GUIDO CALOGERO

A cura di Diego Fusaro, Elena Ternullo, Alfio Squillaci


"L´unità della democrazia è l´unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze. "

INDICE
LA VITA
IL PENSIERO
IL FUTURO E L'ETERNO
LA POLITICA



LA VITA

CALOGERO Nato a Roma nel 1904. Laureatosi nel 1925 in filosofia nell'università romana, con Gentile (con una tesi che sarà pubblicata nel 1927 col titolo I fondamenti della logica aristotelica), manterrà con il filosofo del regime rapporti di cordialità e di amicizia, diventando presto uno dei collaboratori più assidui dell'Enciclopedia Treccani e assumendo poi una sorta di responsabilità del settore filosofico. Calogero diceva sempre di sì alle richieste di collaborazione di Gentile, anche se il superlavoro e i frequenti soggiorni di studio in Germania lo costringevano a qualche ritardo. Ma i contatti fra i due erano tutt'altro che burocratici. Si basavano su una vera confluenza di idee e di interessi teorici. Via via che il discepolo chiarì la sua opposizione al fascismo, la questione politica venne tenuta in disparte; mai appannerà l'affetto reciproco. Fin dal 1929, a venticinque anni, Calogero è schedato dalla polizia politica come antifascista. Fatica a farsi rinnovare il passaporto, e senza gli interventi di Gentile non ci riuscirebbe: occorre che ogni anno il Senatore faccia " una telefonata agli Interni ". Gentile stesso si confiderà con Calogero, dicendogli di evitare gli autori filosemiti (Cassirer), sebbene le leggi razziali non fossero ancora state promulgate. Quella di Calogero diventerà una firma consueta del Giornale critico della filosofia italiana. Non riuscì a dividerli neppure l'incombente presenza di Benedetto Croce nel quadro culturale italiano. In una lettera del 1935, Calogero chiarì a Gentile senza dar adito a dubbi che i suoi maestri erano due: lui e Croce. Calogero, chiamato fin dal 1934 alla cattedra di Storia della filosofia alla Normale, svolgeva dentro e fuori la Scuola attività antifascista clandestina, a partire dai tardi anni Trenta. Strinse amicizia con Bobbio, il quale disse: " lo conobbi nel 1933 a un congresso hegeliano. M´impressionarono lo sguardo e la bravura ". Ottenuta successivamente la cattedra di filosofia all'Istituto Magistrale di Firenze, tornava spesso a Roma, dove manteneva contatti, abilmente nascosti, con gruppi di opposizione liberale. In Toscana conobbe e frequentò Aldo Capitini, con il quale nacque un forte sodalizio politico. I due si conobbero, prima che di persona, attraverso le proprie opere. Capitini aveva letto La filosofia e la vita , il libro che Calogero aveva pubblicato nel '36 per la casa editrice Sansoni, e ne apprezzava la dottrina del ' moralismo assoluto ', che, con quel saggio, cominciava a svilupparsi, come elemento autonomo, dall'idealismo gentiliano. A sua volta, Calogero aveva letto, tra i primi, Elementi di un'esperienza religiosa , trovando forti consonanze con la moralità coniugata all'antifascismo che traspariva dalle pagine del libretto. Dalla collaborazione strettissima tra i due pensatori nacque il manifesto del liberalsocialismo, nel 1937. Anche il nome del movimento nacque da questa collaborazione, in cui era difficile anche per i due teorici distinguere i singoli apporti. Calogero stesso non sapeva attribuire ad uno dei due la paternità del nome: " nome che non ricordo più se sia stato usato per la prima volta da Aldo Capitini o da me, e che volevamo riecheggiasse quello scelto da Carlo Rosselli ". Ricordando che Capitini non conosceva l'opera di Rosselli, prima della Liberazione, possiamo noi attribuire la paternità del nome a Calogero. Calogero difese poi strenuamente la denominazione del movimento, in una lunga polemica con Croce, svoltasi prima, dal 1940 al 1943, oralmente, poi per iscritto, e continuata anche dopo la Liberazione. Attorno a loro si venivano stringendo le nuove leve dell'antifascismo nazionale, i giovani che si stavano aprendo all'opposizione per reazione alla guerra di Spagna. Si trattava, quindi, di un antifascismo etico-politico, distinto rispetto all'antifascismo sociale delle classi subalterne, che basavano la propria opposizione sull'insostenibilità delle proprie condizioni di vita. Mentre queste ultime si rivolgevano di preferenza, scelto l'antifascismo, ai partiti marxisti, i giovani intellettuali trovavano molto più vicina l'opposizione etico-culturale di Capitini e degli antifascisti laici borghesi. Aderirono al movimento tra i più noti esponenti del liberalsocialismo toscano, basti ricordare Enzo Enriques Agnoletti, Tristano Codignola (figlio di Ernesto, l'ex gentiliano passato all' opposizione), Luigi Russo, Piero Calamandrei, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Carlo Furno, Alberto Carocci, Carlo Francovich a Firenze. Nel triennio che precedette l'entrata in guerra dell'Italia, l'attività principale del gruppo liberalsocialista consistette nel reclutamento di nuovi adepti. I canali di reclutamento furono di due tipi, Calogero e i liberalsocialisti toscani, inseriti nelle strutture della cultura nazionale (Calogero aveva ottenuto, nel 1937, la cattedra di Storia della Filosofia nell'Università di Pisa, Codignola e Enriques Agnoletti occupavano posti direttivi nella casa editrice La Nuova Italia, Calamandrei era professore di Procedura Civile all'Università di Firenze), le sfruttavano per la propaganda antifascista; Capitini e i suoi amici perugini (insieme a Ragghianti, che a Bologna seguiva la via capitiniana), preferivano, invece, evitare ogni collaborazione con il regime, basandosi su una propaganda diretta. L'entrata in guerra dell'Italia non modificò l'azione dei liberalsocialisti, che era orientata verso un'unione, sempre più stretta, con i gruppi dell'antifascismo borghese. Mentre la collaborazione con cattolici e comunisti era limitata ai contatti individuali, con i giellisti operanti in Italia si giunse presto ad una collaborazione organica. L'assonanza tra il nome del movimento di Capitini e Calogero ed il titolo del libro di Rosselli che diede la base teorica a Giustizia e Libertà non deve far credere ad una coincidenza fra i due gruppi. Come abbiamo visto, il movimento liberalsocialista, dalla nascita, fu privo di influssi rosselliani diretti, e, dedicandosi principalmente all'attività interna, evitò di proposito contatti con l'emigrazione giellista. Altra differenza tra liberalsocialismo e Giustizia e Libertà, sottolineata da Mario Delle Piane, era che " il socialismo liberale di Rosselli […] è una delle eresie del socialismo, mentre il liberalsocialismo è un'eresia del liberalismo ". Rosselli partiva, infatti, dalle posizioni di Bernstein e De Man, per svilupparle fino all'accettazione completa del metodo liberale: Calogero nasceva invece da una costola di Croce, giungendo fino alla riproposta delle istanze socialiste. In questo modo, i due movimenti erano giunti, da punti di partenza opposti, a conclusioni simili. Fu facile, quindi, trovare punti comuni per una collaborazione organica, in un convegno tenuto ad Assisi, nei primi mesi del '40, nella casa di Alberto Apponi, e cui parteciparono Calogero, Capitini, Norberto Bobbio, Apponi, Luporini, Codignola, Giuriolo per il movimento liberalsocialista, e Giorgio Agosti, Antonio Zanotti, Francesco Flora ed altri per Giustizia e Libertà. Il movimento raccoglieva sempre nuove adesioni, allentando le pressioni che l'avevano tutelato per quattro anni dall'intervento della polizia. Il primo a cadere nella rete dell'OVRA fu il gruppo pugliese, che venne sgominato quasi completamente all'inizio del 1942. Le indagini si estesero poi a Firenze, dove il 27 gennaio 1942 la polizia politica arrestò Calogero, Enriques Agnoletti, Codignola, Francovich e altri, insieme a Capitini a Perugia e a Ragghianti a Bologna, trasferiti tutti presso le carceri fiorentine delle Murate. Le indagini, molto accurate, durarono quattro mesi. Gli imputati resistettero con fermezza, negando ogni addebito e trasferendo ogni contatto con gli altri accusati sul piano culturale (Capitini portò come elemento di difesa il suo libro, Elementi di un'esperienza religiosa , che passò, dato il titolo, per un'innocua pubblicazione religiosa). In tal modo, la polizia non poté attribuire con certezza agli arrestati i documenti sequestrati e li condannò a pene minime. Capitini fu rilasciato dopo aver ricevuto una diffida. Le pene più gravi furono comminate ad Enriques Agnoletti e al tipografo Bruno Niccoli, condannati a cinque anni di confino perché in contatto anche con i giellisti. Codignola fu condannato a tre anni di confino, Calogero a due anni di confino a Scanno, in Abruzzo, gli altri se la cavarono con diffide e ammonizioni. Già nei mesi precedenti l'arresto del gruppo toscano e di Capitini erano iniziati i contatti tra liberalsocialisti e giellisti, da una parte, e democratici moderati, dall'altra. Soprattutto il gruppo milanese che faceva capo a Ugo La Malfa, Ferruccio Parri e Adolfo Tino premeva per l'unione degli antifascisti non socialisti e non cattolici in un partito che fosse in grado di esplicare un'azione antifascista adeguata al rapido tracollo del regime. Queste pressioni si scontravano con le perplessità di molti esponenti dei due movimenti, tra cui Capitini, nei confronti di una collaborazione organica con gruppi " piuttosto democratici repubblicani che socialisti ". A questo punto caddero l'arresto e la detenzione dei liberalsocialisti, che li tolsero dal dibattito politico per sei mesi, dal gennaio al giugno. In tal modo rimase campo libero per l'impostazione che La Malfa, il migliore politico del gruppo milanese, intendeva dare al partito: una formazione che si collocasse al centro dello schieramento politico, come partito di governo, espressione della borghesia piccola e media e dei suoi desideri di stabilità. La riunione che decise la nascita del partito, si tenne nella casa romana di Federico Comandini il 4 giugno 1942. Il giorno precedente erano stati inviati al confino i liberalsocialisti arrestati, mentre Capitini subiva la diffida e rientrava a Perugia controllato dalla polizia. Secondo De Luna alla riunione parteciparono La Malfa, Federico Comandini (cognato di Calogero, liberalsocialista ma vicino alle posizioni dei moderati), Mario Vinciguerra ed Edoardo Volterra (amici e collaboratori di Parri, in quel periodo fermato dalla polizia), il liberalsocialista perugino Franco Mercurelli, Vittorio Albasini Scrosati e Alberto Damiani, due giellisti milanesi amici di La Malfa, e due rappresentanti, non meglio identificati, per Italia meridionale e Sicilia. La rappresentanza dei liberalsocialisti era dunque fortemente minoritaria, sia sul piano quantitativo, sia su quello qualitativo. Di fronte ad uno dei più abili politici dell'antifascismo, si trovava, a difendere le ragioni dei 'movimentisti', solo una figura di secondo piano. D'altronde, anche la riunione preliminare tenutasi a Milano una settimana prima, nella quale erano stati definiti i 'sette punti' programmatici del futuro partito, aveva visto la presenza del solo Giuriolo, tra i collaboratori di Capitini e Calogero. I 'sette punti', elaborati da Ragghianti riflettendo le opinioni dei vari gruppi, avanzavano, nel campo economico, le prospettive di "economia a due settori" già teorizzate dai liberalsocialisti e dai giellisti. Sul piano giuridico, si riproponeva la pregiudiziale repubblicana. Mentre su quest'ultimo punto si registrava una completa unanimità, i progetti di nazionalizzazione erano concessioni fatte, per motivi puramente tattici, da La Malfa e dai suoi amici, poco convinti che spettasse al Partito d'Azione realizzare riforme di tipo socialista. Quando i confinati e i diffidati poterono, pur tra mille cautele, riprendere l'attività politica, si trovarono, così, di fronte alla scelta sul cornportamento da tenere nei confronti della nuova formazione politica. La maggioranza dei liberalsocialisti decise, individualmente, di aderire al nuovo partito. Tra questi, i nomi più famosi erano quelli di Calogero, Codignola, Enriques Agnoletti, Delle Piane, Fiore, Cifarelli (oltre a quelli non arrestati, come Apponi, Albertelli, Umberto Morra, Luigi Russo). Prima di accettare, Calogero chiese ed ottenne, da La Malfa, delle Precisazioni , che ribadissero l'importanza delle nazionalizzazioni previste.Nell'aprile e nel maggio del 1943 un'ondata di arresti e di denunce al Tribunale speciale colpì severamente il Partito d'Azione: a Milano furono arrestati Mario Vinciguerra e Antonio Zanotti; a Firenze Carlo Furno, a Siena Mario Delle Piane; a Ferrara Giorgio Bassani, a Modena Ragghianti, a Roma Federico Comandini, Sergio Fenoaltea, Bruno Visentini, a Bari Guido Calogero, Guido De Ruggiero, Tommaso Fiore. Arrestato dalla polizia fascista, Calogero fu condannato al confino a Scanno, in Abruzzo. Qui, nel settembre del '43, dopo l'armistizio, ritrovò il discepolo Carlo Azeglio Ciampi, che anche per la sua influenza aderì al Partito d'Azione. Nel dopoguerra, Calogero proseguì la sua battaglia per l'affermarsi delle idee liberalsocialiste. Mise al centro della propria riflessione il valore della libertà, ma, riprendendo criticamente i filosofi precedenti quali Hobbes, Hume, Locke e Smith, sosteneva che la libertà individuale non deve essere intesa egoisticamente. Calogero elaborò quindi un'etica dell'altruismo " tesa ad assumere in chiave laica il messaggio di solidarietà della morale cristiana ".Fu importante anche il suo rapporto con Norberto Bobbio. Rispondendo a Calogero, che nel novembre del '45 lo invitava a collaborare alla sua nuova rivista "Liberalsocialismo", Norberto Bobbio scriveva: " mi interessa e mi piace il programma della tua rivista ( .. ) per quanto l'esperienza ci abbia insegnato che le premesse per una politica 'liberalsocialista' in Italia non ci sono, o ci saranno tra due secoli. Faremo i predicatori nel deserto, come del resto abbiamo sempre fatto... ". Dopo lo scioglimento del Partito d'Azione, alle elezioni del '48, Calogero si schierò con il Fronte Popolare, insieme ad un folto gruppo di intellettuali e di personalità di grande prestigio, da Corrado Alvaro a Salvatore Quasimodo, da Renato Guttuso a Giorgio Bassani. Dal '49 collaborò con una rubrica fissa a "Il Mondo" di Mario Pannunzio, dalle cui colonne si battè per la scuola laica. Negli anni Cinquanta fu di nuovo al fianco di Capitini, a sostegno dell'azione che Danilo Dolci svolgeva in Sicilia contro la mafia. Da Norberto Bobbio a Carlo Levi, da Elio Vittorini ad Ignazio Silone, da Giulio Einaudi a Riccardo Bauer, forte e convinto venne il sostegno a Dolci. Nel dicembre del 1955 fu tra i fondatori del Partito radicale, inizialmente denominato Partito Radicale dei Democratici e dei Liberali Italiani, insieme a Leo Valiani, Francesco Compagna, Giovanni Ferrara, Felice Ippolito, Franco Libonati, Alberto Mondadori, Arrigo Olivetti, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Rosario Romeo, Ernesto Rossi, Nina Ruffini, Eugenio Scalfari, Paolo Ungari. Nel '58, fece parte della lista repubblicana-radicale per la Camera dei deputati, insieme a Pacciardi e a Luigi Delfini. Nel 1962 fu anche proposto come segretario del partito radicale(al suo posto venne poi eletto Leone Cattani), ma rifiutò per motivi personali. In seguito uscì dal partito, ma rimase vicino ai radicali. Il 30 ottobre del 1966, insieme ad alcuni ex azionisti (Bruno Zevi, Norberto Bobbio, Manlio Rossi Doria), aderì al partito socialista unificato, che riuniva il Psi e il Psdi. Diventato direttore di "Panorama", nel 1972 rilanciò il tema della doppia tessera (quella radicale e quella degli altri partiti) quale fattore di evoluzione dei partiti verso la costruzione di uno stato moderno a democrazia bipartitica, poiché " i suoi veri partiti sono sempre e soltanto due, la destra e la sinistra, il partito della conservazione e il partito delle riforme ". Morì nel 1986.

IL PENSIERO

Nella lunga attività di ricerca filosofica di Guido Calogero spicca in primo piano - basta dare una scorsa alla lunga serie di pubblicazioni che ha accompagnato la sua vita accademica - l'attenzione posta ai problemi logici del pensiero antico. In una prima e sommaria periodizzazione interna alle opere e all'attività di Calogero, si può rilevare che l'interesse per tali problemi occupa grosso modo una prima fase della sua ricerca scientifica. In tale ambito si collocano I fondamenti della logica aristotelica (1927), gli Studi sull'eleatismo (1932), i primi quattro capitoli della Storia della logica Antica (1967), nonché l'attiva collaborazione alla "Enciclopedia Italiana" che si sostanziò in una nutritissima serie di voci concernenti la filosofia antica (Socrate, Platone, Senofane, Logica etc) ed infine numerosi studi specialistici, molti dei quali dedicati alla traduzione, con commento ed interpretazione, di dialoghi platonici. I risultati teorici raggiunti in questi studi daranno luogo a una successiva serie di scritti quali La Conclusione della filosofia del conoscere (1938), La scuola dell'uomo (1939) e la progettazione delle Lezioni di Filosofia , che insieme possono costituire una seconda fase, in cui all'attività dello storico della filosofia antica si affianca e in parte si sostituisce l'enucleazione di quei temi che successivamente, con maggiore ampiezza e sviluppo, verranno trattati nella "Filosofia del dialogo", ultima fase e punto di approdo della più che trentennale attività del Nostro. E' necessario rilevare, come vedremo in seguito, che la suddetta ripartizione intende sottolineare dei motivi conduttori, non certo isolare cicli di ricerca cronologicamente e tematicamente autonomi, poiché l'intera produzione calogeriana non lo permetterebbe, permeata com'è da una unità di riflessione che, seppure con maggiore o minore grado di sviluppo, attraversa tutta la sua opera. L'interesse di Calogero per gli studi di logica antica ha un' origine ben precisa che data al 1924, anno in cui Giovanni Gentile riprese l'insegnamento all'Università di Roma dopo la parentesi ministeriale. Calogero seguì con vivo interesse le lezioni di Gentile e se ne entusiasmò a tal punto da decidere di dirottare il corso dei suoi studi, inizialmente avviati nel settore della filologia classica verso la filosofia. L'anno dopo infatti, appena ventunenne, si laureerà con una tesi sulla logica in Aristotele, che successivamente rielaborata darà luogo all'importante volume I fondamenti della logica aristotelica . In questo lavoro Calogero propone, nella forma di un'indagine serrata, aderente filologicamente ai testi, una interpretazione della logica aristotelica pietra angolare del grandioso edificio della logica occidentale che, se sarà decisiva ai fini della sua biografia intellettuale, desterà non di meno interesse e attenzione all'interno della comunità degli studiosi di Aristotele. Erano infatti quelli gli anni in cui un rinnovato interesse si incentrava sull'opera del grande Stagirita. Si pensi, per fare un esempio, agli studi di parte 'logicista' intrapresi dalla Scuola di Varsavia (Lukasiewicz, Bochenski, etc) tesi a riconsiderare le vecchie interpretazioni del Trendelenburg, del Prantl. In questa atmosfera si pone lo studio di Calogero ma il suo contributo va in direzione decisamente opposta agli esiti propugnati dai logici formali e a correzione della tradizionale interpretazione degli studiosi dell'800. E' bene subito notare che già in quest'ambito è possibile rintracciare le radici del futuro antilogicismo (e antignoseologismo) del Calogero, che costituisce uno dei motivi conduttori a cui si accennava sopra, e che senz'altro si pone a fondamento speculativo anche di quelle ricerche non direttamente riconducibili a questi temi. E ci sarà altresì utile notare che è da alcune impostazioni attualistiche che il lavoro prende le mosse precisamente da quelle espresse nel volume gentiliano Sistema di Logica come teoria del conoscere . In questo volume il filosofo attualista individuava nella logica classica il campo di pertinenza del 'logo astratto' o pensiero pensato e nella dialettica moderna quello del 'logo concreto' o pensiero pensante, tentando la conciliazione tra questi due momenti alla luce di uno tra i più importanti capisaldi della sua dottrina, quello della definitiva unificazione di teorico e pratico nell'assoluta unità spirituale. E' sotto la suggestione di questa problematica che Calogero intraprende il suo studio della logica classica, considerando l'immenso edificio fin dalle sue fondamenta (la logica aristotelica appunto) e tentando di estendere i risultati a cui perviene col suo criterio ermeneutico, ben oltre i confini della logica classica. Così operando, pone un nucleo di autonoma ricerca filosofica che si distacca dal mero operare dello storico della filosofia. L'assunto fondamentale del libro è costituito dalla necessità posta con vigore e forza d'analisi da Calogero di evidenziare e nettamente distinguere all'interno della logica aristotelica due momenti specifici dell'attività dello spirito conoscitivo: uno noetico e l'altro dianoetico . Il primo si configura come pura intuizione o appercezione intellettuale, " specchio peculiare della verità nella sua piena ed assoluta esistenza ", forma dell'autocoscienza divina, noesis noeseos , ed è il momento conoscitivo fondamentale. In esso pensante e pensato si identificano così perfettamente da costituirsi in indissolubile unità. Da tale momento discende l'attività dianoetica dell'intelletto. E' essa conoscenza del pensiero discorsivo, dispone infatti i contenuti noetici tramite l'analisi o la sintesi, nelle forme dei giudizi e delle argomentazioni. Ed è proprio in tale campo che opera la logica come scienza formale dei princìpi che regolano il ragionamento, con un metodo che fa astrazione dal contenuto. Mentre il nous ci fornisce un sapere immediato, adeguato perfettamente al reale, la dianoia rappresenta una forma di conoscenza inferiore, in quanto opera un' alterazione soggettiva del reale. Calogero mette in evidenza il carattere intuitivo dell'attività noetica, aliena da qualsiasi contaminazione logica propria dell'attività dianoetica, affermando la necessità, dopo averne operato la distinzione, di subordinare e risolvere quest'ultima in quella. Tale distinzione e subordinazione è per Calogero ben chiara già nella teorizzazione originaria aristotelica, ma ad essa fu infedele lo stesso Aristotele. Infatti, questi tentando di fondare una tecnica (l'Analitica) dell'analisi logica della conoscenza, staccata dal contenuto stesso di quest'ultima, capace di fornirci un criterio formale di verità, ha determinato nei suoi seguaci e nell'intera tradizione filosofica l' errore di confondere le verità noetiche con le verità dianoetiche , cioè di assegnare a quest'ultime la facoltà di esclusiva competenza delle prime, per cui quelle che erano le forme di mero collegamento logico acquistano la facoltà di rispecchiare tout-court il reale nella sua obiettiva e immediata esistenza. Per cui il risultato sorprendente cui perviene Calogero in questa ricerca lo porta ad affermare che come già per le antiche concezioni della metafisica " anche il problema della logica aristotelica [...] è un problema da rivivere, riconoscere e dimenticare " così come le vecchie e nuove posizioni logiche a gnoseologiche. Tale ricerca poneva così di fatto l'esigenza di una completa revisione della storia della logica classica, e del modo in cui essa era stata valutata ed assorbita dalla filosofia, moderna. Al fine di approfondire ulteriormente il problema logico, Calogero si dedicò a una sua ricostruzione storica, studiandone la configurazione che esso aveva assunto nel pensiero eleatico. Così dopo cinque anni dall'apparizione de I fondamenti della logica aristotelica , pubblicò i risultati di tali ricerche nel volume Studi sull'Eleatismo che apportava un rinnovamento nell'interpretazione dei testi e delle concezioni dei maggiori Eleati. Dopo tale studio specialistico, Calogero anticipò sommariamente le proprie idee, circa l'evoluzione della logica e della dialettica, antiche e moderne, mettendone in risalto le aporie in esse prodotte dal fraintendimento della struttura della logica aristotelica. Tale configurazione storica del problema ci viene presentata nella voce "Logica", pubblicata nell'Enciclopedia Italiana. E' questa una presentazione panoramica delle varie teorizzazioni logiche, dai presocratici fino alle posizioni, a lui contemporanee, di Croce e Gentile. In tale excursus Calogero illustra le conseguenze derivate nella trattazione della dottrina logica da parte dei seguaci di Aristotele dalla confusione e commistione tra attività noetica e attività dianoetica della conoscenza, la cui distinzione, peraltro già chiaramente teorizzata dal filosofo stagirita, è tuttavia fondamentale recuperare per poter intendere la effettiva struttura della logica aristotelica. La dottrina della conoscenza fino ad Aristotele fu, a suo giudizio, soprattutto logica e dopo di lui soprattutto gnoseologica, " giacché mentre in quel primo periodo, la capacità del pensiero ad attingere il reale fu in genere presupposta e l'indagine si riferì principalmente alle necessarie forme di tale pensiero, che venivano ad essere forme della realtà, nel secondo periodo, messa in questione quell'attitudine, il problema del criterio della verità, e cioè quello della distinzione fra le conoscenze che corrispondevano all'oggetto e quelle che non gli corrispondevano, venne in primo piano e soverchiò nel campo della dottrina della conoscenza ogni altra questione ". In questo passo Calogero ha come referente polemico i primi peripatetici (Teofrasto in primis) e i teorici del criterio di verità, cioè gli Stoici. Si veda ad esempio la mordace critica sollevata a proposito dei sillogismi ipotetici di questi ultimi, " sillogismi che non sillogizzavano nulla, perché [...] non fornivano che implicazioni tautologiche di constatazioni di fatto annuncianti la necessaria connessione o incompatibilità di due verità obiettive. Gli stoici elevarono a sistema questi tentativi dei primi peripatetici, con risultati che tradizionalmente irrisi, vorrebbero ora, coerentemente, rimettere in onore quegli storici e teorici della moderna logicistica, che partecipano fra le altre, anche di questa sofferta confusione mentale ". Come si vede, questa critica così radicale coinvolge oltre agli stoici, tutte le elaborazioni successive da quelle medievali a quella leibniziana a quella logicista tendenti a creare una scienza autonoma delle forme logiche. Per altro verso, Calogero aderisce alla critica mossa dalla scuola scettica al sillogismo aristotelico, che seppure non vinceva Aristotele, " mostrava una volta per sempre come lo massima creazione logica dell'antichità, non potesse mai servire come strumento per la conquista di nuovo sapere, ma solo come mezzo per riconoscere quali conoscenze fossero state implicite in altre già date ". Il sillogismo infatti per Calogero si configura non come forma di conoscenza ex novo ma come strumento di ulteriore analisi e approfondimento delle conoscenze già acquisite ( nota notae est nota rei ipsius ). Da ciò che si è finora detto appare in tutta la sua evidenza il carattere funzionale dello studio della logica antica a cui Calogero si è applicato fin dal lontano '25 per oltre un decennio. Studio, come si è visto, teso a verificare il principio secondo il quale è impossibile staccare, separandola dal soggetto pensante, una logica del pensato, costruirla quindi come scienza autonoma e pretendere con siffatto strumento aprioristico di esplicare una teoria delle forme della conoscenza. Negli anni successivi, soprattutto in occasione della compilazione del primo volume delle lezioni di filosofia (Logica, Gnoseologia, Ontologia) Calogero stigmatizzerà ogni tentativo di istituire una scienza della logica, ogni costituzione di leggi logiche, come impossibili costruzioni di " grimaldelli dell'assoluto ". Ma di questo si parlerà in seguito. Qui ci basti sottolineare ancora una volta che il serrato confronto con la logica antica attraverso lo studio dei presocratici, degli Eleati, di Socrate, di Platone e Aristotele , sarà insieme all'adesione a certe posizioni dell'attualismo (unità di teoretico e pratico) uno dei luoghi di decantazione dell'antintellettualismo e antiteoreticismo calogeriani e uno degli ambiti preparatori di quella "filosofia del fare" che tanta parte occupa nella " Filosofia del Dialogo ". In La Conclusione della filosofia del conoscere (1938) Calogero giudica ormai compiuta la filosofia del conoscere: se la filosofia è atto, l'atto è qualcosa che si vive e che ha, quindi, il significato di operare e modificare la realtà. Ne scaturisce la centralità dell'impegno etico, di cui Calogero, nel dopoguerra, ravviserà il criterio direttivo nel principio del dialogo, ovvero nel dovere di comprendere le ragioni degli altri. Calogero fa riferimento al rapporto fra gli individui, alla relazione dialogica, alla democrazia come ciò che rende possibile il dialogo, che non è la definizione più comune di democrazia, per cui usualmente si intende, appunto, il rapporto fra l´insieme dei singoli e il potere. Questo in Calogero è implicito. Egli si richiama costantemente al rapporto fra gli individui, al dialogo inteso come reciprocità, ad un continuo domandare e rispondere: la democrazia è vista attraverso il dialogo, che è regola fondamentale ma anche valore. L´ideale della democrazia come colloquio spiega in qualche modo anche la sua visione sociale degli assetti democratici: tutti devono avere la possibilità di prendere parte allo scambio dialogico, devono avere l´effettiva capacità e l´effettivo potere di discutere con gli altri. E´ forse qui che si può rinvenire un´istanza propriamente socialista, in quanto l´effettività presuppone forme di eguaglianza fra gli individui: l´idea di eguaglianza - principio guida dell´azione del movimento operaio fin dai suoi esordi - arricchisce il liberalismo, come ho sostenuto in più occasioni. Ma per Calogero eguaglianza e libertà sono intimamente unite, inseparabili e, attraverso la loro unità, definiscono i cardini di una società giusta. Qui può situarsi un fecondo spazio di congiunzione fra il liberalsocialismo e le odierne forme di contrattualismo rilanciate da John Rawls e ispirate al principio dell´equità. La ricerca di Calogero di coniugare le due universali aspirazioni di libertà ed eguaglianza fu continua e sostanziata da uno spirito che, in fondo in fondo, sembra richiamare - anche se in un contesto laico - la lezione evangelica. Una tendenza questa che si può rinvenire del resto anche in alcuni autori del laburismo inglese, esperienza politica alla quale, come accennato, Calogero guardava come fondamentale riferimento per le sorti della nostra democrazia e, in particolare, della sinistra. Il tentativo di enucleare alcuni caratteri irrinunciabili del sistema democratico, alla ricerca delle modalità e delle ragioni di una convivenza sostanziata di valori autentici, e la possibilità di sviluppare l´idea liberalsocialista al fine di realizzare una società giusta attestano, a tutt´oggi, la vitalità della riflessione politica di Calogero. Egli era un idealista immanentista, la sua filosofia derivava da quella che era allora la filosofia dominante in Italia. Ma sulla questione del diritto e della nonviolenza le loro posizioni erano senz´altro diverse, e alcuni passaggi del saggio I diritti dell´uomo e la natura della politica , contenuto in questa raccolta, ne sono una chiara dimostrazione. Un altro punto nodale è il suo modo di intendere il socialismo. La sua simpatia per questa prospettiva culturale e politica va senz´altro attribuita alla sua ammirazione per l´Inghilterra e per il laburismo. Naturalmente bisognerebbe anche rivedere il suo libro sul marxismo, Il metodo dell´economia e il marxismo , che a suo tempo ebbe una certa fortuna tra coloro che si stavano avviando sulla strada dell´antifascismo. Sarebbe una buona occasione, fra l´altro, per richiamare l´attenzione su un testo ormai dimenticato e che pure presenta, ancora oggi, qualche interesse rispetto al dibattito continuato e sempre attuale sulla storia del marxismo. Le istanze socialiste di Calogero si raccolgono attorno all´idea di una società giusta fondata sul dialogo e la reciprocità, su un´idea di democrazia come colloquio integrale perché tutti devono avere il diritto-dovere di prendervi parte. Scrive per esempio Calogero in L´abbiccì della democrazia : " l´unità della democrazia è l´unità degli uomini che, per qualunque motivo, sentono questo dovere di capirsi a vicenda e di tenere reciprocamente conto delle proprie opinioni e delle proprie preferenze ". E´ un modo singolare e originale di definire la democrazia. Quando si parla di democrazia s´intende, primariamente, la partecipazione al potere, richiamando una nozione di potere dal basso.

IL FUTURO E L'ETERNO

Nella rivista bimestrale "La Cultura" edita dal Grande Oriente d'Italia, Edizioni Erasmo, diretta da Guido Calogero -fascicolo 6, Novembre 1963 - è apparso un articolo firmato dallo stesso direttore ed intitolato: "il futuro e l'eterno". Calogero, in forza dei propri princìpi morali, assunse in ogni occasione ferme posizioni in difesa della libertà e della tolleranza, ritenendo quest'ultima una condizione irrinunciabile per assicurare la libertà. Calogero non era massone. Tuttavia egli accettò consapevolmente di dirigere una rivista edita dalla Massoneria di Palazzo Giustiniani e la diresse con il vigore morale che derivava dai suoi convincimenti umanitari, del vedere se stesso in mezzo agli altri e con gli altri e, quindi, con il proposito di intendere e di farsi intendere. Appare interessante, ed ancora attuale, il pensiero che egli esprime in quell'articolo, nel quale cerca di spiegare il suo punto di vista, su ciò che può mutare ed ha un futuro, e su ciò che non può mutare ed è eterno. Si tratta di aspetti che riguardano chiunque voglia accedere a quella che lui chiama " la bussola dell'universo ", di quello strumento cioè che, se bene utilizzato, è in grado di orientare correttamente le nostre azioni. Si domanda Calogero: " nel rapido mutare delle cose, sono per mutare anche i valori di fondo? La velocità delle nostre rotte farà impazzire anche le nostre bussole? C'è qualcosa a cui possiamo credere, al di là della critica di ogni fede? " E successivamente tenta di rispondere a questi inquietanti quesiti. Egli scrive:

" Allora mi è tornato in mente che, negli anni trenta, quando il problema fondamentale era quello di vincere il falso storicismo e di svegliare gli animi alla lotta per la libertà, il discorso che si faceva era apparentemente l'opposto, ma in realtà lo stesso, di quello che ancora oggi mi sembra necessario fare qui. Anche allora il problema era quello del rapporto tra il futuro e l'eterno, tra ciò che può cambiare domani e ciò che non può cambiare mai. In una famosa pagina dell'epilogo della sua "Storia d'Europa nel secolo decimonono", Croce, a chi si domandava se alla libertà fosse riservato l'avvenire, aveva risposto che essa aveva qualcosa di meglio che l'avvenire, perché aveva l'eterno. Era una formula potente ed era, in fondo, anche una verità. Ma noi allora contestavamo in essa quanto in essa era certamente da combattere: cioè il convincimento, conforme al vecchio storicismo vichiano e hegeliano, che certi valori fossero assicurati provvidenzialmente dalla storia, la quale si serbava razionale al di là di ogni personale tragedia degli individui. Di fronte a questo, noi ricordavamo che i valori sono le cose per cui si trepida, non le cose che sono garantite da una eterna necessità. Ci premeva la sorte del futuro, non l'immobile volto dell'eterno. E distinguevamo, giustamente, tra la libertà che non viene meno mai, quella che ciascuno di noi ha per se stesso e che nessuna prigione gli può togliere (la libertà di consentire o di non consentire, di approvare o disapprovare nell'intimo, per quanto ostacolato possa essere il proprio potere di esprimersi) e la libertà di questo stesso esprimersi, in ogni manifestazione e forma e attività della vita: quella libertà che può essere sempre ampliata o decurtata, garantita o messa in pericolo, ed al cui paritetico sviluppo è dedicata ogni struttura della civiltà. Quest'ultima libertà era, allora, a rischio mortale [...]. Oggi piuttosto che morire per mancanza di libertà noi sembriamo quasi soffrire di una malattia inversa, cioè del timore che ogni norma decada in arbitrio e che ogni stabilità si dissolva nel contingente, è necessario non già fare il discorso opposto, ma considerere l'opposto aspetto dì quella medesima verità. Se allora difendevamo il rischio e l'impegno del futuro contro la contemplazione dell'eterno, oggi, al fine di non lasciarci travolgere dalle sole incertezze del presente, non dobbiamo dimenticare che c'è anche l'eterno ".

"Ma quale è questo eterno?" E' questa la nuova domanda che si pone Calogero. Egli ravvisa nella " filosofia del dialogo " lo strumento idoneo per riconoscere l'eterno. Si spiega con un esempio. Ove vi fossero scienziati di gran lunga superiori ai Newton, agli Einstein, ai Fermi, capaci di trovare una interpretazione del mondo tanto soddisfacente da far credere che dopo non resti nient'altro da fare, salvo che " gioire e contemplare di tale siffatta finale verità ", e dicessero una cosa simile ai loro colleghi, si escluderebbero da soli dalla comunità della scienza. E ciò perché " anche nella scienza c'è un indiscutibile: ed è l'assoluto della discutibilità ". Chi non accetta questa regola di fondo, questo assoluto, consistente nel diritto di mettere qualsiasi conquista scientifica in discussione, in quel momento egli si pone fuori della comunità della scienza: " ogni universo scientifico può mutare, non già la libertà del discuterlo ". Con tale esempio egli indica, nel progredire della scienza, il futuro, e nel permanente diritto alla discutibilità, la continuità assoluta e quindi l'eterno. Un eterno, e questo va sottolineato per la sua importanza, non derivante da una condizione divina ma da una premessa condizionante, di origine umana, in base alla quale la scienza e il suo universo possono essere posti "sempre" in discussione. Si tratta di una premessa che esprime il diritto a disporre di una personale opinione sugli eventi scientifici, diritto alla cui base è posto perentoriamente un atteggiamento di tolleranza condiviso ed accettato da tutti. E proprio in questo atteggiamento sta il presupposto della filosofia o della " legge del dialogo ", come in altri punti del suo scritto la definisce Calogero. Filosofia o legge del dialogo, che allora costituiva un impegno al quale si debbono aperture inconsuete tra i diversi punti di vista religiosi, politici e filosofici. E proprio a quel periodo risale una prima apertura della Chiesa cattolica nei confronti delle chiese protestanti e finanche nei confronti della Massoneria. Egli prosegue ricercando il massimo profitto nell'esempio portato: " vediamo allora che la perenne regola del dialogo scientifico non è altro che la universale norma del mutuo intendersi, la quale è poi il fondamento di ogni etica, di ogni sistema di diritti, e quindi di ogni organizzazione civile ". E la legge del capire gli altri, così come si vuole essere capiti e di comportarsi in conseguenza: il ché, egli aggiunge maliziosamente, " è qualcosa di più che il semplice fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a sé, perché, alla stregua di questa seconda norma, noi potremmo imporre agli altri le nostre preferenze, e quindi sentirei dire da George Bernard Shaw che non dobbiamo fare agli altri quel che vorremmo fosse fatto a noi, in quanto essi potrebbero avere gusti diversi dai nostri ". " Nel suo spirito ", egli continua, " anche quella legge evangelica non è che la legge del dialogo come lo è la legge socratica del 'nemo sua sponte peccat' e quindi della perenne doverosità dell'intendere le altrui ragioni e del chiarire agli altri le proprie ". Calogero rafforza tale tesi aggiungendo che il valore di questa norma non dipende da chi l'ha scoperta o rivelata, dalla firma che porta: " nessuno ha il diritto d'autore su quello che è il fondamento di ogni diritto. Come diceva il re buddista Asoka: importa molto rispettare la propria filosofia,e religione, ma ancora più importa rispettare la religione degli altri. I discorsi possono essere compatibili o incompatibili, ma la regola del dialogo dei discorrenti trascende qualsiasi loro discorso [...]. Alla legge del dialogo noi possiamo conformarci o non conformarci, ma non possiamo mai evadere dal suo radicale dilemma. Possiamo anche gettare nel cestino il libro coi dilemmi di Zenone, quando non ci interessino quelle discussioni sulla unità e molteplicità. Ma non possiamo mai sfuggire a questa alternativa: o essere soli o essere con altri. O voglio intendere altri, oppure voglio restare solo con me stesso, cioè considerare l'universo come semplice strumento del mio volere [...]. La morale è una scelta per cui non è dato non scegliere: qualunque cosa si faccia si sceglie sempre una delle due alternative. Ogni moralità è sempre un'opzione, ma essa si esercita nel quadro di una dilemmatica che non è un'opzione perché è sempre e assolutamente e trascendentalmente necessaria ". Da questo ragionamento egli fa discendere quella che chiama "la bussola morale dell'universo": in ogni situazione cosmica possibile è sempre fermo il dilemma radicale del collaborare con gli altri o al suo contrario.Dopo tali indicazioni aggiunge altre considerazioni e altre domande:" che cosa importa allora chiedersi se la moralità sia del passato o dell'avvenire? La vera Morale è sempre la stessa per la eccellente ragione che è la legge di convivenza di tutti con gli altri, nella loro volontà di capirsi, di rispettarsi a vicenda. Tutti sono uguali di fronte a questa legge, quale che ne sia la stirpe o la chiesa: il prossimo, non colui che è figlio dello stesso padre, ma colui che è fatto prossimo dalla volontà di capirlo. Non c'è neppure bisogno che sia propriamente un uomo: può essere anche il lupo di Gubbio, come un Angelo o Dio. " Dopo aver accennato polemicamente alla facilità con cui i critici si gettano sulle novità stracciandosi le vesti per gridare al miracolo di una nuova estetica o di una nuova morale, Calogero li esorta ad una maggiore ponderatezza, ricordando che " quel che occorre è tener ben ferma la solidità dei criteri di fondo, perché c'è una eterna estetica, così come c'è una eterna morale." Mentre appare limpidamente espresso il pensiero di Calogero relativamente alla storicità ed alla eternità della morale, sicché se ne deduce che sebbene gli atteggiamenti possano mutare a causa del mutare delle circostanze, resta tuttavia un aspetto che non può mai mutare - il dilemma: Io con gli altri o Io da solo - viene da domandarsi se sia riuscito ad indicare con altrettanta chiarezza i presupposti di un possibile giudizio su ciò che è morale e ciò che morale non è. E' su questo punto che vale la pena di svolgere qualche ulteriore riflessione. Calogero individua nel dilemma dell'Io con gli altri o dell'Io da solo, e nella scelta ineludibile che esso porta con sé, l'eterno, ciò che non muta, che resta sempre uguale a se stesso. Che vi sia comunque e sempre un dilemma e che su questo dilemma si debba scegliere, è indubitabile ed inevitabile. E' tuttavia al senso della scelta, allorquando l'Io avrà deciso di stare con gli altri o di restare solo, che viene rinviata la comprensione del significato morale da attribuire al gesto compiuto, perché è solo nel momento della scelta che tale gesto potrà essere classificato o buono o cattivo. E se è incontestabile il contenuto morale del dilemma "Io con altri o da solo", altrettanto incontestabile appare l'osservazione che vede tale contenuto estrinsecarsi soltanto nel momento in cui i fatti si svolgono, ovvero quando avviene la scelta, ed è perciò giudicabile. Calogero non possedeva probabilmente la foga, né tantomeno la retorica, del predicatore, tantoché piuttosto che affermare, preferiva argomentare. Un più sottile modo di esprimersi, magari meno incisivo, ma certamente più convincente. Nel suo articolo Calogero non si dilunga molto per dire quale è la scelta giusta da fare, tuttavia lo fa con molta chiarezza e senza equivoci. E non solo perché lo ha dimostrato con la sua vita coerentemente condotta "con gli altri" e non da solo, sicché pochi possono vantare più di lui una partecipazione ai problemi di tutti, ma perché dalla sua indicazione discende l'eternità dei valori morali che egli intende condividere con gli altri, con tutte le conseguenze che ne derivano sul terreno della comprensione reciproca, su quello dei diritti, su quello dei doveri. A questo punto, c'è solo da prendere atto della coincidenza dei valori morali da lui indicati, con i valori che sono propri della Massoneria. Non c'è bisogno di spendere molte parole: l' Io con gli altri", ricordato da Calogero, è esaltato dalla Massoneria con la scelta dei valori della Fraternità, della Libertà, della Uguaglianza. Valori che sono i cardini di un sistema morale che dichiara esplicitamente la solidarietà e la comprensione tra tutti gli uomini della terra.

LA POLITICA

A cura di Vittorio Emanuele Esposito

Guido Calogero e Giovanni Gentile, suo primo maestro - cui si aggiunse, per scelta ideale, Benedetto Croce, la cui influenza sulla formazione del pensiero calogeriano fu almeno pari, se non superiore a quella del filosofo siciliano - intrattennero sempre rapporti di affettuosa amicizia e di reciproca stima, documentati dalle lettere che si scambiarono anche nei momenti più critici della loro esistenza. Ciò non toglie che il giovane allievo, manifestando fin dall’inizio grande indipendenza mentale, assumesse posizioni radicalmente critiche nei confronti delle sovrastrutture metafisiche dell’attualismo di Gentile e dello storicismo di Croce ( al quale ultimo rimproverò il teologismo e il provvidenzialismo di matrice hegeliana) e combattesse, anche se in misura e forme diverse, le scelte politiche di entrambi, cioè l’identificazione del primo con il fascismo e il liberalismo di stampo conservatore del secondo. Per parte sua Calogero si schierò subito, per disposizione del suo animo e grazie all’assimilazione dello spirito dei greci, al suo apprezzamento dei modelli anglosassoni e allo studio di John Dewey, a favore dell’ideale di una democrazia integrale in cui la partecipazione e la discussione delle scelte di interesse collettivo doveva diventare costume di vita e in cui la libertà dell’uno doveva trovare il proprio limite nella pari libertà degli altri, coniugandosi con la giustizia economica e l’uguaglianza sociale. Gentile, pur soffrendo per gli atteggiamenti ribelli del suo discepolo, nella liberalità che indubbiamente fu un aspetto caratterizzante della sua persona, gli affidò il compito di redigere gli articoli di filosofia e di storia della filosofia per l’ Enciclopedia Italiana, di cui era direttore. Dal 1928 al 1937 Calogero scrisse, infatti, per l’Enciclopedia più di 700 voci, che ancora oggi si leggono con grande interesse, per l’ampiezza e la profondità delle sue conoscenze, soprattutto nel campo della filosofia greca, e per l’ originalità interpretativa rispetto a molti luoghi comuni della filosofia accademica. Gentile intervenne anche più volte perché venisse rinnovato il passaporto al giovane professore, schedato dalla polizia politica come antifascista fin dal 1929. Ottenuta la cattedra di Storia della filosofia all’ Università di Pisa, negli anni Trenta, Calogero tenne contemporaneamente seminari e curò esercitazioni di storia di filosofia antica presso la Normale, discutendo fino a tarda notte con i suoi studenti, sempre con puntuali riferimenti, citati a memoria, di testi filosofici e dossografici. Ma, disobbedendo ai divieti opposti sotto forma di paterni consigli da Gentile, le sue lezioni e le sue conversazioni avevano spesso come oggetto autori ‘filo-semiti’ ,come E.Cassirer, e filosofi contemporanei come W.James, che gli consentivano di mettere a fuoco tematiche etico-politiche e di intraprendere quell’opera di rieducazione e rinnovamento delle coscienze di cui avvertiva l’urgente bisogno a causa dell’oppressione esercitata dalla dittatura e del clima di grigio conformismo che si era diffuso nella scuola e nell’università. Per la natura del suo insegnamento, affiancato presto dall’attività clandestina, attirò su di sé l’attenzione della polizia fascista . Decisivo in questi anni fu l’incontro con Aldo Capitini, teorico della non violenza, ispiratore delle marce della pace ed autore del saggio Elementi di un’esperienza religiosa in cui Calogero riscontrò una forte consonanza con la propria tesi dell’autonomia e dell’assolutezza della scelta morale e con la propria opposizione etica al fascismo, nonostante non ne condividesse l’ istanza religiosa e nutrisse riserve sul ‘metodo’ della non violenza. Dal sodalizio spirituale tra Capitini e Calogero nacque l’idea di dar vita ad un movimento culturale e politico nel quale i giovani intellettuali che, dopo la guerra di Spagna, si opponevano sempre più apertamente al fascismo trovassero le basi ideali e morali per condurre una lotta rigeneratrice. Il movimento fu denominato liberalsocialismo da Calogero che ne scrisse anche il Manifesto, con un esplicito richiamo al socialismo liberale di Carlo Rosselli, ma, insieme, con la volontà di sottolineare la sua estraneità alla tradizione marxista. Al movimento aderirono Enzo Enriques Agnoletti, Tristano Codignola, Luigi Russo, Piero Calamandrei, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Alberto Carocci, Carlo Francovich, Ludovico Ragghianti, Raffaello Ramat. Vi furono vicini anche l’attuale Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e Norberto Bobbio, il quale, prima di morire, ebbe modo di sottolineare la vitalità e l’attualità del liberalsocialismo, indicandolo come possibile prospettiva per una sinistra rinnovata dopo la fine del comunismo. Già in precedenza, negli anni Sessanta, Bobbio aveva sintetizzato il problema della sinistra italiana dicendo a Giorgio Amendola : "Noi abbiamo bisogno della vostra forza, ma voi avete bisogno dei nostri principi”. In effetti il liberalsocialismo nacque per porre rimedio, in nome del socialismo, agli squilibri economici e sociali prodotti da un liberismo economico senza altra regola che quella del profitto personale e di parte, che progressivamente restringe l’area della ricchezza e del potere e dilata quella della miseria e della subalternità. La svolta autoritaria incombe sempre quando questa situazione si estremizza. Da questo punto di vista il movimento di Calogero e Capitini era una ripresa della democrazia risorgimentale e del pensiero di Mazzini che vedeva nella soluzione della questione sociale, ottenuta con il metodo della libertà, la condizione per l’equilibrio interno e internazionale. Il movimento, che aveva cellule organizzative a Firenze, Perugia, Bologna, Roma e Bari stabilì una collaborazione organica con i gruppi di “Giustizia e Libertà”, che si ispiravano alle idee di Carlo Rosselli (ucciso in Francia nel 1937 insieme al fratello Nello da una banda di fascisti francesi, forse su mandato di Mussolini) e successivamente con il gruppo milanese dei democratici moderati che facevano capo a Ugo La Malfa, Ferruccio Parri e Adolfo Tino. Queste tre componenti diedero vita, poi, al Partito d’Azione, cui si deve l’intransigente opzione a favore dello Stato repubblicano, contro la tendenza al compromesso con la monarchia che accomunava, per motivi diversi, i liberali di Croce e i comunisti di Togliatti. Calogero fu arrestato la prima volta nel febbraio del 1942 e rinchiuso in una cella del carcere delle Murate a Firenze. Qui ottenne il privilegio di poter scrivere e, in pochi mesi, compose i tre volumi delle Lezioni di filosofia, dedicati rispettivamente alla Logica, all’Etica e all’ Estetica. In quei mesi di intensa concentrazione, ma di ‘clausura spirituale’ e di ‘mancanza di comunicativa’, egli ebbe modo di rinnovare la sua fede nell’ ‘universale colloquio umano’ e di vedere con maggiore convinzione nel linguaggio, ovvero nel pensiero che si atteggia in forma comunicativa e si apre al pensiero e all’esperienza degli altri, l’unico modo di evadere ‘dal chiuso carcere di se stessi’ , di affrancarsi dal buio e di uscire dalle tenebre per conquistare la luce. Il carcere fu poi trasformato in confino e Calogero si trasferì a Scanno in Abruzzo con la sua famiglia. Nella primavera del 1943 una nuova ondata di arresti si abbattè sui componenti del neonato Partito d’Azione. Tra questi: lo scrittore Giorgio Bassani, il filosofo Guido De Ruggiero e lo stesso Calogero, che fu arrestato per la seconda volta a Bari nel luglio di quell’anno e subito dopo liberato. Ritornò allora a Scanno per riabbracciare la famiglia e qui fu raggiunto da Carlo Azeglio Ciampi, che era stato suo discepolo alla Normale di Pisa e che trascorse con lui sei mesi, aiutandolo a battere a macchina i manoscritti delle Lezioni di filosofia. Ciampi passò poi le linee per riprendere servizio nell’esercito italiano il giorno stesso dell’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo), in cui trovò la morte un altro diletto allievo di Calogero: Pilo Albertelli. Calogero rimase, invece, nel territorio occupato dai tedeschi. Dopo la Liberazione egli si dedicò ad elaborare gli assetti istituzionali più adeguati alla propria idea di democrazia integrale, assegnando un rilievo di primaria importanza alla legge costituzionale, nella parte relativa ai principi e in quella riguardante l’ordinamento dello Stato. Nella sua concezione, infatti, il diritto, che ha le proprie radici nell’etica del dialogo, assume priorità sul mondo della politica, che è esercizio di persuasione, ma anche di forza e di coazione e deve, perciò, essere disciplinato dall’ordinamento giuridico e incontrare il proprio limite nei diritti dell’uomo e del cittadino. Per questo egli accentuava il ruolo della Corte costituzionale, come organo di garanzia totalmente autonomo e al di sopra delle parti. Occorre anche ricordare che egli fondò a Roma la prima scuola per operatori sociali (CEPAS), considerando gli assistenti sociali come “necessari collaboratori della convivenza civile”. In seguito allo scioglimento del Partito d’Azione per gli insanabili contrasti tra l’ala democratica liberale e l’ala socialista, Calogero, insieme a molti intellettuali di prestigio come Corrado Alvaro, Salvatore Quasimodo, Renato Guttuso e Giorgio Bassani aderì al Fronte Popolare. La sua battaglia per la filosofia del dialogo e per la democrazia continuò sulle colonne de “Il Mondo” di Mario Pannunzio. Molti di questi articoli, pubblicati nella rubrica intitolata “Quaderno”, furono poi raccolti nel libro Quaderno Laico (1967). Uno dei temi prediletti fu quello della scuola, che Calogero voleva rinnovata attraverso un rapporto dialogico tra insegnanti e studenti, che fosse reciproco apprendimento e produzione di una cultura nuova e comune, e voleva soprattutto sottratta ad ogni indottrinamento di natura religiosa, filosofica o ideologica. Con Aldo Capitini ed altri intellettuali sostenne l’azione di Danilo Dolci contro la mafia. Nel 1955 insieme a Leo Valiani, Francesco Compagna, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Ernesto Rossi, Rosario Romeo, Eugenio Scalfari, Arrigo Olivetti ed altri fondò il Partito Radicale. Alcuni anni dopo abbandonò il partito per aderire al Partito Socialista Unificato, ma fu sostenitore della doppia tessera e continuò a battersi per la democrazia bipartitica, prospettata dai radicali, convinto che “i veri partiti sono sempre e soltanto due, la destra e la sinistra, il partito della conservazione e il partito delle riforme” Nel 1972 divenne direttore di “Panorama”. I temi più propriamente filosofici vennero sviluppati su “La cultura”, la rivista di Cesare De Lollis, cui Calogero aveva collaborato in gioventù e che egli riportò a nuova vita, a partire dal 1963, insieme al genero Gennaro Sasso, poi a lui subentrato nella direzione. In essa Calogero sintetizzava la sua appassionata esperienza intellettuale con il richiamo a Socrate: il meghiston agathon, il bene supremo, è lo stesso principio del dialogo che impone di dare e chiedere sempre conto delle nostre reciproche opinioni e di sforzarci di comprendere gli altri senza giudicarli. Il liberalsocialismo ebbe un proprio manifesto redatto in gran parte e poi rielaborato dallo stesso Calogero nel 1940. In esso veniva enunciato, in premessa, il proponimento di combattere “per l’unico e indivisibile ideale della giustizia e della libertà”, opponendosi tanto al conservatorismo che si traveste da liberalismo, quanto all’estremismo sociale che non tiene nel debito conto l’esigenza della libertà e riconoscendo come proprio nemico il fascismo, come ideologia illiberale e antiugualitaria e come regime che esprimeva interessi oligarchici. Libertà e giustizia devono essere entrambe sempre presenti e operanti, devono, cioè, essere volute sempre insieme e, dunque, nei programmi e nell’azione politica, l’una non deve essere mai disgiunta e sacrificata all’altra Tale assunto scaturisce direttamente dal principio etico dell’altruismo (non c’è vita morale senza riconoscimento del diritto altrui) successivamente formulato da Calogero come principio del dialogo, che costituisce l’unico metro di giudizio della storia e il canone dell’autentico progresso. La storia e la politica si giudicano, infatti, in base ai concreti avanzamenti verso più ampie e ricche possibilità di vita, ma, insieme, verso una sempre maggiore parità del diritto degli individui di fruirne, cioè verso una sempre più equa distribuzione sia dei beni spirituali, come l’istruzione e la cultura, sia dei beni materiali ed economici. In questo progresso soltanto consiste la civiltà. Se la battaglia per le libertà civili e politiche ha avuto successo ed oggi, ad esempio, la libertà di parola e di voto sono state acquisite come diritto di tutti, non altrettanto è accaduto per la libertà economica che esiste in forma altamente sperequata: per alcuni come libertà di appropriarsi della ricchezza collettiva in misura soverchiante e per altri come libertà di morire di fame. La libertà che si deve volere, l’unica che può rappresentare un valore per tutti e che è in grado di animare e nobilitare la lotta politica, è per Calogero la libertà giusta. Nel mondo odierno, però, sussiste meno giustizia che libertà. Anche se la battaglia per i diritti civili e politici è lontana dall’essere compiuta e vinta e richiede sul piano interno e internazionale il massimo impegno, un impegno ancora più ampio e determinato occorre per l’uguaglianza economica Per questo all’educazione liberale, che riguarda le libertà formali, si deve affiancare l’educazione socialista che riguarda la garanzia delle condizioni materiali necessarie a ciascuno per potersi affermare nella vita. Suo compito specifico è quello di contrastare e modificare il gusto ancora prevalente di possedere più degli altri, allo stesso modo in cui, nell’età moderna, sono stati combattuti i privilegi sociali e politici, ottenendo un radicale cambiamento di mentalità. Da queste premesse derivano i due principi fondamentali del liberalsocialismo: 1. assicurare la libertà nel suo funzionamento effettivo 2. costruire il socialismo attraverso questa libertà Da un lato occorre rafforzare il fronte comune delle libertà, dall’altro mettere mano a riforme sociali che siano figlie della democrazia e della libertà. Una delle prime mete da raggiungere nel campo delle riforme sociali è la massima proporzionalità possibile tra il lavoro che si compie e il bene economico di cui si dispone. I mezzi tecnici e giuridici per realizzare questo intento saranno graduati in rapporto alle possibilità della situazione, ma la linea di tendenza è quella della battaglia contro il godimento sedentario dell’accumulato e dell’ereditato. Man mano che contadini, operai, tecnici e dirigenti saranno capaci di agire come imprenditori e amministratori, la figura del proprietario puro dovrà scomparire. Quanto più si svilupperà lo spirito della solidarietà e dell’uguaglianza, tanto più sarà possibile ravvicinare le distanze fra i compensi delle varie forme di lavoro, senza inaridire il gusto dell’operosità e l’iniziativa creatrice. L’istanza anticapitalistica contenuta in queste proposizioni è radicale, anche se temperata dal riferimento alle concrete possibilità offerte dalla situazione storica e dalla consapevolezza delle difficoltà oggettive e soggettive che si oppongono. Ma non c’è dubbio che occorra impiantare nella coscienza morale degli uomini l’ideale cristiano e mazziniano della giustizia e dell’uguaglianza anche sul piano della ricchezza: “…bisogna tanto suscitare nel proprio animo il gusto di lavorare e di produrre, quanto reprimervi quello del guadagnare e del possedere in misura soverchiante la media comune.[Il liberalsocialismo] vuole… che ciascuno sia compensato, con la ricchezza prodotta, in misura congrua al suo effettivo lavoro, vuole che non sia riconosciuta la legittimità del possesso ed uso privato del puro interesse del capitale, ma solo quella della reale attività e fatica dell’imprenditore e del dirigente, vuole che con la ricchezza appartenente alla società…venga assicurato ad ognuno il diritto di partecipare al lavoro comune e di raggiungere la piena esplicazione delle proprie attitudini, e parimenti venga assicurato uno speciale soccorso per tutti coloro che si trovino in condizioni di inferiorità …” Il raggiungimento di queste mete rende necessario uno sforzo di ideazione degli assetti politici e giuridici più adatti a far procedere la civiltà in direzione della sempre maggiore socialità della ricchezza. Nello specifico il Manifesto accenna a norme regolanti la successione legittima, l’amministrazione delle società anonime, gli orari e i salari dei lavoratori, che devono essere sottratti al privato arbitrio economico del testante, dell’amministratore e del datore di lavoro. Sul piano internazionale il liberalsociocialismo –viene affermato- difende gli stessi principi di libertà e di giustizia per tutti. Di conseguenza: Niente nazionalismo, niente razzismo, niente imperialismo, niente distinzione di principio fra politica ed etica, ma difesa di ogni organismo che favorisca la realizzazione di questi principi nel mondo, internazionalizzazione…delle colonie [siamo negli anni quaranta, ndr] e delle grandi fonti di materie prime e progressiva estensione dei diritti di cittadinanza al di là dei limiti delle nazioni. Il liberalsocialismo, avendo fatto tesoro del meglio delle tradizioni politiche dei grandi partiti, riconosce ai liberali di essere stati i protagonisti della lotta per la libertà, ma rimprovera ad essi l’incertezza che li ha indotti all’iniziale propensione per il fascismo in nome dello Stato forte, lasciando la libertà ai nemici della libertà; ai marxisti, del socialismo e del comunismo, dice: la nostra aspirazione è la vostra aspirazione, la nostra verità è la vostra verità, quando essa sia liberata dai miti del materialismo storico e del socialismo scientifico e ricorda che Marx scrisse il Manifesto e il Capitale a Londra all’ombra delle libertà inglesi; ai cattolici, infine, fa presente che il suo ideale non è altro che l’eterno ideale del Vangelo, essendo il liberalsocialismo una forma di cristianesimo pratico, calato nella realtà: “ Chi ama il suo prossimo come se stesso, non può non lavorare per la giustizia e per la libertà”.

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