CHAUNCEY WRIGHT

 

 

 

 

"Tutti gli scopi della vita sono compresi, ritengo, nel suo stesso ambito, e coincidono in ultima analisi, o secondo la più ampia generalizzazione, con la difesa, la continuazione, e lo sviluppo della vita medesima".


 

 

 

 

 

 

 

 

A cura di Marco Machiorletti

 

 

 

Chauncey Wright (Northampton, 1830 - Cambridge 1875). Studiò matematica e scienze a Harvard e nel 1852 prese impiego come contabile nella redazione di un almanacco nautico. Per breve tempo fu professore di filosofia in una scuola femminile, e  in due occasioni insegnò a Harvard. La prima volta, ebbe un incarico di un anno per tenere un corso di psicologia; la seconda, gli venne affidata una cattedra di fisica matematica, e il provvedimento avrebbe avuto carattere permanente, se di lì a un anno egli non fosse prematuramente scomparso. I suoi scritti, per lo più recensioni pubblicate su “The Nation” e “The North American Review”, sono stilisticamente trascurati e spesso difficili da leggere. L’unico vero e proprio articolo, su “L’Evoluzione dell’Autocoscienza”, appare come uno studio preparatorio per un lavoro sistematico che non fu mai iniziato.

Chauncey Wright emerge come una delle figure centrali nello sviluppo del naturalismo evoluzionistico in America. Egli contribuì alla formazione intellettuale di Charles Peirce, William James, e Olivier Wendell Homes Jr. Per un certo periodo i suoi pochi scritti furono quasi ignorati e il suo nome fu ricordato solo in connessione con quelli degli amici più famosi. Oggi, tuttavia, Wright è considerato sempre meno un seguace di Peirce, o di James, o di Holmes, e sempre più un pensatore indipendente.

Wright ritenne che nessuna asserzione, anche se diffusamente accettata o garantita da qualsivoglia autorità, dovesse essere assunta come vera senza discriminazione. È probabile che proprio per aver cercato di applicare strettamente questo principio nella propria opera filosofica egli non sia riuscito a lasciare alcuno scritto sistematico. Il suo pensiero deve venire ricostruito in base ad annotazioni sparse soprattutto in lavori critici; non si presenta formulato in maniera organica e unitaria.

A causa del proprio temperamento scettico, Wright nutrì forti sospetti nei confronti delle larghe e poetiche generalizzazioni non verificabili sul piano dell’esperienza umana. Egli diffidò di ogni concezione dell’universo caratterizzata da elementi posti al di là di esso; nel suo pensiero filosofico e scientifico vi fu la tendenza a combattere l’impiego di un unico principio attraverso il quale estrapolare la spiegazione di tutti i fenomeni. Così, pur essendo stato uno dei primi pensatori americani ad accettare l’ipotesi darwiniana dell’evoluzione biologica, Wrigth, a differenza di John Fiske, rifiutò di considerare l’evoluzionismo un’ipotesi cosmica. In tal caso, come nelle questioni morali e religiose, egli osteggiò l’atteggiamento “trascendentale”, nei cui termini gli enunciati di qualsiasi disciplina erano elevabili al rango di princìpi universali. Questa opposizione affiorò con particolare chiarezza in una lettera a Miss Grace Norton, sua corrispondente abituale, che gli aveva chiesto: “Perché noi esistiamo?”. Wright rispose negando l’importanza per la nostra vita di qualsiasi remoto fine spirituale:

 

“tutti gli scopi della vita sono compresi, ritengo, nel suo stesso ambito, e coincidono in ultima analisi, o secondo la più ampia generalizzazione, con la difesa, la continuazione, e lo sviluppo della vita medesima” (Letters of Chauncey Wright, a cura di J.B. Thayer).


Il motivo fondamentale dell’antitrascendentalismo di Wright, quindi, fu la sua convinzione dell’impossibilità di un unico e onnicomprensivo sistema metafisico, atto a costituire la base di discussione dei problemi empirici e morali. Ciò comportò baconiana sfiducia e distacco nei confronti del pensiero metafisico tradizionale, imperniato su princìpi immutabili ed eterni nella “Ragione” umana anteriormente all’esperienza. A questo genere di pensiero Wright contrappose le osservazioni e gli esperimenti particolari, destinati a promuovere un avanzamento graduale del sapere. La ricerca scientifica gli parve il miglior tipo d’indagine empirico-conoscitiva, libera dai pregiudizi del ricercatore o dalle pressioni dell’ambiente sociale, e soggetta costantemente a procedimenti di verifica attraverso l’esperienza sensibile. Tale verifica fu per Wrigth un importante elemento del metodo scientifico, tanto che egli considerò la superiorità della scienza moderna in rapporto a quella dei periodi precedenti frutto del costante controllo empirico delle ipotesi da parte dei nuovi scienziati. Al pari di Auguste Comte, fondatore del positivismo, Wright suggerì di allontanare la ricerca della verità dai vicoli in cui era stata spinta a opera dei pensatori emotivamente condizionati dalle tradizioni teologiche o metafisiche. Egli rivendicò la libertà dello scienziato di fronte a tutte le forme di costrizione esterna rappresentate dai sistemi di metafisica, di teologia, o di etica. Pur condividendo molti aspetti del pensiero comtiano, Wright non fu in grado di accettare il positivismo come tradizione dottrinale, dato il proprio radicato atteggiamento scettico. Egli identificò il compito della filosofia soprattutto con lo studio del metodo, non potendo essa venire considerata una dottrina positiva, né un tipo speciale di conoscenza per intuizioni. Tuttavia Wright fece propria la dottrina comtiana delle fasi teologica, metafisica, e scientifica del pensiero umano ordinate in successione temporale, ammettendo però la coesistenza di tali alternative entro ogni civiltà matura, i cui membri avrebbero potuto pertanto adeguarsi a tre differenti modelli intellettuali: egli si orientò verso il terzo, e concepì filosofia e scienza unite da uno stretto legame.

Affatto insufficiente gli sembrò la difesa tradizionale della teologia e della metafisica come fonti del senso di devozione e di mistero, senso misconosciuto dalla scienza in quanto dedita all’esclusivo esame dei fatti. Nel pensiero metafisico (e, più ancora, in quello teologico) egli vide la matrice di un sentimento passivo, appunto di devozione e di mistero, simboleggiato dal culto religioso e destinato a sfociare nell’obbedienza e nella sottomissione assolute. Il modo di pensare scientifico, invece, gli parve incoraggiare sia la devozione che il mistero in forme attive: questo, come importante fattore di curiosità e ricerca, “sprone e guida, elemento di stabilità e di serietà, e nemico solo della dispersione e dell’ozio”; quella, come forma di utilità e di dovere, alleata della libertà. Mentre il carattere passivo dell’atteggiamento metafisico comporta un timore reverenziale nei confronti dell’ignoto, l’attivismo implicito nel metodo scientifico induce a esplorare le zone sconosciute. La scienza, è vero, formula princìpi astratti, ma non quali “compendi di verità”, bensì come utili strumenti per l’ampliamento della “conoscenza concreta della natura”. I princìpi generali nel lavoro scientifico sono “idee sussidiarie”, “mezzi di ricerca”, non finalità.

William James, nel cenno necrologico scritto per “The Nation”, dopo aver rilevato che la prospettiva di Wright escludeva tanto il pessimismo, quando l’ottimismo, essendo affatto neutrale, e dopo aver suggerito che lo stesso Wright, a differenza degli altri uomini, sembrava aver avuto il massimo interesse per le idee mano inerenti al destino umano, fece notare che, “considerata la mera totalità dei fenomeni dati sufficiente per la loro descrizione, egli ritenne superfluo ed ingenuo parlare di un’origine e di un destino metafisici, di una sostanza, di un significato, o di uno scopo”. Continuando, James ricordò che Wright aveva condannato soprattutto, “come idolo metafisico”, il concetto di sostanza. All’obiezione che dovesse esserci “una colla”, cui attribuire la coesione dei fenomeni dell’esperienza, egli avrebbe risposto “che di colla per tenere unite le cose non vi è bisogno alcuno, finché non ci si accorge di qualche motivo per il quale esse dovrebbero sfaldarsi. I fenomeni sono saldati insieme; non possiamo dire nulla di più”.

Wright respinse non solo le generalizzazioni cosmiche del positivismo e dell’evoluzionismo, di attualità ai suoi tempi, ma anche i sistemi più tradizionali dell’idealismo e del materialismo. Ognuna di queste dottrine, se accettata a esclusione delle altre, gli parve destinata a risultare insoddisfacente e parziale. Benché entusiasta della scienza, Wright non fondò mai su di essa alcuna pretesa estremistica, mantenendone sempre un concetto “metafisicamente neutro”.

Egli non cercò di scardinare la religione; d’altra parte, non ritenne che questa e l’etica fossero necessariamente legate. La sottomissione della moralità alla teologia suscitò in lui particolare risentimento, per il fatto che poterono derivarne quali conseguenze storiche il travisamento e la condanna dei valori della vita umana sulla terra. Personalmente, preferì discutere il problema del rapporto tra etica e religione attenendosi a un’interpretazione storica secondo la quale i concetti morali sarebbero emersi prima di quelli religiosi e le credenze teologiche sarebbero state, di conseguenza, accettate soprattutto in virtù delle loro associazioni con princìpi etici umanamente soddisfacenti. La scienza, l’etica, e la religione vennero così concepite quali aspetti collegati, ma indipendenti, della vita nell’universo.

Nel 1872, trovandosi in Inghilterra, Wright ebbe una serie di colloqui con Charles Darwin ed alla fine si dichiarò disposto, come fece sapere per lettera a un amico, “a scrivere una volta o l’altra un saggio su problemi di comune interesse… da intitolare, con espressione erudita, Psichozoölogy; questo, per porre in evidenza l’essenziale subordinazione della coscienza umana ed animale allo sviluppo ed alla situazione in natura” (Letters, p.248). Secondo quanto suggeriscono gl’indizi frammentari contenuti in questa lettera, il saggio prospettato, se fosse stato mai scritto, avrebbe costituito l’espressione definitiva della filosofia di Wright, combinazione dell’utilitarismo di John Stuart Mill e del punto di vista evoluzionistico darwiniano con le vedute dell’autore. In varie lettere vi sono elementi da cui è possibile arguire quale sarebbe stato il risultato, e nell’articolo del 1873, su “L’Evoluzione dell’Autocoscienza”, sembrano delineate le basi del sistema rimasto incompiuto.

All’inizio del proprio studio su “L’Evoluzione dell’Autocoscienza” Wright rileva che gli uomini hanno finito per riconoscere che l’ipotesi dell’evoluzione organica spiega lo sviluppo dell’umanità più semplicemente e più agevolmente di ogni altra dottrina. Eppure, vi è una notevole riluttanza ad ammettere che anche l’autocoscienza possa venire intesa come un fenomeno naturale soggetto a processi di trasformazione. Ma ciò, in parte, non è che la conseguenza di un fraintendimento della teoria evoluzionistica. Secondo Wright, il prodotto può differire solo in dimensioni, non in genere, dai propri fattori. Dove non esisteva nulla, non si delineano nuove facoltà. Si hanno invece nuovi usi di vecchie facoltà, i quali, pur acquistando sempre maggiore forza ed efficienza, erano però già strutturalmente distinti fin dall’inizio. Così, ogni nuovo uso di qualsiasi facoltà preesistente dapprima appare come un’appendice marginale o accidentale di vecchie funzioni. Molte facoltà dell’uomo hanno tale molteplicità funzionale: l’autocoscienza, ad esempio, pur non potendo mai essere affiorata in atti preumani “può – tuttavia – essere stata potenzialmente presente in facoltà o cause preesistenti” (PhilosophicalDiscussions, p. 201). Le nuove apparizioni, comunque, sono spiegabili in termini naturali; è inutile affannarsi a cercarne moventi miracolosi o soprannaturali. Il fatto che l’autocoscienza sia caratteristica dell’uomo non esclude la possibilità che essa rappresenti il risultato dello sviluppo di aspetti potenziali o latenti di facoltà biologiche più elementari. Vi sono “manifestazioni spirituali” negli animali, ed è solo al “misticismo” ancora dominante nelle scienze dello spirito che si deve il tentativo di ampliare lo “scarto, effettivamente profondo” , fra la coscienza umana e quella animale, allo scopo di soddisfare il “sentimento di assoluta eccellenza” nutrito dall’uomo. Ciò fornisce una semplice, eppure insoddisfacente, soluzione del problema dell’origine dell’autocoscienza. Più complicata, ma anche più rispondente ai fatti, è la spiegazione scientifica del medesimo fenomeno in termini degli antecedenti psicologici nella vita animale. L’uso riflessivo della coscienza nell’uomo emerge dallo sviluppo di nuove funzioni delle facoltà mentali degli animali. Gran parte del lavoro mentale di questi è stato considerato istintivo, e, come tale, contrapposto all’intelligenza dell’uomo. Secondo Wright, però, il contrasto è stato esagerato:

 

“la distinzione fra istinto e intelligenza, benché non meno reale ed importante per la classificazione delle azioni in psicozoologia, e di pari rilievo all’antitesi stabilita tra animale e vegetale in zoologia generale, o fra organico ed inorganico, vivente ed inanimato, nella scienza della vita in genere, sul piano delle applicazioni risulta altrettanto vaga e male definita” (Ibid. p.219).

 

La tesi di Wright potrebbe venire così formulata: vi è coscienza non solo nell’uomo, ma anche, in forme elementari, negli animali; la nuova funzione che essa assume nella specie umana è il proprio uso riflessivo. Tale uso induce il soggetto a distinguere nella memoria “i fenomeni concettuali da quelli della percezione esteriore” (Ibid., p. 223), ossia gli oggetti o gli eventi dalle espressioni, consistenti in suoni, figure, o gesti, di cui l’uomo si serve per denotarli. Gli oggetti esterni non possono venire sottoposti al diretto controllo della volontà, ciò che è invece possibile nel caso dei segni interni. Questi, quindi, sembrano costituire “una piccola rappresentazione del mondo evocabile nel pensiero a piacimento” (Ibid., p. 223). Gli aspetti dell’esperienza umana vengono classificati in base alla loro appartenenza al mondo oggettivo delle cose od al mondo soggettivo dei segni. La distinzione fra oggettivo e soggettivo non è un’intuizione fondamentale, ma una discriminazione analitica nell’ambito dell’esperienza. Non è tanto l’uso dei segni che differenzia l’uomo dall’animale, quanto il fatto che il primo riconosce il proprio impiego di essi. Egli è capace di fissare l’attenzione sui segni, di riflettere sul pensiero come sulle cose. Dalla coscienza, per riflessione, deriva l’autocoscienza: “per la genesi della matura autocoscienza espressa dall’ “Io penso”, fu necessaria solo la capacità di considerare i fenomeni del pensiero segni di altri pensieri, o d’immagini suggerite dalla memoria, e di concepirli con riferimento ad un “soggetto” (Ibid. pp. 251-252).

Incidentalmente, nel corso di questa discussione, Wright abbozzò un’analoga teoria della genesi del linguaggio. Il prelinguaggio consiste di gesti istintivi, non necessariamente intenzionali, nell’uso della voce e degli organi corporali; si tratta di un’attività comune agli animali e agli uomini. Sulla base dei suoni e dei movimenti disorganizzati, il linguaggio è creato dall’uomo per fini sociali, allo scopo di favorire la comunicazione. La scelta di suoni o gesti in ogni caso particolare può essere operata attraverso un’arbitraria associazione simbolica del segno con l’oggetto da esso designato. In questa fase, tuttavia, il linguaggio non è elaborato consapevolmente; esso serve a uno scopo, ma dei suoi creatori è difficile dire che abbiano uno scopo. Il linguaggio diviene una creazione cosciente solo quando i “motivi secondari” risultano connessi con “l’autochiarificazione del pensiero da parte del soggetto pensante, e non semplicemente con la sua comunicazione agli altri” (Ibid., p. 255). Sia nella prima fase, quella sociale, che nella seconda, quella mnemonica o riflessiva, il linguaggio appare chiaramente un sistema d’invenzioni. Tale aspetto è invece meno evidente nella terza fase, quella tradizionale. Si creano abiti linguistici e diventa più difficile per l’individuo introdurre dei mutamenti arbitrari nel linguaggio. A questo punto, lo sviluppo dei vari dialetti, delle differenti lingue, e delle famiglie linguistiche “presenta caratteristiche affatto parallele a quelle dell’evoluzione organica presupposta dalla teoria della selezione naturale” (Ibid., p. 257). Per quanto all’inizio possa essere stato arbitrario e dipendente dalla volontà dell’individuo, nelle fasi successive lo sviluppo del linguaggio finisce per risultare soggetto alla legge naturale, e non al capriccio umano.

 


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