiana di quegli anni ne impedì il completamento. Rimangono l'incompiuta facciata ispirata all'arco di Rimini, in cui la classicità romana dei rapporti tra colonna e muro si manifesta in nuovi moduli, e, sugli alti stilobati, i due fianchi, successione di archi e pilastri di una forza e armonia che neppure gli antichi acquedotti conobbero. Così, ispirandosi all'antichità, ma in forma genialmente originale, l'Alberti postulò per primo la glorificazione di una dinastia nelle forme architettoniche di un edificio. A tal punto l'Alberti riuscì nel suo intento che il papa Pio II scomunicò Sigismondo e definì l'edificio "pieno di opere pagane al punto che sembrava meno una chiesa che non il tempio degli infedeli adoratori del demonio".

 

IL PENSIERO

Leon Battista Alberti è stato a lungo considerato come il modello dell’umanista, come l’uomo che più ha saputo incarnare l’Uomo Nuovo nato dall’Umanesimo, un uomo integrale e universale, che sa trarre dalla vita e dal mondo tutto ciò che questi gli possono offrire, un uomo fatto di anima e corpo, rivolto insieme al cielo e alla terra, libero seppure con i vincoli dati dalla fortuna. È questo l'uomo della città terrena, cui la religione non comanda più rinunce o ascesi, ma di "ben vivere, umanamente vivere questa vita che è pur dono di Dio, in questo mondo che è pur tempio di Dio" (Garin, Educazione umanistica, p. 7-8).
Seppure visse il momento della crisi dell’Umanesimo civile fiorentino, Alberti condivise ed incarnò - almeno in parte - questo modello, rivolgendo i suoi interessi a tutti i campi del sapere del tempo ed acquistando una conoscenza veramente enciclopedica, se non pari a quella di Pico, sicuramente assai vicina ad essa. Fu infatti architetto, pittore, letterato, filosofo, musico, fisico, chimico, pedagogo e matematico, anticipando in tal senso per poliedricità la figura di Leonardo da Vinci. Summa di questo sapere dalle mille sfaccettature a cui non sfugge nulla è l’architetto (non il filosofo) che diviene, nella prospettiva di Alberti, il modello dell’uomo integrale: "È l’architetto che cementa le comunità umane costruendone le sedi, che ne orienta gli edifici secondo astrologia, che ne scandisce il tempo con gli orologi, che struttura le istituzioni nei palazzi e nei templi, che regola le acque e apre le strade, che difende dai nemici e vince le guerre senza sangue" (Garin, Umanisti Artisti Scienziati, p. 160); dell’uomo che impone un ordine razionale alla propria vita, seguendo la luce gettata da quella ragione svalutata dai Medievali e che ora – nell’età moderna – è tornata ad essere curiosa di tutto, secondo il modello inaugurato da Socrate, programmando e razionalizzando il proprio tempo ed utilizzando le proprie capacità per fronteggiare la fortuna; di uomo che antepone la vita activa e operosa (sia in ambito privato, sia in ambito pubblico) alla vita contemplativa, che sa trasformare la realtà per adattarla ai propri bisogni e alle proprie esigenze. Insieme all’architetto, dobbiamo ricordare anche il borghese, l’uomo d’affari ricco di una esperienza acquisita non sui libri, ma con la frequentazione degli uomini e della società. Il saggio dunque non è il filosofo, che Alberti identifica nel teologo-filosofo della tradizione scolastica, ma il pensatore non professionale e non professorale che ha imparato dagli artigiani e dalla natura a conoscere l’uomo e il mondo. Dio ha creato (e in ciò Alberti concorda pienamente con Pico e Ficino, e in generale con gli altri Umanisti) l’uomo come ente superiore a tutti gli altri, come ente capace di opere eccellenti ma anche dia zioni deplorevoli (proprio in ciò sta la libertà umana): "Fece la natura, cioè Iddio, l’uomo composto parte celesto e divino, parte sopra ogni mortale cosa formosissimo e nobilissimo […] sia adunque persuaso che l’uomo nacque, non per atristirsi in ozio, ma per adoperarsi in cose magnifice e ample, colle quali e’ possa piacere e onorare Iddio in prima, e per avere in se stessi come uso di perfetta virtù, così frutto di felicità" (I libri della famiglia, IV, 2). Nella costruzione dell’uomo ideale, un ruolo di primo piano è esercitato - secondo gli Umanisti italiani del Quattrocento - dallo studio dei classici antichi, che costituiscono una voce che, ancora viva, continua a porci questioni sempre attuali (l’eterno
ti estin socratico). La filologia, nel suo sforzo di ripresentare i classici nel loro volto originario, assume il compito di educare gli uomini, ristabilendo il dialogo con i grandi del passato. Il Medioevo rappresenta solo un deviamento, uno sbandamento, un momento – secondo Hegel – in cui la coscienza umana è "infelice" perché impotente di fronte ad un Dio che tutto pùò. Ma Alberti non contribuì ad aprire questa prospettiva, ne fu semmai un erede, lucido e critico laddove rifiutò atteggiamenti da epigono e da imitatore, peraltro non giudicati negativamente dagli intellettuali dell’epoca. Nella sua ambizione di essere considerato il nuovo Vitruvio, egli frequentò con assiduità i testi classici, ripetutamente citati, anche con sfoggio di erudizione, e presenti come punto di riferimento nelle sue opere, ma non cercò in essi modelli da copiare quanto piuttosto di apprendere da loro per "mettere innanzi nuove cose trovate da noi per vedere se gli si può acquistar pari o maggior lodi di loro" (De Re Aedificatoria, I,9). Oltre agli elementi classici presenti nelle opere di Alberti architetto, vanno qui ricordati alcuni aspetti che costituiscono lo sfondo sul quale Alberti costruisce il suo rapporto con gli antichi:
1] l’alta considerazione che Alberti, almeno dopo il ritorno a Firenze, mantiene del presente: come è scritto nella dedica a Brunelleschi del De Pictura, il presente supera l’antichità nel trovare nuove arti e scienze, senza precettori e modelli come poterono fare gli antichi, i quali poterono contare per raggiungere i risultati che conosciamo, sull’edificazione di una lunga tradizione: il presente non è solo una rinascita, ma una nuova fondazione di un’arte e di una scienza mai viste prima; il presente è sì sempre nuovo, ma non per questo sganciato dal passato.


2] L’indipendenza che anche in questo ambito Alberti seppe mantenere nei confronti dell’Umanesimo codificato e di moda del suo tempo. Se guardiamo alla letteratura, i suoi riferimenti classici furono soprattutto Plauto, Luciano, Esopo e non gli autori apprezzati dagli umanisti fiorentini (Platone, Aristotele, Quintiliano).

3] L'autonomia che mostra nei confronti della semplice imitazione dei modelli classici. Come nota Malerba, anche negli Apologhi, nel Cane e nella Mosca egli si sottrae a tale imitazione dei modelli, Esopo e Luciano, rifiutando l’utilizzo di soggetti e personaggi definiti: "la volpe o il pavone, il lupo o l’agnello, difficilmente possono sottrarsi all’esopismo cristallizzato dalla tradizione, mentre l’ombra dell’uomo o l’ottone o il sale, o anche certi animali dotati di una personalità complessa e non univoca come il cane, inducono l’autore ad allontanare o comunque a rendere incerto e ambiguo il messaggio" (Apologhi ed elogi, Pref. di L. Malerba, p. 8).

Pur muovendosi in un ambito già esplorato dagli umanisti italiani, Alberti sembra voler sgretolare e smembrare procedure e codificate per introdurre nei prodotti letterari che hanno come modello i classici, chiaroscuri, contrasti e un forte carattere di originalità. Un aspetto particolare del rapporto con gli antichi riguarda la questione della lingua per la quale abbiamo la presa di posizione di Alberti nella lettera dedicatoria a Francesco d’Altobianco Alberti del Libro III del De familia. In essa Alberti fa propria la tesi sostenuta da Flavio Biondo nel De locutione romana in un dibattito avvenuto a Firenze nel 1435, secondo la quale in primo luogo nell’antica Roma vi era una sola lingua che aveva assunto due forme, il latino classico e quello di uso comune, ed in secondo luogo il volgare discende dal latino corrotto dopo la caduta dell’Impero per le invasioni straniere. Secondo Alberti, il volgare è in grado di esprimere qualunque contenuto e di rivolgersi ad un numero più ampio di persone. Per dare dignità letteraria al volgare e mostrarne le potenzialità espressive, è sufficiente che i letterati comincino ad utilizzarlo rimediando alle sue mancanze sintattiche e lessicali tramite il latino. Questo atteggiamento ha una puntuale corrispondenza con la prosa albertiana, ricca di latinismi, sia nel lessico, sia nella struttura sintattica delle frasi. Si deve dunque rimarcare come Alberti compia pertanto un passo decisivo verso il superamento del pregiudizio secondo il quale il volgare non poteva essere utilizzato per trattare argomenti seri. A partire dal 1440, gli interessi tecnico-scientifici e artistici cominciarono a prevalere in Alberti rispetto a quelli letterari, con i quali aveva esordito. Un primo esempio è lo scritto De equo animante (1441) in cui Alberti, utilizzando fonti sia antiche che moderne, descrive le forme e le caratteristiche del cavallo, il suo allevamento, le sue funzioni sia in pace sia in guerra. Negli anni successivi si dedicò a questioni pratiche (la misurazione della città di Roma, il restauro di edifici, fontane e acquedotti, il recupero di una nave romana nel lago di Nemi) che troviamo descritte nelle sue opere a partire dal De re aedificatoria. Numerose descrizioni contenute in quest'opera testimoniano la competenza di Alberti nella tecnologia e nell'ingegneria idraulica. Nei Ludi elaborò una serie di esercizi di matematica:

a] Dal I al VII troviamo problemi di misurazione indiretta attraverso un traguardo ottico
b] Nell'VIII e nel IX troviamo descritti strumenti per la misurazione della profondità del mare e la fontana di Erone;
c] I rimanenti riguardano astrolabi, quadranti, bilance, anemometri, ecc.
d] Il XVI illustra il metodo per misurare "il sito e ambito di una terra e li sue vie e case", da collegare con la Descriptio urbis Romae.

Nel De componenda statua definisce le misure proporzionali del corpo umano utilizzando il "definitore", uno strumento simile all'orizzonte graduato, costituito da un disco da porre sul capo con un regolo sporgente e un filo a piombo appeso, per fornire allo scultore i punti di riferimento di un ideale cilindro da cui ricavare la statua. Il De componendis cifris è il primo trattato moderno di criptografia.
Nella Descriptio urbis Romae elaborò un metodo di eccezionale importanza per la cartografia basato sull'uso delle coordinate polari. Adottando tendenzialmente il dialogo di marca ciceroniana (più che platonica), pur essendo di orientamento stoicheggiante, Alberti si oppone al monologo medievale gestito dalla fede, dove mancava il libero circolo di idee e di opinioni: la scelta della forma dialogica corrisponde appunto alla precisa esigenza di cercare un confronto, un libero scambio di opinioni anche con chi si muove seguendo prospettive diverse; l’apertura albertiana, del resto, si riverbera all’interno dei suoi stessi scritti, primi fra tutti I libri della famiglia, nei quali egli invita i figli a seguire liberamente le proprie attitudini, e non le costrizioni che vengono imposte dai genitori (che, così facendo, forzano la loro natura). Si devono dunque assecondare e potenziare le capacità dei figli, senza però proteggerli eccessivamente, tenendoli lontani dalla realtà: bisogna invece lasciare che essi imparino a cavarsela da sé. La prima cosa da fare è avvicinare i fanciulli alle humanae litterae, affinchè prendano contatto con la cultura, poiché non si può essere gentiluomini senza di essa. Sempre in ambito familiare, Alberti riconosce pari importanza e dignità al marito e alla moglie, sebbene essi svolgano mansioni diversissime nella casa. Accanto a queste questioni di carattere familiare, Alberti tratta anche del rapporto tra virtù e fortuna (che sarà ripreso da Machiavelli), dicendo che la fortuna vince laddove la virtù non ha costruito le giuste difese: ne consegue – umanisticamente – che l’uomo è signore di sé o, per dirla con la celebre espressione sallustiana, è faber fortunae suae, libero di scegliere la propria sorte (entro certi limiti, naturalmente).

Il mito della vita in campagna

Di Lydia Pavan

 

L’opuscolo Villa - forse una riduzione o un estratto di un’opera maggiore, soltanto concepita ovvero perduta - è stato scritto da Leon Battista Alberti probabilmente nel 1438 ed è stato scoperto nel 1953 da Cecil Grayson, nel codice Palatino 267 della Biblioteca Nazionale di Parma. L’opera s’inserisce a pieno titolo nella tematica privilegiata dai Rei rusticae scriptores, la cui tradizione, sviluppatasi in epoca classica, approda naturalmente al Quattrocento. Tra i tanti valori, presenti nel testo, ne predomina uno che, da Esiodo delle Opere e i giorni arriva all’Alberti, attraverso le meditazioni della filosofia stoico-epicurea e degli scrittori latini, come Virgilio delle Georgiche: è il valore della medietas (misura, medietà, equilibrio, saggezza), che si configura come un modello di vita finalizzato ad evitare gli estremi, ad affrontare l’imprevedibilità della fortuna, a dominare la realtà proprio come, nell’agricoltura, si deve dominare il campo per ricavarne il meglio per sé e per l’ambiente circostante, nella convinzione che gli eccessi, il poco o il troppo, arrechino dei danni cui è difficile rimediare. Se la medietas è constatabile nella stessa scelta economica di investire per metà in campagna e per metà in città, scelta già attuata dalla famiglia Alberti nel Trecento, tutta la Villa è percorsa dal segno della moderazione _ che non è certo una novità nel periodo umanistico, basti pensare a Paolo da Certaldo che parla della misura come di un mezzo di difesa dai vizi. Scorriamo il testo. Vedi e rivedi prima che tu statuisca piacerti quello per cui tu darai quello che a tutti piace, cioè il danaro, che bisogna dunque saper gestire con oculatezza e capacità previsionale. Come de’ figliuoli, così della villa: una ène poco, due sono assai, tre sono troppi. Lo spazio della villa è così legato a quello della famiglia da presupporre una medesima progettualità, all’insegna appunto della medietas, la quale funge da argine per un’istituzione familiare in crisi nella società del Quattrocento, crisi che si propone ancora oggi. Fornisci la casa di quello bisogna e di quello può forse bisognare. Compera niuna di quelle cose, quali puoi prendere da e’ tuoi terreni: sono raccomandati una gestione oculata e il risparmio, onde evitare superflue spese. I precetti dell’utile e del necessario, dunque né il troppo né il poco, sono ribaditi nella parte in cui l’Alberti, rivolgendosi al proprietario, si occupa dei rapporti con i servi: A questi comanderai cose utili, darai quello che sia necessario. E ancora il criterio della medietas è riproposto nella pratica della coltivazione e della gestione dei consumi casalinghi: Più nuoce il troppo stercorare [concimare] che non giova il poco; più molto giova assai stercorare che non nuoce il troppo. […] Non solo lo ulivo fugge il troppo caldo e anche il troppo freddo ma e ogni radice nutrita dalla terra ama l’aiere temperato. […] El fuoco mai si spenga in casa, e mai arda indarno.

Emblematico è poi l’uso ragionevole del tempo riferito ai servi: Non vorrai facciano il dì quello possono poi fare la notte, né in dì da lavorare gli occuperai in faccende quale e’ possano essequire il dì della festa. Con prudenza e oculato consumismo Alberti consiglia: Béi quando la botte sia piena, e béi quando el’ è scema, consiglio che risulta chiaro anche in Esiodo, secondo il quale è bene saziarsi all’inizio e alla fine. Trattando della ricchezza, entrambi sono convinti che sia apprezzabile solo quella ottenuta senza frode. Scrive Alberti: E quelle ricchezze quali s’accumulano senza fraude sono un bene divino. Ancora, il risparmio del tempo, la sua capitalizzazione rientrano in una visione del mondo ispirata ad un’organizzazione sagace dell’esistenza, alla coscienza che utilizzare il tempo in modo saggio equivale a rallentarne la corsa: A chi perde tempo s’accrescono faccende, lo ’ndugio rende il fine contumace e fuggitivo. Legata all’esigenza di non perdere tempo, è forse la moderazione stessa nel parlare. La medietas non è certo disgiunta dal realismo, appreso da autori classici come Catone il Censore (De Agricultura) o Plinio il Vecchio (Naturalis Historia); molteplici sono infatti, nella Villa, i consigli pratici per colui che vuole arrivare ad un’optima ricolta, partendo dall’aratura e dai lavori intermedi, prestando attenzione alla posizione della luna, crescente o calante, e del sole: nulla tanto nuoce a tutta la villa quanto non guatare ogni dì dove il sol si lieva e dove e’ si pone.

Traspare qua e là una concezione pseudo-animistica della natura, ove gli astri hanno una dimensione corporea, e ove s’individuano possibilità relazionali. Si vedano, tra gli altri, i passi seguenti: Nimico alla vite è il lauro e anche il caulo[cavolo]; e sdegnano e’ pampani il rapano [ravanello] e aodiano el caule [odiano il fusto del cavolo]. […] Seminerari che la luna ti vegga. […] Osserva che la luna smagri e non ti vegga. Si direbbe che venga riconosciuta alla luna una sorta di facoltà percettiva: gli sguardi suoi e dell’uomo s’incrociano o meno, in un rapporto continuo di sfida. Il realismo dell’Alberti non si esaurisce, dunque, in un’osservazione oggettiva, ma è vivificato da un linguaggio originale che connette magicamente i fenomeni.


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