MODERNITA' E BARBARIE



Abbiamo visto come storicamente sia invalsa la convinzione che, quanto più si affermasse la modernità, tanto più arretrasse la barbarie, quasi come se le due cose si escludessero a vicenda e la storia tendesse ad un progressivo azzeramento della barbarie: ma – chiediamoci – può un tale modello rimanere valido dopo Auschwitz? Non possiamo che rispondere negativamente: la shoà ci ha rivelato come modernità e barbarie possano convivere senza escludersi a vicenda. A tal proposito, due sono i grandi filoni interpretativi: una prima posizione è quella sostenuta da quanti credono che la barbarie sia, per così dire, un’ombra che pedina incessantemente la modernità, quasi come se fosse il suo cuore di tenebra mai del tutto eliminabile. Questo modello può poi declinarsi in due diversi modi: il primo è quello dell’intreccio "modernità e barbarie", col quale si mette in luce come i due aspetti convivano; il secondo è quello che possiamo definire del "ritorno del rimosso". Come i bambini nascondono ciò che ritengono fastidioso alla vista, così noi tutti tendiamo ad occultare ciò che ci turba e in ciò risiede la rimozione, il nascondimento di ciò che, se non occultato, genera fastidio: così, di fronte ad una barbarie mai del tutto debellata, la nostra cultura volge altrove lo sguardo, fingendo che l’incivilimento l’abbia espunta, quando in realtà essa ritorna di volta in volta in scena. Vi sono poi autori (tra cui Adorno e Horkheimer) che si sono addirittura spinti al di là, arrivando a leggere il moderno come prosecuzione stessa della barbarie. Una terza posizione, non riducibile a quelle testé elencate, è quella che individua nella barbarie un potenziale di disumanità di cui il moderno diventa sempre più consapevole e, in base a ciò, può autocorreggersi, quasi come se sussistesse un’incessante autocritica della modernità che fa i conti con se stessa: è questa la posizione assunta da Hannah Arendt e, secondo modalità differenti, da Habermas. Se per i sostenitori della prima posizione (quella del "cuore di tenebra"), la shoà non è che il vero volto della modernità, viceversa per questi ultimi (Arendt e Habermas) la shoà viene a configurarsi come uno slittamento, potremmo dire una "sbandata" del moderno, una battuta d’arresto che – paradossalmente – può essere istruttiva. Quel che è incontrovertibilmente certo è che con Auschwitz tutte le vecchie categorie impiegate nel passato per rendere conto del male paiono totalmente inadeguate, degli autentici "ferri vecchi" di cui ci si deve sbarazzare: l’idea religiosa, anche nella sua forma secolarizzata, del male redimibile sembra del tutto insostenibile, anche in forza del fatto che esso nasceva dal fatto squisitamente umano che tendiamo sempre ad anteporre la speranza alla realtà e, per tale via, ci autoinganniamo badando più a quel che l’uomo avrebbe dovuto essere rispetto a quel che effettivamente egli è. Le prime falle della tradizionale ermeneutica del male si registrano in occasione della prima Guerra Mondiale e dei suoi massacri di trincea, dove a morire erano decine di migliaia di uomini in simultanea. Ferita gravemente, l’ermeneutica classica del male trovò la sua morte con la shoà, quando si trovò a dover render conto della morte "antiutilitaristica" (Arendt) di milioni di individui massacrati soltanto perché ebrei: da quel momento parve evidente, in tutta la sua portata, la fine di una fede cieca nelle risorse culturali del genere umano. Ma quale fu l’aspetto della shoà che più colpì gli uomini del tempo? Leggendo le opere scritte in quegli anni, cosa emerge in primo piano? Sicuramente a colpire in maniera più profonda le coscienze degli uomini dell’epoca fu das Unheinliche, il "carattere perturbante", lo spaesamento, il non sentirsi più a casa: si tratta di una sorta di ritorno del rimosso, ma a presentarsi come rimosso è qualcosa che ci è familiare, anche se non lo sentiamo più come nostro perché trasfigurato. Secondo Freud, "lo spaesamento che risale a ciò che ci è familiare, ma che c’è stato reso trasfigurato per rimozione" è il massimo spaesamento che possa esservi: di questo genere è lo spaesamento che prova il bambino di fronte alla madre malvagia, e tale è anche quello che provarono gli uomini di quegli anni quando si accorsero che, il tradizionale aut-aut "cultura o barbarie" (rinviante a quello "modernità o barbarie") dopo Auschwitz non aveva più senso, e si era anzi capovolto in uno sconcertante "cultura e barbarie". I lager mettono in chiaro come le due dimensioni (quella della cultura e quella della barbarie) possano essere fra loro connesse a) da indifferenza, b) da complicità. In altri termini, ci si accorse che la cultura non era l’antidoto per il male, ma anzi poteva agevolarne il trionfo, cosicché si può ora comprendere la sensazione tremendamente spaesante che si provò. Crolla definitivamente l’idea che, se si è colti, non si può commettere il male: "Weimar, città dei Classici, con forno crematorio", dice a tal proposito un noto poeta tedesco, a sottolineare la complicità di cultura e barbarie. Come è noto, Weimar fu la città in cui operarono Goethe e Schiller, e cionondimeno fu sede di un campo di sterminio nazista, che fu poi (il che è forse meno noto) trasformato in lager comunista. Nel bellissimo testo di Steiner – Nel castello di Barbablù – molte pagine sono dedicate al tema della fragilità della cultura. Ciò che più contribuì a generare lo spaesamento fu la constatazione che non era una ragione assonnata a generare mostri (come invece credeva Goya), ma anzi era una ragione iperattiva che aveva creato i lager, sintesi perversa di alcuni elementi della cultura moderna: i carnefici non erano mostri disumani, erano piuttosto uomini coltissimi, che conoscevano i testi dei grandi filosofi tedeschi, apprezzavano la musica di Mozart e prima di andare a sterminare gli ebrei accarezzavano affettuosamente i loro figli. Insomma, non vi fu un solo ambito della modernità a rimanere escluso dalla shoà. E, del resto, se si volesse a tutti i costi applicare ancora il modello dell’aut-aut, per cui la cultura esclude la barbarie, come si potrebbe spiegare il caso di Heidegger, che fu forse il più grande pensatore del XX secolo e che aderì al nazismo? Allo stesso modo, molti nazisti furono kantiani e non è certo un caso che, nella Dialettica dell’illuminismo, Adorno e Horkheimer, mettano accanto Kant e Sade. L’idea della possibilità di vincere sul male non è che la "menzogna vitale" (Pierpaolo Portinaro) – ossia la menzogna indispensabile per continuare a vivere: ciò non toglie, naturalmente, che essa sia e resti una menzogna. Auschwitz si configura strutturalmente come un "corpo nero" che assorbe tutta la modernità, nella sua ridente solarità (quale era apparsa con Condorcet) e non la riverbera, la trattiene e la offusca: da quel momento in poi convive il binomio "modernità e barbarie", senza però che per ciò diventi vero quel daltonismo dell’amarezza, troppo spesso evidenziato, per cui "modernità uguale barbarie". Significativamente Bauman asserisce che la shoà è come un quadro o come una finestra: ma, chiediamoci, come mai la sociologia – di cui Bauman è insigne esponente – non si occupa della shoà e, in fin dei conti, la considera alla stregua di un quadro appeso ad una parete bianca, quasi una sorta di tumore proliferante in un corpo di per sé sano? Una risposta definitiva non c’è, ma possiamo comunque notare come Auschwitz debba essere inteso, più che come un tumore su un corpo sano, come una ferita che appartiene strutturalmente (e non accidentalmente) al paesaggio, quasi una sorta di prodotto dell’organismo stesso, benché non si tratti di un prodotto "necessario", tale da non potere non realizzarsi. A ragion veduta, Bauman rileva che "Auschwitz dice di più sulla sociologia di quanto la sociologia dica su Auschwitz": con ciò egli intende mostrare l’opportunità di abbandonare una volta per tutte il mito – di cui la sociologia stessa si sostanzia - di un’umanità che, entrata nella modernità, si è definitivamente lasciata alle spalle la barbarie; ma non per questo bisogna credere che la shoà fosse un evento necessario, che doveva per forza prodursi: ciò benché "le capacità necessarie per dominare il mondo non siano qualitativamente diverse da quelle che permisero di realizzare la ‘soluzione finale’". Ne segue, pertanto, che la modernità è condizione necessaria ma non sufficiente per il realizzarsi di Auschwitz e dell’esplosione della barbarie: sicché ha ragione Bauman quando dice che "in qualsiasi altra cultura la shoà sarebbe stata impensabile in questa forma". Egli aggiunge che "non è la shoà che è impossibile da comprendere, ma è la nostra civiltà – alla luce della shoà – impossibile da capire": per questa via, viene ancora una volta sottolineata l’affinità elettiva per cui, senza modernità, Auschwitz non sarebbe mai potuto venire ad essere. Ma – chiediamoci – una filosofia resasi consapevole di ciò, che cosa può e deve fare? Essenzialmente, essa deve giustificare il fatto di poter ancora esistere, ossia di sopravvivere alla diagnosi della propria morte: ciò significa che se la filosofia non fa finta di niente (processo di rimozione), allora dovrà porsi con insistenza il problema della propria legittimità dopo Auschwitz. Non è un caso che, dopo la shoà, si verifichino una sfilza di epitaffi della cultura: dopo Auschwitz, essa è "spazzatura" (Adorno) ed "è impossibile parlare di Dio" (Hans Jonas) o scrivere ancora romanzi. In altri termini, dopo la catastrofe del Novecento, la cultura emana sentenze di morte su se stessa, si condanna ad un silenzio che ben rispecchia la situazione di ineffabilità di quel che è accaduto e di cui essa stessa è stata in buona parte responsabile: in maniera netta e decisa, Adorno – in Educazione dopo Auschwitz – sostiene che, per chi fa ancora cultura, uno solo è l’imperativo: "che Auschwitz non si ripeta!". Eppure tale imperativo, senz’ombra di dubbio altisonante, si trova forzatamente costretto a convivere con l’amara constatazione che "compresa la critica della cultura, […] tutta la cultura, dopo Auschwitz, è spazzatura" (Adorno, Dialettica negativa). La situazione è, dunque, di stallo: v’è una cultura che si trova a dover pensare contro se stessa e in ciò risiede, per Adorno, la "dialettica negativa":

"chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole, diventa un collaborazionista. Mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire da questo circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva, e così la degrada ancora una volta a menzogna".

Dal passo testé riportato della Dialettica negativa emerge bene come i criteri stessi con cui fissiamo i contorni dell’orrore sono essi stessi barbari: è, questa, la situazione di stallo che si verifica nel gioco degli scacchi, quando qualunque mossa si faccia si va incontro alla disfatta, o che si registra nelle opere di Beckett, come in Aspettando Godot. L’unica posizione è quella "negativa", ossia rimanere nello stallo senza uscirne, poiché ciò comporterebbe una nuova disfatta: sia la difesa dell’aut-aut "cultura o barbarie", sia la negazione della cultura, sia il silenzio sono da Adorno ripudiati, giacché, chi si nega alla cultura, accetta per ciò stesso la barbarie; ma, al contempo, chi favorisce la cultura, in forza di ciò appoggia la barbarie, che è sorta dalla cultura stessa; infine, anche chi tace si macchia di complicità. Da quanto detto, si evince come la posizione di Adorno non sia rinunciataria, bensì "aporetica", nel senso greco di "privo di vie d’uscita" (aporia): è, come abbiamo evidenziato, una posizione di stallo, ma non di sconfitta, ed è per questo l’approdo filosoficamente più estremo e più consapevole della problematicità degli strumenti stessi con cui si affrontano i problemi, poiché – nota Adorno – i concetti stessi sono parte del problema o, forse, sono addirittura il problema stesso. Ciò porterà Adorno, congiuntamente con Horheimer, alla tesi – contenuta soprattutto in Dialettica dell’illumisnimo – secondo cui è l’illuminismo stesso a generare la shoà.


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