MODERNITA' O BARBARIE



Il pensiero di Hegel è una grande summa della filosofia moderna, una sorta di punto di forza dell’Occidente. Dobbiamo però ora chiarire che cosa effettivamente si debba intendere per "modernità" e, una volta compiuta tale operazione, passare a definire la "barbarie", che è quella particolare forma di male che la modernità produce. Tre sono i modi fondamentali di intendere la modernità: a) come epoca; b) come atteggiamento; c) come processo.

  1. Il moderno come epoca: secondo il punto di vista di molti storici e studiosi, nel 1989 termina il moderno e inizia il postmoderno. Ma che cosa caratterizza, allora, quel lungo periodo che parte dalla fine del Quattrocento e si protrae fino all’89? Generalmente, esso è posto nel ‘400 perché è in quell’epoca che fanno la loro comparsa numerose novità destinate ad essere decisive per gli sviluppi della cultura occidentale. Che il moderno sia legato a tali novità emerge bene dal termine tedesco che noi traduciamo con "moderno": Neuzeit, che, letteralmente, significa "tempo nuovo" e che dunque è direttamente connesso con l’idea di "novità". Ma quali sono, in definitiva, queste novità? Enumerarle tutte sarebbe impresa pressoché impossibile, perciò tenteremo di citare le più importanti: la stampa, la conquista dell’America, la rivoluzione scientifica, la Riforma protestante, il capitalismo, lo Stato moderno, l’antropocentrismo depredatorio, il mutato rapporto tra uomo e natura (cade il primato dei sensi: vedo il Sole muoversi, ma so che si tratta di un’illusione). La cifra comune a tutte queste novità è un forte senso di cesura con il passato che, nel suo volto medioevale, è concepito come buio, rozzo e intollerante: in questo senso, la modernità tende a proiettare un cono d’ombra su tutto ciò che la precede e finisce (per poter legittimare la propria presenza) per inventarsi un passato che, di fatto, nella forma in cui lo immagina, non è mai esistito. E’ nell’epoca moderna che nasce l’homo faber, autore e attore della propria vicenda terrena: dal cielo si passa alla terra, l’uomo cessa di pensarsi dipendente dal trascendente e inizia finalmente a concepirsi come autodeterminantesi (significativa è l’esaltazione che fa Pico della libertà umana) e, pertanto, responsabile del proprio agire, quasi come se, suggestionato da quegli strumenti da lui stesso creati, si sganciasse del tutto dal piano sovrasensibile. Sotto questo profilo, la modernità tende perfino a interpretarsi come l’epoca dell’inizio assoluto, ossia l’epoca che si tira su da se stessa, alla stregua del barone di Münchausen. Come ha un punto di inizio, così essa ha anche un punto d’arresto, che per molti studiosi coinciderebbe con la morte del comunismo e con la morte – tipicamente postmoderna – della fede nelle grandi utopie fino ad allora pullulate. Si può tuttavia muovere una forte obiezione a questo modo di intendere la modernità come epoca ricca di novità: la stragrande maggioranza di esse, infatti, non sarebbero che portati della tradizione cristiana, seppure in forma secolarizzata (pensiamo, ad esempio, al controllo della natura e alla scienza); in quest’ottica, il vero salto non sta tra il Medioevo e il moderno, ma, piuttosto, tra i Greci e i cristiani: in questo caso, ci si trova dinanzi a due mondi a tal punto divergenti da non poter coesistere.
  2. Il moderno come atteggiamento ha nella critica della tradizione il suo assunto fondamentale: l’atteggiamento peculiare della modernità sta infatti nel rifiuto di ogni dogmatismo in nome di un criticismo corrosivo di ogni pretesa verità dogmatica, nella puntuale messa in discussione di tutti i capisaldi su cui la tradizione poggiava. Secondo questa concezione, il moderno non ha più una precisa periodizzazione, ma è piuttosto un atteggiamento affiorato in ogni epoca storica, sebbene con diverse intensità: sicché vi sarebbero stati "moderni" (nel senso sopra delineato) già al tempo dei Greci, poi in età cristiana, e infine in età contemporanea. Ogni qual volta si è presentata nella storia un’istanza critica, là vi è stata la modernità. Servendosi di questa nozione, Foucault rilegge i testi di Kant e tiene una serie di lezioni su Discorso e verità nella Grecia antica, lezioni al cuore delle quali sta quello che per Foucault è l’uomo moderno per eccellenza: il "parresiasta" (parrhsia in greco è la "libertà d’espressione" tipica dei Cinici), ossia l’antidogmatico per eccellenza, colui che non dice la verità: la sbotta, giacché non riesce a trattenerla. E nello sbottarla, egli non si cura minimamente delle conseguenze derivanti da ciò: il tratto portante del suo agire è il coraggio, il saper vivere senza temere guai, in perfetta armonia tra ciò che pensa e ciò che fa. Se ai moderni interessa la verità degli enunciati, nel caso del parresiasta è la stessa sua armonia tra il pensato e l’agito a garantire la verità di ciò che egli va asserendo: "fondamentale non è dire cose vere, ma che ci sia chi dice cose vere", asserisce Foucault.
  3. L’ultimo modello proposto è quello del moderno come processo e, nella fattispecie, come processo di graduale e costante dominio razionale del mondo da parte della ragione umana a partire dalle origini della storia: in questa prospettiva, "moderno" è il graduale controllo razionale di porzioni sempre più estese della realtà (il diritto, la morale, l’estetica, ecc). Su questa tesi si trovano concordi parecchi pensatori facenti capo ad orientamenti filosofici molto diversi fra loro: ad esempio, Weber e Heidegger, Jünger e Marx, Arendt e Adorno. Ma, conquistando vieppiù la realtà esterna, l’uomo finisce per smarrire se stesso: così, in Vita activa, Hannah Arendt asserisce che il crescente processo di secolarizzazione in forza del quale si controlla sempre di più il mondo finisce in verità per portare ad una crescente perdita del mondo, poiché il soggetto tende a ritirarsi sempre più in se stesso; ciò è evidente con il cogito di Cartesio – che segna una vera e propria fuga dell’io dal mondo esterno -, ed è altresì evidente con quel processo delineato da Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo e da lui definito "ascesi intramondana" dei Protestanti. Secondo la celebre quanto discutibile tesi di Weber, i Protestanti vivono come monaci nel mondo (quasi come se non vivessero in questo mondo) e cercano non già la felicità, bensì la salvezza.

Comune a tutti e tre questi diversi modi di concepire la modernità è l’antropocentrismo di fondo. Tuttavia, se per alcuni la modernità deve essere intesa come un processo infinito (giacché ci saranno sempre ancora delle porzioni del reale da razionalizzare) e propulsivo, per altri l’esito di tale processualità è il nichilismo, come se – antropizzando ogni problema – si soggettivasse tutto. Ma a tutte e tre le letture del moderno è anche comune – e qui sta l’aspetto più interessante – il modo di concepire il rapporto tra la modernità e la barbarie: l’idea che permea tutti e tre i modelli è che, all’avanzare del moderno, arretra la barbarie, in base al presupposto diffuso secondo cui, man mano che si modernizza, l’uomo diventa sempre più umano. In questo senso, "barbaro" diventa l’aggettivo tipico per definire chi non è toccato dalla modernizzazione sempre crescente o ad essa si ribella. Se per gli antichi Greci barbaroV era chi parlava una qualsivoglia lingua non greca e, dunque, chi viveva oltre i confini del mondo ellenico, oggi, per noi, il termine ha assunto significati diversi, ma non del tutto sganciati da quelli attribuiti dai Greci. Barbaro è chi non è progredito sul piano sociale e culturale, chi risulta essere crudele e disumano: è senz’altro più che una coincidenza il fatto che tutti i dizionari, sotto il lemma "barbarie", adducano come esempio esplicativo la barbarie nazista. Barbari eravamo noi nel nostro passato, quando ancora non eravamo stati coinvolti dalla modernizzazione, e barbare sono da noi usualmente ritenute quelle culture con usanze e riti non solo diversi, ma anche incivili e disumani. Sicché si può a ragion veduta affermare che la modernizzazione, qui intesa come processo di razionalizzazione crescente, di incivilimento e, pertanto di umanizzazione, ad altro non mira se non alla debarbarizzazione. I primi a ragionare esplicitamente in questi termini furono, nel Settecento, i membri della cosiddetta "Scuola scozzese". Tra questi, spicca la figura di Adam Ferguson (autore di un Saggio sulla storia della società civile), il quale riteneva che lo sviluppo della civiltà fosse così scandito: in un primo tempo, quando gli uomini erano selvaggi, sul piano conoscitivo, dominava la magia, su quello sociale regnava la comunità non strutturata; secondariamente, quando gli uomini divennero barbari, si passò dalla magia al mito e dalla comunità non strutturata alla comunità con la proprietà ma ancora senza leggi; infine, gli uomini divennero civilizzati, sul piano conoscitivo trionfò finalmente la scienza e, su quello sociale, si instaurò la comunità armonica disciplinata dalle leggi. Stando al modello proposto da Ferguson, l’umanità diventa più civile nella misura in cui si addomestica e si ammansisce, espellendo e sublimando i residui ferini che ancora permangono in essa. In ciò risiede propriamente l’incivilimento, che, a livello di morale, trova la propria compiuta espressione nel trionfo dell’etica kantiana (introiettiva e basata sull’imperativo categorico) sull’arcaica legge del taglione. Rispetto alla posizione degli Scozzesi" è forse più interessante quella sostenuta dai loro avversari, ossia da quanti scorgono nell’incivilimento non già un positivo successo conquistato, bensì un avvilente processo di scadenza dell’uomo; corifeo di tale posizione è, in primis, Nietzsche, il quale così si esprime in Genealogia della morale: "posto che sia vero, il processo di incivilimento è il processo con cui si disciplina la bestia da preda uomo per farne un animale educato […]", ma questo non è altro che "l’immeschinirsi e il livellarsi dell’uomo". L’addomesticamento in cui la civiltà si risolve è da Nietzsche letto come un fatale rimpicciolimento della razza umana: sicché ciò che per gli "Scozzesi", cultori della civiltà, era un progresso, diventa per Nietzsche una turpe putrefazione. L’immagine che meglio esprime la concezione che il filosofo tedesco ha dell’Occidente, di questo mondo dove la civiltà si afferma con sempre maggior vigore, è quella delle stelle di cui, benché siano morte, continuiamo a scorgere il fulgore. Diametralmente opposta è la posizione di Condorcet, espressa soprattutto nei suoi Schizzi di un quadro storico dei progressi del genere umano, del 1793. In netta opposizione alla tesi vichiana dei corsi e dei ricorsi storici, Condorcet afferma a gran voce che "il genere umano non potrà più ricadere nella barbarie", poiché il progresso è irreversibile: l’idea, traboccante di ottimismo, è che l’umanità vivrà come in una serra, nella quale non vi saranno più infiltrazioni di cattivi giardinieri e le tenebre non potranno mai più avere il sopravvento. Quella di Condorcet è la posizione di fede nella modernità forse più estremistica e, se vogliamo, più ingenua e se solo egli avesse vissuto gli orrori che hanno costellato il Novecento si sarebbe certo ricreduto. Ciò non toglie, tuttavia, che anche i più forti critici della modernità finiscano tutti, chi più e chi meno, per nutrire la convinzione che, alla fine, la barbarie sarà sconfitta. Le tanto diffuse espressioni "socialismo o barbarie", "capitalismo o barbarie", "modernità o barbarie" sono tutte fra loro accomunate dalla disgiunzione, da quell’aut-aut grazie al quale è scongiurato il pericolo che la barbarie possa trionfare (a patto naturalmente che si affermino il socialismo o il capitalismo o la modernità). Eppure così scriveva Hitler nel suo Mein Kempf: "noi siamo barbari, e ne siamo fieri". E’ interessante il fatto che se Rosa Luxemburg, ancora convinta che la storia puntasse verso un preciso teloV, poneva l’aut-aut "socialismo o barbarie", a partire dal 1989, dopo la disfatta del modello socialistico attuato con esiti catastrofici nell’ex Unione Sovietica, si è parlato di "capitalismo come destino"; ma quel che forse è ancora più interessante è che, dopo l’11 settembre 2001, si è di nuovo tornati al modello dell’aut-aut: capitalismo o barbarie? Ovvero: USA o Al-Qaida? Ciò che tenteremo ora di fare sarà di mettere in luce come, con Auschwitz, il modello dell’aut-aut, per cui modernità e barbarie sono due realtà elidentisi mutuamente, imploda su stesso: dopo Auschwitz non si deve più parlare di "modernità o barbarie", ma si deve piuttosto far ricorso all’espressione "modernità e barbarie"; metteremo pertanto in evidenza come la modernità non sia l’antidoto alla barbarie, ma, piuttosto, il fertile terreno su cui essa prolifera.


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