ARISTOTELE NELL’ACCADEMIA

A cura di Alessandra Quintiliani


Aristotele nell'Accademia platonica
Sintesi delle interpretazioni sul primo periodo della produzione filosofica aristotelica

1. La questione delle opere essoteriche di Aristotele

Una singolare concomitanza di eventi storici ci ha fatto pervenire di Aristotele solamente l’espressione dell’attività scolastica. Della produzione filosofica aristotelica, infatti, ci sono giunti integralmente solo i trattati del Corpus, ossia gli scritti sistematici che Aristotele compose per il suo insegnamento. Oltre a queste opere, dette acroamatiche o esoteriche, - perché destinate agli ascoltatori interni alla scuola -, il filosofo scrisse anche dei dialoghi destinati al pubblico, che lui stesso chiamò essoterici e di cui noi possediamo solo alcuni frammenti.

Per uno strano caso, però, le opere pubblicate, scritte durante la permanenza di Aristotele in Accademia, furono dimenticate e soppiantate in seguito alla pubblicazione dei trattati, avvenuta a Roma per opera di Andronico da Rodi nel I sec. a.C. I trattati, infatti, di cui si erano perse le tracce per molto tempo, furono ritrovati da un bibliofilo ateniese, Apellicone di Teo, in una cantina appartenuta ai discepoli di Neleo, - figlio del platonico Corisco -, che divenne un fervente seguace di Aristotele ad Asso. Apellicone, che acquistò i manoscritti di Aristotele a peso d’oro, li riportò ad Atene e ne fece varie copie. Fu poi Silla ad impadronirsene dopo l’occupazione di Atene nell’84 a. C. e a portarli a Roma, dove appunto furono ordinati da Andronico.

L’Aristotele perduto, cioè l’Aristotele dei dialoghi giovanili, fu, però, quello letto, conosciuto, ammirato ed avversato dai commentatori e dai filosofi sino alla tarda età imperiale, quando appunto, gli scritti di scuola, ritrovati e studiati, riuscirono a prevalere. Le opere della maturità, infatti, - caratterizzate da una rigorosa scientificità e contenenti teorie considerate molto diverse e spesso in contrasto con quelle esposte negli altri scritti, per molti versi vicini alla filosofia di Platone -, furono ritenute le sole che esponessero la vera dottrina aristotelica con il conseguente disconoscimento dei dialoghi pubblicati, che di lì a poco si persero. Ettore Bignone nel suo fondamentale testo, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro (2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1936) dimostra, attraverso un’analisi puntuale della polemica epicurea nei riguardi di Aristotele, come di questo si siano letti nel periodo fra la morte di Teofrasto e l’età di Silla solo i dialoghi pubblicati. Anche per Epicuro, quindi, il "vero" Aristotele era quello delle opere essoteriche ed in particolar modo del Protreptico, che era stato considerato il proclama dell’aristotelismo. Egli polemizzò così con il filosofo assertore dell’immortalità e divinità dell’anima, di platonica memoria, e di quella dottrina del conoscere come reminiscenza, che invalidava tutto il conoscere fenomenico e sensibile; tutte dottrine queste assenti nei trattati, che il filosofo epicureo come tanti altri filosofi e commentatori non ebbero modo di leggere.

La distinzione tra le due diverse categorie di scritti, essoterici ed esoterici o acroamatici, risalente già al tempo di Silla, è stata accettata dalla maggioranza degli studiosi moderni.

In particolare la tesi di W. Jaeger non può non essere esaminata, poiché con il suo celeberrimo testo Aristoteles, Grundlegung einer Geschichte seiner Entwicklung del 1923, segnò una svolta decisiva nella storia degli studi aristotelici. Partendo da un’intuizione di Zeller, - che pensò ad una evoluzione filosofica di Aristotele da una prima adesione al platonismo ad un lento distaccamento fino a raggiungere una autonoma dottrina -, egli cercò di ricostruire la genesi e lo sviluppo delle dottrine filosofiche, avvalendosi anche dell’aiuto delle notizie sulla vita e in generale sull’ambiente storico del filosofo.

Uno dei risultati più importanti dello studioso tedesco, che inaugurò il cosiddetto metodo storico-genetico, fu la delineazione di tre grandi periodi nella vita dello Stagirita, a cui corrisponderebbero altrettante fasi di sviluppo del pensiero:

- il periodo accademico, - che va dall’ingresso di Aristotele in Accademia fino alla morte di Platone (367 - 347 a. C.) -, contrassegnato da un’adesione pressoché totale al pensiero del maestro;
- gli anni di viaggio, - che Aristotele trascorse in Asia Minore e in Macedonia (347 - 335 a. C.) -, in cui si assiste ad un atteggiamento di transizione e di critica nei confronti di Platone;
- l’età dell’insegnamento, - che è il periodo trascorso da Aristotele ad Atene come fondatore del Liceo (335 - 323 a. C.) -, a cui corrisponde l’elaborazione di un proprio sistema filosofico del tutto indipendente dal platonismo.

Secondo questa schematizzazione dello sviluppo filosofico di Aristotele, - sostenuta anche da E. Bignone, F. Nuyens e P. Moraux -, le opere pubblicate, di genere dialettico, apparterrebbero alla prima fase del suo pensiero di stampo platonico, caratterizzata dalla problematica teologica e dall’uso dei miti. Nella prospettiva evolutiva jaegeriana, però, questa limitatezza cronologica comportava conseguentemente una limitazione dell’autentico significato di tali opere: le opere pubblicate, in quanto appartenenti alla fase platonica dello Stagirita, non sarebbero espressione del "vero" Aristotele, cioè dell’Aristotele scientifico ed antimetafisico, quale emerge dai maturi trattati del Corpus, nei quali la posizione platonica è ampiamente superata.

Quest’ultima tesi è stata accettata come dogma indiscutibile fino agli anni cinquanta, quando ulteriori sviluppi negli studi aristotelici hanno mostrato come l’Aristotele jaegeriano sia stato superato in molti punti. Il riconoscimento della non immunità del paradigma proposto da Jaeger, tuttavia, ha reso necessario cercare di rispondere nuovamente alla domanda circa l’effettivo rapporto fra gli scritti di Aristotele pubblicati, ma ora perduti, e gli scritti non destinati alla pubblicazione, che sono giunti fino a noi.

A tal proposito fondamentale fu la nuova teoria proposta da I. Düring. Questi, dedicatosi in particolar modo allo studio delle opere giovanili, si persuase che in esse non vi fosse alcuna traccia di adesione da parte di Aristotele alla fondamentale dottrina platonica delle idee separate, attestando in tal modo una certa indipendenza intellettuale dello Stagirita dal maestro anche nella prima produzione. Secondo Düring, infatti, durante il periodo accademico Aristotele avrebbe subito, oltre all’influenza di Platone, quella di scienziati come Eudosso e Filistione, dai quali sarebbe stato indotto all’osservazione del particolare.

L’interpretazione sostenuta da questo studioso, in tal modo, non stima che vi siano divergenze rilevanti tra le opere perdute e quelle conservate. Nato il sospetto che il metodo storico-genetico, innaugurato da Jaeger, si fondasse su una specie di circolo vizioso, - per cui ciascuno dei suoi fautori, muovendo da una personale concezione dell’evoluzione di Aristotele, assegnava le opere all’uno o all’altro periodo della vita del filosofo -, si è così progressivamente affermata, grazie all’opera Aristoteles, Darstellung und Interpretation seines Denkens (Heidelberg, 1966) di Düring, l’ipotesi che nello Stagirita non ci sia stata un’evoluzione dal platonismo all’empirismo o dall’empirismo al platonismo, ma una costante unione, in tutti i periodi della sua vita, di entrambe le tendenze.

La mancata adesione di Aristotele alla dottrina delle idee, l’atteggiamento critico nei confronti di alcune teorie di Platone e la presa di coscienza da parte dello Stagirita di una propria autonoma posizione filosofica, - sia pure nell’ambito di un fondamentale e irriducibile platonismo, riscontrabile nell’esigenza di trovare dei principi supremi, capaci di rendere ragione della totalità del mondo dell’esperienza -, hanno contribuito in Düring all’elaborazione di una cronologia delle opere aristoteliche. L’aspetto più innovativo di questa è il fatto che lo studioso consideri risalenti al periodo accademico gran parte, se non della redazione definitiva, almeno del nucleo originario dei vari scritti che compongono il Corpus.

La conseguenza che deriva da ciò è che lo sviluppo del pensiero aristotelico si decide interamente già nel periodo accademico, quindi a contatto con Platone.

La distinzione fra opere essoteriche ed esoteriche, inoltre, a suo avviso, non autorizzerebbe a supporre né una differenza dottrinale, né un diverso grado di rigore tra questi scritti, ma solo una eterogeneità di metodo, dialettico negli scritti essoterici e dimostrativo in quelli esoterici. "Non abbiamo inoltre, - scrive Düring nell’opera citata-, alcun fondamento per supporre che nelle numerose opere che sono andate perdute (Aristotele) abbia esposto opinioni diverse o si sia occupato di settori della scienza diversi da quelli illustrati nelle opere conservate. Non esiste, in questo senso, un "Aristotele perduto"".
"Dobbiamo tenere fermo,- sostiene ancora -, che Aristotele nei dialoghi e nelle opere didattiche scritte nello stesso periodo espose sostanzialmente la stessa filosofia. Un’ottima prova ne è già il fatto che talvolta egli fa riferimento ai suoi exoterikoi logoi per corroborare quella che in quel momento è la sua argomentazione".

Le principali opinioni antiche e moderne relative al rapporto fra gli scritti pubblicati e i trattati, comunque, concordano nel ritenere che le opere essoteriche siano quelle destinate al pubblico e scritte con uno stile brillante, ma senza troppo rigore scientifico, mentre quelle esoteriche sono quelle destinate alla scuola e scritte in modo sistematico, anche se a volte oscure.

La questione dei exoterikoi logoi, tuttavia, è stata ripresa anche dalla recente storiografia filosofica per arrivare a conclusioni ben diverse da queste. In particolar modo Iannone e Bos hanno tentato di leggere tale problema da una diversa prospettiva.

Iannone, ad esempio, inizia la sua ricerca dai richiami ai logoi essoterici contenuti nelle opere aristoteliche che noi possediamo, desumendo da questi quella che a suo parere è la vera interpretazione di logos exoterikos. I passi contenenti tali richiami sono otto e precisamente:
- Metaph M. 1, 1077 a, 26 - 29;
- Eth. Nic. A, 13, 1102 a, 26 - 28;
- Eth. Nic. Z, 4, 1140 a, 6 - 8;
- Polit. G , 4, 1278 b, 31 - 32;
- Polit. H, 1, 1323 a, 22 - 24;
- Eth. Eud. A, 1, 1217 b, 17 - 19;
- Eth. Eud. B, 1, 1218 b, 33 - 35;
- Phys. IV, 10, 217 b, 29 - 31.

Partendo da quest’ultimo passo, che ritiene più importante di tutti, Iannone afferma che Aristotele con l’espressione exoterikoi logoi non si riferisce a degli scritti, ma a dei ragionamenti presenti nelle opere stesse. Ricordando come l’aggettivo exoterikos derivi direttamente dall’avverbio éxo (fuori) ed attribuendo così ad exoterikos il senso letterale, giunge ad affermare nella sua ricerca intitolata proprio I logoi essoterici di Aristotele (a. a. 1954 – 55) che "i logoi exoterikoi sono discorsi che, per il fondo, non appartengono propriamente al nocciolo della questione, ma (...) sono ragionamenti esterni e quindi preliminari, proeminali".

Dall’esame dei rimanenti passi lo studioso crede possibile concludere che Aristotele con exoterikos logos faccia riferimento al primo libro dell’opera stessa, che costituisce sempre un’introduzione e un proemio alla trattazione vera e propria.

Scopo di queste sue ricerche è negare che esistano le cosiddette opere essoteriche, diverse da quelle del Corpus. Egli crede ormai improponibile l’identificazione dei logoi exoterikoi con i dialoghi giovanili e la "légendaire double doctrine" degli scritti pubblicati e di quelli non pubblicati. (vedi: A. Iannone, Les oeuvres de jeunesse d’Aristote et les Logoi Exoterikoi, in Rivista di Cultura Classica e Medioevale, I, 1959, p. 207)

Non nascondendo inoltre di essere d’accordo con quanti nutrono dubbi sul valore dei frammenti e delle testimonianze dei dialoghi perduti, perché indirette ed incerte, e credendo nello spirito sistematico di Aristotele, egli, pur ammettendo la possibilità che questi abbia composto durante la giovinezza saggi ed esercitazioni, nega che il filosofo ne abbia tenuto conto nei trattati.

Un recente approccio alle opere perdute di Aristotele, in aperta polemica con le teorie di Jaeger, è stato proposto dallo studioso olandese A. P. Bos in molti suoi lavori. Egli crede che l’interpretazione jaegeriana non sia più sostenibile. Essa, infatti, suppone che Aristotele per secoli sia stato altamente ammirato nell’antichità sulla base di scritti che non contenevano la sua vera filosofia, ma che riflettevano solo opinioni che egli stesso in seguito avrebbe considerato superate. È difficile credere, poi, che Aristotele nella sua maturità filosofica abbia smesso di esporre e di pubblicare le sue teorie in una forma letteraria raffinata, riservando il suo pensiero esclusivamente ad appunti di scuola. Bos, inoltre, è convinto che proprio negli scritti scolastici del Corpus Aristotele faccia spesso riferimento ai suoi scritti pubblicati, indicando in essi la chiarificazione necessaria di alcuni punti della sua dottrina.

Quindi, ad avviso di E. Perioli "attraverso una complessa ed articolata ricostruzione del contenuto delle opere perdute di Aristotele, (...), Bos intende mostrare come queste opere siano l’espressione di riflessioni filosofiche autonome di Aristotele, nelle quali lo Stagirita aveva già fermamente stabilito tutta una serie di dottrine centrali della sua filosofia, così come noi le conosciamo dai trattati del Corpus". Ricordando teorie quali la duplice teologia di un supremo dio trascendente e di una pluralità di dèi cosmici, il rifiuto della generazione del cosmo, la dottrina del quinto elemento, la distinzione tra attività teoretica ed attività pratica, l’idea che il nous umano possa esistere separatamente, presenti nelle opere giovanili, lo studioso è volto a cancellare quella frattura che la critica ha sempre visto tra questi scritti e quelli della maturità. Secondo Bos, infatti, la filosofia delle opere perdute di Aristotele non è stata sostituita dai trattati, ma in essi è sempre presupposta. Questi, anzi, sono stati composti per integrare e completare le dottrine dei dialoghi, i quali si differenziano dalle opere di scuola non per il contenuto ma per lo stile ed il metodo adottato. In effetti, come Bos afferma alla pag. 377 di Teologia cosmica e metacosmica nella filosofia greca e nello gnosticismo, "in questi dialoghi perduti Aristotele non esprimeva una concezione filosofica platonizzante, risalente alla prima fase del suo pensiero ed in seguito abbandonata, e certamente una concezione che lo stesso Platone aveva già rifiutato".

Le opere pubblicate, a suo parere, differirebbero dai trattati del Corpus per l’uso di una prospettiva mitica e sovraumana circa la realtà dell’esistenza umana, prospettiva assente nelle opere di scuola, basate su una ricerca condotta fysikòs (secondo le leggi della natura).

Da tutto questo Bos desume una spiegazione filosofica della scomparsa dei dialoghi giovanili. "Potremo concludere, - scrive nell’opera già citata -, che la cerchia ristretta di studiosi di professione giunse ad avvertire una frattura così enorme, in termini di verificabilità, fra le concezioni mitiche, da un lato, e le concezioni argomentate e fondate sulla base della comune esperienza, dall’altro, che l’uso dei miti, anche nella forma di miti filosofici, venne gradualmente respinto come inaccettabile da un punto di vista filosofico, e ciò come parte di un generale rifiuto di qualsiasi ricorso ad una conoscenza sovraumana".

Un discorso a parte merita l’interpretazione che dà lo studioso dell’espressione exoterikoi logoi. Rovesciando la tesi generale su tale problema, Bos crede che tale espressione non stia ad indicare le opere divulgative per coloro che sono fuori della scuola, ma quegli scritti che hanno per oggetto ta éxo, ossia quella realtà che in Aristotele trascende la fysis (natura), ed in questo senso sta al di fuori della sfera della realtà fisica.

A supporto di tale tesi lo studioso fa un esame del ruolo filosofico del termine ta éxo, in Platone ed in Aristotele, particolarmente nel Fedro (247 A - 249 C) e nel De Caelo (I, 9).

Bos, inoltre, sottolinea come l’assenza nelle opere aristoteliche della spiegazione dell’espressione exoterikoi logoi, - che Aristotele stesso ha creato e che sembra essere familiare al suo uditorio -, sia stato influenzato dalla considerazione maggiore che l’Aristotele dei trattati ha avuto rispetto a quello dei dialoghi.

Tutte queste recenti proposte interpretative, essendo tra loro differenti, debbono comunque essere considerate come ipotesi significative con cui confrontare i precedenti risultati, per un avanzamento più completo degli studi sullo Stagirita.

2. L’ingresso di Aristotele in Accademia

Aristotele entrò in Accademia nel 367 a. C., anno in cui Platone affrontò il suo secondo viaggio in Sicilia dopo l’invito di Dione, - parente del tiranno di Siracusa, Dionisio il vecchio, morto lo stesso anno -, che si era convertito agli ideali politici di Platone durante il suo primo soggiorno nell’isola.

L’assenza di Platone da Atene durò fino al 364 a. C. e la reggenza della scuola in questi tre anni fu affidata ad Eudosso di Cnido, uno scienziato molto versatile, competente in matematica, astronomia, geografia, etnologia, medicina e filosofia, che influenzò notevolmente la formazione del giovane filosofo, come pure l’orientamento della scuola. E Aristotele stesso, molto tempo dopo, ricorderà nell’Etica Nicomachea l’impressione avuta da quanti conobbero Eudosso. "I suoi ragionamenti, - egli affermerà -, avean acquistato fede più per la virtù dei suoi costumi che per se stessi: poiché appariva di un’insolita temperanza; onde sembra che in tal modo ragionasse (identificando il bene col piacere), non perché amante del piacere, ma perché così la cosa stesse veramente".

Eudosso in filosofia venne considerato platonico, ma in realtà si distaccò non poco dal platonismo per quanto riguarda, ad esempio, la dottrina delle idee, la teoria sul piacere e quella sulle sfere astrali, di cui ipotizzava la loro concentricità e la diversità delle rotazioni per spiegarne i moti irregolari.

Questo potrebbe essere una prova del fatto che il vero platonismo comportava non tanto l’accettazione dogmatica di determinate dottrine, quanto la discussione libera dei problemi posti da Platone all’interno della scuola: una conferma potrebbe essere che platonici significava essenzialmente credere nella filosofia come ideale supremo di vita e come guida nella vita pratica.

Proprio alla comprensione della caratteristica essenziale dell’Accademia rispetto ad altre scuole, non ultima quella isocratea, si sono dedicati vari studiosi. Le ipotesi che emergono sono sostanzialmente tre:

- Platone, tornato dal primo viaggio a Siracusa, acquistò un terreno nei pressi del ginnasio, - situato nella zona consacrata all’eroe Akádemos o Hekàdemos -, dove vi avrebbe fatto costruire un santuario dedicato alle Muse e dei locali per abitazione. Il fatto che nell’Accademia sorgesse un santuario e che vi si celebrassero i giorni in cui i greci ritenevano che fossero nati Artemide ed Apollo, ha portato alcuni critici a ritenere la scuola platonica un thiasos, cioè un associazione di culto.
- Di differente avviso sono lo Stenzel e lo Jaeger, i quali credono di ravvisare nell’Accademia antica una scuola di formazione politica. L’aspetto politico fu fondamentale nella vita e nel pensiero di Platone, che dopo la condanna di Socrate e la sfiducia nella politica ateniese si persuase della necessità di preparare adeguatamente i giovani filosofi alla vita politica, nella convinzione che solo i filosofi al potere avrebbero potuto migliorare le condizioni degli uomini. Venendo alla sua scuola giovani da tutte le parti dell’Ellade, Platone favorì il formarsi di circoli platonici nelle loro città per cercare di realizzare quello stato ideale che non era riuscito a formare ad Atene.
- Chi, invece, ha voluto scorgere nell’Accademia un’istituzione, in cui lo scopo principale fosse la ricerca scientifica, fu Usener, il quale concepì la scuola come una sorta di moderna università, dove vi era un regolare programma di lezioni e di seminari. A supporto della sua tesi Usener ricorda un famoso frammento del comico Epicrate (fr.11 = T. Kock) ove in modo caricaturale si descrivono gli accademici intenti nella definizione di vari animali e piante.

3. Cenni sulla situazione filosofica nell’Accademia durante la permanenza di Aristotele e l’inizio della sua produzione letteraria

Aristotele si trattenne in Accademia venti anni, quindi fino a quando compì i trentasette anni d’età nel 347 a. C.

Anche se non abbiamo notizie certe degli studi da lui compiuti nella scuola, si può ipotizzare che per i primi tre anni, trascorsi sotto lo scolarcato di Eudosso, studiò fondamentalmente matematica, per poi seguire il programma descritto da Platone nella Repubblica.

Probabilmente, però, gli insuccessi, incontrati da Platone a Siracusa nei suoi viaggi, determinarono una svolta nella sua vita e nel carattere della sua scuola. I dialoghi scritti da Platone dopo il 367, detti dialoghi "dialettici" (Parmenide, Sofista, Teeteto, Filebo, Politico), nonché il Timeo e le Leggi, rivelano infatti, differentemente dai precedenti, un interesse minore per la costruzione di uno stato ideale e un interesse crescente per problemi di logica, di dialettica e anche di scienze naturali. È ipotizzabile quindi che anche l’Accademia si sia orientata verso questa nuova rotta. Aristotele quindi incontrò un Platone ormai prevalentemente dialettico, volto al ripensamento della sua fondamentale teoria delle idee, su cui aveva basato tutto il suo sistema e a cui non rinunciò mai.

Aristotele, di fatto, soggiornò in Accademia in un periodo molto fecondo, ricco di dibattiti e discussioni tra il maestro e i suoi discepoli, dei quali alcuni rifiutarono o interpretarono diversamente la dottrina delle idee, a cui pure Platone soprattutto nel Parmenide e nel Sofista aveva mosso gravi critiche.

Che l’impostazione della paideía platonica su basi scientifico-dialettiche abbia appagato il giovane Aristotele potrebbe essere desunto da quella che sembra essere la sua prima opera, intitolata Grillo o Sulla Retorica. In essa lo Stagirita, prendendo spunto da una serie di scritti retorici composti per celebrare Grillo, figlio di Senofonte, morto nel 362 a. C. nella battaglia di Mantinea, polemizzava contro la retorica intesa come arte, tesi teorizzata dal sofista Gorgia e ripresa da Isocrate.

Pertanto il Grillo, che è la più antica opera databile di Aristotele, probabilmente scritta tra il 360 e il 358 a. C., rappresenta la netta presa di posizione da parte del filosofo a favore della paideía platonica contro quella isocratea, che si fondava sulla retorica. L’opera, quindi, non è uno dei tanti scritti per onorare la memoria di Grillo, ma è portavoce della reazione ai molti elogi funebri, scritti da vari retori in occasione della morte di lui. Il numero eccessivo di questi elogi e l’intento servile da cui erano animati probabilmente diedero l’impressione ad Aristotele che la retorica mirasse principalmente ad agire sugli affetti, la parte irrazionale dell’anima, allo scopo di giungere ad un successo pratico.

Questa tesi aristotelica era stata sostenuta già molti anni prima da Platone nel Gorgia, dove egli aveva affermato che la retorica non era una téchne, cioè un’arte, né una scienza, ma esclusivamente una forma di adulazione. Il Grillo dovette riscuotere molti consensi nell’Accademia al punto che Aristotele venne incaricato di tenere un corso ufficiale di retorica, durante il quale probabilmente mostrò, come fece già Platone nel Fedro, che la retorica per acquistare valore dovesse fondarsi sulla dialettica. Questo corso come pure il Grillo dovettero avere ampio successo, se il discepolo di Isocrate, Cefisodoro, e Isocrate stesso risposero al giovane filosofo nelle rispettive opere, Contro Aristotele e Antidosis.

Lo studio della dialettica, finalizzata alla discussione filosofica probabilmente portò il giovane Aristotele a partecipare al grande dibattito che si svolgeva nell’Accademia in quel periodo intorno alla dottrina platonica delle idee. Documento del suo interesse per tale problematica è il trattato intitolato Sulle idee (Peri Ideon), che quasi certamente risale al periodo accademico, essendo richiamato dallo stesso Aristotele nel I libro della Metafisica. Inoltre, il trattato, riallaciandosi al Parmenide di Platone, composto dopo il 365 a. C., verosimilmente fu scritto intorno al 360 a. C.

Il Peri Ideon è andato perduto ed i pochi frammenti, che ci sono giunti, ci sono stati trasmessi dal più grande commentatore aristotelico dell’antichità, Alessandro d’Afrodisia (II - III sec. d. C.), uno degli ultimi studiosi che ebbe la possibilità di leggerlo e utilizzarlo per il suo commentario alla Metafisica.

Come si era ricordato prima, nel periodo successivo al ritorno di Platone da Siracusa, il problema del rapporto tra idee e cose, - posto nel Parmenide e ripreso, cercandone una soluzione, nel Sofista -, dovette provocare diverse discussioni fra i componenti dell’Accademia, tanto più che il rapporto di partecipazione o imitazione tra idee e cose, proposto da Platone, non ottenne adesioni.

Molto probabilmente parteciparono a questo dibattito Eudosso, Speusippo, Senocrate ed Aristotele stesso.

Eudosso sostenne che tra le idee e le cose non ci fosse né quella separazione, né quel rapporto di partecipazione o di modello-copia che Platone aveva proposto in differenti dialoghi, ma al contrario un legame più stretto che egli indicava con il termine mixis, mescolanza. Le idee e le cose non sono separate, ma sono mescolate tra loro. Questa teoria di Eudosso è una critica alla separazione delle idee, che questi considerava un grande impedimento per dar ragione a quel rapporto tra quei due mondi separati, che però Platone riteneva necessario.

Si potrebbe pensare che Aristotele avesse avuto una certa simpatia nei confronti di questa dottrina, perché anch’egli come Eudosso criticò la separazione delle idee e tentò di unire la forma e la materia giungendo alla formulazione della dottrina del sinolo, ma non è così. Secondo Aristotele, infatti, la soluzione proposta da Eudosso è foriera di molti equivoci, al punto che egli rivolge a tale tesi ben otto critiche, che Alessandro d’Afrodisia riporta nel suo commento alla Metafisica aristotelica.

Il pensiero di Speusippo e Senocrate, come pure quello di tutta l’Accademia antica, non è facilmente enucleabile. Oltre ad alcuni frammenti rimastici, infatti, noi abbiamo conoscenza di tali pensatori attraverso Aristotele o attraverso la dossografia, due tramiti che offrono scarsa garanzia di attendibilità.

Al fine, però, di avvicinarci il più possibile alla vera concezione speusippea e senocratea è necessario far riferimento agli ultimi sviluppi della dottrina platonica. Ciò servirà, inoltre, ad inquadrare maggiormente il Peri Ideon e l’altro trattato, contemporaneo a questo, il Peri Thagathou (Sul Bene).

Nell’ultima fase del suo pensiero, come si è già ricordato, Platone aveva sottoposto la teoria delle idee ad un radicale ripensamento indirizzato in seguito su interessi di tipo matematico-pitagorico e cosmologico, di cui si ha traccia nel Filebo e nel Timeo. Servendosi probabilmente della relazione delle contrarietà, - esposta nel Parmenide -, e del concetto di relativo e della scoperta dei cinque generi sommi, - di cui si parla nel Sofista -, Platone introduce nel Filebo l’antitesi fondamentale, ripresa dal pitagorismo, tra illimitato (apeiron) e limite (peras), che conduce all’affermazione delle proporzioni numeriche. Problematico è certamente in questo testo il rapporto delle idee con la teoria del limite e dell’illimitato, poiché esso determina certamente un ordine di carattere numerico, che si ritrova anche nel Timeo. In questo dialogo, infatti, risultano mescolati secondo proporzioni matematiche i termini di quest’antitesi come pure i "generi" del Sofista, ed inoltre, qui, sono proprio le figure geometriche a dare ordini alla chora (materia) disordinata.

Ora, il Peri Ideon, il Peri Thagathou e soprattutto i libri I e XIII della Metafisica, - la cui stesura, ricordiamo, non è stata unitaria ma ha avuto sviluppi differenti -, contengono esposizioni e critiche di dottrine attribuite a Platone o ai platonici. Secondo Aristotele, Platone ammetteva due tipi di sostanze sovrasensibili: le idee e gli enti matematici. Mentre sul primo punto Aristotele riferisce nozioni più o meno note anche attraverso i dialoghi platonici, il secondo apre una questione molto complessa: a prima vista, esso, infatti, non trova riscontro nelle opere platoniche.

Aristotele afferma che per Platone esistono numeri matematici, intermedi tra le cose e le idee, e numeri ideali che sono identici con le idee. Se la corrispondenza del carattere intermedio dei numeri matematici con le teorie dei dialoghi, pur problematica, sembra sostenibile, come crede Ross nel suo Plato’s Theory of Ideas (1951); l’identificazione delle idee con i numeri rappresenterebbe una radicale innovazione della teoria delle idee nota attraverso i dialoghi. E ciò che più disorienta è il fatto che Aristotele non si dilunga su questo aspetto, assumendolo quasi come noto. Nella Metafisica, ad esempio, l’attribuzione esplicita a Platone dell’identità tra numeri e idee è presente in soli due passi: I, 6, 987 b, 14-22 e XIII, 9, 1086 a, 11-13, più frequentemente è citata tale teoria senza una precisa attribuzione a Platone.

Questi inoltre spiega come Platone sostenesse che le idee sono causa delle cose, che gli elementi delle idee sono elementi di tutte le cose, che questi elementi delle idee, detti principi, sono il grande-piccolo da un lato e l’uno dall’altro, e che le idee-numeri nascono per partecipazione di questi principi. Anche nel Peri Thagathou, - rispetto al quale i commentatori sono concordi nel dichiarare che avrebbe contenuto la relazione, scritta da Aristotele, di un corso orale (acroasis) tenuto da Platone sul bene -, sono esposte quest’ultime concezioni. Le idee, essendo una molteplicità, hanno bisogno di un’ulteriore giustificazione: così Platone per dare ragione di questa molteplicità ritenne necessario dedurle da principi superiori. Tali principi erano appunto l’Uno e la Diade indefinita o del grande-piccolo, il primo dei quali aveva la funzione di principio formale e il secondo di principio materiale. L’Uno e la Diade insieme erano la causa delle idee-numeri, delle idee, e a loro volta le idee erano causa delle cose. Dalle parole di Aristotele si deduce, così, che tutta la realtà, sia quella ideale sia quella sensibile, dipende da questi due soli principi, l’Uno che funge da elemento unificante ed ordinatore delle cose e la Diade che è l’elemento moltiplicante.

Dal momento che questa dottrina chiaramente attribuita da Aristotele al suo maestro non sembra trovare nei dialoghi di quest’ultimo un esplicito riscontro, si sono sviluppate diverse ipotesi per cercare di risolvere questo enigma, se si vuole usare la felice espressione dello studioso H. Cherniss.

Una particolarmente suggestiva è quella che crede nell’esistenza di dottrine non scritte, - i cosiddetti agrafa dogmata -, che avrebbero contenuto la vera filosofia platonica, destinata ad una ristretta cerchia di uditori, presumibilmente i suoi discepoli. Questa soluzione, che presuppone un Platone esoterico, è stata accolta, sviluppata ed argomentata dalla scuola di Tubinga, in particolar modo da Gaiser, Krämer e Szlezák, che hanno negato che i dialoghi platonici avessero contenuto la dottrina somma del filosofo, espressa in modo compiuto in un suo insegnamento orale. Essi, infatti, ricordano molti passi dei dialoghi in cui Platone non solo sottolinea, come nel Fedro col mito egiziano di Theuth, la superiorità del discorso orale rispetto a quello scritto, ma afferma esplicitamente nella Lettera VII di non aver mai messo per iscritto la sua vera dottrina. I dialoghi, così, interpretati secondo questa nuova ottica, avrebbero solo una funzione propedeutica o introduttiva alle dottrine non scritte.

Un’altra ipotesi sostiene che quella dottrina, che non è contenuta nei dialoghi e di cui testimonia Aristotele, sia frutto di un fraintendimento di quest’ultimo. Di tale avviso sembra essere H. Cherniss, che dopo aver mostrato la non attendibilità di Aristotele come storico della filosofia e in generale come storico del platonismo, afferma chiaramente nel testo The Ridde of the Early Academy (p. 34) che "la teoria delle idee-numeri non sia stata affatto di Platone, ma solo una interpretazione di Aristotele (...)". Egli sottolinea, quindi, come l’identificazione delle idee con i numeri sia frutto piuttosto di un’interpretazione critica aristotelica del pensiero accademico. Cherniss, così, nel suo testo ricorda come Platone dal primo dialogo fino all’ultimo consideri la dottrina delle idee la pietra angolare del suo pensiero. Le idee, chiamate notorie nel Fedone al passo 100 b, compaiono nel Filebo, nel Timeo e finanche nelle Leggi. Da ciò e dalla discrepanza fondamentale tra la teoria delle idee presente negli scritti platonici e quella riferita da Aristotele, egli trae il maggiore sostegno per definire "sospetta" la testimonianza aristotelica, probabilmente influenzata dalle critiche a Platone di Speusippo e di Senocrate.

Ross, invece, rifacendosi parzialmente alla tesi di una erronea interpretazione aristotelica, crede che per questo particolare problema essa debba essere limitata all’interpretazione dell’espressione "il grande-piccolo", che egli ritenne indicasse due cose, una grande e una piccola. Da questa comprensione distorta discenderebbe la sua descrizione del grande-piccolo, nella quale non si dice che esso fornisce pluralità, ma che "duplica". Egli, poi, ipotizza nella generazione dei numeri ideali di Platone una corrispondenza dell’Uno e della Diade rispettivamente con il "limite" e l’"illimitato" del Filebo, che risolverebbe in parte l’assenza dai dialoghi di queste teorie. Ross crede inoltre possibile che alcune critiche di Aristotele siano dirette non tanto contro ciò che aveva sostenuto Platone, quanto piuttosto contro ciò che Speusippo e Senocrate ipotizzarono egli avesse voluto dire o contro qualche nuova teoria sorta all’interno dell’Accademia. Egli, tuttavia, pur ammettendo che Aristotele in alcuni punti abbia frainteso la dottrina di Platone, sostiene che i suoi molteplici riferimenti agli agrafa dogmata dovevano avere un termine reale e questo non poteva essere che il corso orale sul Bene, attestato anche da Aristosseno.

Giannantoni, infine, pur ritenendo autentica la Lettera VII di Platone, non condivide l’interpretazione degli studiosi di Tubinga, sottolineando come Platone in questo testo si riferisca ad una esposizione sommaria, sintetica e "per formule" del suo pensiero. Il filosofo, infatti, ricorda Giannantoni, ha sempre rifuggito da ogni esposizione scolastica e sistematica della sua filosofia, che ha consegnato a quello strumento letterario, il dialogo, che meglio rifletteva il dialogo parlato. Probabilmente, prosegue lo studioso, Platone nella Lettera VII si riferisce a composizioni di "contrabbando", scritte da persone differenti da coloro che frequentavano la sua scuola.

Anche volendo prescindere dal fatto che diventerebbe difficile spiegare come mai il filosofo abbia scritto tanto e abbia scritto opere in cui la filosofia successiva ha riconosciuto un alto contenuto speculativo, egli ritiene queste dottrine orali, - di cui si hanno più testimonianze -, come l’estrema fase di sviluppo del pensiero platonico, in cui ancora deve essere ben definito ciò che spetta propriamente a Platone e ciò che deve essere attribuito piuttosto ai suoi discepoli.

A questo punto, avendo discusso degli ultimi sviluppi della dottrina platonica, è possibile esaminare il pensiero di Speusippo e di Senocrate.

Speusippo, primo scolarca dell’Accademia dopo la morte di Platone, rifiutò totalmente la dottrina delle idee.

"Secondo Aristotele, Speusippo si sarebbe reso conto delle infinite difficoltà connesse alla dottrina degli eide (idee) e della artificiosità, e quindi arbitrarietà, della fissazione di un eidos (idea) unitario di natura intuitiva (...). É probabile che Speusippo, sviluppando la tarda dialettica platonica del metodo diairetico, abbia sentito acutamente la contraddizione interna fra questa dialettica divisoria, una volta che la si consideri nel suo riferimento ontologico e non la si riduca a semplice esercizio logico-linguistico, e la fissazione unitaria dell’eidos come monas (unità), quale è ancora riaffermata nel Filebo" (M. Isnardi Parente, Studi sull’Accademia Platonica Antica, pp. 13-14). Egli accettò tuttavia un punto fondamentale della teoria platonica, e cioè l’esistenza di essenze separate al di là del mondo sensibile, i numeri, cui però non attribuì alcun rapporto con le cose.

La dottrina di Speusippo, infatti, prevedeva una funzione privilegiata del numero come proton ton onton (primo delle cose esistenti) e primo intellegibile, avente come principi l’uno e il molteplice nella loro forma astratta, elementi di tutti i numeri.

Per questa teoria Aristotele lo accomunò al pitagorismo, dottrina a cui, come si è notato, anche Platone si rifece nell’ultima fase speculativa. A tal proposito, però, bisogna ricordare che per i pitagorici il numero non era separato o trascendente rispetto alle cose sensibili, mentre lo era per il platonismo pitagorizzante di Speusippo, che in tal modo poteva affermare il carattere trascendente degli enti matematici. Presupposto più propriamente pitagorico, invece, è quello secondo cui la serie dei numeri non inizia dallo en (uno), che non è precisamente numero, ma solo avvio della serie numerica, che si costituisce dal due e dal tre.

L’Accademia raggiunse il suo punto più alto di tensione interna con Senocrate, il secondo scolarca della scuola dopo Platone. Mentre Speusippo, infatti, ebbe il coraggio di rifiutare decisamente la fondamentale teoria platonica delle idee, dando alla dottrina dei principi e degli enti matematici la netta priorità, Senocrate intese invece cercare una conciliazione di queste due dottrine, delle idee e dei principi. In tal modo, quindi, egli oscillò sempre fra la presentazione delle idee nella formulazione platonica ortodossa e la teoria dei principi, giungendo poi ad una totale identificazione delle idee con i numeri. A differenza, quindi, di Platone, che distingueva i numeri ideali da quelli matematici, e di Speusippo, che considerava solo i numeri matematici, Senocrate identificò idee, numeri matematici e divinità. A conferma di questa sua tesi si può ricordare, ad esempio, che egli chiamò l’anima "un numero che muove se stesso" e che, prendendo spunto dal carattere matematico dell’ordinamento dell’universo del Timeo, dedusse la natura matematica delle forme. I numeri, infatti, concepiti come asòmata (= senza corpo) non sono distinguibili dalle incorporee ed intellegibili forme ideali. Tutto questo può essere senza dubbio inserito nella tradizione pitagorizzante dell’ultimo platonismo e della prima Accademia, considerando, ad esempio, che vari studiosi hanno ritenuto possibile che le lezioni orali di Platone fossero una reazione del filosofo a posizioni estreme dei suoi discepoli.

Per quanto riguarda, infine, la posizione di Aristotele nei confronti della teoria delle idee, rivolgeremo un breve accenno solo al Peri Ideon. Servendosi di argomenti che già circolavano in Accademia e di obiezioni più rigorose, Aristotele criticò vari punti della dottrina platonica, mettendone in evidenza anche aporie. Egli avversò non tanto l’universalità delle idee quanto la loro separazione dalle cose sensibili, mettendo in luce, ad esempio, tutti i problemi concernenti la predicazione. Aristotele ritenne che gli argomenti addotti dai sostenitori delle idee fossero passibili di una comune obiezione: quella, cioè, di non dimostrare l’esistenza di idee separate, ma solo l’esistenza di universali distinti dai particolari. Inoltre, se essi avessero dimostrato veramente le idee separate, avrebbero condotto a porre idee anche di cose che gli stessi platonici escludevano.

In generale si ha l’impressione che Aristotele nel Peri Ideon non abbia rivolto le sue critiche veramente contro la dottrina delle idee, ma contro gli argomenti usati dai suoi sostenitori e soprattutto contro la separazione, le cui aporie erano già state messe in luce dallo stesso Platone nel Parmenide e che è in fondo l’obiezione fondamentale mossa da Aristotele a Platone nella Metafisica.

Egli, inoltre, ha sottolineato come per tenere ferma la dottrina delle idee, bisognerebbe eliminare la dottrina dei principi, non totalmente conciliabile con l’originaria teoria delle idee. Anche in questo caso, Aristotele accogliendo di questa dottrina l’affermazione di un principio materiale opposto ad uno formale, ha richiamato nuovamente l’attenzione sulla necessità di superare la separazione fra idee e cose.

Egli, quindi, criticando tale separazione e trasformando il concetto di eidos in quello di morfe, cioè di forma non separabile dalla materia, ma immanente ad essa, ha dato alla teoria platonica un esito del tutto diverso da quello avuto con la teoria dei numeri di Speusippo e Senocrate.

I futuri sviluppi dei problemi della predicazione, del concetto di sostanza, di accidente, di forma, di essenza e di materia, - di cui si occuperà di lì a poco nelle Categorie -, le critiche alla dottrina platonica di Aristotele come degli altri accademici mostrano come l’Accademia fosse fondata sul "dialeghestai socratico" e come la formulazione di una dottrina propria dello Stagirita fosse avvenuta gradualmente, iniziando negli anni della sua permanenza alla scuola platonica.

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