DARIO ANTISERI

A cura di Antonino Magnanimo



DARIO ANTISERI
INDICE
VITA E OPERE
TUNNEL COGNITIVI
SULLE ORME DI POPPER
LA CACCIA ALL'ERRORE
LA VERITA' E LA TRADIZIONE CRITICA
IL METODO SCIENTIFICO
LE SGRAMMATICATURE DEL PENSIERO
LA METODOLOGIA DELLA RICERCA
CREATIVITA' ED EDUCAZIONE SCIENTIFICA
NOZIONISMO E RICERCHISMO
L'USO DEL MANUALE
INSEGNARE PER PROBLEMI
NOTE




VITA E OPERE

Nato a Foligno il 9 gennaio 1940, laureato in Filosofia presso l’Università di Perugia nel 1963, professore Ordinario di Metodologia delle scienze sociali presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss, è stato Preside della Facoltà di Scienze politiche della Luiss dal 1994 al 1998. Dopo la laurea in Italia, ha studiato (1963-67) Filosofia della scienza, Logica matematica e Filosofia del linguaggio rispettivamente presso le Università di Vienna, Münster e Oxford. Libero docente nel 1968 in Filosofia teoretica, ha insegnato materie filosofiche presso le Università di Roma “La Sapienza” e Siena. Ordinario di Filosofia del linguaggio presso l’Università di Padova (1975-86), ha qui insegnato anche Filosofia della scienza presso la Scuola di specializzazione in Filosofia della scienza, di cui è stato Direttore nel biennio 1980-82. Nel 1986 è stato chiamato dalla Facoltà di Scienze politiche della Luiss a ricoprire la cattedra di Metodologia delle scienze sociali. Sempre presso la Luiss è Direttore del Centro di metodologia delle scienze sociali. È membro dell’Istituto accademico di Roma e membro dell’Accademia italo-tedesca di Merano. E’ specialista del moderno pensiero liberale angloamericano e austriaco. Dario Antiseri è tra i più solidi filosofi del nostro tempo. Il suo pensiero non ha nulla di debole. È fortemente positivo ed è agli antipodi di ogni dogmatismo. In collaborazione con Giovanni Reale, è autore del più diffuso testo di filosofia in uso nelle scuole superiori italiane, molto tradotto anche all’estero. Insieme hanno ricevuto recentemente anche una sorprendente laurea ad honorem dall’università di Mosca, in quello che è stato per decenni il tempio del dogma ateo e materialista. Nell’aula del Consiglio della facoltà di Filosofia gremita da professori, dottorandi e autorità accademiche il rettore dell’Università ha conferito l’alto riconoscimento di Dottore Honoris Causa ai due studiosi italiani, Dario Antiseri (Luiss) e Giovanni Reale (Cattolica di Milano), la cui Storia della Filosofia Occidentale pubblicata in russo in quattro volumi è diventata un bestseller nazionale. Il libro, venduto in centinaia di migliaia di copie, per vari mesi ha occupato il secondo posto nella classifica generale dei libri più venduti. In tutte le università russe il libro di Antiseri e Reale è diventato il testo principale delle facoltà umanistiche. I lettori russi sono stati particolarmente colpiti dall’approccio di Antiseri e Reale, che vedono la storia della filosofia come una competizione tra teorie e prospettive filosofiche diverse. Gli autori hanno dimostrato che la ricerca della verità si fonda sulla consapevolezza della propria fallibilità, che è una negazione delle pretese del marxismo-leninismo al monopolio della “verità”. Il libro è un’appassionata difesa dei valori della società aperta, della democrazia e della libertà di pensiero. Tra le opere di Antiseri ricordiamo: “Karl R. Popper: epistemologia e società aperta” (Roma, Armando, 1972); “Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede” (Brescia, Queriniana, 1991); “Teoria unificata del metodo” (Padova, Liviana, 1981); “Il mestiere del filosofo. Didattica della filosofia” (Roma, Armando, 1992); “Le concezioni pedagogiche-didattiche di G. Vailati. Motivi di attualità”, in Pedagogia e Vita, n.3, La Scuola, Brescia, 1988; “Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base”, La Scuola, Brescia, 1985; “Epistemologia e didattica delle scienze”, Armando, Roma, 1977; “Il pensiero di K.Popper: intervista di Armando Armando”, Servizio Informazioni Avio, n.3-4, Armando, Roma, 1977; “L’interdisciplinarità”, Servizio Informazioni Avio, n. 11-12, Armando, Roma, 1977; “Regole della democrazia e logica della ricerca”, Armando, Roma, 1977; “I fondamenti epistemologici del lavoro interdisciplinare”, Armando, Roma, 1975; “Epistemologia contemporanea e didattica della storia”, Armando, Roma, 1974.

Pubblicazioni recenti

Monografie

- L’agonia dei partiti politici, Rubbettino, Messina, 1999.

- Credere dopo la filosofia del secolo XX, Armando, Roma, 1999 (trad. tedesca, Monaco, 2001).

- Destra e sinistra: due parole ormai inutili, Rubbettino, Soveria Mannelli, Messina, 1999.

- Liberali: quelli veri e quelli falsi, Rubbettino, Messina, 1998.

- Trattato di metodologia delle scienze sociali, Utet, Torino, 1997.

- Storia della filosofia (in coll. con G. Reale), voll. 3, La Scuola, Brescia,199931; opera tradotta in spagnolo, portoghese e russo.

Introduzioni

- Introduzione all’edizione italiana di F.A. von Hayek, "La presunzione fatale", Rusconi, 1997.

- Introduzione a L. von Mises, "Liberismo", Rubbettino, Messina, 1997.

- Introduzione a F.A. von Hayek, "L’abuso della ragione", Seam, Roma, 1997.

- Introduzione e traduzione di K. R. Popper, "Tutta la vita è risolvere problemi", Rusconi, Milano, 1998.

Antologie

- Friedrich A. von Hayek (in coll. con L. Infantino), tradotto anche in russo, Rubbettino, Messina, 1998.

TUNNEL COGNITIVI

In non pochi casi la nostra mente tende ad infilarsi in un tunnel e diventa incapace di vedere attorno, di inquadrare il problema in una visione più ampia. Non siamo mai tanto vicini all’irrazionalità come quanto siamo convintissimi di essere razionali. Si annidano insomma nella nostra mente dei tunnel cognitivi, che imbocchiamo a testa bassa, senza dubbi, ignorando ciò che pure, in un altro angolo del cervello, è lì pronto a darci informazioni contrarie ai nostri affrettati giudizi. Per abitudine, pigrizia, pregiudizio, diamo per scontate verità che non lo sono affatto: decidiamo in base a criteri in apparenza solidissimi, ma di fatto assai deboli: siamo succubi della nostra ignoranza, superficialità, rigidità, capricciosità. La nostra più grande illusione diventa lo scientismo, quel complesso di credenze e di valori che finiscono per attribuire alla scienza il ruolo di unico strumento di conoscenza in grado di risolvere qualsiasi problema dell’uomo. La scienza, invece, non è un sistema di asserzioni certe o stabilite una volta per tutte, non è una conoscenza assoluta e non potrà mai pretendere di aver raggiunto la verità. Il vecchio ideale scientifico della conoscenza assolutamente certa si è rivelato un idolo. Dobbiamo pertanto guardare alla scienza non come ad un corpo di conoscenze certe e definitive, ma piuttosto come ad un sistema di ipotesi, ad una rete di teorie con le quali lavoriamo sin quando queste teorie superano i controlli. Le varie forme del mito della certezza sono mera illusione, un’illusione pericolosa per il processo della conoscenza, ma anche per lo sviluppo della vita morale. Per Antiseri la conoscenza scientifica inizia sempre dai problemi. Chi non è in grado di provare né stupore né sorpresa è come morto, è come se i suoi occhi fossero spenti. Noi inciampiamo nei problemi perché siamo una memoria, siamo eredi di una tradizione in evoluzione. E quando un pezzo di realtà urta contro un’aspettativa incastonata nella nostra memoria, allora sorge il problema. Un problema è sempre un’aspettativa delusa. La ricerca parte dai problemi, ma per scoprire la verità, dobbiamo imparare a sognare, perché non c’è nessun modo logico per avere nuove idee per risolvere i problemi. Dobbiamo tentare, immaginare, costruire ipotesi. L’aggancio tra mondo possibile (costituito dall’ipotesi) e realtà viene decretato nel processo della prova. Le ipotesi vengono provate e la prova consiste in severi tentativi di smentire o falsificare la soluzione proposta. Lanciamo ipotesi, perché desideriamo trovare in esse errori il più presto possibile per poterli eliminare subito proponendo teorie migliori, più simili al vero, più ricche di contenuto informativo e quindi più controllabili. Ogni giorno nella ricerca scientifica si corregge un errore, ogni giorno si migliora una verità, ogni giorno si impara. Problemi - teorie - critiche: sono questi i punti cardinali della logica della ricerca. In una tale concezione l’errore è l’immane potenza della ricerca scientifica, è il motore della crescita della conoscenza. Non va dimenticato che la nostra tradizione culturale non ha dato nel passato, soprattutto quello più recente, il dovuto rilievo al sapere scientifico.

SULLE ORME DI POPPER

Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste alcuna autorità umana. Chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dei”. (A.Einstein)

La metodologia (o teoria della scienza o epistemologia) consiste in quel complesso di indagini destinate a rispondere a domande come queste: “Cosa fa il ricercatore quando fa ricerca ? Come procede? E da dove parte? In che modo si distingue il suo discorso da quello di un filosofo, da quello di un moralista o da quello dell’uomo religioso ? - Che cosa vuol dire spiegare scientificamente un fenomeno? (…) Che ruolo gioca la fantasia nella ricerca scientifica ? Qual è il rapporto fra teoria ed esperienza? Come si fissa un protocollo? L’errore quale funzione svolge nello avanzamento della conoscenza scientifica ? E se nella scienza nulla vi è di certo (in quanto la storia della scienza è la storia di teorie superate, di teorie cioè confutate), cosa vorrà allora mai dire che la scienza è oggettiva ? E infine, in che consiste la prova di teoria ?” (1) L’insieme di risposte a queste e simili domande si chiama metodologia o epistemologia. Tutto ciò ci porta alla teoria generale della conoscenza scientifica, vale a dire all’epistemologia. Per Antiseri le teorie di fondo (2) dell’epistemologia si possono sintetizzare in alcune tesi:

1 Tutta la conoscenza scientifica è ipotetica e congetturale.

2 L’accrescimento della conoscenza scientifica consiste nell’imparare dagli errori che abbiamo commesso: in primo luogo osando commetterli - proponendo arditamente teorie nuove - e, in secondo luogo, andando sistematicamente alla ricerca degli errori mediante la discussione critica e l’esame critico delle nostre idee.

3 Gli esperimenti sono costantemente guidati dalla teoria, da mezze idee teoriche, di cui spesso lo sperimentatore non è consapevole, da ipotesi sulle fonti possibili di errori sperimentali, da speranze o congetture intorno a quello che sarà un esperimento fruttuoso.

4 L’obiettività scientifica consiste soltanto nell’approccio critico. Sarebbe un errore pensare che gli scienziati sono più “obiettivi”. A farci tendere alla oggettività non è l’obiettività, o il distacco, del singolo scienziato, ma la scienza stessa, o quello che possiamo chiamare la cooperazione allo stesso tempo amichevole e ostile fra gli scienziati, cioè la loro prontezza a criticarsi reciprocamente. Il metodo della scienza è il metodo della discussione critica, ed è estremamente importante che le teorie critiche siano difese tenacemente.

5 La parte fondamentale che nella scienza hanno le teorie, le ipotesi, o congetture, fa sì che sia importante distinguere fra teorie controllabili, o falsificabili, e teorie non controllabili o non falsificabili.

6 Così si può dire che ogni teoria che possa essere sottoposta a controlli vieta che certi eventi accadono. Una teoria parla della realtà empirica solo nella misura in cui le pone limiti. 7 Nessuna teoria può dirci qualcosa intorno al mondo empirico, a meno che non sia in linea di principio in grado di entrare in collisione con il mondo empirico; e ciò significa, esattamente, che deve essere confutabile.

8 La controllabilità ha gradi: una teoria che asserisca di più, e dunque assuma rischi più grandi, è controllabile meglio di una teoria che asserisca molto poco.

9 I controlli possono essere graduati secondo che siano più o meno severi. Ad esempio, i controlli qualitativi sono, in linea generale, più severi dei controlli quantitativi. 10 L’approccio critico è collegato con l’idea di sottoporre a controlli, ossia di tentare di confutare, o di falsificare, le congetture.

In campo medico il discorso del metodo è stato sempre rilevante: il medico attento vede mutare, nel corso della sua esperienza, teorie e terapie; e vede questo fatto meglio di chiunque altro in quanto la medicina, scienza tipicamente interdisciplinare, ingloba, per le sue spiegazioni, teorie fisiche, chimiche, biologiche. Queste teorie mutano, si commettono errori ma si cerca di correggerli. Anche in Italia si è intensificato, soprattutto in questi ultimi anni, l’influsso del pensiero di K.R.Popper, il noto filosofo di origine viennese, professore emerito dell’Università di Londra. Popper è figura di primo piano ormai in tutto il mondo. La forza delle sue teorie ed argomentazioni è tale da aver provocato un vero terremoto, e non solo nel campo dell’epistemologia e nell’ambito della teoria politica. E’ un fatto notevole per la storia del pensiero richiamare alla memoria il “fallibilismo” di Popper, la concezione, cioè, che nella conoscenza nulla vi è di certo e che noi andiamo avanti per tentativi ed errori. E quando, più di recente, il pensiero di Popper ha cominciato a diffondersi, sono stati i medici e i biologi (molto prima degli stessi filosofi) a rendersi conto della validità e dell’estrema rilevanza della filosofia di Popper, per una seria impostazione della metodologia della ricerca. Nel 1978 è stata pubblicata dall’editore Armando di Roma l’“autobiografia intellettuale” di K.R.Popper con il titolo “La ricerca non ha fine” (3). Si tratta di un libro tradotto in molte lingue che ha rappresentato un grande evento per la cultura internazionale. Le idee di Popper rappresentano forse lo sviluppo più importante nella filosofia del ventesimo secolo. Dario Antiseri (4) - anche più di Marcello Pera - è l’autore che più di ogni altro ha fatto conoscere in Italia e all’estero l’opera di Popper.

LA CACCIA ALL'ERRORE

La teoria fondamentale della filosofia di Karl Popper è il “fallibilismo”, vale a dire l’idea che noi nella scienza e nella conoscenza possiamo sbagliare: o meglio ancora, l’idea che ogni teoria, se vuole candidarsi al regno delle teorie scientifiche, deve essere controllabile, criticabile, falsificabile, cioè smentibile. Nella scienza non c’è certezza. La scienza è fallibile perché la scienza è umana. L’uomo di scienza è un uomo che ha inciampato o inciampa nei problemi. Per capire cosa significa inciampare in un problema, basterà pensare all’odierno problema del cancro. Ebbene, cosa fa l’uomo di scienza una volta che ha inciampato nel problema? Lo scienziato, provocato dal problema, cerca di risolverlo e cerca di risolverlo scatenando la sua fantasia costruttrice di congetture, di sospetti, di speranze, di ipotesi, in una parola: di teorie. Lo scienziato, insomma, per risolvere i problemi costruisce o inventa mondi possibili con la speranza che uno di questi mondi possa descrivere, spiegare e prevedere quel pezzo o quell’aspetto del mondo reale, portato a galla dal problema. Quindi: problemi e teorie. Il terzo stadio della logica della ricerca ci è dato dalla prova che consiste in un severo meccanismo di controllo delle teorie, al fine di vedere se le osservazioni e gli esperimenti confermano o smentiscono le ipotesi in competizione per la soluzione del problema. Chi ha paura dell’errore ha paura della fallibilità umana, ha paura di essere uomo. Pretende diabolicamente, di essere come Dio, di essere infallibile. Il controllo e la prova sono una sistematica caccia agli errori nelle teorie. Dobbiamo trovare errore il prima possibile, ovviamente per poterli eliminare il prima possibile. Per Popper il metodo della scienza consiste in questi tre passaggi: 1] problemi, 2] teorie, 3] critiche. Bisogna affrontare tre grossi problemi: il problema dell’errore, quello della verità e il problema della storiografia della scienza. L’epistemologia popperiana rende conto dell’immane potenza dell’errore che è uno degli ingredienti più importanti della ricerca e della storia della ricerca. Diceva Oscar Wilde: “Esperienza è il nome che ciascuno di noi dà ai propri errori”. E Robert Oppenheimer asserì: “Nella scienza si va avanti perché non si sbaglia mai due volte nello stesso modo” (5). Nella soluzione dei problemi che ci stanno a cuore procediamo per tentativi ed errori. Popper è dell’avviso che la differenza “tra l’ameba di Einstein è una sola: all’ameba dispiace sbagliare. Einstein, invece, è stuzzicato dal piacere di trovare un errore nella propria teoria. Mentre l’ameba muore con la teoria errata, Einstein fa morire la teoria al posto suo. Il moscone sbatte contro il vetro e torna indietro, sbatte ancora e torna di nuovo indietro, e sbatte ancora…finché muore, muore con la sua teoria errata” (6). Noi, invece, se erriamo facciamo tesoro dei nostri errori costruendo teorie sempre migliori, più potenti dal punto di vista esplicativo, più ricche di contenuto informativo, teorie in grado di spiegare anche quei fattori che hanno messo in ginocchio le teorie precedenti. Avanziamo, quindi, sul sentiero delle congetture e delle smentite verso teorie sempre più potenti, anche se mai onnipotenti, poiché di principio sempre falsificabili. E con ciò siamo al problema della verità. La verità per Popper non è mai un possesso. Possiamo sempre correggerci. Tutto ciò aiuta a farci rendere conto della storia della scienza che è molto più complessa della logica della scienza. La storia della scienza è la splendida storia di una serie discontinua, contorta e tormentata di teorie sbagliate. E’ una storia di errori continuamente eliminati, prima individuati, e prima ancora commessi per risolvere i problemi. Evitare gli errori, ha scritto Popper, è un ideale meschino. Siamo fallibili: abbiamo sbagliato e sbaglieremo. L’importante è andare a caccia di questi errori e poi avere il coraggio di eliminarli respingendoli nel limbo delle teorie errate. Noi siamo orgogliosi dei nostri errori. La storia della scienza è un cimitero di teorie errate. E’ vero. Ma essa è un cimitero di eroi. L’errore nella scienza non è certo nel concepire come il peccato in religione. Esso è il motore della scienza. Tutto questo apre nuovi orizzonti nella teoria pedagogica e nella pratica dell’insegnamento (7). Non c’è miglior sinonimo di “razionale” che il termine “critico”: criticare vuol dire falsificare, smentire quel che si è detto, trovare un errore nella teoria proposta, al fine di far avanzare una teoria migliore, che riesca a render conto anche di quei fatti o eventi che hanno mandato in frantumi la teoria precedente. Pertanto educare alla mentalità critica equivale ad educare a riconoscere i nostri errori e quelli degli altri. L’educazione critica è l’educazione alla caccia sistematica dei nostri errori e degli errori altrui. Sempre di più si ingrossa la schiera di quanti imitano mentalmente il comportamento dell’ameba. “Infatti siamo, ormai, circondati di infallibili. E questi infallibili sentono e non descrivono; esclamano e non argomentano; hanno paura e non si correggono; giudicano e non analizzano, distruggono e non costruiscono; si ubriacano dei migliori mondi possibili e a due mani lavorano, di fatto, perché questo mondo scivoli verso la notte del peggiore dei mondi possibili” (8). Ciò che resta è l’illusione magica dell’onnipotenza dello slogan e delle imprecazioni. Non ci si accorge che le imprecazioni e gli slogan hanno solo potenza sulle menti che li producono. Hanno il potere di anestetizzare i cervelli, di illudersi che le cose possano cambiare con uno slogan o che i problemi possano risolversi lanciando imprecazioni. Se non vogliamo regredire a comportamenti mentale esclusivi degli animali e perdere così il nostro essere uomini, dobbiamo portare avanti la nostra tradizione razionale fatta di problemi, di teorie audaci e di critiche severe, e regolata da standard quali la verità delle asserzioni e la validità delle argomentazioni. Dobbiamo seguitare ad essere razionali, cioè critici, se non vogliamo fare la fine dell’ameba, se vogliamo evitare di fare la fine del moscone che sbatte contro il vetro. Non dobbiamo immunizzare le nostre teorie e le nostre proposte, ma dobbiamo il più chiaramente possibile esporle alla critica. Più saremo chiari più saremo comprensibili. Se saremo comprensibili, gli altri ci potranno criticare, potranno trovare in noi degli errori, e quindi migliorarci. Non si è razionali se, invece di esporre le nostre teorie alla critica, le proteggiamo o con l’oscurità del nostro linguaggio, o con la continua invenzione immunizzante di ipotesi ad hoc. “E si capisce allora che non si comportano da esseri razionali, da esseri critici e quindi umani, né coloro che (al pari dei polipi che per proteggersi si gettano il nero) sprofondano nella notte dei discorsi pretenziosi e oscuri, né coloro che davanti al primo accenno di critica stanno lì a sentenziare con un fascio di cartelle cliniche alla mano che sei un “represso”, un “inibito”, un “alienato” o un “reazionario” o peggio ancora” (9). La scienza che pretende di essere intoccabile, assoluta, costruita per l’eternità non è scienza, è teologia della peggior specie. La scienza non ha fonti autorevoli, ogni teoria nasce per morire. Anzi, prima muore, meglio è, poiché prima muore prima avremo trovato quell’errore che ci farà fare un balzo in avanti. Chi ha paura dell’errore ha paura della fallibilità umana, ha paura di essere uomo. Pretende diabolicamente, di essere come Dio, di essere infallibile.

LA VERITA' E LA TRADIZIONE CRITICA

L’infallibilità possiede la verità, gli altri sono nell’errore, e debbono essere ricondotti sulla retta via. Oggi viviamo in un mondo di infallibili e di utopisti, di giudici e di moralisti assolutisti pieni di odio e di vendetta, soprattutto pieni di verità. “Magistrati della verità”, “nel campo di coloro che cercano la verità - disse infatti Einstein - non esiste alcuna autorità umana. Chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dei” (10). “La verità non è un possesso, come pretendono assolutisti, dogmatici ed essenzialismi di ogni specie. La verità la si conquista con fatica (e spesso con fortuna) un po’ alla volta: ed è strano che coloro che dicono di conoscere la verità nella sua totalità non sappiano curare ancora il cancro o non si avvedono che ogni verità, anche piccola, è costata sofferenze e fatiche di secoli. La verità non è un possesso, è una conquista che si fa a fatica, un po’ alla volta, tentando, sbagliando e correggendosi. La verità è un ideale regolativo. Ci avviciniamo continuamente alla verità per mezzo di teorie sempre più simili al vero, costruendo e provando teorie sempre più ricche di contenuto informativo” (11). Bisogna avere il coraggio e l’accortezza di andare sistematicamente alla caccia degli errori, se vogliamo andare avanti, se amiamo la verità per costruire e provare teorie migliori sempre più ricche di contenuto informativo, sempre più simili al vero. L’Occidente si caratterizza, tra l’altro, perché è erede di quella che si chiama tradizione razionale o tradizione critica che è nata, come ci ricorda Popper, con la scuola nella quale si consentiva ed incoraggiava la discussione critica fra scuole diverse, e, ancor più sorprendente, all’interno di una stessa scuola. Fu proprio Talete a fondare la tradizione di libertà basata sul rapporto tra maestro e allievo. La scuola ionica fu la prima n cui gli allievi criticarono i loro maestri, una generazione dopo l’altra. Si possono avere pochi dubbi sul fatto che la tradizione greca della critica filosofica ebbe la propria fonte principale nella Jonia. L’introduzione della critica fu un’innovazione senza precedenti in quanto comportò una rottura con la scuola dogmatica, che ammette un’unica dottrina della scuola, e l’introduzione al suo posto di una tradizione che ammette una pluralità di dottrine, tutte miranti al perseguimento della verità attraverso la discussione critica. La tradizione critica o razionalistica fu fondata in quella sola occasione. Si esaurì dopo due o tre secoli, forse in seguito all’affermarsi della dottrina aristotelica dell’episteme, della conoscenza certa e dimostrabile. Essa venne riscoperta e consapevolmente restaurata nel Rinascimento, specialmente ad opera di Galileo Galilei (12). La tradizione della discussione critica non è dato acquisito una volta per tutte: essa è un compito, una conquista da mantenere. Una volta che si saranno capite e accettate tutte le sue regole, non si sarà né scettici né dogmatici. “essa ci mette sulle spalle la croce dell’inquietudine e della responsabilità personale contrariamente al dogmatismo che, invece accarezza la nostra ignoranza e dà il senso dell’onnipotenza. Le idee dei dogmatici, ebbe a dire Bernard, non fanno altro che lusingare il loro orgoglio e nascondere la loro ignoranza” (13). Lo scolastico e il sistematico non dubitano mai delle loro ipotesi alle quali vorrebbero ricondurre tutto; essi sono orgogliosi e intolleranti e non accettano alcuna contraddizione, poiché non ammettono che l’ipotesi originaria possa essere sbagliata.

IL METODO SCIENTIFICO

La tradizione critica è un compito. E’ un dovere comportarsi come Einstein piuttosto che agire come l’ameba. E’ un dovere a volte duro, una fatica, poiché è più facile fare come l’ameba. Questo dovere, questo compito, trova il suo luogo naturale nell’esercizio della razionalità scientifica, nella consapevole assunzione del metodo scientifico allorché ci si trova davanti ai problemi da risolvere. Cerchiamo di descrivere sinteticamente la concezione del metodo scientifico raccogliendo ed ordinando le osservazioni fatte nei paragrafi precedenti. Il metodo scientifico si può riassumere in questi tre momenti:

1] Inciampiamo in qualche problema;

2] ne tentiamo la soluzione proponendo, ad esempio. Qualche nuova teoria;

3] impariamo dai nostri errori, specialmente da quelli a noi svelati dalla discussione critica.

Per dirla in tre parole: problemi, teorie, critiche. “La ricerca inizia sempre da problemi, pratici e teorici. E chi è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per così dire morto; i suoi occhi sono spenti. E’ questa l’opinione di Einstein. Ma è ovvio che noi inciampiamo nei problemi (e in questi piuttosto che altri) perché siamo una memoria, siamo eredi di una tradizione in evoluzione. E quando un pezzo di realtà urta contro una aspettativa incastonata nella nostra memoria, allora insorge un problema. Un problema è sempre un’aspettativa delusa (14). La ricerca parte dai problemi. Ma per scoprire la verità dobbiamo imparare a sognare, perché non c’è nessun metodo logico per avere nuove idee. Dobbiamo tentare, immaginare, costruire ipotesi, inventare mondi possibili con la speranza che uno di questi mondi riesca a rendere conto del frammento di realtà affiorato con il problema” (15). L’aggancio tra mondo possibile (costituito dall’ipotesi) e realtà viene decretato nel processo della prova. Le ipotesi vengono provate. La prova consiste in severi tentativi di smentire o falsificare la soluzione proposta. Vogliamo smentire le ipotesi, perché desideriamo trovare in esse degli errori. Vogliamo trovare degli errori il più presto possibile per poterli eliminare subito proponendo teorie migliori, più simili al vero, più ricche di contenuto informativo e quindi più controllabili. L’esperimento e l’osservazione sono il tribunale dell’immaginazione teorica. Esperienza è il nome che ciascuno di noi dà ai propri errori. Nella scienza si va avanti perché non si sbaglia mai due volte allo stesso modo. Ogni giorno, nella ricerca scientifica, si corregge un errore, si migliora la verità, ogni giorno erriamo meno della vigilia e impariamo a sperare di fare meglio del domani. Problemi, teorie, critiche: sono questi i punti cardinali della logica della ricerca. Se le cose stanno così, anche lo storiografo della scienza dovrà partire dalla ricostruzione congetturale di stati problematici oggettivi, per poter successivamente capire la rilevanza delle teorie proposte come soluzioni dei problemi, e passare, infine, all’analisi dei tipi di prove addotte pro o contro le teorie proposte. Certo, la scienza, oltre ad una logica, ha anche una storia. Nella storia della scienza ci sono più cose di quante se ne possono supporre nella logica della scienza. “Problemi - teorie - critiche: è questa la logica della ricerca scientifica e, simultaneamente, lo schema evolutivo della scienza. Ma dove sono i problemi dell’insegnamento delle scienze ? In genere, i problemi, nell’insegnamento delle scienze non esistono. E, quando esistono, sono in fondo al testo, stampati in corpo minore, concepiti come il banco di prova di quanto di teorico un alunno avrebbe dovuto apprendere senza motivazione alcuna. Eppure, è chiaro che non si danno risposte se non si pongono domande” (16). Per questo, bisogna partire dai problemi dei ragazzi e offrire o cercare teorie per la soluzione. Se una comunità scolastica avrà inciampato in problemi entusiasmanti non ci sarà pericolo né del nozionismo né del “ricerchiamo”. Sono i problemi e le teorie, infatti, che hanno il potere di vivificare una nozione o una informazione irrilevante. Un problema e una teoria trasformano una nozione qualsiasi in una nozione rilevante o importante: rilevante per il problema e per la conferma o la smentita di quelle teorie in competizione. D’altro canto, l’epistemologia ci indica la via di un sistematico sfruttamento pedagogico dell’errore. La storia della scienza è la storia di errori individuati e poi eliminati e in primo luogo commessi. Occorre dunque avere il coraggio di sbagliare se vogliamo andare avanti, se vogliamo risolvere i problemi. Se amiamo la verità, dobbiamo amare di essere criticati e di criticare. Per tutto ciò la scoperta di un errore, dovrà essere salutata da un momento di gioia. Non ogni verità, infatti, ci indica una via da seguire, ma ogni errore ci indica una via da evitare. Non c’è da vergognarsi dei propri errori; c’è invece da vergognarsi del desiderio di coprire l’errore, della volontà di immunizzare le nostre teorie dalla critica. Il metodo scientifico ci fa distinguere l’ameba da Einstein (17). Il metodo non è da confondersi con le tecniche di prova o, come spesso si dice, con le metodiche. Proprio su questo ultimo punto occorre insistere un po’ perché resta proprio qui la sorgente di continue confusioni. Il metodo della ricerca, infatti, non è da confondersi con le tecniche di prova. Queste variano da ambito ad ambito, anzi da problema a problema, ma il metodo resta unico. Le tecniche di prova mutano da ambito ad ambito, da disciplina a disciplina. Di più: mutano da problema a problema (combinandosi e disgiungendosi). Eppure, le teorie delle diverse discipline (fisica, filologia, chimica, sociologia, biologia, economia, psicologia, ecc.) le diciamo tutte scientifiche, pur provandole con tecniche o metodiche o mezzi diversi, se rispettano i canoni del metodo scientifico. Il metodo scientifico è unico. E’ costruibile una teoria unificata del metodo o della metodologia scientifica. Nella scienza non ci sono semi-dei. Non c’è garanzia contro l’errore. Possiamo sempre sbagliare. Andiamo a caccia dei nostri errori per migliorarci. I nostri errori, infatti, sono i segnali di senso vietato sul difficile sentiero che ci porta fuori dall’oscurità della caverna.

LE SGRAMMATICATURE DEL PENSIERO

La nostra scuola è malata. Malata di tante malattie. Si parla di ricerca, e si danno nozioni, nozioni irrilevanti per i problemi e le teorie. Si parla di critica e si offrono dogmi. Si parla di spontaneità e s’impongono interessi. Si parla di analisi, ma si producono slogan. Mai, come oggi, si parla di confronto, ma guai ad avanzare una tesi divergente: una schiera di inquisitori, tutti possessori o legittimi interpreti della verità, ti saltano addosso. Escono uno appresso all’altro libri sulla creatività, ma il conformismo è dilagante. “Nozionismo, ricerchismo, dogmatismo, confusione, conformismo e intimidazione morale non sono parole al vento. Indicano malattie precise. E sono anche, e prima di tutto, contravvenzioni continue alle prescrizioni della metodologia scientifica. Sono sgrammaticature del pensiero” (18). Ecco perché è importante insegnare a pensare scientificamente: a guardare ai problemi, a cercare o a inventare congetture e a provarle; a trovare errori e a tentare di eliminarli. E’ importante insegnare a pensare così. Significa curare la continua tentazione di cadere nel nozionismo (e quindi nel disinteresse) e nel dogmatismo (e pertanto nello slogan e nella violenza). Significa capire che i problemi non si possono risolvere lanciando gli improperi. A questo scopo è di estrema rilevanza ed è urgente portare gli studenti a contatto con la storia della scienza, con la storia faticosa, piena di audacia, di tenacia, di sofferenze, di errori, di colpi di fortuna e di ostacoli, con la storia che gli uomini di scienza hanno fatto per conquistare, pezzo a pezzo, anche quelle verità che a noi oggi sembrano tanto banali. Nelle nostre scuole la storia della scienza è pressoché assente. Quello che soprattutto sconcerta è come si possa pensare di capire il mondo moderno se non si capisce veramente quali e quanti problemi la scienza ha generato. Noi di pestilenze e di malattie infettive abbiamo forse si o no l’idea: ma le stragi di peste, di vaiolo o di colera hanno decimato eserciti o spopolato città; sono state una delle cause principali del crollo di alcune civiltà. Ebbene, l’immunologia ha risolto questi problemi, ma risolvendo questi problemi, ha contribuito in larghissima misura a generare l’altro urgente problema della sovrappopolazione. La scoperta del vapore è stata una delle ragioni principali della rivoluzione industriale. L’utilizzazione del petrolio, come fonte di energia, ha fatto venire alla ribalta del mondo politico i paesi ricchi di petrolio; e la scoperta di una fonte di energia non inquinante a e buon mercato potrebbe in poco tempo sconvolgere dalle radici i rapporti economici e politici internazionali. La polvere da sparo rese la guerra più terribile; l’energia atomica l’ ha resa inconcepibile. L’elettricità ha reso giorno la notte; e se proviamo a pensare ad un mondo senza elettricità, forse siamo indotti a pensarlo inabitabile, eppure l’elettricità ha poche decine di anni. “La scienza ha risolto problemi; la scienza ha generato problemi: la scienza rovescia sul mondo delle cose e degli uomini valanghe di conseguenze. Se ci interessa la storia degli uomini, la storia cosiddetta civile, non possiamo trascurare la storia della scienza” (19).

LA METODOLOGIA DELLA RICERCA

Antiseri ha dedicato due studi fondamentali a “Epistemologia e didattica delle scienze” (20) e a “Epistemologia contemporanea e didattica della storia” (21). In questi studi egli compie una specie di inventario delle conseguenze didattiche che si pongono trarre dalle premesse epistemologiche. Perché epistemologia e didattica e non epistemologia e pedagogia? Un discorso puramente pedagogico farebbe correre il rischio di non affrontare i problemi reali e concreti dell’opera educativa e didattica. Il rapporto tra pedagogia e didattica nel pensiero di Popper ed Antiseri è diretto. Non è che la didattica si identifichi con la pedagogia, però un discorso pedagogico coerente e corretto conduce alla didattica come momento in cui il problema pedagogico trova la sua risoluzione. Per questo Antiseri insiste sul rapporto Epistemologia - didattica sottolineando, in larga misura, il discorso pedagogico. Del resto crediamo giustificata questa posizione proprio per non cadere nel verbalismo pedagogico in cui sono fin troppo pieni i manuali scolastici. Ciò di cui abbiamo bisogno è di affrontare problemi concreti e su basi epistemologiche, cioè corretti sul piano logico, produrre ipotesi significative di soluzione, provarle per individuare gli errori, superarli, come deve fare ogni ricerca logica che voglia effettivamente far progredire l’uomo. Proprio sulla base del discorso epistemologico possiamo considerare la didattica una scienza applicata, perché essa punta l’attenzione sulle condizioni iniziali del processo educativo e, sulla base di queste, perviene ad ipotizzare ed a dedurre possibili fatti e sviluppi futuri. La didattica come tutte le scienze, procede attraverso problemi, teorie, critiche. I problemi sono quelli che la realtà stessa dell’opera educativa pone incessantemente. Come per le altre scienze, anche qui occorre selezionare i più fecondi. Le teorie sono tentativi di risolvere problemi, tentativi fondati su ipotesi razionali. Le critiche, sono le prove delle teorie finalizzate alla scoperta degli errori, in modo da pervenire a teorie sempre migliori, più efficaci e più produttive, meno falsificabili, anche se non ve ne potrà mai essere una senza errori. L’insegnamento, per risultare veramente motivato, cioè tale da suscitare l’interesse e la partecipazione degli allievi, deve partire dai problemi. Si dice spesso che il punto di partenza devono essere sempre le esperienze. Come si è dimostrato le esperienze sono insignificanti fino a quando non divengono problemi. L’insegnamento di ogni disciplina dalle scienze alla storia, dalla lingua alla matematica, punterà sul valore della tradizione (22). Non si può partire daccapo, cioè ignorare la cultura attuale, che è frutto di sofferenze ed esperienze di generazioni e generazioni. Se il punto di partenza sono i problemi emergenti dalla tradizione, gli sviluppi dell’insegnamento si possono individuare nei seguenti punti:

Interdisciplinarità

Ad evitare pseudo-problemi sarà bene dire subito che cosa non è l’interdisciplinarità. Ebbene, l’interdisciplinarità, prima di ogni cosa, non consiste nel parlare di tutto o un po’ di tutto. I tuttologi possono fare solo discorsi da bottega di barbiere. L’insegnante tuttologo potrà, al massimo, essere un salottiero dilettante, ovviamente presuntuoso ed ignorante. L’onnisciente è un dilettante. (…) L’interdisciplinarità non consiste nemmeno, come spesso si dice e si fa, nel prendere un periodo, un autore, un evento o una istituzione per parlarne da più punti di vista. Così, per essere espliciti, si è preteso di fare lavoro interdisciplinare scegliendo un periodo, il Seicento per esempio, lasciandovi parlare sopra il professore di italiano, quello di scienze, quello di storia dell’arte, l’insegnante di religione, e, ovviamente, il professore di filosofia (…). Questo tipo di lavoro pluriprospettivistico non è ancora ricerca interdisciplinare. In breve: la ricerca interdisciplinare non consiste e non è paragonabile ad un album fotografico (23)”. Poiché non esistono discipline a sé, ogni problema richiama gli altri e il metodo scientifico è interdisciplinare. L’interdisciplinarità non è qualcosa da aggiungere a diversi insegnamenti; non si realizza ricercando collegamenti più o meno esteriori, essa è pluralità unitaria. Antiseri, come Popper, difende pertanto il pluralismo che solo può garantire sia la logica della ricerca sia la libertà politica o culturale, sia un insegnamento aperto, critico e costruttivo.

Motivazione all’insegnamento e all’apprendimento

Le motivazioni all’insegnamento e all’apprendimento non possono essere estrinseche e cioè voti, premi, castighi e tutto l’armamentario di cui si è circondato a lungo l’insegnamento; le motivazioni vere ed autentiche sono quelle intrinseche. Tutto sta a saper partire bene. Se, come punto di partenza, si assume un libro di testo fatto di nozioni, cioè di princìpi, di esperienze, di idee da apprendere e da ricordare non ci possono essere motivazioni intrinseche. E’ solo partendo dai problemi che si realizza la motivazione intrinseca dell’apprendimento. I problemi possono essere posti anche da un libro di testo fatto bene, ma possono ancor meglio essere costruiti dentro la classe, attraverso la ricerca, sulla base delle esperienze e delle tradizioni, dai ragazzi stessi sotto la guida di docenti consapevoli che quello della problematizzazione è il metodo da seguire (24). Partire dai problemi è il primo passo ma non ci si può arrestare ad essi; occorre che si orientino e guidino i ragazzi a cercare teorie per la soluzione dei problemi stessi. Compito dei docenti è quello di saper fare inciampare i ragazzi nei problemi più profondi, più ampi, e cercare di offrire teorie per la risoluzione di tali problemi. Questo vuol dire procedere sulla base di una programmazione scientifica e interdisciplinare e non affidarsi allo spontaneismo, al caso, al pressappochismo.

Programmazione

Non volere la programmazione vuol dire correre il rischio di cadere nel ricerchiamo, nello spontaneismo irrilevante e dispersivo; la consapevolezza di questi due errori opposti e il fatto che l’epistemologia ci indica la via di un sistematico sfruttamento pedagogico dell’errore ci conducono a considerare la programmazione come un’ipotesi di lavoro, che prevede la consapevole scelta di certi problemi, quelli più rilevanti.

Fantasia creatrice di ipotesi

Una didattica fondata sui problemi, su quelli più significativi, coinvolgenti i ragazzi, scatena la loro fantasia creatrice di ipotesi, per cui essi divengono veramente attivi, perché si fanno artefici della ricerca per risolvere i problemi. E’ questa la via attraverso la quale si superano il disinteresse, il ricerchiamo, il nozionismo e il dogmatismo a tutti i livelli.

L’errore

Non bisogna aver paura di sbagliare, anzi occorre avere il coraggio di ricercare e affrontare l’errore (25). Per andare avanti sul serio, i ragazzi, come i docenti, debbono essere messi in condizione di avere il coraggio di sbagliare, di riconoscere gli errori per impegnarsi a costruire ipotesi sempre più nuove, valide e più significative. Se amiamo la libertà, dobbiamo amare di essere criticati e di criticare; la scoperta di un errore, in una comunità scolastica, dovrà essere salutata come un momento di gioia. Sulla base di queste considerazioni, esaminiamo i problemi più rilevanti della didattica su basi epistemologiche ed in prospettiva democratica. Prima fra tutti il problema dell’interdisciplinarità (26) che scaturisce dalla stessa impostazione razionale e critica del pensiero di Antiseri. Sul piano didattico quello dell’interdisciplinarità è, senza dubbio, il motivo centrale, più fecondo e di più viva attualità di Antiseri. Del resto tutta la didattica contemporanea si muove chiaramente in direzione dell’interdisciplinarità, perché si è assunta consapevolezza che solo essa può garantire al processo formativo la necessaria unità nella pluralità delle componenti in cui essa si articola. L’interdisciplinarità non si restringe al solo ambito dell’apprendimento e del processo formativo; essa è l’altra faccia della vita reale strutturata sulla divisione del lavoro nel processo produttivo e nell’organizzazione dei servizi. Pertanto vi è parallelismo ed interdipendenza tra la “scuola delle discipline” in cui queste sono una accanto all’altra, una dopo l’altra ed una senza l’altra ed “il mondo del lavoro”, in cui l’uno lavora accanto all’altro e senza l’altro. E come è mostruosa ed alienante la divisione del lavoro, altrettanto è mostruosa ed alienante la scuola delle discipline. La divisione alienante del lavoro è un fenomeno macroscopico, tale da attirare l’attenzione di tutti per cui tutte le società oggi si trovano a dover urgentemente affrontare tale problema; la scuola delle discipline separate è un fenomeno altrettanto macroscopico ma, forse per routine, forse per altri motivi essa non si è posta come problema in modo così netto ed in termini così drammatici. Ciò non toglie che non sia urgente allo stesso modo la soluzione del problema della divisione del lavoro quanto la soluzione del problema della divisione del lavoro quanto la soluzione del problema del superamento della divisione delle discipline; anzi Antiseri rileva, attraverso un’analisi puntuale e precisa, che non si può avviare a soluzione uno di questi problemi senza parallelamente avviare a soluzione anche l’altro; i due fenomeni e le due problematiche sono infatti interdipendenti (27). Antiseri affronta la problematica dell’interisciplinarità mettendo in evidenza che “l’interdisciplinarità presuppone la multidisciplinarità” e cioè le discipline o teorie nella loro autonomia e strutturazione linguistica. L’interdisciplinarità non è materia d’insegnamento; non esiste il professore di interdisciplinarità (28). L’interdisciplinarità non è prerogativa di nessuna disciplina; essa è piuttosto un modo di impostare i problemi, una mentalità, una maniera di condurre un insegnamento, che sfugga ai pericoli delle discipline una accanto all’altra, una senza l’altra. Il lavoro interdisciplinare scatta dovunque c’è da risolvere un problema non banale ed esso consiste nella cooperazione “competente” dei diversi esperti alla soluzione di questo problema. Alla spiegazione di un “fatto” storico contribuiscono il sociologo, l’economista, il politico, ecc.; la costruzione di un ospedale pediatrico non è certo affidata ad un solo competente, ma c’è il matematico che risolve i compiti che gli pone l’architetto e questi non può non ascoltare lo psicologo e l’urbanista, e costui non può certamente fare i suoi conti senza il contributo dell’economista, e di tutti quanti debbono dare una occhiata alle “significative” statistiche del sociologo; e, ancora, l’interpretazione, ad esempio, di un testo filosofico, non è funzione esclusiva del filosofo; accanto a costui, infatti, ci sarà il filologo, il sociologo, il linguista, lo psicologo, ecc. Dal punto di vista conoscitivo, l’interdisciplinarità effettua il recupero dell’unità nella comprensione del sapere, unità che si è frantumata nel corso della ricerca scientifica, la quale procede sulla via di una specializzazione progressiva. Il lavoro interdisciplinare, pertanto, non consiste nell’apprendere un po’ di tutto, ma nell’impostare il problema con tutta la competenza dello specialista che tiene conto dei problemi, delle difficoltà, delle spiegazioni e delle previsioni degli altri competenti. Questa impostazione del problema dell’interdisciplinarità conduce in modo corretto e coerente al lavoro di gruppo come via e metodo di lavoro interdisciplinare. L’interdisciplinarità che si realizza attraverso il lavoro di gruppo dei docenti e discenti, potrà essere uno dei fattori che contribuiscono allo sradicamento della competizione nella scuola, in quanto spinge a vedere nell’altro un collaboratore e non un rivale. L’interdisciplinarità è una lotta contro gli effetti alienanti della divisione del lavoro. Il lavoro interdisciplinare può prendere i suoi inizi da qualsiasi tema o problema che venga affrontato in una molteplicità di discipline. Esso può progredire, a livello epistemologico, allorché le strutture logiche e i procedimenti di verifica di una disciplina sono messi a confronto, o in correlazione, con quelli di un’altra disciplina. L’interdisciplinarità deve diventare l’imperativo capace di trasformare un insegnamento atomizzato in una scuola in grado di configurarsi come centro produttore e diffusore di grammatiche di lettura del mondo in cui viviamo. Tutti coloro che sono impegnati nell’opera educativa devono realizzare un effettivo lavoro di gruppo per costruire significative ipotesi di lavoro interdisciplinare. Potremmo dire che l’interdisciplinarità è collegialità ed è partecipazione in atto e, come tale, è democrazia. Antiseri, con precisa conoscenza della situazione della nostra scuola, coglie la valanga di difficoltà che si trova a dover affrontare chi intende realizzare il lavoro interdisciplinare. Scrive testualmente: “Orari, il giorno libero, interrogazioni, registro, programmi, una legislazione per molti aspetti inadeguata, mancanza o comunque insufficienza della biblioteca, scuola non a tempo pieno, spesso rivalità tra gli insegnanti - che a parità di funzioni - sono gerarchizzati secondo i criteri più strani, litigi tra il corpo insegnante e il preside, spessissimo mancanza di aule e locali (…), maldicenze e populismo a buon mercato sono alcuni dei fattori negativi che vietano il lavoro interdisciplinare, il quale lavoro se è vero che comporta competenze precise, implica, almeno in un primo momento, anche una buona dose di abnegazione e, diciamolo pure, di umiltà nei confronti delle altre competenze (29)”. Per un iter corretto e produttivo sul piano didattico, Antiseri prospetta come punto di partenza i “centri di interesse”, rilevando che gli alunni possono interessarsi ad un problema per i motivi più disparati. I motivi per cui si deve partire da centri di interesse sono da individuare nel fatto che questi rendono possibile l’aggancio ai problemi concreti della vita di oggi; partire dai centri di interesse significa non deludere le attese dei giovani e sollecitare i loro interrogativi. L’interdisciplinarità, quindi, non è un fatto, un dato, un punto di partenza, bensì è imperativo, un metodo di conquista dell’unità nella multidisciplinarità. Dato che l’interdisciplinarità richiede il superamento della competizione, del settorialismo, delle chiusure specialistiche, essa concorre a formare mentalità aperte a un progetto interdisciplinare. In questo modo tutti sono indotti a vedere nell’altro non un nemico, bensì un collaboratore da cui possono ricevere ed a cui possono dare. Il fatto, poi, di lavorare non uno accanto all’altro, ma uno con l’altro rende chi vi partecipa capace di confronto, di verifica, di autocontrollo, di solidarietà. Questo vuol dire far “scuola di democrazia”. A noi preme sviluppare soprattutto il discorso relativo alla didattica delle scienze. Antiseri sviluppa un ampio, fecondo e costruttivo discorso su epistemologia e didattica delle scienze (30). La didattica delle scienze deve formare il soggetto alla metodologia della scienza che è fatta di problemi, teorie e critiche. L’acquisizione di un metodo scientifico forma il soggetto in quanto lo rende capace di costruire i problemi, di formulare le ipotesi, di verificarle, cioè forma una mentalità concreta, razionale, critica. I problemi sono il punto di partenza dell’insegnamento della scienza come di ogni altro insegnamento e, come problemi veri, sono auto-motivanti, vale a dire che motivano intrinsecamente il soggetto al ricercare, progettare, al fare. La didattica delle scienze, procedendo dai problemi, dalle ipotesi alle verifiche, promuove una “creatività emotiva” e richiede che gli alunni, con la loro fantasia, costruiscano ipotesi significative. L’insegnamento delle scienze promuove la formazione di una mentalità rigorosa perché educa il soggetto all’osservazione, a costruire ipotesi, a riconoscere gli errori, a compiere verifiche. Tutto ciò vuol dire, in pratica, educare la mente al rigore logico e alla apertura democratica.

CREATIVITA' ED EDUCAZIONE SCIENTIFICA

Qualunque cosa sia l’intelligenza, la creatività (31) ne è l’espressione più alta. Desideriamo che i nostri allievi non siano solo intelligenti, nel senso che capiscano quello che apprendono ma siano capaci di arrivare essi a nuove acquisizioni. Così ogni docente dovrebbe desiderare che i suoi allievi propongano altre ipotesi, idee, interpretazioni, rispetto a quelle da lui presentate. La creatività ha le sue leggi: non si sviluppa se non la stimoliamo. Un insegnamento trasmissivo, ripetitivo, fondato sulla trascrizione letterale, non spinge l’allievo a farsi proprie idee, proprie visioni. L’alunno “produttivo” è un alunno che stabilisce rapporti che propone sue ipotesi su quello che ha studiato, che scopre connessioni che il docente non gli ha indicato. Vygotsky parlò di “pensiero produttivo” facendo vedere come il pensiero possa andare oltre il mero dato, possa “vedere” quello che percettivamente non si vede: per esempio, noi non vediamo le spalle di una persona di fronte. L’adolescenza, rileva Piaget, vede un enorme sviluppo dell’immaginazione, della fantasia: in questo senso, l’adolescente è portato alle arti, all’immaginazione, a produrre mondi fantastici. E alla scuola spetta di saper costruire una didattica capace di far emergere queste capacità. Diremmo che una parte fondamentale della scienza e della pratica educativa è appunto quella di costruire modelli didattici capaci di far arrivare l’adolescente oltre il dato di fatto, oltre la realtà nella sua brutalità. Una didattica della creatività diventa educativa quando non solo permette di capire la realtà, ma anche gli strumenti per cambiarla. La creatività non è qualcosa che riguarda una disciplina specifica: erroneamente si può credere che riguardi essenzialmente l’arte. In realtà, gli epistemologi, oggi, rilevano che esiste una creatività e un’immaginazione nella scienza per esempio matematica, dove occorre appunto “immaginare” quale può essere la soluzione di un problema, l’esatta impostazione di un’equazione, etc., ma anche nel campo delle scienze naturali. In questo senso in tutti gli ordini della scuola l’insegnamento può mirare a far sorgere atteggiamenti creativi e ogni disciplina e ogni momento della vita scolastica, come nella vita familiare e sociale, può tendere a sviluppare la creatività. Puntiamo l’attenzione sull’evoluzione delle idee scientifiche. E’ chiaro che noi abbiamo bisogno di idee nuove e buone per la soluzione dei problemi che scoppiamo in ogni angolo della vita e della ricerca scientifica. Abbiamo bisogno di creatività nel lanciare ipotesi o congetture che riescano a risolvere i problemi che talvolta sono di difficoltà sorprendente. Per fronteggiare e risolvere questi problemi, non abbiamo un altro metodo che quello di inventare congetture o ipotesi e andare poi a vedere se queste sono o non sono valide. “Dobbiamo ipotizzare, congetturare, cioè teorizzare, vale a dire scatenare la nostra fantasia” (32). Ogni ipotesi è un sospetto; e, come tutti i sospetti, anch’essa va provata. Ma la prova, osservazioni ed esperimenti, presuppone sempre qualcosa da provare: questo qualcosa da provare sono appunto le ipotesi o congetture inventate come tentativi di soluzione dei problemi. Basta accostarsi appena un po’ alla storia delle idee e, particolarmente, alla storia della scienza e delle idee scientifiche per renderci conto dello sconfinato numero di ipotesi che, proposte per risolvere i problemi via via emergenti nella “polis” degli scienziati sono cadute contro l’urto dei fatti contrari. Dietro ad ogni problema che oggi consideriamo risolto c’è un cimitero di teorie sepolte, di tentativi falliti, “sciami di ipotesi si sono agitati attorno al problema del veleno delle vipere, attorno ai problemi della rabbia, del vaiolo, della peste bubbonica, del diabete, della tubercolosi e della difterite. Più di duemila anni e tentativi senza fine sono occorsi per risolvere il problema della febbre da parto, quello dell’origine dei fossili o per addentrarsi nell’enigma della costituzione della materia. E ipotesi proliferano attorno ai problemi oggi tuttora irrisolti come quello del cancro” (33). Quindi è fuori dubbio che, per risolvere i problemi, c’è bisogno di creatività, di creare e inventare le soluzioni di questi problemi. C’è bisogno di idee nuove, ma non tutte le idee nuove sono buone. Idee buone le abbiamo anche in sogno. Esistono idee gratuite, sogni ad occhi aperti, idee campate in aria. Un’idea buona è veramente rara. Esistono schiere di ricercatori che la storia della scienza ha dimenticato, proprio perché di nuovo e buono hanno lasciato niente o quasi niente. E i ricercatori ricordati dalla storia della scienza sono ricordati il più delle volte per una o due idee. Le idee vivono e muoiono, muoiono se sorgono nuovi problemi per i quali esse risultano inadeguate. Occorre creare nuove idee in grado di risolvere nuovi problemi via via emergenti. Psicologi, pedagogisti e storici anche della scienza hanno affermato e affrontano il problema della creatività. Spesso pare che siano alla ricerca di una teoria del pensiero che ha successo. “Si dice che, per essere creativi, occorre essere spiritualmente ribelli nei confronti del sapere precedente. Si dice che per riuscire bisogna essere tenaci, e questo talvolta è vero; ma come si fa, se non a posteriori, a distinguere la tenacia dalla testardaggine o dal dogmatismo? Si dice che occorre sapienza ed erudizione per essere creativi ma non è raro il caso che si è creativi proprio perché si è ignoranti in ambiti che invece conosciuti avrebbero bloccato la ricerca”(34). In realtà, il successo in una ricerca può dipendere da molti fattori; anche le metafisiche possono essere feconde di teorie nuove e buone; ed anche gli errori possono essere fecondi. Non esistono fonti privilegiate di conoscenza. Quel che occorre è la passione per un problema e la volontà di risolverlo, “provando e riprovando”, tentando e correggendoci. La creatività, forse non può essere appresa, ma può certamente essere incoraggiata e favorita. Possiamo avviarci verso le idee creative mediante la lettura e la discussione, guidati dal sano principio per il quale non si troverà mai una risposta a una domanda che non sia stata formulata nella mente. Quindi: passione per i problemi e volontà di risolverli, inventando congetture e criticandole, costruendo cioè mondi possibili e cercando tra questi quello che descrive il mondo reale. “Ma tutto ciò sarà possibile se impareremo a non vergognarci dei nostri errori. Il panico dell’errore, ebbe a dire Whitehead, è la morte del progresso; e anche della creatività. Non saremo creativi se avremo paura di sbagliare (35)”. Se, infatti, avremo paura di errare, non avremo nemmeno la soddisfazione di indovinare. La creatività non può essere insegnata, ma può essere favorita.

NOZIONISMO E RICERCHISMO

Si parla molto di creatività, di pensiero creativo, di fantasia creatrice, di ricerca dell’impossibile, di dirompenti alternative create dalla fantasia. Se ne parla tanto. Senza allargare troppo il nostro orizzonte, limitiamoci all’ambito della scuola e della pedagogia. Che senso potrà mai avere parlare di fantasia e di creatività nell’insegnamento? E più specificatamente: che senso ha parlare di creatività nell’insegnamento e nell’apprendimento delle discipline scientifiche? Qui si tocca una delle diversità fondamentali tra le cosiddette “due culture”: quella umanistica e quella scientifica. In quella umanistica, infatti, la creatività sarebbe di casa; in quella scientifica essa sarebbe esclusa. Per molti, nel campo delle discipline scientifiche, la fantasia non c’entra. “Le cose si sanno o non si sanno; e le cose che si debbono sapere, le teorie valide, sono nel manuale; quindi io uso il manuale, procedo in base al manuale e il ragazzo sarà preparato quando saprà quel che c’è sul manuale; l’importante è scegliere un buon manuale (36)”. Ebbene, in genere l’esito scolastico di questa presa di posizione è il famigerato e deleterio nozionismo. Nozionismo in due sensi: laddove la disciplina è più altamente teorica, come la fisica, la chimica o la biologia, si ha un nozionismo fatto di teorie; laddove la disciplina è classificatoria, come nel caso dell’anatomia e della botanica, si ha un nozionismo fatto di nomi e classificazioni. Nel primo caso, l’insegnante ha offerto teorie, cioè risposte senza suscitare domande; nel secondo caso, l’insegnante ha dato nomi di cose che poco interessano e che bisogna studiare solo per l’esame. Così anche le teorie più belle possono diventare nozioni: in questo modo, i nomi, le classificazioni, i teoremi e le teorie non interessano poiché rispondono a domande in cui i ragazzi non sono stati fatti inciampare. Queste cose si affacciano appena sulla soglia della mente e l’amnesia successiva è molto rapida. C’è però un’altra risposta che viene data all’interrogativo che prima ci siamo posti sul senso della creatività nell’insegnamento e nell’apprendimento delle scienze: quella data dal tipo di pratica in uso ormai nelle nostre scuole a partire già dalla scuola dell’infanzia e che consiste nel fare ricerche. E’ questa una cosa ammirevole: il bambino, il fanciullo, l’adolescente e poi il giovane sviluppano la loro personalità in un ambiente fisico e sociale e si pongono tanti perché, tanti problemi. E’ quindi giusto che tenendo ben conto sia della psicologia dell’età evolutiva, sia dell’epistemologia genetica, i ragazzi siano stimolati alla creatività, a proporre ipotesi e a discuterle, cioè ad osservare e a trovare materiale per smentirle o corroborarle. Tutto ciò è giusto. Le cosiddette ore di “osservazioni scientifiche” sono, in genere, ore di diseducazione alla osservazione: questo nella scuola media. Spesso si fa non ricerca, ma ricerchismo: “fai una ricerca sul Nilo; fai una ricerca sul passero; fai una ricerca sullo scopritore del motore a vapore. Ma ci potrebbero essere domande più interessanti. C’è la catena dei problemi dell’ecologia, c’è il problema degli effetti della caccia, e tanti infiniti altri problemi in cui far inciampare i ragazzi e su cui far esercitare, guidandola, la loro fantasia, e l’acume critico. E se non si fa così, si fa ricerchismo: e del ricerchismo non si avvantaggiano certamente né la scuola né la maturazione degli alunni. Gli unici ad avvantaggiarsi del ricerchismo sono i fabbricatori di enciclopedie (37)”. Antiseri, in un articolo sulla concezione pedagogica e didattica di G. Vailati, riporta alcune considerazioni degne di essere attentamente valutate (38). Uno dei motivi che attraversano la riflessione pedagogica di Vailati è la sua avversione a quello che noi oggi chiamiamo nozionismo. Anche per la Matematica la scuola continua, malgrado tutto, ad essere piuttosto una palestra mnemonica che non un istituto di cultura intellettuale: l’allievo è occupato troppo a imparare e troppo poco a capire. Vailati, nel raccomandare una stretta connessione tra lo studio dell’aritmetica e quello della geometria, aggiunge che anche per quest’ultima disciplina - come nel caso dell’aritmetica - è da raccomandare che le prove sia scritte sia orali, dirette ad accertare il profitto degli alunni e la sufficienza delle loro cognizioni, consistano piuttosto nell’esigere da essi l’esecuzione di determinate costruzioni o la soluzione di dati problemi speciali, che non la ripetizione o enunciazione di regole e di teoremi, indipendentemente da ogni loro applicazione. Solo quando l’alunno abbia mostrato di saper fare, lo si invita a dire, chiaramente ed esattamente, ciò che ha fatto. Proprio per questo, Vailati propone come drastica terapia del nozionismo l’attività, il fare, il risolvere problemi. Non nell’indottrinamento verbale, ma all’allenamento, all’esercizio: ecco dove vuol portare la scuola Vailati. Per lui, la scuola va vista non come una sala di conferenze, ma come laboratorio, come luogo dove all’allievo è dato il mezzo di addestrarsi, sotto la guida e il consiglio dell’insegnante, a sperimentare e a risolvere questioni, a misurare e soprattutto a “misurarsi” e a mettersi alla prova di fronte ad ostacoli e difficoltà atte a provocare la sua sagacia e a coltivare la sua iniziativa.

L'USO DEL MANUALE

La scienza è fattore di storia e di cultura. Di conseguenza, se vogliamo capire la storia economico- sociale e la storia della cultura, allora lo studio della storia della scienza diventa imprescindibile. Tuttavia, non bisogna passare sotto silenzio il fatto reale e massiccio per cui l’immagine della scienza che le singole generazioni apprendono è quella che esse traggono dai manuali che (pur nella loro insostituibile utilità) sono quasi sempre aproblematici, astorici e ametodologici. E, come ha detto Thomas S. Kuhn, “una concezione della scienza ricavata da essi non è verosimilmente più adeguata a rappresentare l’attività che li ha prodotti di quanto non lo sia l’immagine della cultura di una nazione, ricavata da un opuscolo turistico o da una grammatica della lingua (39)”. In effetti, il manuale riproduce le teorie assodate in un certo periodo, con i loro strumenti standard e le loro prove tipiche. E se muta qualche pezzo di scienza, muta anche il manuale. In tal maniera, ogni generazione esce dalla scuola con l’idea che la scienza sia un fatto certo, un tessuto di teorie assodate e invulnerabili, dietro alle quali c’è solo una preistoria di errori, e il cui futuro sarà dato forse soltanto da sempre migliori applicazioni. In sostanza: l’educazione manualistica distrugge l’idea che la scienza è una realtà storica, inculca l’immagine di una scienza dogmatica. La scienza, invece, è il frutto di discussioni e controversie, di fantasie ardite e critiche severe. Non possiamo confondere il linguaggio della scienza con quello dell’ideologia: “ma il crampo mentale - direbbe Wittgenstein - generato dalla confusione dei due giuochi di lingua, trova la sua scaturigine primaria nell’educazione manualistica che ad ogni generazione offre l’idea di una scienza senza futuro e con un passato di cui vergognarsi (40)”. Nella formazione di una mente critico-scientifica e nell’insegnamento della scienza, della storia della scienza come fatto essenzialmente storico, in cui la verità di oggi sarà verosimilmente l’errore di domani: mostrare che la scienza è frutto di tentativi ed errori, di congetture e confutazione, e che progredisce proprio perché apprende dai propri errori; far vedere che le teorie scientifiche sono smentibili, che sono umane e quindi non assolute, ma perfettibili. Bisogna tener presente che le teorie scientifiche si attuano in una tradizione. Il problema, in sostanza, è di sapere se l’educazione scientifica deve ridursi ad un addestramento o se, piuttosto, essa debba servire anche a fare dello scienziato un uomo dalla mente capace di giudicare il valore del suo lavoro in una tradizione, nella storia della cultura, nella storia di una società. La storia della scienza, inoltre, è necessaria per risolvere il grave problema della motivazione “psicologica” nell’insegnamento delle scienze. E le domande cui gli scienziati via via tentano di dare risposta emergono nel flusso della storia della scienza. A nessuno che abbia avuto occasione di trattare a scuola, davanti a dei giovani, qualunque soggetto che si riferisce alle parti astratte e teoriche della matematica, può essere sfuggito il rapido cambiamento di tono che subisce l’attenzione e l’interessamento degli studenti ogni qual volta l’esposizione, discostandosi per una circostanza qualsiasi dall’ordinario andamento dottrinale e deduttivo lascia luogo a delle considerazioni d’indole storica a considerazioni, per esempio, che si riferiscono alla natura dei problemi e delle difficoltà che hanno dato origine allo svolgimento di una teoria o alla introduzione di un metodo. Di questo appetito sano e caratteristico delle menti giovani per quella parte dei problemi loro presentati che istintivamente riconoscono come facilmente assimilabili, è certamente desiderabile trarre il maggior vantaggio possibile. Lo studio della storia della scienza è necessario per la comprensione della storia economico-sociale e per capire la storia della cultura ed è un possente strumento didattico per la motivazione ad apprendere. Paul K. Feyerabend è tornato sull’idea affermando che “l’intera storia di un argomento può essere utilizzata nell’intento di migliorare il suo stadio più recente e più avanzato (41)”.

INSEGNARE PER PROBLEMI

Insegnare per problemi significa stimolare l’educazione della mente critica, lo sviluppo delle facoltà di raziocinio, l’invenzione, l’esecuzione delle prove, la valutazione e la scienza delle teorie, le abilità nel manipolare strumenti, eseguire grafici, la capacità di risolvere problemi. La scuola dovrebbe spingere gli scolari a interrogare essi il loro maestro invece di essere interrogati da lui. “Credo che a tali risultati si riuscirebbe senza alcuna difficoltà se solo si avesse cura di distribuire la materia, che forma oggetto d’insegnamento, in modo che i giovani non dovranno mai imparare delle teorie prima di conoscere i fatti a cui essi si riferiscono, né sentire ripetere delle parole prima di essere in possesso degli elementi sensibili e concreti da cui per astrazione si può ottenere il loro significato (42)”. Non si dovrebbe temere di sminuire la dignità della scienza matematica col presentarla nella scuola sotto forme meno aride ricorrendo anche, se occorre, a problemi divertenti e capaci di stimolare la curiosità. La scuola è spesso stata - e talora lo è ancora - il luogo triste dove si danno risposte e domande non poste e a domande che non sempre l’allievo afferra. La scienza cresce passando da problemi a problemi più profondi. E così cresce la mente. E qui risulta fondamentale vedere la radicale differenza che corre tra problemi ed esercizi, e non scambiare nella teoria e nella pratica, gli uni con gli altri. Un problema è una domanda per la quale chi se la pone non ha ancora trovato una risposta. Un esercizio è, invece, una domanda per la quale chi se la pone ha già la teoria risolutiva che deve solo applicare. Da questa differenza discende che è sul problema che si innesca il processo di ricerca fatto di tentativi, prove, errori, mentre, in linea generale, chi deve risolvere un esercizio non ha bisogno di molta fantasia, non deve sbagliare, non deve, insomma, ricercare. Con tutto ciò non si vuole affatto sostenere che gli “esercizi”, vale a dire le “applicazioni” di scoperte siano sempre cose più semplici di una scoperta. Quel che, piuttosto si intende ribadire è che un problema non è un esercizio; una scoperta non è un’applicazione di una scoperta. E benché ci possano essere delle applicazioni geniali che somigliano tanto ad una scoperta, la scoperta è frutto di una creatività in genere non richiesta a chi applica la scoperta. Nella nostra scuola, dalle Elementari fino all’Università, specie per quanto riguarda le scienze e la matematica si espongono le teorie e poi si fanno i “problemi”: problemi di aritmetica, problemi di geometria, problemi di algebra e così via. Ma si tratta davvero di problemi o piuttosto abbiamo a che fare con esercizi? Non è difficile comprendere che i “problemi” con i quali ha a che vedere molta pratica scolastica non sono autentici problemi ma “esercizi”. “I problemi, come sappiamo, sono il primum della ricerca scientifica, ma dove sono i “problemi” in un libro di testo? Essi sono in fondo al testo, stampati in corpo minore. Stanno lì concepiti come banco di prova di quanto di teorico un allievo avrebbe dovuto apprendere (senza motivazione alcuna); stanno lì, appunto, come applicazioni delle teorie esposte, già confezionate, nelle pagine precedenti del testo (43)”. Essi, in realtà, non sono problemi ma esercizi. E, non essendo problemi, eliminano di un sol colpo “la logica della scoperta scientifica”: il giovane non deve scoprire proprio niente, giacché tutto è stato scoperto; non deve usare fantasia, non deve sbagliare. Egli non deve essere uno scopritore, ma solo un esecutore. L’aver scambiato l’esercizio per il problema è un grave errore. E questo errore rende minimo o quasi nullo il lavoro immaginativo nella soluzione di alcune specie di problemi. L’immaginazione di un alunno resta pressochè inoperosa nel risolvere qualsiasi problema una volta che è venuto in possesso della formula, o nel risolvere un problema quando ne ha risolti altri della stessa specie. In breve, la ricerca non è routine. E se la soluzione dei problemi richiede attività costruttrice, per gli esercizi ci vogliono memoria ed abitudine. L’abitudine, se facilita il lavoro, non ha forza perfezionatrice. Il suo carattere è la stabilità e l’immobilità; mentre il perfezionamento e il cambiamento continuo e graduato che ci avvicina a un ideale sempre più adulto. Dunque il problema non è un esercizio. Ed è un errore dannoso per la formazione degli allievi scambiare gli esercizi per problemi. Dobbiamo forse abolire nell’insegnamento delle scienze e della matematica gli esercizi? Non è forse vero che la scuola ha il compito di trasmettere agli alunni quello che la ricerca ha già ottenuto? Le teorie scoperte devono venire apprese e gli esercizi sono il banco di prova di quanto un allievo ha già appreso, sono anche un consolidamento, operato attraverso le applicazioni più svariate, delle teorie apprese. “Ebbene, di fronte a queste obiezioni occorre procedere punto per punto: 1] Non si tratta affatto di abolire gli esercizi; 2] non è compito specifico della Scuola, specie di quella Elementare, di quella Media e della Media superire quello di incrementare la scienza; 3] è fuori di ogni dubbio che la scuola, dalle Elementari sino all’Università, ha a che fare con un sapere già fatto” (44). Il problema vero qui è un altro: il sapere già fatto deve essere acquistato o conquistato? E’ questo il vero problema, giacché la diversa soluzione che ad esso si dà implica e coinvolge una differente concezione o idea di Scuola: se il sapere già fatto deve essere acquistato, la Scuola è una specie di mercato; se invece il sapere già fatto deve venire conquistato, allora la Scuola si trasforma in un laboratorio, in un centro vero e proprio di ricerca. Se il sapere deve essere acquistato, allora la mente umana è vista come un magazzino o un recipiente; se il sapere deve essere conquistato, la mente allora viene vista come risolutrice dei problemi, dotata di fantasia e di rigore, attiva e non passiva. L’importante, nella Scuola, è ri-fare il sapere già fatto, quel che davvero conta è ri-scoprire e ri-provare teorie già scoperte e provate. Un problema risolto per un uomo maturo non lo è ancora per il bambino. Occorre catturare i problemi degli allievi, esplorarne i presupposti cognitivi, e, in base a questi, far inciampare gli allievi in ulteriori problemi. E a questi problemi l’insegnante non deve dare la soluzione che l’allievo deve imparare a memoria. L’insegnante, piuttosto, si trasformerà in guida della ricerca; non inibirà la loro fantasia; faciliterà il confronto delle ipotesi; permetterà che i suoi allievi imbastiscano esperimenti per sottoporre a prova anche quelle ipotesi che lui, insegnante, sa già sbagliate, e in tal modo farà capire agli allievi che la scienza non solo è un prodotto sociale, un esito della collaborazione e della critica reciproca, ma anche, e soprattutto, che nella ricerca l’errore è inevitabile e che l’importante è apprendere dagli errori. In breve, all’allievo la scienza non va raccontata; l’allievo deve fare scienza: E deve ri-costruirla sotto lo stimolo dei problemi. Anche se, come scrive Mauro Laeng, “i nostri libri, per troppi decenni, sono stati invece repertori di risposte senza la scintilla di una domanda (45)”. In altri termini bisogna interessare l’allievo, stimolarlo alla ricerca e dargli di continuo la certezza che sia lui che scopra ciò che gli viene insegnato. Così l’alunno, mentre apprende e comprende meglio ciò che gli si insegna, fortifica il suo spirito d’iniziativa e si abitua alla ricerca. L’essenziale nell’insegnamento scientifico è il metodo stesso d’insegnamento. Insegniamo poco di scienze, ma insegniamolo scientificamente, vale a dire rifacendo le scienze e facendole rifare agli allievi. In tal modo i giovani, mentre elaborano la loro cultura, elaborano la loro mente, l’insegnamento così diviene, a un tempo, informativo e formativo. Se si trascura questo procedimento, se ciò non si insegna per problemi (sui quali far esercitare la fantasia costruttrice di ipotesi quali tentativi di soluzione di questi problemi), allora si può fare dell’alunno un recipiente pieno delle osservazioni altrui, ma non mai uno spirito originale, che sappia muoversi da sé anche nella sfera dell’investigare scientificamente. Occorre indurre l’allievo a porsi problemi; ogni problema è un’indagine proposta alla mente; la conoscenza di cento problemi risolti da altri non vale lo sforzo benefico compiuto da noi per la soluzione anche di pochi. In realtà, il difficile per lo scienziato sta nel sapere interrogare la psiche di colui a cui la scienza si vuole comunicare. In ogni caso, l’abile maestro saprà cogliere con intelligenza il momento in cui nel sapere di un singolo, di un gruppo o nell’intera scolaresca si aprono quelle crepe che sono i problemi: a volte il problema scoppierà a motivo di una lettura, a volte a causa di un racconto, a volte mentre si esegue un disegno, a volte quando si fa un esperimento; e poi ci sono gli infiniti eventi naturali a far sorgere domande urgenti e interessanti nella mente dei bambini; e brani di storia e di scienza catturano, quanto le favole, l’attenzione dei giovani. E le discussioni tra i ragazzi, a volte anche molto accese, crescono su problemi che l’insegnante non metterà a tacere. In una scolaresca, attraverso il fare e il discutere, i problemi di ogni singolo diventeranno i problemi di tutti, e su questo patrimonio comune si innescheranno altri problemi da risolvere, in una catena teoricamente senza fine. Ma, intanto, non dimenticheremo che un autentico problema non è un esercizio. Non è che gli esercizi (di aritmetica, di geometria, ecc.) non debbano essere fatti. Gli esercizi vanno fatti solo dopo che il problema è stato risolto. Soltanto dopo che si è ri-costruito un pezzo di sapere, soltanto dopo che si è capito perché la teoria è nata, per che cosa era necessaria, a cosa essa serve, solo allora è opportuno passare agli esercizi. Una teoria o formula o regola appresa a memoria proibisce il processo di ricerca e rende faticosi, quasi una tortura, gli esercizi. Una teoria o formula o regola riconquistata perché abbiamo inciampato nel problema che la richiedeva, invece, il prodotto di un genuino procedimento scientifico che scatena la fantasia, disciplinata dal rigore logico. E gli esercizi, dopo la ri-conquista della teoria, non saranno più una tortura, ma il più delle volte si trasformeranno in un piacevole gioco. Se si vuole davvero trasformare la Scuola delle nozioni (da imparare a memoria per poi dimenticarle) in Scuola della ricerca, l’attenzione ai problemi degli allievi, ai problemi per loro comprensibili, non è mai troppa. La scuola come centro di ricerca è un ambiente che cattura i problemi degli allievi, e li considera come primi anelli di una catena di ulteriori problemi che gli allievi, sotto la guida dell’insegnante, imparano a risolvere. Se invece è risolvere i problemi, allora imparare a risolvere problemi è anche imparare a vivere. Ma problemi e informazioni devono essere anche accessibili alla mente degli allievi, se vogliamo che nella Scuola non si parli a vanvera e si sprechi il tempo migliore. L’accessibilità di un problema, ossia il suo poter venire afferrato, il suo essere comprensibile alla mente degli allievi, comporta una previa e continua ispezione da effettuarsi, a seconda dell’età degli allievi e tenendo conto delle diverse situazioni, con i mezzi più vari: giochi, conversazioni, composizioni, discussioni, ecc., da parte dell’insegnante su quanto gli allievi già conoscono (e su come lo conoscono), sulle esperienze fatte, sul linguaggio posseduto. Senza questo basilare presupposto, la programmazione intesa in senso attuale e l’insegnamento tutto vengono vanificati.

NOTE

1) D.ANTISERI, Il pensiero di K.Popper: intervista ad Armando Armando, Servizio informativo Avio, n. 3-4, Armando, Roma, 1977, pag.123.

2) D.ANTISERI, L’interdisciplinarità, Servizio Informazioni Avio, n. 11-12, Armando, Roma, 1977, pp.418-419. Sullo stesso argomento si veda D.ANTISERI, I fondamenti epistemologici del lavoro interdisciplinare, Armando, Roma, 1975.

3) K.R.POPPER, La ricerca non ha fine, Armando, Roma, 1978.

4) Cfr. di D.ANTISERI soprattutto: K.R.POPPER: Epistemologia e società aperta, Armando, Roma, 1972. Regole della democrazia e logica della ricerca, Armando, Roma, 1977. Teoria unificata del metodo, Liviana, Padova, 1981.

5) D.ANTISERI, Il pensiero di K.Popper: intervista ad Armando Armando, op.cit., pag.124.

6) D.ANTISERI, Regole della democrazia e logica della ricerca, Armando, Roma, 1977, pag.509.

7) M.BALDINI, Epistemologia e pedagogia dell’errore, La scuola, Brescia, 1986.

8) D.ANTISERI, Regole della democrazia e logica della ricerca, op. cit., pag. 50-51.

9) D.ANTISERI, Regole della democrazia e logica della ricerca, op.cit., pag.53.

10) La citazione è riportata in D.ANTISERI, Regole della democrazia e logica della ricerca, op.cit., pag.55.

11) D.ANTISERI, I fondamenti epistemologici della interdisciplinarità, Armando, Roma, 1975, pp.31-32.

12) K.R.POPPER, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 258-261.

13) D.ANTISERI, Regole della democrazia e logica della ricerca, op.cit., pag:59.

14) D.ANTISERI, Epistemologia e didattica delle scienze, Armando, Roma, 1977, pp. 83-84.

15) K.R.POPPER,Logica della ricerca e società aperta (antologia a cura di D.Antiseri), La Scuola, Brescia, 1989, pp. 8-9.

16) D.ANTISERI, Epistemologia e didattica delle scienze, op.cit., pag. 7.

17) Su A.Einstein cfr. la raccolta di scritti: Come io vedo il mondo, Giachini, 1955.

18) D.ANTISERI, Regole della democrazia e logica della ricerca, op.cit., pag.63.

19) D.ANTISERI, Regole della democrazia e logica della ricerca, op.cit., pp.65-65.

20) D.ANTISERI, Epistemologia e didattica delle scienze, Armando, Roma, 1972.

21) D.ANTISERI, Epistemologia contemporanea e didattica della storia, Armando, Roma, 1974.

22) D.ANTISERI, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, La Scuola, Brescia, 1985, pp.107-111.

23) D.ANTISERI, L’interdisciplinarità, Servizio Informazioni Avio, n. 11-12, Armando, Roma, 1977, pp.418.

24) D.ANTISERI, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, La Scuola, Brescia, 1985, p.111.

25) D.ANTISERI, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, La Scuola, Brescia, 1985, pp.55-58.

26) D.ANTISERI, I fondamenti epistemologici della interdisciplinarità, Armando, Roma, 1975.

27) D.ANTISERI, I fondamenti epistemologici della interdisciplinarità, op. cit., pp.10-15.

28) D.ANTISERI, I fondamenti epistemologici della interdisciplinarità, op. cit., pag.70.

29) D.ANTISERI, I fondamenti epistemologici del lavoro interdisciplinare, Armando, Roma, 1975, pp.55-56.

30) D.ANTISERI, Epistemologia e didattica delle scienze, op.cit.

31) D.ANTISERI, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, op. cit., Per il concetto di creatività si vedano soprattutto le pp.31-36.

32) D.ANTISERI, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, op. cit., pag.31.

33) D.ANTISERI, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, op. cit., pag.32.

34) D.ANTISERI, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, op. cit., pag.35.

35) D.ANTISERI, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, op. cit., pag.36.

36) D.ANTISERI, Epistemologia e didattica delle scienze, op.cit., pag.157.

37) D.ANTISERI, Epistemologia e didattica delle scienze, op.cit., pag.158.

38) D.ANTISERI, Le concezioni pedagogiche-didattiche di G.Vailati, Motivi di attualità, in Pedagogia e vita, n.3, La Scuola, Brescia, 1988, pp.263-276.

39) TH.S.KUNH, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, op.cit., pag.20.

40) D.ANTISERI, Le concezioni pedagogiche-didattiche di G.Vailati, Motivi di attualità, op.cit., pag.271.

41) P.K.FEYERABEND, Contro il metodo, op.cit., pag.40.

42) D.ANTISERI, Le concezioni pedagogiche-didattiche di G.Vailati, op. cit., pag.269.

43) D.ANTISERI, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, op. cit., pag.187.

44) D.ANTISERI, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, op. cit., pag.188.

45) M.Laeng, I programmi e la riforma, in AA.VV. I Nuovi Programmi della scuola elementare, Giunti e Lisciani, Teramo, 1984, pag.9.


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