KARL BARTH

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Negli anni della prima guerra mondiale cominciò a delinearsi un'irresistibile crisi della teologia liberale. I drammatici eventi bellici e il correlativo crollo di tutto un preciso mondo spirituale sollecitarono anche teologi e uomini di chiesa a prendere coscienza della problematicità di tante "sicurezze" di ieri: la fede nella ragione, il privilegiamento della prospettiva umanistico-storicistica, l'esistenza di valori etici universali e oggettivi. Nell'ambito più precisamente religioso, questa fase di profonda crisi indusse molti a considerare per più versi superficiale e ottimistica la teologia liberale e a riproporre con nuova drammaticità la limitatezza e la peccaminosità del mondo terreno, l'irriducibilità della trascendenza all'immanenza, la distanza tra l'umano il divino. Alcuni "nuovi" teologi che orientarono la loro riflessione su questi temi vollero definire il loro pensiero "dialettico", non nel senso hegeliano di un superamento e inveramento degli opposti, ma in quello kierkegaardiano della presenza di una tensione costitutiva e irresolubile tra essi. Un importante centro di riunione e di propaganda della teologia "dialettica" fu la celebre rivista Tra i tempi , il cui titolo voleva alludere al destino di una generazione che sentiva di appartenere allo spazio situato tra un passato ormai morto e un futuro non ancora definibile con certezza. I principali esponenti del gruppo raccoltosi intorno a tale rivista furono: Karl Barth, Rudolf Bultmann, Friedrich Gogarten, Eduard Thurneysen, Emil Brunne. La personalità di maggior rilievo tra i nuovi teologi "dialettici" è indubbiamente Karl Barth (1886-1968). Nato in Svizzera ma formatosi nelle università tedesche, fu allievo tra l'altro di Harnack. Nel secondo decennio del Novecento si allontanò dalle posizioni della teologia liberale. Nel 1919 pubblicò uno scritto sull' Epistola ai Romani (poi rimaneggiato nel 1922), che nonostante la forma esteriore di semplice commento al celebre testo biblico fu subito considerato un'opera rivoluzionaria per la radicalità delle tesi che vi erano contenute. Il presupposto di fondo dell' Epistola ai Romani è la duplice convinzione barthiana dell'esistenza di un'insuperabile differenza ontologica tra la creatura e il creatore e della necessità di ridimensionare radicalmente le pretese esplicative del razionalismo filosofico-teologico, ricollocando al centro dell'esperienza umana la dimensione religiosa: anzi, propriamente, la fede. Asserisce Barth: " Dio è in cielo e tu sei in terra e ciò significa che la linea codificata dalla teologia liberale per unire finito e infinito, uomo e Dio presenta una soluzione di continuità. Quanto alla filosofia, se tende a uccidere (magari per "incerarlo") l'atteggiamento religioso, e se costituisce la più peculiare forma di riflessione mondana dell'uomo bisognerà saperla mettere, all'occorrenza, risolutamente da parte. " Già in queste prime tesi è percepibile la ripresa da parte di Barth del pensiero kierkegaardiano, di cui il teologo svizzero fu uno dei principali riscopritori primo-novecenteschi; si è a tal proposito parlato di una "rinascita" di Kierkegaard, a sottolineare che dopo mezzo secolo di oblìo, il filosofo danese torna finalmente sulla scena filosofica. Vicino a Kierkegaard Barth lo è anche nella sua intensa riflessione sull'umano, la sua peccaminosità e la sua finitudine. E' proprio per tale riflessione che l'opera barthiana è stata considerata una delle più significative sorgenti dell'esistenzialismo europeo ed è stata accostata al pensiero di Heiddeger. Tale interpretazione è giustificata purchè si tengano ben presenti le differenze degli esistenzialisti tedeschi e francesi. E' ben vero, infatti, che alcune tra le più stimolanti pagine barthiane sono quelle dedicate all'esistenza umana e ai suoi limiti: ma è anche vero che al centro di quelle stesse pagine sta non tanto l'essere umano quanto l'essere divino - o meglio il loro drammatico rapporto. Dio è, in effetti, la "figura" che attraverso la meditazione barthiana torna ad assumere - con tratti di potente originalità - un rilievo assolutamente centrale e predominante nella teologia primo-novecentesca. Dio è, per Barth, lo "sconosciuto", il " totalmente Altro ". Dio è alterità assoluta e incolmabile differenza nei confronti di tutto ciò che è umano, e non può pertanto essere conosciuto né come potenza naturale né come forza che sta al di sopra della natura: ogni pretesa di questo tipo è un " equivoco " religioso, se non una superstizione, e si adatta a compromessi mondani. Bisogna rinunciare alla religione, la cui funzione consolatoria ha solo aiutato l'uomo a mettere fra parentesi la sua drammatica situazione, segnata dal 'no' che Dio rivolge a lui e al mondo. Ciò implica che l'unica possibilità è riscoprire la fede, mantenendosi aperti alla speranza dialettica che proprio l'estremo della negazione si converta nel 'sì' divino: " Dio è il Dio sconosciuto. Come tale egli dà a tutti la vita, il fiato e ogni cosa. Perciò la sua potenza non è né una forza naturale né una forza dell'anima, né alcuna delle più alte o altissime forze che noi conosciamo o che potremmo eventualmente conoscere, né la suprema di esse, né la loro fonte, ma la crisi di tutte le forze, il totalmente Altro, commisurate al quale esse sono qualche cosa e nulla, nulla e qualche cosa, il loro primo motore e la loro ultima quiete, l'origine che tutte le annulla, il fine che tutte le fonda.[…] L'uomo si trova in questo mondo in prigione. Una riflessione alquanto profonda non può concedersi nessuna incertezza sulla limitazione delle nostre possibilità che sono qui e ora a nostra disposizione. Ma noi siamo più lontani da Dio, la nostra decezione da lui è più grande e le sue conseguenze sono sempre ancora più vaste di quante ci permettiamo di pensare. L'uomo è signore di se stesso (Letteraai romani). Dio non costituisce, come per la metafisica classica, la genesi e il fondamento delle cose. Il suo essere sta infatti "al di là" di tutte le forze, le origini e i fini. La sua "potenza" è " autosufficiente, incondizionata e in sé vera ": essa è " l'assolutamente nuovo ". Cercare Dio nelle sue creazioni, presumere di salire a lui lungo gli "itinerari" descritti dalla teologia e dalla morale antica e moderna è pura follia: anche perché " concepire questo mondo nella sua unità con Dio è colpevole di arroganza religiosa ". Dinanzi a questo Dio "totalmente Altro", l'uomo non può per Barth affidare le sue possibilità di salvezza né alla conoscenza razionale, né al progresso storico, bensì solo alla fede, sulla quale Barth ha scritto alcune delle pagine più intense del Novecento: " La fede è questo: il rispetto dell'incognito divino, l'amore di Dio nella coscienza della differenza tra Dio e l'Uomo, tra Dio e il mondo, l'affermazione del 'No' divino in Cristo, il fermarsi, turbati, davanti a Dio […]. La fede è la conversione, il radicale nuovo orientamento dell'uomo che sta nudo davanti a Dio, che per acquistare la perla di gran prezzo è diventato povero e che per amore di Cristo è pronto a perdere la sua anima […]. La fede non è mai compiuta, mai data, mai assicurata, è sempre e sempre di nuovo, dal punto di vista della psicologia, il salto nell'incerto, nell'oscuro, nel vuoto […]. Non vi è nessuna presupposizione umana (pedagogica, intellettuale, economica, psicologica, ecc..) che debba essere adempiuta come preliminare della fede […]. La fede è sempre l'inizio, la presupposizione, il fondamento. Si può credere come Galileo e come Greco, come fanciullo e come vegliardo, come uomo colto o come ignorante, come uomo semplice e complicato, si può credere nella tempesta e nella bonaccia, si può credere a tutti i gradini di tutte le immaginabili scale umane. L'energia della fede interseca trasversalmente tutte le differenze della religione, della morale, delle condotta e dell'esperienze della vita, della penetrazione spirituale e della posizione sociale. La fede è per tutti altrettanto facile e altrettanto difficile. " Negli anni seguenti Barth tempererà in certa misura le proprie posizioni. Pur non rinunciando al principio della trascendenza divina e della condanna di ogni antropocentrismo in campo filosofico-teologico, egli vorrà aprire qualche strada nuova all'impegno storico-razionale dell'uomo e dell'azione della Chiesa. Vorrà, soprattutto, istituire qualche mediazione tra l'umano e il divino, il peccato e la grazia, la finitudine e l'infinito. Tale orientamento è accertabile nella Dogmatica ecclesiale , il cui primo volume uscì nel 1932 e che ha esercitato una profonda influenza nell'intero mondo cristiano. Significativi in questa stessa prospettiva i saggi Comunità cristiana e comunità civile (1946), Umanesimo (1950), L'umanità di Dio (1956) e Introduzione alla teologia evangelica (1962). Il testo più suggestivo di Barth resta peraltro proprio l' Epistola ai Romani , che ha continuato ad affascinare intere generazioni di lettori. La radicale messa in questione di certezze secolari, la drammatica accentuazione della limitatezza e della costitutiva colpa dell'uomo, e soprattutto l'interpretazione della fede come senso del limite dell'oltre, come contestazione di tutti i valori e le opere terrene, come continuo scandalo e paradosso per le coscienze quiete e le anime belle, come imprevista e sconvolgente possibilità di rigenerazione spirituale per ogni essere umano, indipendentemente dalla sua razza, ceto e convinzioni: questo sono le principali componenti di un messaggio tra i più alti della meditazione religiosa del Novecento.

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