ISAIAH BERLIN

 


A cura di Diego Fusaro



"Esiste un grande divario tra coloro, da una parte, che riferiscono tutto a una visione centrale, a un sistema più o meno coerente o articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire – un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono –, e coloro, dall’altra parte, che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori. " (Il riccio e la volpe, Adeplhi, Milano 1998, pp. 71-72).


 

 

 

BERLINIsaiah Berlin, russo inglese ebreo, come amava definirsi, era nato a Riga nel 1909. Da bambino si era trasferito con la famiglia a San Pietroburgo, dove era stato testimone della Rivoluzione bolscevica. Nel 1921 l’intera famiglia era emigrata in Inghilterra, dove Berlin ha potuto compiere i suoi studi. È stato professore di Teoria sociale e politica a Oxford e presidente della British Academy. È morto a Oxford nel 1997. Attento studioso del pensiero di Machiavelli, dell’Età illuministica e del Romanticismo, tra le sue opere più famose ricordiamo: Karl Marx: vita e ambiente (1939), Due concetti di libertà (1958; poi pubblicato in Quattro saggi sulla libertà, 1969), Vico e Herder (1976), Il riccio e la volpe (1986; originale Russian Thinkers, 1978), Il fine della filosofia (2002), Controcorrente (1979), Impressioni personali (1980), Il legno storto dell’umanità. Capitoli della storia delle idee (1990), Il mago del Nord: J.G. Hamann e le origini dell’irrazionalismo moderno (1993), Il senso della realtà (1996), Le radici del romanticismo (1999).

L’aspetto più interessante della filosofia di Berlin è la riflessione sul concetto di libertà in ambito politico, tema presente nella lezione inaugurale del 1958 avente per tema i Due concetti di libertà. Sulle orme di Kant, egli distingue tra una libertà positiva (che è la libertà di: libertà di fare o di essere qualcosa) e una libertà negativa (che è libertà da: libertà dalle intrusioni altrui nel mio agire). La libertà positiva non è mera capacità di fare qualcosa: è, piuttosto, una forma di autodeterminazione, di agire in maniera non eterodiretta. La libertà positiva deriva dal desiderio dell’individuo di essere padrone di se stesso. A tutta prima, la libertà positiva e quella negativa possono sembrare alquanto vicine tra loro, nella misura in cui la prima si identifica con l’essere padroni di sé e la seconda si risolve nel non trovare ostacoli nelle proprie scelte: se però volgiamo lo sguardo alla storia, ci accorgiamo che queste due forme di libertà hanno avuto sviluppi ben diversi e, a ben vedere, conflittuali. Infatti, la libertà negativa è stata propugnata dai politici liberali, quella negativa dai socialisti. Si tratta però, rileva Berlin, di tentare di coniugare queste due forme di libertà, storicamente confliggenti. Oltre che strenuo difensore della libertà, Berlin è anche difensore del pluralismo: saldamente convinto dell’impossibilità di determinare univocamente che cosa si debba fare o evitare, il nostro autore è contrario a ogni forma di autoritarismo e a ogni tipo di uniformità imposta dall’alto (dalla Chiesa, dallo Stato, dal Partito, ecc.). Forte di questa convinzione, egli si propone di difendere – in sintonia coi liberali – il diritto degli individui ad autogestirsi. Per questo motivo, egli è alfiere di una visione pluralistica del mondo, fondata sul concetto di molteplicità irriducibile di modi di vivere e di pensare. Berlin ama ricordare un verso dell’antico poeta Archiloco: “la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Gli studiosi hanno sempre letto questo verso in maniera banale: la volpe, pur essendo infinitamente più astuta, viene sconfitta dall’unica difesa di cui il riccio dispone. In opposizione a questa lettura scontata, Berlin ne propone un’altra, più profonda: l’immagine del riccio e della volpe può essere assunta come metafora delle più profonde differenze che distinguono gli individui; di questi, infatti, alcuni (i “ricci”) riferiscono ogni cosa a una visione centrale, a un sistema coerente e articolato, dotato di regole ben precise; altri (le “volpi”), invece, perseguono molti fini, non di rado disgiunti e contraddittori, mancanti di un principio morale o estetico. Questa seconda tipologia di individui – dice Berlin – compie azioni “centrifughe”, non “centripete”, poiché il loro pensiero di muove su parecchi piani e coglie una varietà di esperienze e di temi senza riportarli a una visione immutabile. Grandi artisti che hanno agito da “ricci” sono – così dice Berlin in Il riccio e la volpe – Dante, Platone, Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche, Ibsen, Proust; simili alle volpi, invece, sono stati Shakespeare, Erodoto, Aristotele, Erasmo, Molière, Goethe, Puskin, Balzac, Joyce, Montaigne. I ricci sono monisti, le volpi sono pluraliste. Berlin ha indagato in sede sia storico-politica sia teorico-psicologica l’atteggiamento della volpe e del riccio, mettendo in luce come la tentazione monistica (del riccio) è vecchia quanto l’uomo e poggia sull’esigenza di superare la scissione – che l’uomo avverte sempre di nuovo in sé – attraverso la ricomposizione di una totalità pacificata. La concezione del riccio si sostanzia di due grandi convinzioni: a) che il reale sia unitario e che, in ultima analisi, i fenomeni siano riconducibili a tale unitarietà (con la scienza, la metafisica, la religione, ecc); b) che esista una “situazione finale” in grado di appianare tutti i problemi e di conferire un’unità decisiva a tutti i valori. Più in generale, il monismo del riccio (identificabile ora con la teologia, ora col socialismo, ora col platonismo, ora con certo illuminismo) poggia sul presupposto che le vere domande abbiano una risposta soltanto, che la strada per giungere alla verità sia una e che tutte le verità parziali siano compatibili fra loro e vadano a formare un’unica, grande verità. Al contrario, il pluralismo della volpe ha come suoi tratti distintivi: a) la convinzione che non l’unità, bensì la pluralità rappresenti l’essenza del mondo; b) il rifiuto di ogni situazione finale capace di garantire la soluzione armonica di tutti i problemi e di tutti i conflitti valoriali. In quanto legato a esigenze archetipiche, il monismo è assai più diffuso del pluralismo e mira alla ricerche di certezze unitarie, in grado di conferire un fondamentale senso di sicurezza. Alla luce di questi presupposti, Berlin instaura un parallelismo tra monismo e agorafobia, ovvero tra la ricerca filosofica dell’unità e la ricerca nevrotica di un luogo chiuso e rassicurante. Al contrario, il pluralismo è non di rado il frutto di una claustrofobia storica, vale a dire di una condizione di conformismo e di ristagno intellettuale che genera richieste di maggiore luce e si traduce in una rottura con le vecchie fedi e con le vecchie istituzioni. Scrutando le vicende dei ricci monisti e delle volpi pluraliste, Berlin non esita ad addossare al monismo la responsabilità per le feroci dittature che hanno caratterizzato il XX secolo: in particolare, l’assunto da cui esse sono scaturite – e che è tipico del monismo – è quello secondo cui, da qualche parte e in qualche momento, possa esserci una soluzione finale in grado di risolvere tutti i problemi. In forza di questa considerazione, Berlin è convinto che il nostro tempo abbia bisogno non già di fedi o di certezze scientifiche, bensì di un minor grado di formalismo monastico e di zelo messianico: in altri termini, ciò di cui abbiamo bisogno oggi è lo scetticismo, sapientemente unito a una buona dose di tolleranza. A tal proposito, l’adagio del perfido Talleyrand – “sourtout pas trop de zèle” – suona assai più auspicabile e più umano rispetto alla pericolosissima pretesa di uniformità del virtuoso Robespierre, specialmente in un’epoca di avanzato sviluppo tecnologico capace di produrre strumenti di distruzione.                        

 


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