CARMELO BENE

 

A cura di Andrea Pesce

 

"Non appena, volendo tentare, scendiamo in noi stessi e, drizzando la conoscenza verso il nostro interno, vogliamo renderci di noi consci appieno, ci perdiamo in un vuoto senza fondo, simili a cava sfera di vetro dal cui vuoto parli una voce, della quale non è possibile trovar nella sfera una causa: e mentre facciamo per ghermire noi stessi, rabbrividendo non afferriamo altro che un vano fantasma" (A. Schopenhauer, Il Mondo come volontà e rappresentazione, IV).


 

CARMELO BENE “È con infinita agape, molto più che schopenhaueriana, che ho compreso, senza per questo immedesimarmi, di essere di fronte a una platea di morti”. Questa è la frase d’esordio alla puntata del Maurizio Costanzo show del 27 giugno 1994, in cui Carmelo Bene (1937 - 2002) fu, come egli stesso affermava, “presente-assente” per la seconda e ultima volta. Due apparizioni memorabili, due serate probabilmente irripetibili in cui l’attore-filosofo pugliese, conscio del fatto di essere in un contesto assolutamente non pre-disposto per l’ascolto e la comprensione di tematiche filosofiche di alto spessore teoretico, per di più applicate al teatro, al cinema, all’arte e all’esistenza in genere, incantò, per oltre due ore il distratto pubblico televisivo. Chi mai si era spinto prima di allora, durante una trasmissione televisiva, in un discorso tanto complesso e articolato sull’estetica, la morale, il gusto, denso dei più alti riferimenti culturali contemporanei? Chi mai, in televisione, citerà ancora brani tratti dalle opere di Aristotele, Nietzsche, Deleuze, Derrida, Lacan, Foucault dichiarando apertamente, e con coraggio anticonformistico, il proprio insanabile distacco culturale dalla massa stipata all’interno dei “loculi domestici”? Il centro della riflessione beniana è una drastica riconsiderazione del linguaggio e della comunicazione in genere. Egli applica ai suoi spettacoli teatrali la stessa erudizione, lo stesso impegno teoretico, la stessa energia mentale che il filosofo dimostra nei suoi trattati. Con l’ausilio di una sofisticatissima apparecchiatura elettronica costituita da amplificatori, microfoni ipersensibili, monitor-spie da diecimila watt, egli tenta il superamento della dimensione linguistico-comunicativa attraverso la manipolazione tecnica del significante. Spesso l’attore fa riferimento all’opera del pittore inglese Francis Bacon, per illustrare visivamente il suo intento: così come Bacon modifica la dimensione corporea portandola ai confini della carne, in un tentativo estremo di fuga dei corpi da se stessi (si pensi al famoso ciclo dei “Papi urlanti” ripresi dal dipinto di Innocenzo X di Velazquez del 1650) , allo stesso modo Bene dà vita ad una deformazione della phonè, una disarticolazione dell’atto linguistico che dovrebbe alterare a tal punto la comunicazione e consentire di interloquire direttamente da un interno (quello dell’attore in scena) a un altro interno (quello dello spettatore in sala). I continui riferimenti di Carmelo Bene all’estasi mistica, e il ricorrente rimando nel suo teatro alle opere scultoree di Gianlorenzo Bernini come la Beata Ludovica Albertoni ammirabile nella chiesa di S. Francesco a Ripa in Roma o la Transverberazione di S. Teresa in Santa Maria della Vittoria, consentono a Bene di raggiungere una dimensione di abbandono della parola in favore di uno scorporamento della medesima, che non ha più funzione comunicativa nel senso comune, ma diviene alone del suono di una lettura-oblio. Eppure, paradossalmente, il massimo di amplificazione sonora, che sembra spacciare ogni comprensione, coincide col massimo di penetrazione acustica… Un esempio di Carmelo Bene forse ci aiuterà a capire:

“Ho tra le mani un foglio, scritto o disegnato. A distanza, ne decifro perfettamente i margini e il significato totale. Lo accosto a venti centimetri dagli occhi e ne decifro il senso dei dettagli. Avvicino questo foglio al mio naso e qualunque leggibilità è sbiancata. Il massimo del blow-up ottico-acustico coincide con il minimo dell’ingrandimento (visibilità-udibilità zero). Ecco l’amplificazione come risonanza. La fenomenologia del soggetto è finalmente solarizzata. È accecato l’ascolto” .

Il “misticismo irreligioso” di Bene permette all’attore di proiettarsi in una finzione scenica che non coincide più con il tempo storico, il kronos dei greci, ma entra in contatto con il tempo aiòn (concetto di cui Bene si dichiara debitore nei confronti del Deleuze di Logica del senso del 1969), l’immediato, l’attimo degli stoici. In tutto ciò l’irrappresentabile coincide con l’impossibile, l’atto diventa primario e l’azione si sconcretizza nel baratro del nulla scenico. L’immediato, secondo Bene, è quel momento sublime avvertibile dallo spettatore (disposto anche a pagare milioni di lire a serata per questo istante) non solo a teatro ma anche durante un evento sportivo come una partita di calcio: gli assist di un Van Basten o le invenzioni geniali di Maradona avvengono proprio nell’aion, e sono momenti di non consapevolezza degli attori-calciatori medesimi, estraniati da se stessi come nell’estasi mistica. Per questo motivo, per questa epochè dell’azione, sublimata dall’atto inconsapevole, egli sostiene che della parola “attore” si sia confuso l’etimo. Bene afferma infatti che “attore” deriva dal verbo agere, perorare e non da “agire”, immensamente distante dallo sfaccendare dei protagonisti di molte pellicole d’azione; os oris, atto-retorico in quanto, come voleva Lacan, “il discorso non è l’essere parlante”. L’attore diventa discorso avulso dall’essere che lo pronuncia, pura macchina estatica, senza più testi di riferimento e, seguendo l’insegnamento di Nietzsche:

“Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate. Insomma la musica che sta dietro le parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto. Per questo lo scrivere ha così poca importanza”.

Carmelo Bene sembra aver preso alla lettera queste frasi di Nietzsche anche attraverso la lettura che ne diede l’amico Gilles Deleuze nel suo Nietzsche e la filosofia del 1962, ad esempio per quanto concerne l’interpretazione della “volontà di potenza” intesa come disfacimento del concetto di soggetto, o sul “cogito” cartesiano, estromesso da ogni privilegio gnoseologico o assiologico. C. B., come lo sintetizzava l’amico Deleuze nei suoi saggi, per rimarcare il proposito dell’attore di essere presente-assente in scena, considerava la megalomania un dovere dell’uomo e, inevitabilmente, molti dei suoi interventi pubblici possono apparire iperbolici e paradossali. Non così per le sue opere artistiche che familiarizzano a tal punto con la filosofia da divenire esse stesse testi su cui riflettere. Riportiamo un brano dal film “Nostra Signora dei Turchi” del 1968, pellicola parodica sulla distruzione dell’io, della vita interiore, temi sviluppati come se ci si trovasse al cospetto di specchi deformanti del concetto stesso di Santità:

“Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna. Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai. Tutto consiste in questo, vedere la Madonna o non vederla. […] I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma. I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso, e invece di posare ricadono. […] Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono. E’ l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto. Tutto quanto è diverso, è Dio. Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci la bocca sei tu. […] Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: miracolo è la trasparenza. Sacramento è questa demenza, perché una fede accecante li ha sbarrati, questi occhi, ha mutato gli strati -erano di pietra gli strati- li ha mutati in veli. E gli occhi hanno visto la vista. Uno sguardo. O l’uomo è così cieco, oppure Dio è oggettivo. […] I cretini che non hanno visto la Madonna, hanno orrore di sé, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne – in convenevoli del quotidiano fatti di preghiere – e questo porta a miriadi di altari. Passionisti della comunicativa, non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio. L’umiltà è la conditio prima. I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere il più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione”.

Il “volo” di cui parla Bene, oltre al significato metaforico di distanziamento da sé e dal mondano, va attribuito al Santo di Copertino Giuseppe Desa, nato nelle Puglie nel 1603, “illetterato et idiota”. Si dice che questo frate avesse il dono della levitazione, e che tale fenomeno si verificasse soprattutto durante le preghiere che venivano rivolte alla Madonna. Più volte i suoi confratelli (così narra la leggenda) furono costretti a trattenerlo al suolo per evitare che “frate asino” si dileguasse in cielo.

“Giuseppe da Copertino - racconta Bene - è personaggio controverso, la chiesa aspetterà duecento anni prima di farlo santo. […] Sempre circondato da poveri. Chi orbo, chi storpio, chi deforme. Si aggrappano alla sua tonaca e lui se li porta in alto, salvo poi lasciarli sfracellare al suolo quando la presa dei malcapitati manca. […] Si risvegliava, frate Asino, quasi sempre in cima al cornicione della chiesa o sopra un ramo d’ulivo, in posizioni molto precarie. […] Analfabeta totale, parlava da ignorante ma, nella sua ignoranza, è degno di San Giovanni della Croce. Morì a Osimo. Disteso su un catafalco, appena coperto da un velo fu esposto ai fedeli. La ressa nella cattedrale era tanta e tale che scoppiò improvviso un grande incendio. Fu una carneficina, morti, ustionati. Il cadavere di frate Asino rimase intatto. Gli fu asportato il cuore e tagliato un dito. Fanatismo devozionale d’un conterraneo. Si possono ammirare queste reliquie nella bacheca sacra della “grottella” a Copertino” .

Il motto di Eduardo De Filippo, “complicarsi la vita”, sembra essere il motivo principale dell’opera di Carmelo Bene sia teatro e sia al cinema. Caligola, Lorenzaccio, Otello, Macbeth, Pinocchio sono tutti personaggi rappresentati da Bene con l’intento paradossale di non lasciare traccia nella memoria dello spettatore; questi, durante la sua presenza in sala, si deve abbandonare al flusso dei significanti e, per quanti sforzi possa compiere nel ricordo, non potrà mai raccontare ciò che ha udito a teatro. La perfetta idiosincrasia che la “macchina attoriale” di Bene opera tra scritto e orale, come non ricordo della pagina scritta, diventa intestimoniabile per lo spettatore. L’attore pugliese sostiene inoltre che anche l’occhio è ascolto (da qui il suo impegno anche in arti meramente visive come cinema e televisione) che si sviluppa attraverso tutta una serie di frantumazioni dei gesti durante la rappresentazione, movenze che consentono l’ascolto del corpo inteso come “dis-essere”, come “malessere fisico”. In tal senso, il teatro è oscenità, modalità che Bene fa risalire all’etimo greco di o-skenè, ciò che è fuor di scena, estromesso dall’azione dell’attore (egli tenterà addirittura una recita “impossibile” di una edizione del Lorenzaccio sostituendosi con una controfigura sul palco; grazie a questa “protesi corporea” incarnata dall’attore sostituto, tenterà di realizzare al massimo grado lo spettacolo dell’abbandono nella presenza-assenza). Osceno dunque. Teatro pornografico inteso come mescolanza e unione tra enti, in una dissoluzione dell’io e passaggio alla dimensione di “oggettità carnale” tra gli attori in scena. A differenza dell’erotismo, che si regge sempre sul dualismo soggetto-oggetto, in un avvicinamento impossibile (qui Bene sembra riecheggiare la teoria lacaniana sull’impossibilità del rapporto sessuale tra uomo e donna, tanta è la distanza tra l’appagamento del desiderio e la nostra costitutiva “mancanza a essere”), sempre destinato allo scacco dell’identità tra i due poli che si mantengono in posizione antitetica e inconciliabile, il porno garantisce l’unione tra oggetto e oggetto. Risultato: dissoluzione della soggettività e oblio dell’identità nella differenza. Carmelo Bene si è spento la sera del 16 marzo del 2002 a Roma (era nato il 1 settembre 1937 a Campi Salentina in provincia di Lecce). Da molto tempo era malato di cuore a causa delle troppe sigarette e della sua esistenza condotta sempre molto vicino al limite del tracollo fisico. Anche nell’ultimo periodo della sua vita, Bene riesce ad essere originale e provocatorio con tutti i giornalisti che cercano un ultimo e disperato conciliante dialogo con questo straordinario drammaturgo. Avrebbe voluto un “funerale da vivo” tanta era la sua ira nei confronti della “necrofilia dei vivi”. In una intervista all’Espresso del 13.1.2000 così ha risposto ad alcune domande sulla vita e la morte:

“Il corpo implora il ritorno all’inorganico. Nel frattempo non si nega nulla. […] È tutta la vita che tolgo di scena il burattino, l’incubo d’un pezzo di legno che ci si ostina a voler farcire con carne marcia. Precipitare nell’umano - che parola schifosa - questa è la disavventura. Gli anatomisti gridano al miracolo quando parlano del corpo umano. Ma quale miracolo?! Un’accozzaglia orrenda, inutilmente complicata, piena di imperfezioni e di cose che si guastano. […] Me ne fotto di quel che mi riguarda. Malati gravi si è per definizione”.

Carmelo Bene non cercava il consenso. Non era nato per divertire il pubblico con consolatori spettacoli teatrali nella vana ricerca di un perché alla vita. La sua opera, tra le poche che resteranno nella storia del teatro mondiale, è stata una summa di tentativi (a volte riusciti appieno, altre volte meno) di compiere un “massacro dei classici” (Bartolucci) che consentisse un approccio ai testi teatrali oltre il testo stesso, con l’appoggio della più alta riflessione contemporanea. Così si esprime Goffredo Fofi a proposito dell’opera di Bene:

“Nasce così la vera interrogazione che non è della letteratura ma della filosofia del secolo: oltre Nietzsche e ben oltre Freud, e ovviamente ben oltre Marx, a confronto con Heidegger, dentro la coscienza dell’essere detti e del non poter più dire e dirsi ma tuttavia dicendo e dicendosi. […] Narciso si specchia in sé per capire, e precipita del non capire, del non esserci oggetto del capire.”

In alcuni casi, l’esito non coincide con l’intento. Il drammaturgo pugliese non lascia scuole (anche se molti di quelli che lui chiamava “similattori” cercano vanamente di imitarlo), non ha fatto proseliti d’alcun tipo e si è sempre dichiarato completamente estraneo alle sue opere artistiche, non riconoscendosi mai autore d’alcunchè. “Non si può produrre un capolavoro - sosteneva l’attore -, si è capolavori”, affermazione che testimonia ancora una volta il suo debito nei confronti dell’insegnamento di Nietzsche che considerava l’unione tra etica ed estetica come il vertice della volontà di potenza. Tecnicamente egli ha fallito. Malgrado i suoi propositi, la straordinarietà della sperimentazione teatrale di Carmelo Bene in favore di un teatro filosofico, resterà oggetto di studio e di attenzione ancora per molte generazioni dei suoi tanto odiati postumi.

 


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