PANTALEO CARABELLESE



A cura di Lorenzo Marras

CARABELLESE"Del mio vivere ho poco da dire. Sono nato a Molfetta il 6 luglio 1877; ho sempre tratto i mezzi del mio sostentamento dalla mia opera di insegnante: della scuola ho percorso tutti i gradi: l’insegnare mi è stato di aiuto a filosofare: credo di non aver tradito le esigenze dell’uno e dell’altro, e non le ho trovate incompatibili tra loro". "Del mio vivere ho poco da dire..." in fondo qualsiasi biografia di Pantaleo Carabellese si potrebbe arrestare a questo punto. Queste scarne parole tradiscono, forse meglio di ogni cronologia, l’inestricabile nesso che cinge in un unicum il pensiero e la vita di questo autore così austero,sicuramente uno dei pensatori più austeri dello scorso secolo, e così totalmente immerso nel lavoro del filosofare che il chiasmo "la sua vita sono le opere e il lavoro filosofico è la sua biografia" forse trova nella sua figura una reale autenticità. Aggiungendo alla frase citata in esergo la data del decesso, avvenuto il 19 settembre del 1948, il resto della biografia di Carabellese potrebbe essere scandita da poche altre date significative e quasi sempre legate alla pubblicazione delle sue opere oppure al suo insegnamento. Nel 1901 Carabellese consegue a Napoli la laurea in Storia (pubblicata nel 1910), Sulla vetta ierocratica del Papato e nel 1906 a Roma la laurea in Filosofia con una tesi sulla Teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini pubblicata nel 1907 con una presentazione di Bernardino Varisco. La libera docenza in Filosofia Teoretica viene conseguita per titoli nel 1917 mentre si trova al fronte. Nel 1921 Carabellese pubblica la Critica del concreto, certamente la sua opera più famosa, che avrà due ristampe (1940;1948) e una traduzione di alcune parti, insieme a quelle di altri testi, in francese, ma che dalla morte dell’autore non troverà più una riedizione ed è tuttora praticamente introvabile. Di particolare interesse risultano le vicende redazionali delle riedizioni che vanno al di là della semplice ristampa e questo perché in alcune parti si tratta di una completa rielaborazione e in molti punti le aggiunte e le correzioni sono sostanziali; tali aggiunte e rielaborazioni costituiscono forse lo specchio, un po’ come i romanzi per Jacobi, di un vero e proprio filosofare in divenire il cui studio analitico ancora attende di essere svolto. Negli anni tra il ’22 e il ’29 Carabellese tiene corsi di Filosofia Teoretica a Palermo i quali, nell’approfondimento dell’amatissimo Kant e del pensiero dell’aetas kantiana, contribuiranno costitutivamente all’elaborazione dei fondamentali ed originali studi, rispetto ad una lettura oramai stereotipata, proprio su Kant e sul pensiero postkantiano fino a Fichte (La filosofia di Kant. Vol.I L’idea teologica, 1927; Il problema della filosofia da Kant a Fichte, 1929), ma porteranno anche alla pubblicazione di importanti traduzioni di opere kantiane, Scritti minori/precritici (1923) e Prolegomeni ad ogni metafisica futura (1925). Traduzioni, queste, la prima delle quali per molti versi tradisce già nella scelta la posizione fortemente critica di Carabellese verso l’attualismo di Giovanni Gentile, con cui tra l’altro era legato da cordialissimi rapporti, mentre la seconda ci tramanda un commento letterale, oggi si direbbe filologico, che oltre ad essere per diversi aspetti ancora insuperato costituisce una vera e propria opera nell’opera. Il 1931 è l’anno della pubblicazione del testo Il problema teologico come filosofia, forse l’opera organicamente più complessa e, per dir così, matura del pensiero di Carabellese, vero spartiacque del pensiero, crinale di un approfondimento incessante il quale permetterà nei seguenti anni, più che un’evoluzione, proprio un approfondimento, nel senso di scavo ed esplicitazione lungo la stessa via, della "cosa stessa" carabellesiana "complicata" in queste opere palermitane; approfondimento che peraltro coincide con gli anni (1929-1948) dell’insegnamento all’Università di Roma prima come ordinario di Storia della Filosofia (1929-44) e poi (dal 1944 al 1948) come ordinario di Filosofia Teoretica. Nel 1936, unico avvenimento rilevante insieme con gli anni trascorsi al fronte nel rigido monismo speculativo di una vita dedita al pensiero, si sposa con Irene Gentile. Di questi anni sono gli studi sull’ontologismo e l’idealismo italiano (L’idealismo italiano, 1938, 19462); il serrato confronto con Cartesio e con il problema dell’argomento ontologico (Le obbiezioni al cartesianesimo, 3 voll., 1946; Il circolo vizioso in Cartesio, 1938), e la loro sintesi storica nel volume dal titolo programmatico Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell’ontologismo critico (1946). Tutti questi lavori non denotano certo un allentamento della tensione "kantiana" bensì una sua maggiore problematizzazione, evidente sia nella traduzione della Fondazione della metafisica dei costumi del 1936, e nell’opera Il problema della filosofia in Kant. Guida allo studio dei Prolegomeni (1938), sia nei corsi universitari degli anni quaranta sul problema dell’esistenza in Kant (1940-1943) e pubblicati postumi nel 1969 con il titolo La filosofia dell’esistenza di Kant (1969). Proprio gli anni quaranta segnano un periodo di forte "ripiegamento" su se stesso dell’Autore, di messa in discussione ed esplicitazione della propria posizione filosofica, si potrebbe dire di "sistemazione", se questo non implicasse l’utilizzo di un sostantivo che tradirebbe lo spirito sempre "aperto" del filosofare di Carabellese e che peraltro fu da lui sempre, esplicitamente o no, avversato. Testimoni di questa "messa in discussione" sono le dispense litografate dei corsi universitari dal 1943 al 1947 (L’essere e la manifestazione parte I e parte II; L’attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell’essere; Disegno storico della filosofia come oggettiva riflessione pura) nonché quasi tutti gli articoli pubblicati negli anni quaranta (ad esempio La nuova critica e il suo principio, 1940; La coscienza, 1944; L’essere, 1948). Purtroppo ancora non esiste una edizione di queste dispense litografate, senza le quali qualsiasi giudizio su Carabellese sarebbe menomato (per esempio nella comprensione delle variazioni della Critica del concreto del 1948). Ne sono in circolazione soltanto poche copie, alcune delle quali sono presenti nella Biblioteca di Filosofia dell’Università la Sapienza a Roma ed in quella dell’Università di Bari. Insieme a queste opere un’importanza rilevante assumono le diverse voci che l’autore ha composto per l’Enciclopedia Italiana che, tutt’altro che estrinseche, già alla semplice elencazione descrivono e racchiudono un orizzonte chiaro e ben definito il quale riflette un tessuto concettuale che anche da solo lascia trasparire la complessa personalità intellettuale di Pantaleo Carabellese: Appercezione, Astratto, Certezza, Concreto, Cosa in sé, Errore, Fichte, Jacobi, Kant, Varisco. Carabellese generalmente amava definire la sua filosofia "ontologismo critico", definizione con la quale essa viene per lo più ricordata, ma che non ne esaurisce certo la complessità e peraltro potrebbe creare alcune confusioni con la posizione per esempio di Rosmini, la filosofia del quale viene spesso denominata proprio "ontologia critica". In questo senso, nel senso cioè di una irriducibilità della filosofia di Carabellese alla sola definizione di ontologismo critico, ci si trova di fronte ad un’elaborazione che potrebbe con il medesimo diritto chiamarsi metafisica critica, teologia critica, ontocoscienzialismo, critica della concretezza, spiritualismo dell’essere. Pensatore difficile, talvolta astruso, che pochi conoscono e quasi nessuno, anche in Italia, conosce a fondo, Carabellese non è mai stato un pensatore famoso neanche all’apice della sua carriera (anni trenta-quaranta). Non ha fondato alcuna scuola e praticamente non ha avuto "allievi". Si racconta che alcuni corsi, gli ultimi in particolare, erano seguiti al massimo da tre o quattro studenti. Eppure la dimenticanza e le incomprensioni che lo hanno avvolto non rendono giustizia alla vastità e alla complessità delle sue opere, alla rigorosità estrema e alla logica implacabile del suo argomentare e del suo pensare che non concedevano nulla alle "immagini", né alla serietà dei suoi lavori storiografici e alla profondità di un pensiero in continua sfida con gli acritici "luoghi comuni" di una certa filosofia dell’epoca e con l’adesione dogmatica a formule e stilemi stereotipati. Sfida questa che lo ha portato ad assumere posizioni controcorrente, a battere sentieri all’epoca considerati impraticabili se non folli e a cambiare direzione rispetto alle mode passeggere, a ritornare su problemi antichi e considerati già da tempo superati e risolti definitivamente se non addirittura inutili (una delle accuse più frequenti è stata quella di "arcaismo filosofico", come se in filosofia ci fossero problemi nuovi o vecchi e ad ogni problema una risposta). Tutto ciò si è riflettuto nell’impresa di una elaborazione personale che non solo si ergeva solitaria (o con pochi altri: Varisco e/o Castelli il quale però solo più tardi avrebbe dato una fisionomia "forte", o "debole" che dir si voglia, al proprio pensiero) al di là dello storicismo e dell’attualismo, ma persino li combatteva a viso aperto su tutti i fronti. Ed ecco quindi che Carabellese diviene l’autore che riscopre come fondamentali gli scritti precritici kantiani, che propone fin dai primi anni venti un’interpretazione metafisica di Kant e una nuova interpretazione della "cosa in sé" al di là dei travisamenti postkantiani e di quello che si suol chiamare idealismo. Su questi presupposti Carabellese diventa uno dei pochi autori, se non l’unico almeno in campo laico, che tenta una elaborazione in grande stile di una ontologia e sopratutto una metafisica critica nelle quali le categorie di soggettività ed oggettività vengono ridefinite rispetto al classico dualismo (oggetto come essere e soggetto come conoscente che essendo altro dall’essere propriamente "non è") al fine di evitare l’errore di assolutizzare la loro contrapposizione, il loro fronteggiarsi irriducibile, ed ogni loro esteriorità (infatti per Carabellese "l’esterno non esiste") per ricomprenderli in quel "circolo solido" della concretezza dove l’Oggetto - come essere di coscienza puro(Dio) - e i Soggetti - come esistenti "testimoni dell’Oggetto/Essere" a loro immanente e allo stesso tempo trascendente nel preciso senso di una sua irriducibile alterità (come alterità dell’essere) ed inesauribiltà - divengono costitutivi, in un’interdipendenza ontologica, di questa "originaria organicità divisa in se stessa". Battere questa strada ha condotto Carabellese, quasi necessariamente, verso un’"inaudita" riformulazione e rivalutazione dell’argomento ontologico in campo critico e all’elaborazione di una vera e propria teologia apersonalistica se non, come in alcune occasioni egli ha tranquillamente affermato, di un vero e proprio panteismo seppur passato attraverso la mediazione della critica kantiana. Un brunismo formato Kant potremmo ironicamente dire, ma con un’ironia che trova la sua serietà nell’importanza che Carabellese attribuiva al pensiero di Giordano Bruno non soltanto in chiave di attualità storiografica ma, questo sì singolare, anche in quella teoretica, importanza evidente anche nei numerosi motivi e debiti bruniani che ricorrono continuamente nelle sua opere (si veda anche il non certo casuale lavoro di tesi di una sua allieva, Maria Saracista, su La filosofia di Giordano Bruno nei suoi motivi plotiniani, pubblicata nel 1935 con una sua prefazione). Inoltre, la continua ricerca di un concetto di religione, nella sua inscindibile differenza e quindi nel suo rapporto costitutivo con la filosofia, che prescinda dai presupposti realistici come da quelli dogmatici rappresenta una costante del filosofare carabellesiano: la convinzione che soggiace le chef-d’œuvre del ‘31 è proprio quella che il carattere fondamentale del problema oggettivo della filosofia sia eminentemente teologico, ma, naturalmente, di una teologia acentrica. E non solo, ecco in Carabellese l’autore che abbozza un teoria della costituzione e della relazione di una pluralità di soggetti che il termine ultrahusserliano intersoggettività non farebbe altro che confondere, vista l’eterogeneità delle prospettive in questione (in quel periodo in Italia tra i pochi che erano soliti parlare di intersoggettività c’era Gioele Solari). Ma soprattutto ecco l’autore che tenta, pur di non adagiarsi sul "noto", una revisione critica di tutto un determinato lessico filosofico oramai consueto e perfino consunto, revisione nel senso proprio di una decostruzione delle "sedimentazioni filosofiche" che i concetti hanno subito nel corso della storia della filosofia e che li ha resi "irriconoscibili". Teoria, pratica, essere, Io, critica, sapere, cosa in sé, trascendenza, immanenza, implicito, esplicito, idealismo, realismo, spiritualità, esigenza, certezza, concretezza, oggetto, soggetti, coscienza, alterità e relazione sono tutti termini che in Carabellese parlano diversamente. Proprio tale riscrittura di un gergo ormai consolidato ha reso la sua ricezione ardua se non impervia, facendola dipendere da una previa e meticolosa conoscenza di tutte le sue opere e della particolare flessione data ai vari termini, in assenza della quale le incomprensioni si sprecherebbero, e quindi dalla richiesta di un costante sforzo di ascolto e di attenzione alle rigorose sequenze logiche del suo pensiero. Attenzione questa che, per dirla insieme con George Steiner, in un periodo in cui i saltimbanchi del pensiero e del linguaggio venivano,vengono e verranno incoronati d’alloro, oggigiorno viene considerata un tributo troppo alto da versare alla serietà del pensiero.


A cura di Giuseppe Tortora

Carabellese afferma che
solo la coscienza è realtà concreta; coscienza in quanto consapevolezza che il soggetto umano possiede dell'"essere"; l'essere quindi non è esterno ed estraneo alla coscienza, ma immanente in essa; fuori della coscienza ci sono solo le esistenze particolari degli oggetti sensibili; l'essere che è nella coscienza è invece "essere universale", la "cosa in sé" che è il fondamento della "cosa reale", empirica. Nella coscienza c'è l'assoluto essere; fuori di essa c'è solo l'esistente relativo e diveniente, la cui essenza e la cui ragione d'esistenza stanno dunque proprio nella coscienza. L'essere - aggiunge poi Carabellese -, quello che è oggetto puro di coscienza, è lo stesso Dio; l'essere infatti non può essere se non unico e assoluto, e questi sono i caratteri della realtà divina; pertanto di Dio si può dire che "è", non che "esiste", perché l'esistenza è caratteristica degli enti finiti; e non si può dire neppure che esiste come "soggetto", perché in senso proprio "soggetti" sono gli uomini, in cui I essere - cioè Dio - "si frange". Acquista cosí credito anche la fede; l'intuizione di fede, come il pensiero concettuale del filosofo, è pensiero dell'oggetto puro in sé, di Dio che sta a fondamento della coscienza credente o pensante. Fondamento della coscienza, non coscienza, perché Dio è l'idea pura della ragione e l'oggetto assoluto della fede. Dati questi presupposti Carabellese rivaluta, rivedendola, la prova ontologica. E d'altra parte ridimensiona il ruolo delle religioni positive, che sono fondate sulla coscienza approssimata e imperfetta della realtà divina. In ogni caso pone un fondamento al rapporto intersoggettivo: se l'oggetto della coscienza, Dio, è immanente ad essa, e se la realtà empirica è estranea ad essa, solo l'altra coscienza, l'altro soggetto, è veramente "altro da essa"; essa lo riconosce "altro", e ciò è possibile perché ne riconosce insieme l'omogeneità con sé; cosí nella coscienza stessa è fondata la molteplicità dei soggetti e la possibilità di autentiche relazioni intersoggettive. Ma soprattutto Carabellese esalta il ruolo della filosofia, anche a fronte della religione: la filosofia è sforzo di raggiungere l'essere in sé, anzi è il supremo sforzo dello spirito; il suo compito, però, è solo teoretico non pratico; per il suo statuto non deve "servire" alla vita; non offre norme e regole per la vita, perché in tal caso sarebbe subordinata alla vita e dipendente da essa, mentre, in realtà, la vita è subordinata ad essa, che sola può scoprirne il fondamento ontologico; la filosofia è dunque "inutile", ma la sua inutilità è "divina".


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