SAMUEL CLARKE



A cura di Alessandro Sangalli


 

CLARKESamuel Clarke (1675-1729) fu uno dei più importanti filosofi inglesi della generazione tra Locke e Berkeley, nonché una delle figure più note del circolo newtoniano. I suoi interessi filosofici spaziavano dalla teologia alla metafisica, ma si occupò anche di temi etici. Il suo vocabolario filosofico e alcune delle sue idee metafisiche risentirono dell’influenza di Cartesio, dal quale mutuò la teoria del dualismo delle sostanze. Tuttavia, in accordo con Malebranche e Locke, negava che l’introspezione potesse permetterci di raggiungere la sostanza spirituale che costituiva la nostra anima: riteneva invece che gli uomini semplicemente non potessero conoscere la sostanza delle cose. In definitiva, il giudizio generale di Clarke su Cartesio era abbastanza critico: condivideva con Pascal, Bayle e Leibniz l’opinione secondo la quale il sistema cartesiano avesse il suo naturale sviluppo in un pericoloso spinozismo. In particolare, credeva che l’identificazione cartesiana della materia con l’estensione – e quindi con lo spazio – finisse per connotarla come eterna ed infinita, attributi propri di Dio. Infine, in alcuni scambi epistolari con Anthony Collins e con Leibniz difese la religione naturale dal dilagante naturalismo (la credenza secondo la quale la natura costituisce un sistema autosufficiente che non necessita dell’intervento di un principio trascendente o spirituale) e la religione rivelata dalla corrente di pensiero del deismo.

 

1. Vita e opere

 

Samuel Clarke nacque a Norwich l’11 ottobre 1675. Si laureò in lettere a Cambridge nel 1695, acquisendo il titolo di Bachelor of Arts con una tesi in cui si schierava a sostegno delle teorie newtoniane, a quel tempo ancora lontane dall’essere universalmente accettate. Anche in seguito, quando nel 1697 curò una nuova traduzione latina del Treatise of Physics di Rohault, tornò – nelle note –  a difendere la fisica di Newton criticando quella di Cartesio. Nello stesso anno, strinse amicizia con Whiston, un amico che lo introdusse nel circolo newtoniano, del quale lo stesso Clarke divenne ben presto una delle personalità di spicco. Il suo rapporto con Newton è poco chiaro, anche perché nulla della loro corrispondenza è giunto fino a noi (sempre che una corrispondenza ci sia stata, dal momento che i due furono vicini di casa per parecchi anni); tuttavia, al contrario di molti altri membri del circolo, il nostro non incrinò mai la sua amicizia con Newton.

Nel 1704, tenne le sue prime Boyle Lectures dal titolo Una dimostrazione dell’essere e degli attributi di Dio, in particolare in risposta a Hobbes, Spinoza e i loro seguaci. Il successo che riscosse fu così grande che chiese – ed ottenne – di poterle tenere anche l’anno successivo, con il titolo Discorso sugli immutabili obblighi della religione naturale e sulla verità e la certezza della rivelazione cristiana. Le Boyle Lectures gli conferirono grande notorietà e i suoi legami con Newton divennero ufficiali nel 1706, quando curò l’edizione latina dell’Ottica.

Lo stesso anno, Clarke attaccò Henry Dodwell, sostenitore della tesi secondo la quale l’anima, per natura mortale, guadagna l’immortalità tramite l’azione soprannaturale del battesimo. Le critiche del nostro provocarono la risposta di Anthony Collins, materialista e discepolo favorito di Locke, uno tra i più vivaci sostenitori del deismo: i successivi pubblici scambi d’opinioni tra i due accrebbero sempre più la fama di Clarke. La sua reputazione era così notevole che nel 1710 Berkeley inviò a lui la prima edizione del Trattato sui principi della conoscenza umana e, tre anni dopo, Joseph Butler lo consultò per qualche difficoltà nella comprensione delle Boyle Lectures del 1704. Nel frattempo, fu presentato alla Regina Anna, che lo nominò cappellano nel 1706 e in seguito rettore della parrocchia di St. James, Westminster.

Nel 1712, pur contro i consigli di alcuni ministri del regno, Clarke pubblicò La dottrina biblica della Trinità, testo che fu accusato di arianesimo, eresia secondo la quale, all’interno della trinità divina, soltanto il Padre è Dio, mentre il Figlio è tale solo in quanto partecipa della grazia, essendo egli estraneo alla sostanza divina. A causa della polemica che ne scaturì, il nostro autore fu costretto a dar parola di non scrivere né predicare mai più su tale argomento: questo atto di sottomissione, tuttavia, non zittì le indiscrezioni secondo le quali egli – come d’altra parte lo stesso Newton – fosse ancora un ariano convinto. Quanto poi questi sospetti di eresia abbiano effettivamente danneggiato la sua carriera ecclesiastica è un fatto poco chiaro. Stando a quanto ci racconta Voltaire, il vescovo Gibson si oppose alla nomina di Clarke come Arcivescovo di Canterbury dicendo che questi era sì l’uomo più istruito e leale del regno, ma aveva un difetto: non era cristiano.

Dopo l’ascesa al trono degli Hannover, Clarke diede inizio ad una duratura amicizia con Carolina di Anspach, principessa del Galles e futura regina. Fu grazie alla sua mediazione che il nostro ebbe la possibilità di intrattenere con Leibniz una delle corrispondenze filosofiche più famose del XVIII secolo. Gli scambi d’opinione tra i due vertevano su molti degli argomenti che già avevano interessato Clarke nelle Boyle Lectures: infinità ed eternità di Dio, relazione tra Dio e mondo, relazione tra anima e corpo, libero arbitrio, spazio, tempo, natura dei miracoli. Essi discussero anche di temi più squisitamente scientifici, come la costituzione della materia, l’esistenza degli atomi e del vuoto o le dimensioni dell’universo.          

Nel 1717 Clarke diede alle stampe il carteggio con Leibniz insieme ad una critica in cui attaccava un’opera di Collins nella quale veniva negata la libera volontà: questo fu il suo ultimo significativo lavoro filosofico. Tuttavia, egli non trascorse inoperoso gli anni che lo separavano dalla morte. Continuò fino alla fine a difendere le sue idee teologiche e nel 1728 scrisse un breve saggio per Philosophical Transactions nel quale intendeva dimostrare – contro i leibniziani – che la corretta misura della forza era mv e non ½ mv2 (il conatus del filosofo tedesco). Nel 1729, su mandato regio, curò l’edizione della traduzione latina dell’Iliade, adoperandosi con lo stesso zelo con il quale aveva portato a termine l’edizione delle opere di Cesare diciassette anni prima.

Samuel Clarke morì in quell’anno stesso, dopo una brevissima ma fatale malattia: morì a soli 54 anni (sopravvisse tuttavia a sua moglie Katherine ed a cinque dei suoi sette figli). In vita fu un uomo educato e cortese, ma che sapeva essere vivace e spiritoso con gli amici; sembra inoltre che avesse una vera passione per il gioco delle carte. Voltaire scrive che quando lo incontrò rimase molto colpito dalla sua devozione religiosa e fu talmente ammirato dalle sue abilità logiche che lo definì “una vera e propria macchina pensante”. A dire il vero, Voltaire ha per lui anche parole di biasimo e di critica: in un passo particolarmente polemico arriva ad asserire che in Samuel Clarke il predicatore ha soffocato il filosofo.

 

2. La critica al naturalismo e la difesa della religione naturale

 

La critica di Clarke al naturalismo è articolata in cinque punti tra loro interconnessi. (1) In primo luogo, Dio è un essere dalla suprema benevolenza, necessariamente esistente, onnipotente, onnisciente, eterno ed onnipresente. Da ciò segue che (2) il sistema naturale e le leggi che lo governano sono radicalmente contingenti: Dio, in quanto dotato di libera volontà, ha scelto di creare il mondo e di operare in esso secondo un suo disegno. Il ragionamento prosegue affermando che, (3) sebbene lo spazio e il tempo siano infiniti, la materia è spazio-temporalmente finita e non possiede il principio dell’automovimento, essendo dotata della sola vis inertiae. Quindi, (4) Dio è sostanzialmente presente nella natura (o meglio, la natura è in Dio, dal momento che lo spazio e il tempo sono attributi divini) ed esercita costantemente il suo potere tramite forze attrattive o repulsive applicate ai corpi. Perciò, con l’eccezione della forza d’inerzia, che esprime l’essenziale natura passiva della res extensa cartesiana, nessuna legge fisica descrive veramente il comportamento della materia, ma solo le modalità d’azione del potere divino. Infine, (5) benché l’anima sia estesa e interagisca con il corpo, essa è necessariamente immateriale, poiché la materia non possiede la facoltà di pensiero; inoltre l’anima umana è stata dotata di libero arbitrio da parte di Dio.

I primi quattro punti mostrano la non-autosufficienza del sistema natura: senza il continuo e diretto intervento fisico di Dio, i pianeti volerebbero fuori dalle loro orbite, gli atomi si spezzerebbero e l’intera macchina del mondo andrebbe letteralmente in tilt. Il quinto punto, invece, mostra come l’anima spirituale non sia una parte della natura.

 

2.1 Dio

 

La prova della necessaria esistenza di Dio e la deduzione dei suoi attributi occupa gran parte di Una dimostrazione dell’essere e degli attributi di Dio, il primo insieme di scritti delle Boyle Lectures di Clarke. La dimostrazione dell’esistenza di Dio segue l’andamento della prova cosmologica classica, fondata sul tradizionale argomento (risalente ad Aristotele) dell’impossibilità di un rimando all’infinito (regressus in infinitum) nella spiegazione razionale del mutamento. Se tutto ciò che muta o diviene è mosso da altro (la causa, aristotelicamente concepita, è nel movente e non nel mosso), deve esistere un principio assoluto del moto, posto al di fuori della serie naturale del divenire fenomenico, un motore immobile che spiega l’origine del movimento senza rimandare ad altro, un ente primo ed incausato (causa sui). Questo ente, che tutto muove senza essere a sua volta mosso, non può che essere Dio.

Come argomento secondario, il nostro sostiene che, dal momento che lo spazio e il tempo non possono essere pensati come non-esistenti, ma che, d’altra parte, non sono nemmeno auto-sussistenti, la sostanza cui ineriscono – Dio – deve esistere necessariamente. Infine, considerazioni di ordine teleologico indicano che Dio è dotato di intelligenza, di saggezza e di tutte le perfezioni morali. Secondo Clarke, gli attributi umani e quelli divini, in special modo quelli etico-morali, hanno la stessa natura: Dio, tuttavia, li possiede in grado infinito.

La più caratteristica e controversa opinione teologica del filosofo concerne l’eternità e l’immensità divina. Secondo la tradizione cristiana infatti, Dio è eterno e immenso.

L’attributo dell’eternità può essere inteso in due sensi: da un lato, può voler dire che Dio è un essere atemporale, che non conosce la successione, che non ha un prima e un dopo, ma solo un presente senza tempo; da un altro lato, può significare che Dio è sempiterno, perenne, imperituro, un essere che è sempre esistito e sempre esisterà attraverso il tempo, per il quale però esistono un prima e un dopo, un passato e un futuro.     

Logicamente, anche l’attributo dell’immensità (onnipresenza) può essere variamente inteso. Dio può essere considerato presente in ogni luogo per azione, non per situazione: detto altrimenti, Dio è presente in un luogo non come lo sarebbe un uomo, ma semplicemente agendo in quel luogo; Dio “riempie” una stanza causando essa e ciò che in essa è contenuto in un modo analogo a quello in cui io riempirei un bicchiere versandoci dell’acqua. Tuttavia, si potrebbe ritenere che la presenza operazionale di Dio richieda anche quella situazionale: da ciò seguirebbe che la sostanza divina è coestesa rispetto a ciò che essa riempie.

Esistono però problemi riguardanti anche l’estensione di Dio: se la intendiamo in termini di estensione locale, Dio sarebbe esteso nello stesso significato in cui è esteso un sasso (sebbene Dio possa, a differenza di una pietra, penetrare le altre cose estese); se invece rifiutiamo l’estensione locale, la sostanza divina sarebbe interamente nella totalità dello spazio ed interamente in ogni spazio e in ogni luogo.

Clarke rifiuta la nozione di un Dio sostanzialmente ed assolutamente fuori dallo spazio e dal tempo. L’eternità divina implica sia la necessaria esistenza di Dio, sia la sua infinita duratio che, tuttavia, non è da confondere con tradizionale teoria dell’eterno presente (nunc stans), dal momento che, come Newton, il nostro considera questa teoria inintelligibile o – alla peggio – contraddittoria. Parlando di Dio in termini di durata, si potrebbe concludere che Dio vive, come noi, nel tempo, ma che, a differenza degli esseri umani, non è soggetto al mutamento: non è però questa l’opinione di Clarke. Nella sua corrispondenza con Butler, scrive infatti che Dio non è nello spazio e nel tempo, ma Dio si identifica con lo spazio e il tempo (in quanto essi sono suoi attributi). Inoltre, Clarke attribuisce a Dio pensieri diversi e distinti, poiché, in caso contrario, egli non potrebbe variare la sua volontà, né diversificare le sue opere, né agire secondo un suo disegno, né governare il mondo e nemmeno avere la facoltà di volere o fare alcuna cosa.

In definitiva, secondo il nostro pensatore, l’eternità e l’immensità divina devono essere identificate con lo spazio e il tempo. Questa soluzione è però irta di difficoltà, in parte perché la posizione di Clarke non è del tutto chiara. Egli ha ribadito in più occasioni come spazio e tempo siano solo proprietà divine, ma nel contempo ha sostenuto – in una lettera indirizzata a Leibniz – che essi sono effetti necessari dell’esistenza  di Dio, nonché requisiti fondamentali per l’eternità e l’ubiquità divine (naturalmente senza fornire alcuna spiegazione su come queste due tesi potessero essere contemporaneamente valide). Come se non bastasse, in uno scambio epistolare con Daniel Waterland, scrisse che spazio e tempo, rigorosamente parlando, non potevano essere definite proprietà di Dio.

 

2.2 Il libero arbitrio

 

Clarke attribuisce grande importanza alla discussione sul libero arbitrio: è un sostenitore dell’indeterminismo, del liberum arbitrium indifferentiae, del potere di determinarsi da sé donato all’uomo da Dio. È a tal punto convinto della correttezza della visione indeterministica da asserire che gli argomenti contro la libertà sono diventati considerevoli solo per l’onore che si è fatto loro di rispondervi. Il nostro ha come principale obiettivo critico i sistemi deterministici dei grandi filosofi moderni, Hobbes, Spinoza e Leibniz su tutti.

L’argomento principale su cui Clarke si basa è la necessità di un primo motore, di un agente capace di imprimere ab initio il movimento. Un agente necessario, cioè un agente che si limita a trasmettere il movimento, non è propriamente un agente: è un soggetto passivo; negare che ci sia un primo agente che imprime il movimento equivale ad affermare una progressione infinita di effetti senza causa, di comunicazioni passive senza alcun agente. Deve quindi esserci una causa prima del movimento che è Dio. Quindi, se Dio ha il potere di iniziare il movimento (è cioè dotato di libertà) egli deve aver donato questo potere anche alla sua creatura: Dio ha dotato l’uomo del potere di autodeterminarsi, della libertà d’indifferenza, del libero arbitrio. Questa verità è testimoniata dalla coscienza: che l’esperienza attesti l’esistenza della libertà è per Clarke un punto assolutamente al di sopra di ogni dubbio.

Clarke formula anche altri argomenti per dimostrare come le azioni di Dio non possano essere necessarie. Se Dio operasse necessariamente, le cose non potrebbero essere altrimenti da come effettivamente sono. Tuttavia, come ogni persona dotata di ragione ammetterà senza difficoltà, il numero dei pianeti, le loro orbite, la stessa legge di gravità avrebbero effettivamente potuto essere in altro modo. Inoltre, la presenza in natura di cause finali mostra come l’attività divina segua vie non necessarie ma concepite secondo una libera volontà.

Dopo aver appurato che Dio è dotato di libertà, Clarke cerca di dimostrare che lo siamo anche noi uomini. Il suo ragionamento si basa sia sulla metafisica sia sull’esperienza. In primo luogo, è chiaro che la libertà è un potere comunicabile, a differenza di altre qualità divine come l’eternità o l’esistenza per sé; inoltre, come già accennato, la correttezza della tesi ci è fornita dall’esperienza: interiormente, siamo certi di essere agenti liberi. Negare la libertà è come negare l’esistenza del mondo esterno: sono entrambe ipotesi coerenti ma assurde. Ovviamente, questa non è una vera e propria dimostrazione, ma tanto basta: il fardello delle prove e delle dimostrazioni – asserisce Clarke – non è sulle spalle di chi sostiene la libertà, ma di chi la nega.

Analizzando più da vicino la dinamica della volontà umana, Clarke non si nasconde che il volere può essere influenzato dai motivi: tuttavia questo non toglie la libertà. Innanzitutto bisogna distinguere il giudizio antecedente dell’intelletto dalla decisione della volontà; una cosa è giudicare, un’altra è agire: il giudicare è necessario, l’agire è libero. Oltre a ciò, si tenga presente che l’operazione dell’intelletto per cui esso vede la verità è puramente passiva, ed è impossibile che una passività pura (giudizio) determini un movimento (volontà). Riassumendo questo concetto con le parole di Piero Martinetti, si può dire che i giudizi dell’intelletto possono bene essere l’occasione, in seguito alla quale il principio attivo e libero dell’uomo mette liberamente in azione il suo potere attivo, ma non sono la causa dell’atto e perciò non tolgono la libertà (da La Libertà).

Parallelamente Clarke si dedica anche alla confutazione delle tesi contrarie al libero arbitrio, occupandosi in particolare dello spinoso problema della prescienza divina. Contro la pretesa che vuole la prescienza divina in contraddizione con la libertà dell’uomo, il nostro ribatte che, dal momento che la conoscenza non ha effetti sulla cosa conosciuta, nemmeno le nostre volizioni e le nostre scelte sono influenzate dall’onniscienza di Dio: rimangono libere indipendentemente dal fatto che Dio le conosca prima che esse siano; il semplice prevedere non necessita.

 

2.3 La materia e le leggi di natura

 

Le teorie fisiche di Clarke sono in stretta connessione con le sue opinioni riguardo ai miracoli. Come Joseph Glanville, Thomas Sprat, Boyle e Locke, il nostro appartiene a quel gruppo di intellettuali vicini alla Royal Society per i quali i miracoli potevano essere considerati come prove della verità e della validità della religione cristiana. Secondo la definizione di Clarke, un miracolo è un’azione insolita […] realizzata tramite l’interposizione di Dio stesso o di un altro agente spirituale superiore all’uomo, allo scopo di provare l’evidenza di una particolare dottrina o l’autorità di una particolare persona. Tuttavia, egli nota, i sostenitori del deismo, rilevando che la natura è regolare e costante e che cause simili producono effetti simili secondo leggi fisse, hanno concluso che esistono nella materia peculiari leggi e poteri il risultato dei quali è ‘il corso della natura’, un corso che essi ritengono sia impossibile alterare e di conseguenza pensano che cose come i miracoli non possano esistere. Non è difficile vedere in queste parole un’ulteriore critica al naturalismo di stampo spinozistico: Clarke sostiene che le cause dei miracoli non si possano sussumere alle leggi naturali; nel sistema spinoziano e nel pensiero dei deisti, essendo queste leggi assolute ed universali, i miracoli spariscono in quanto impossibili. E con loro spariscono le prove della validità del cristianesimo. Anthony Collins, ad esempio, propose di intendere i miracoli, le profezie e tutti gli episodi della rivelazione non verificabili storicamente come semplici allegorie.

A detta di Clarke, la dottrina deistica è completamente sbagliata poiché tutti gli eventi del mondo accadono o per l’azione diretta di Dio o per l’azione di altri esseri intelligenti da Dio creati: la materia non è evidentemente capace di alcuna legge o potereeccezion fatta, naturalmente, per la forza d’inerzia. Perciò i cosiddetti effetti delle leggi fisiche, quali le leggi del moto, della gravità, dell’attrazione e così via, propriamente parlando non sono altro che gli effetti dell’azione di Dio sulla materia in ogni momento, in modo diretto o indiretto. Analogamente, il corso della natura non è nient’altro che la volontà di Dio che agisce producendo particolari effetti in una maniera regolare, costante ed uniforme la quale, essendo in ogni momento perfettamente arbitraria, è tanto facile da alterare quanto da preservare. La possibilità dei miracoli riposa in definitiva per Clarke su un volontarismo teologico combinato alla negazione dell’attività della materia.

Quello di Clarke è però un volontarismo teologico moderato, che va distinto dall’arbitrarismo estremo di Cartesio: per il nostro, infatti, le leggi morali restano indipendenti dalla volontà divina e perfino il potere assoluto di Dio è limitato a ciò che è logicamente possibile. Né il volere divino è imperscrutabile: l’inscrutabilità implica che gli attributi e i poteri di Dio siano assolutamente diversi da quelli umani, ma, come abbiamo già accennato prima, essi hanno in realtà la stessa natura degli attributi umani e ne differiscono solo per grado. Inoltre, l’arbitrarietà del volere divino non deve essere intesa come irrazionalità: la volontà divina segue infallibilmente il suo giudizio necessariamente corretto, e di conseguenza Dio agisce sulla base delle leggi di “uniformità e proporzione”. Tuttavia Clarke, fedele alla sua posizione libertaria, afferma che il volere, in Dio come in noi, non è causalmente determinato dal giudizio dell’intelletto: perciò le leggi che governano il potere divino, un sottoinsieme delle quali è quello delle leggi di natura, sono liberamente autoposte, non sono il risultato necessario del corretto giudizio di Dio. Esse sono una manifestazione degli attributi morali, e perciò liberi, di Dio, non di quelli metafisici, e quindi necessari.

Clarke è fermamente convinto che la materia non abbia nessun potere di automovimento, né sostanziale né accidentale. Egli condivide questa posizione con molti filosofi moderni, tra i quali Cartesio, Malebranche, Locke e Boyle, ma la sua posizione è più radicale e controversa: Clarke ritiene i vari movimenti non meccanici della materia (che Boyle, Charleton, Petty e Newton avevano descritto come causati da particelle dotate di potere di attrazione/repulsione) come il risultato diretto dell’attività divina o spirituale. Ammettere una materia attiva è per il nostro il preludio dell’ateismo: negare l’intervento continuo e diretto di Dio nella natura equivale ad eliminarlo, come ha fatto John Toland dotando la materia di un autokynesis sostanziale.

 

2.4 Spazio e Tempo       

 

A detta di Clarke, spazio e tempo sono le idee semplici prime e più ovvie, idee che la mente di ogni uomo possiede. Come molti dei filosofi che si sono dedicati a questo tema, il nostro tende a formulare ragionamenti e dimostrazioni che riguardano lo spazio, lasciando al lettore il compito di trarre conclusioni analoghe riguardo al tempo utilizzando i medesimi argomenti.

Egli sostiene, con Newton, che, mentre la materia può essere pensata come non esistente, lo spazio deve necessariamente esistere: la sua rimozione non sarebbe altro che una rimozione dello spazio dallo spazio stesso, il che sarebbe una contraddizione in termini. Clarke prosegue facendo presente che, sebbene lo spazio non si possa conoscere con i sensi, egli si rifiuta di identificarlo con il nulla, dal momento che esso possiede varie proprietà sensibili, ad esempio la quantità e la dimensione. Tra le altre proprietà che egli ammetteva, si possono elencare anche l’omogeneità, l’immutabilità, la continuità e l’impenetrabilità. Lo spazio, perciò, è un’entità in cui gli oggetti stanno, sono, esistono, e non mera assenza di materia.

Sempre seguendo Newton, il nostro adotta la visione di uno spazio assolutamente infinito, poiché, se fosse limitato, dovrebbe essere limitato da qualcosa che occupa spazio, il che implicherebbe un’evidente contraddizione. Dal momento che lo spazio assoluto ha una struttura essenziale invariabile (totalmente indipendente dai corpi che sono in essa e in nessun modo alterata dalla loro presenza), ogni mondo possibile deve conformarsi a questa struttura, la cui essenza nemmeno Dio può alterare, essendo il potere divino limitato a ciò che è logicamente e metafisicamente possibile. Lo stesso dicasi per il tempo, il quale scorre sempre allo stesso modo, indipendentemente da qualsiasi altra cosa. Le cose create occupano una posizione assoluta nello spazio-tempo, posizione che noi possiamo o meno essere in grado di stabilire con precisione, non avendo accesso diretto allo spazio e al tempo assoluti.

L’introduzione del concetto di spazio assoluto rappresentò per Clarke una specie di arma a doppio taglio: se da un lato offrì al nostro un immediato vantaggio nella lotta filosofica contro Spinoza (questo concetto mostrava infatti l’infondatezza dell’identificazione cartesiana di estensione e materia, identificazione che aveva reso possibile gli eccessi spinoziani), dall’altro comportò nuovi problemi e difficoltà (ad esempio la relazione di questo spazio assoluto con Dio, problema che – come abbiamo già visto – Clarke credeva di poter risolvere sostenendo che spazio e tempo fossero gli attributi di Dio o il risultato della sua divina essenza).

 

2.5 L’anima

 

Nel 1706, Henry Dodwell pubblicò un libro nel quale sosteneva una sorta di immortalità condizionata dell’anima umana: le nostre anime sarebbero per natura mortali, e diverrebbero immortali solo tramite un intervento divino sovrannaturale. Clarke indirizzò a Dodwell una lettera aperta, facendogli notare che questa teoria apriva le porte al libertinismo e forniva una ai peccatori un motivo per non temere la punizione ultraterrena. Il nostro sosteneva infatti che l’anima, essendo immateriale, era necessariamente e per natura immortale: l’anima umana, dotata di unità di coscienza, in nessun modo potrebbe essere materiale, dal momento che nemmeno Dio può dotare la materia di coscienza.

Gli argomenti di Clarke, tuttavia, non riuscirono a convincere Anthony Collins che, fedele alla sua linea materialista, intervenne in difesa di Dodwell. Nella sua replica a Collins, il nostro sostiene che, se il pensiero nell’uomo è da considerarsi un modo della materia, allora la naturale conseguenza è quella di fare la stessa cosa anche per tutti gli altri esseri razionali, Dio compreso. In questo modo ogni essere pensante – perfino Dio – sarebbe governato da un’assoluta necessità meccanica, la stessa che regola i movimenti di un orologio. L’impossibilità di ogni autodeterminazione e il crollo dei fondamenti ultimi della religione sarebbero gli effetti più immediati.

La disputa con Collins è utile a chiarire meglio i tre punti attorno ai quali ruota l’argomento dell’immaterialità dell’anima per Clarke:

 

1.     La coscienza è necessariamente una facoltà individuale.

2.     Una facoltà individuale non può essere il risultato di (o inerire a) una sostanza divisibile.

3.     La materia non è – né potrà mai essere – una sostanza individuale.

 

La conclusione logica è che la coscienza non può essere un prodotto della materia, né tanto meno inerire ad essa.

Il primo punto, spiega Clarke, va inteso come espressione dell’ovvia unità della coscienza, che è necessariamente una e indivisa, e non una molteplicità di coscienze unite insieme. Collins accetta questa premessa e – in linea di massima – accetterebbe anche il terzo punto, con riferimento non alla materia per sé, ma solo ai sistemi di materia quali, ad esempio, il cervello. Egli, tuttavia, non è in accordo con Clarke nel sostenere che una facoltà individuale come la coscienza possa inerire soltanto ad una sostanza individuale: ergo, non ammette che solo una sostanza individuale come l’anima immateriale possa essere il soggetto della coscienza. I tentativi del nostro di ribattere alle obiezioni di Collins diedero vita ad un interessante dibattito che si protrasse per lungo tempo. È chiaro che per Clarke l’anima è per natura immateriale, ma può causare modificazioni nel corpo: questa capacità è conseguenza del suo essere dotata di libertà. Noi sperimentiamo questo potere causale semplicemente muovendo il nostro corpo. Collins obietta chiedendosi come sia possibile che una sostanza immateriale come l’anima sia indivisibile se si assume – come fa Clarke – che essa sia estesa. Il nostro risponde mostrando come queste proprietà dell’anima possano pacificamente convivere: l’anima immateriale, in stretta analogia con lo spazio, è estesa e indivisibile, poiché la forte interdipendenza delle sue parti fa sì che anche una sola divisione sarebbe sufficiente a distruggerne l’essenza.

Ma dove si trova l’anima? Come scrisse una volta a Leibniz, l’anima si trova in un posto particolare, chiamato sensorium, una parte del cervello. Clarke arriva a questa conclusione partendo da due premesse indipendenti: in primo luogo, una cosa può agire e causare effetti solo dove sostanzialmente si trova; in secondo luogo, l’anima interagisce con il corpo. L’anima è perciò sostanzialmente presente dove lo è (almeno) una parte del corpo.

 

3. Etica e Religione

 

Sebbene alcuni dei suoi sermoni contengano interessanti analisi di particolari virtù cristiane, l’esposizione più completa delle idee etiche di Clarke si trova nel Discorso sugli immutabili obblighi della religione naturale e sulla verità e la certezza della rivelazione cristiana, secondo insieme delle Boyle Lectures.

Clarke apre il suo discorso affermando che esistono chiaramente tra le persone diversi tipi di relazioni e che da queste relazioni nascono i concetti di “giusto” ed “ingiusto” che regolano i nostri comportamenti. Ad esempio, data la relazione di infinita incommensurabilità tra Dio e gli uomini, è giusto che noi onoriamo e adoriamo il Signore. In altre parole, da particolari relazioni fattuali eterne ed immutabili sorgono particolari obblighi altrettanto eterni e immutabili, obblighi che – nelle loro linee principali – possono essere appresi da chiunque abbia un minimo di ragione, sebbene in taluni casi ci si possa trovare in difficoltà a stabilire con precisione il confine tra il giusto e l’ingiusto. Essendo fondata – come la geometria – su relazioni universali, necessarie e immutabili, l’etica è per Clarke altrettanto universale e necessaria, indipendente da ogni volontà, umana o divina, e da ogni considerazione di punizioni o ricompense ultraterrene. La posizione di Clarke può perciò essere definita una forma di etica razionalista.

L’etica si suddivide in tre grandi rami che comprendono rispettivamente i doveri verso Dio, quelli verso gli altri uomini e quelli verso sé stessi. I doveri verso gli altri sono regolati dall’equità, che comanda di comportarsi con le altre persone come ragionevolmente ci si aspetta che gli altri si comportino con noi, e dall’amore, che comanda di favorire la felicità e il bene di tutte le persone. I doveri verso sé stessi comandano di preservare in buone condizioni la propria vita (materiale e spirituale) in modo tale da poter ottemperare ai propri compiti. Il suicidio è, perciò, sbagliato.

Dal momento che il volere di Dio non è corrotto dall’egoismo o dalla passione, le volizioni divine e i comandi morali hanno il medesimo valore: ergo, Dio vuole che noi seguiamo le leggi morali, un desiderio manifestato dai comandamenti che Dio ci ha inviato. Tuttavia, siccome le leggi richiedono sanzioni, ma queste sanzioni non sono uniformemente presenti in questa vita, i precetti morali sono accompagnati da punizioni e ricompense nell’altra vita.

Diversi punti fondanti della teoria etica di Clarke possono essere – e sono effettivamente stati – un facile bersaglio di critica. Per cominciare, egli non ha mai sufficientemente illustrato quale sia la natura di quelle relazioni tra le persone che fondano la sua morale, facendo smarrire i suoi seguaci e i suoi critici in una discussione infinita ed inconcludente. D’altra parte non è nemmeno del tutto chiaro come i doveri morali universali possano sorgere da queste relazioni che egli definisce de facto, benché eterne ed immutabili. Già David Hume lanciò a Clarke e alla sua etica l’accusa di “impotenza motivazionale”, in quanto la percezione intellettuale del “giusto” non può, di per sé stessa, muovere la volontà. Infine, la teoria del nostro autore soffre di mali più profondi, di problemi strutturali: la morale è infatti lacerata e divisa tra la necessità razionale di seguire i dettami etici e il naturale egoismo umano, una lacerazione che l’affermazione di Clarke circa il livello ideale come il solo livello al quale si devono riferire i doveri morali sembra difficilmente poter sanare.          



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