Critica delle visioni spiritualistiche e dualistiche del platonismo

 

a cura di Matteo Areni

 

 

«Plotino, il filosofo dell’età nostra, aveva l’aspetto di uno che si vergogni di essere in un corpo. In virtù di tale disposizione spirituale, aveva ritegno a narrare della sua nascita, dei suoi genitori, della sua patria. Sdegnava a tal punto l’assoggettarsi a un pittore o a uno scultore che ad Amelio, il quale sollecitava il suo consenso a che gli si facesse il ritratto, rispose: “Non basta dunque trascinare questo simulacro di cui la natura ci ha voluto rivestire; ma voi pretendete addirittura che io consenta a lasciare una più durevole immagine di tal simulacro, come se fosse davvero qualcosa che valga la pena vedere?”».

 

Con queste parole il neoplatonico Porfirio descriveva la mentalità del suo maestro Plotino nell’incipit della sua opera Vita di Plotino. In questo elaborato si tenterà di mostrare come queste visioni spiritualistiche e dualistiche del platonismo, che tendono a mostrare Platone come un filosofo che tiranneggia completamente il corpo a favore di una vita iperuranica, siano sostanzialmente fuorvianti. Innanzitutto si mostreranno alcuni frammenti dei dialoghi platonici che effettivamente hanno reso facile l’elaborazione di dottrine di questo genere; dopodiché si mostrerà come in realtà questi frammenti, se giustamente interpretati, contengono un pensiero radicalmente differente.

 

«Che cosa vuoi dire, o Socrate, con questo? Quello stesso, o Teodoro, che si racconta anche di Talete, il quale, mentre stava mirando le stelle e avea gli occhi in su, cadde in un pozzo; e allora una sua servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che le cose del cielo si dava gran pena di conoscerle, ma quelle che avea davanti e tra i piedi non le vedeva affatto. Questo motto si può ben applicare egualmente a tutti coloro che fanno professione di filosofia». (Teeteto, 173 e).

 

Questo famosissimo frammento del Teeteto platonico nel corso della storia si è ben prestato ad avvallare la tesi secondo cui i filosofi hanno il corpo tra noi ma la mente rivolta alle idee. Secondo questa tesi il corpo sarebbe un accessorio che contamina la parte pura dell’uomo, ossia l’anima, e come tale deve essere ripudiato e svilito. Nella mentalità platonica la concezione secondo cui l’anima, nel complesso dell’individuo, rappresenta la polarità pura e immortale, contrapposta al corpo, inteso come fattore di mortalità e origine dei piaceri della carne, non è certamente assente poiché deriva da tutte quelle influenze orfico-pitagoriche che sono alla base del platonismo. Oltretutto queste filosofie professavano anche la necessità di un progressivo esercizio ascetico per liberare l’anima dai vicoli della corporeità. Queste influenze sembrerebbero confermare in modo certo le tesi spiritualistico-dualistiche se non fosse che Platone non deriva la sua concezione dell’anima solo dai pitagorici e dall’orfismo ma anche dal suo maestro Socrate. Quest’ultimo, più che al tema dell’immortalità dell’anima, sembrava essere interessato a evidenziare il suo valore morale e sociale; per Socrate l’anima è la sede dell’ “io autentico” e quindi di tutte le facoltà più alte dell’uomo (intelletto, saggezza, equilibrio), che tuttavia non sono utili in sé stesse ma vanno utilizzate sia per migliorarsi nella propria individualità sia per migliorare la comunità sociale. Già considerare le influenze socratiche nella mentalità di Platone è illuminante per comprendere come le visioni spiritualistiche siano piuttosto limitanti nell’interpretare il grande filosofo; tuttavia per capire il motivo per cui queste visioni possono essere considerate del tutto fallaci, è necessario inoltrarsi nella vera e propria dottrina platonica dell’anima, che va ben oltre gli influssi che provenivano sia dal pitagorismo che dal socratismo. Nella grande sintesi di Platone l’anima divenne l’elemento di mediazione fra le polarità del suo pensiero, ossia tra le idee e il mondo empirico; essa garantiva la possibilità di comunicazione tra i due livelli e quindi rendeva possibile la conoscenza. Ma il punto importante è che l’anima non si limitava a garantire la conoscenza ma permetteva anche di poter sfruttare questa conoscenza facendola agire nel mondo empirico; l’anima rappresenta dunque il veicolo attraverso il quale l’uomo può guardare alle idee, non per contemplarle passivamente, ma per rifletterle in questo mondo. Si vede chiaramente come queste considerazioni portano a esiti del tutto differenti: il filosofo non guarda verso l’alto per fuggire dal mondo sensibile, egli guarda verso l’alto proprio per trarre la conoscenza adeguata per agire in modo giusto nel nostro mondo. In quest’ottica anche la tesi dell’immortalità dell’anima non fa di Platone uno spiritualista, anzi, questa postulazione nasceva in primo luogo, come ha evidenziato perfettamente Mario Vegetti, dalla necessità di fondare la morale (lo sguardo di Platone è sempre rivolto verso il nostro mondo):

 

«l’immortalità dell’anima individuale, con la conseguente attesa dei premi o delle punizioni che le sarebbero toccate nell’aldilà a opera del giudizio divino, in rapporto al tipo di vita condotta durante l’esistenza terrena, appariva a Platone un incentivo irrinunciabile alla virtù. (…) il destino dell’anima nell’al di là costituiva dunque una garanzia per la condotta giusta, una sorta di protesi persuasiva del discorso morale».

 

Alla luce di tutte queste considerazioni, contestualizzando il frammento del Teeteto, appare chiaro che Platone intende dirci che se i filosofi rimangono legati solo al mondo sensibile senza guardare alle idee essi non potranno mai agire moralmente e politicamente nel modo giusto perché non potranno neanche sapere cosa è realmente l’uomo e cosa è realmente la città. Il filosofo non deve seguire la moltitudine degli uomini ma deve elevarsi alle idee; questa elevazione non è tuttavia fine a se stessa perché il filosofo ha il dovere di ritornare tra gli uomini per renderli tutti partecipi della conoscenza acquisita. L’importanza del ritorno del filosofo tra gli uomini, che per Platone è proprio sentito come un dovere necessario, è tra l’altro chiaramente esplicitato anche nel famosissimo mito della caverna.

 

«E poi che farà? Memore della sua antica dimora e della sapienza di laggiù e dei suoi vecchi compagni di prigionia, non credi che si riterrebbe fortunato per il mutamento della sua sorte, e proverebbe pietà per loro?» (Repubblica, VII, 516c).

 

«Dunque dovete scendere, ognuno al suo turno, nella dimora degli altri e abituarvi a vedere fra le tenebre. Poi, quando vi sarete abituati, vedrete mille volte meglio di quelli laggiù, e comprenderete quale sia e che cosa rappresenti ognuna delle ombre, perché avrete già visto la verità a proposito del bello, del giusto e del bene»(Repubblica, VII, 520c).

 

Sarebbe impossibile leggere il Teeteto in una chiave interpretativa diversa poiché non è plausibile che Platone nel dialogo faccia prendere a Socrate le stesse posizioni che contro Socrate aveva Aristofane, tanto più se si considera che Platone ha dedicato tutta l’Apologia di Socrate alla difesa di quest’ultimo da quel tipo di accuse, additandolo come salvatore della città e facendo coincidere la sua condanna con la rovina della πόλις.

 

Tutti gli argomenti riportati sembrano essere ottime tesi contro le interpretazioni spiritualistiche del platonismo tuttavia è molto più difficile controbattere le tesi dualistiche. In effetti, anche se si è visto come lo sguardo di Platone, in ultima istanza, sia rivolto verso il nostro mondo, sembra comunque che il filosofo postuli l’esistenza di due livelli d’essere distinti, uno della conoscenza pura e autentica e una dell’opinione superficiale che non si eleva ad ἐπιστήμη. Lo stesso Platone, nella Repubblica, configura la scansione dei livelli d’essere e delle corrispondenti forme di conoscenza con una linea tracciata verticalmente e divisa in segmenti di grandezza diseguale. Questo modello «conferma chiaramente la separatezza fra i rispettivi ambiti e l’impossibilità di modificare, verso l’alto o verso il basso, la qualità epistemica della conoscenza se non mutando l’ambito degli oggetti cui essa si riferisce». Questo discorso rappresenta, con parole diverse, lo stesso concetto esplicitato nel passo del Teeteto: se la conoscenza vera deve avere come oggetto un altro mondo, allora in questo, il mondo dei corpi e del divenire, il filosofo non può che vivere come uno straniero.

 

La parziale soluzione a questo problema può essere rintracciata nel secondo passo della Repubblica che abbiamo citato (520c), o più in generale in tutta la parte del libro VII dedicata al mito della caverna. In questo contesto sembra infatti che Platone intacchi la struttura statica della linea a favore di una struttura circolare e interscambiabile. Innanzitutto non è vero che ci sono due mondi (interno ed esterno alla caverna); semplicemente l’uomo corporeo percepisce solamente il mondo interno, ma attraverso una conversione dello sguardo intellettuale che lo liberi dal livello della δόξα, potrebbe orientarsi verso una forma di pensiero più elevata. Oltretutto l’asserire che i filosofi hanno il dovere morale di portare il livello di pensiero superiore nella caverna, nega di per sé la struttura retta della conoscenza e né implica la circolarità.

 

«Emerge con chiarezza che la conoscenza relativa al livello ontologico superiore non è alternativa bensì fondativa rispetto a quella del mondo del divenire. Se di questo mondo si può avere solo opinione e non scienza, esistono però opinioni vere in grado di orientare correttamente il nostro pensiero e la nostra prassi anche nel suo ambito. La conoscenza epistemica degli enti noetico-ideali svolge quindi un ruolo di fondazione rispetto a queste opinioni vere, le garantisce razionalmente e legittima perciò il ruolo di governo della caverna di coloro che la possiedono, i veri filosofi. Il loro sguardo si sposta metodicamente dal basso verso l’alto e viceversa, colmando così il varco introdotto dalla separatezza fra i due mondi».

 

Si potrebbe anche riflettere sullo status ontologico di queste εΐδη superiori definite da Platone come principi d’ordine; questo dibattito, introdotto da Porfirio in un passo dell’Isogoge, porterebbe a domandarsi se le idee platoniche siano corporee o incorporee e, nel primo caso, se siano sussistenti “ante rem” come conceptus menti o “in re”.

 

«Intorno ai generi e alle specie non dirò qui se essi sussistano oppure siano posti soltanto nell'intelletto; né, nel caso che sussistano, se siano corporei o incorporei, se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse ed esprimenti i loro caratteri comuni». (Isogoge)

 

 

Secondo l’interpretazione neokantiana le idee potrebbero essere viste come forme a priori dell’intelletto grazie alle quali la conoscenza è resa possibile. Con questa interpretazione si potrebbe abbandonare completamente il dualismo idee-mondo sensibile. Questo passo della Repubblica potrebbe essere utilizzato per sostenere una tesi di questo genere.

 

«Vedi forse qualche differenza fra i ciechi e quelli veramente privi della conoscenza d’ogni cosa, perché non hanno nell’anima nessun modello chiaro e non possono neppur guardare, come fanno i pittori, alla verità ideale e ad essa riferirsi costantemente e contemplarla con la massima attenzione possibile per stabilire e serbare così, se sarà il caso, le leggi di quaggiù sulle cose belle e giuste e buone?». (Repubblica, 484 c)

 

Ora, per concludere, è bene riportare alcune considerazioni di natura storico-culturale relative al modo di concepire la conoscenza e la divinità nel mondo greco. Nella mentalità greca il senso della vista era considerato il più importante, tanto che la conoscenza era concepita come una sorta di “vedere potenziato”.

 

Tutti gli uomini desiderano sapere. Né è prova l’amore delle sensazioni: e infatti le amano di per se stesse, indipendentemente dall’utilità e, tra esse, soprattutto quelle che si attuano mediante gli occhi. Chè, non soltanto per agire, ma anche se non dobbiamo compiere niente scegliamo il vedere in cambio, per così dire, di tutte le altre. La ragione è che soprattutto questa fra le sensazioni ci fa conoscere e mostra molte differenze.” (Aristotele, Metafisica I, 980a).

 

 In effetti, anche etimologicamente, all’interno della parola greca θεωρία sono presenti sia il concetto di ὁράω (vedere) sia il concetto di θεά (dea). Gli uomini generalmente vedono solamente l’ente ma non lo comprendono, gli oggetti (ob-iectum) ci sono gettati addosso e noi siamo “traumatizzati” dalla loro presenza, ma non la comprendiamo; la θεωρία è appunto la visione perfettamente chiara degli enti, simile a quella che potrebbe appunto essere propria di un dio. La concezione greca della conoscenza è, dunque, completamente concreta; non è che chiudo gli occhi e apro quelli della mente, sono i miei stessi occhi che “si fanno idea” delle cose, le comprendono per quello che sono realmente. Questi parametri sono assolutamente distanti dalla concezione cristiana di conoscenza, la quale è strettamente legata al senso dell’udito, all’ ἀκούω.

 

Allo stesso modo, anche la concezione greca del divino è molto distante da quella cristiana. Per i greci gli dei, oltre a essere molteplici (contro il monoteismo cristiano), non sono neanche onnipotenti, anzi, sono vincolati alle stesse leggi fisico-matematiche alle quali siamo soggetti noi uomini e soffrono e godono allo stesso modo in cui noi godiamo e soffriamo. Oltretutto essi sono pensati come quantitativamente superiori a noi, ma qualitativamente identici; gli dei non sono nient’altro che uomini amplificati e idealizzati. Proprio per questo motivo, per elevarsi ad essi l’uomo non deve affatto entrare in conflitto con se stesso o rinnegare la propria natura e morire a se medesimo; l’uomo deve semplicemente essere se stesso e dispiegare le proprie forze nel mondo nella maniera più vigorosa possibile. Nella mentalità greca la mortificazione della carne è quanto di più distante possa esserci (si parla naturalmente della religione pubblica; quella misterica, come abbiamo visto, ha ben altre caratteristiche).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

Platone, Teeteto, (a cura di M. Valgimigli), in Opere complete (a cura di G. Giannantoni), vol. II, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 73-171.

 

Platone, Repubblica, (a cura di Giuseppe Lozza), Mondadori, Torino 2011.

 

Platone, Fedro (a cura di P. Pucci), in Opere complete (a cura di G. Giannantoni), vol. III, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 208-280.

 

Porfirio, Vita di Plotino

 

Porfirio, Isogoge, (a cura di G. Girgenti), Bompiani, Milano 2004.

 

Aristotele, Metafisica, (a cura di M. Zanatta), vol. I, Bur, Grafica Veneta 2011.

 

M.Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, 2003.

 

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