FILOSOFIA E TEOLOGIA DI FRONTE AL MALE



Come si è posta la filosofia dinanzi alla shoà e, in generale, di fronte al male? E’ significativo il fatto che Nicola Abbagnano, nel suo Dizionario di filosofia, inserisca la voce "Auschwitz" e la definisca come "apice della sofferenza e della barbarie": assistiamo in questo caso ad un evento che si trasforma in un lemma del dizionario, con una sineddoche (pars pro toto) in forza della quale Auschwitz assurge a simbolo stesso del male. Ancora una volta, tuttavia, dobbiamo chiederci perché proprio Auschwitz e non un’altra delle tante tragedie che hanno investito l’umanità: e, ponendoci tale domanda, ci spostiamo dalla sfera dei fatti a quella delle interpretazioni. Il fatto che Auschwitz venga universalmente concepito come quintessenza del male è già una spia che segnala la presenza di un’ermeneutica del male. Infatti, si è sempre riusciti, in qualche maniera, a render conto del male e a darne un’interpretazione (ermeneutica del male), ma ciò con Auschwitz non è più possibile, il modello implode su se stesso, cosicché è necessario rivedere gli strumenti concettuali con cui siamo stati abituati ad operare. "Lo stupore perché le cose che viviamo sono ancora possibili non è filosofico", dice Walter Benjamin, a sottolineare che il modo in cui abbiamo finora concepito la storia non è affatto corretto, e Auschwitz ne è la prova più lampante. Dobbiamo però tener presente che, accanto a quelle della storia, esistono anche le catastrofi della natura, come ad esempio quel terribile terremoto che si verificò a Lisbona a metà del XVIII secolo e su cui Voltaire spese tanta energia filosofica. Scrive a tal proposito Adorno: "il terremoto di Lisbona bastò a guarire Voltaire dalla teodicea". L’inquietante domanda che il filosofo come il teologo non possono non porsi è la seguente: dov’era Dio mentre il terremoto di Lisbona uccise miseramente i fedeli che Lo pregavano? La catastrofe di Lisbona simboleggia i disastri che la natura compie ai danni dell’uomo: ma, secondo Adorno, si tratta di una catastrofe di minima entità se accostata ad Auschwitz, che "prepara l’inferno reale" sulla terra. Quel che asseriva Leibniz nella Teodicea, ossia che il nostro sarebbe il migliore fra tutti gli altri infiniti mondi possibili, è oggetto di una feroce derisione da parte di Voltaire, il cui Candido non è se non un’indiavolata confutazione volta a dimostrare come in realtà il nostro sia il peggiore fra i mondi: la figura di Pangloss incarna il leibniziano integralista che giustifica ogni cosa, anche i mali più gratuiti, con il principio di ragion sufficiente. "Lisbona è affondata e a Parigi si balla", nota con pungente sarcasmo il philosophe Voltaire: col suo Candido, per la prima volta nella storia, si inceppa il meccanismo leibniziano della teodicea e si affaccia la prospettiva che a compiere disastri irreparabili non sia solo la natura, ma anche l’uomo: la conclusione cui egli addiviene è che "le guerre uccidono più dei terremoti". Sarebbe però erroneo credere che il problema del male acquisisca dignità filosofica solo a partire da Leibniz: esso è, anzi, un tema che ha sempre ossessionato la cultura occidentale, la quale ha di volta in volta cercato di liquidarlo attraverso spiegazioni filosofiche architettate a regola d’arte. Sotto questo profilo, la religione cristiana ha fornito al problema del male risposte fortissime, tanto da rimanere valide, per quel che riguarda il male prodotto dalla natura, fino al terremoto di Lisbona, e, per quel che concerne il male compiuto dall’uomo, fino ad Auschwitz. I due grandi modelli schierati dai cristiani sono quello della nemesi divina (incentrato sull’idea che il male è causato come vendetta da un Dio che punisce l’uomo per il male che ha compiuto) e quello della teodicea (secondo cui il male, anche il più gratuito, ha un senso compiuto se inserito nell’economia del tutto: il tutto è bene, e il male perde la sua valenza di male se inserito in tale contesto). L’idea comune a questi due modelli è che vi siano bilancio e compensazione tali per cui è garantito ab aeterno che alla fine il budget sarà in pareggio: in altri termini, sia per il primo sia per il secondo dei modelli la cassa della felicità non resta mai vuota. E lo stesso Giudizio universale, pilastro della fede cristiana, altro non è se non un’esemplificazione di ciò: alla fine dei tempi i malvagi saranno castigati e i buoni godranno di premi eterni. Il problema che comunque tende a rimanere insoluto presso il mondo cristiano è quello del libero arbitrio: di ciò era perfettamente consapevole Karl Barth, che ha a tal proposito parlato di questo problema come della "croce a cui il cristianesimo resterà filosoficamente inchiodato". Il male che l’uomo compie e che – secondo il modello della nemesi – chiama altro male o – secondo il modello della teodicea – ha senso nell’economia del tutto, è compiuto con un libero atto di scelta o, piuttosto, è qualcosa di necessitato e dunque di non liberamente compiuto? Nel caso della nemesi, pare risaltare il libero arbitrio, giacchè Dio punisce l’uomo per il male che questi ha deliberatamente compiuto: stando la questione in questi termini, per i sostenitori di questo modello la shoà non è che la giusta pena inflitta da Dio agli ebrei per delle colpe da loro commesse. Diverso è invece il caso della teodicea, dove il male, più che essere commesso, è patito supinamente, quasi come se si fosse passivi ricettacoli del male, bersagli su cui sfogarsi a piacimento: e dinanzi a questo male patito Dio interverrebbe a correggere siffatta insensatezza innestando il bene. Resta comunque vero che, in entrambi i modelli, il male ha un senso compiuto: nel caso della nemesi, lo si subisce perché lo si è meritato; nel caso della teodicea, chi lo subisce avrà un indennizzo da parte di Dio stesso. L’idea di fondo che pervade i due modelli è che il male sia redimibile. La stessa filosofia della storia di Voltaire, così nemico del modello leibniziano, presenta evidenti, in chiave secolarizzata, i pilastri dell’ermeneutica del male di radice religiosa: se da Agostino a Bossuet si parla di "teologia della storia" come di un tentativo di decifrare il senso della storia (che senso ha ciò che accade? In che direzione tende?) con chiavi interpretative teologiche (la tipica risposta provvidenzialistica: il senso della storia risiede nella Provvidenza divina), con Voltaire il modello teologico e provvidenzialistico crolla su se stesso e cede il passo alla nuova idea secondo la quale la nostra storia la scriviamo noi. Si attua in senso pieno con Voltaire la secolarizzazione, ovvero il passaggio dal cielo alla terra: per dirla con Feuerbach, accade che l’uomo si riprenda in cielo ciò che gli spetta (e che si trovava in cielo perché egli stesso colà l’ha posto); per gli uomini "religiosi" ciò è un vero e proprio attacco sacrilego condotto contro il Cielo e da cui derivano, quasi come se si fosse aperto il vaso di Pandora, ogni genere di male (il nichilismo, la morte di Dio, l’arroganza, ecc). Ad avviso di costoro, la pretesa di riprendersi dal cielo la vita perfetta per traghettarla sulla terra non porta che incubi in scongiurabili, quali i gulag e i lager, tutti nati in forza dell’arroganza dell’uomo che si è sostituito a Dio. La fondazione della filosofia della storia a partire da Voltaire poggia su una dicotomia fondamentale: da un lato, v’è il mondo della natura, che, nella sua datiti, non può mai essere del tutto imbrigliato e tenuto sotto controllo; dall’altro, v’è il mondo della storia, che è la dimensione peculiare del nostro essere (tutto ciò che accade, accade nel tempo) e contiene il senso delle nostre azioni: come notava Vico, i veri responsabili della storia siamo noi (verum ipsum factum). Certamente esistono culture che non operano tale distinzione tra storia e natura (ad esempio, per i Giapponesi bomba atomica e maremoto sono la stessa cosa; sono sventure che accadono e, di fronte alle quali, non si può che restare impassibili): dal canto loro, gli antichi Greci ritenevano che occuparsi filosoficamente della storia fosse una follia, giacché la filosofia, per sua natura, si occupa di ciò che è eterno e non di ciò che è transeunte ed effimero come le nostre pragmata, radicate nel particolare e non nell’universale. Il senso profondo della natura – possiamo dire – sta nel non avere un senso: a meno che qualcuno non ci spieghi in maniera realmente persuasiva quali siano il fine e il senso di un fiore. Così Max Weber rilevava che nella catena dei fatti di natura tutto pare avere un senso compiuto (per via della pioggia cresce il raccolto, grazie al quale l’uomo si nutre, ecc), ma, non appena sganciamo un singolo anello dalla catena, ha ancora un senso? La pioggia in quanto tale o il fiore hanno un senso? Nelle vicende umane, poi, regnano il caso, l’insensatezza e il disordine: ciò che tutt’al più della storia poteva attirare i filosofi era una "dinamica della storia" o quella che Vico chiamava "eterogenesi dei fini" (così compendiabile: la risultante delle singole azioni da ciascuno compiute – ognuna delle quali è dotata di senso – produce un senso diverso da quello originariamente intenzionato). Ciò che pare ancor più interessante è che i filosofi non si limitino a prendere atto del caotico e spaesante guazzabuglio degli eventi storici, ma cerchino anche di venirne a capo: ci prova Adam Smith con la "mano invisibile", ci prova Hegel con "l’astuzia della ragione". Ciò che i filosofi si ingegnano a fare è di dar conto dell’eterogenesi dei fini trovando un modo in cui la storia funzioni. Sicchè essi distinguono tra un disciplinato e regolare mondo della natura, procedente per leggi e retto da Dio, e uno caoticamente insensato prodotto dagli uomini stessi: tale è il mondo della storia. Il primo mondo direttamente in mano a Dio ed è dotato di senso compiuto; di esso l’uomo non può né deve curarsi (al massimo può sfruttarlo, come dice Bacone). L’altro mondo, quello della storia, è governato dall’uomo e, in virtù di ciò, è il regno del caos più totale: e, a ben pensarci, l’intero sforzo di Marx può essere ricondotto al suo tentativo di rendere coscienti gli uomini di ciò che fanno, riprendendo il motto vangelico "non lo sanno, ma lo fanno" (in particolare, Marx si propone di renderli coscienti affinché non tornino ad essere servi del capitalismo, che domina fino a che lo si considera come natura e non come prodotto storico). La problematica alla quale la filosofia della storia è chiamata a rispondere è allora la seguente: come si può costruire una filosofia della storia, se la filosofia vuol essere ordine e precisione e, dal canto suo, la storia è un magmatico groviglio di accadimenti caotici? Il problema, a questo punto, diventa un altro: come espungere il caso dalla trama delle vicende umane?


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