CRATILO

A cura di Diego Fusaro

"Tutto scorre".

La figura di Cratilo è avvolta da un alone di mistero: tutto quel che sappiamo sul suo conto lo dobbiamo ai riferimenti che a lui Aristotele e Platone fanno nelle loro opere. Con certezza possiamo dire che Cratilo fu un filosofo presocratico vissuto nel V secolo a.C. e che fu vicino ad Eraclito di Efeso, di cui fu discepolo e di cui estremizzò gli ammaestramenti. Per gettar luce sull’ombrosa figura di Cratilo, occorre pertanto fare costante riferimento al suo maestro e alle dottrine da lui elaborate: Eraclito è troppo spesso stato presentato come il "filosofo del divenire", ovvero come il pensatore convinto che l’universo nella sua interezza sia soggetto ad un incessante processo di cambiamento a cui nulla si sottrae. Ciò sarebbe attestato soprattutto dal celebre frammento in cui egli asserisce che "negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo": con tale constatazione – si è notato – egli intenderebbe mettere in mostra l’impossibilità di bagnarsi due volte nelle acque di uno stesso fiume, giacchè esse si rinnovano senza tregua; tale esempio non è che un’immagine lampante di ciò che avviene per ogni singola cosa dell’universo, sottoposta all’indeflettibile legge del divenire. In realtà, Eraclito è, più che il filosofo del divenire (benché la tematica del divenire in lui sia tutt’altro che assente), il filosofo della coincidenza degli opposti: nella sua prospettiva, l’universo non è che un insieme di contrari in guerra reciproca, ma esso risulta non già dal caotico guerreggiare de medesimi, bensì dall’armonica unità dei contrari (coincidentia oppositorum), compresenti in ogni cosa. Sicchè il frammento dei fiumi deve essere innanzitutto inteso in tal senso: quando ci immergiamo nelle acque sempre e di nuovo rinnovatisi di un fiume, ci troviamo nella condizione di essere immersi nel fiume e, insieme, di non essere immersi in esso. Ciò esemplifica perfettamente la situazione di "armonia discordante" che ha in mente il filosofo di Efeso: certo, in lui non è assente la tematica del divenire, ma è comunque secondaria rispetto a quella della coincidenza degli opposti. E’ invece Cratilo a portare alle estreme conseguenze ciò che in Eraclito è presente se non embrionalmente, almeno in maniera sfumata: il mondo così come lo concepisce Cratilo è il mondo del divenire, in cui tutto scorre via (panta rei) con una rapidità tale per cui diventa impossibile cogliere stabilmente l’essenza delle cose. Nulla è stabile, tutto scorre via senza posa in un flusso che non può mai essere arrestato in forme fisse. La conseguenza paradossale cui Cratilo addiveniva è l’impossibilità di nominare le cose, poiché esse – nel momento in cui le nomino – già sono divenute altro. Così, quando vedo una persona e la chiamo per nome, sto in realtà chiamando un qualcosa che non c’è più. Ne segue – ancor più paradossalmente – che, nell’impossibilità di nominare le cose, occorre limitarsi ad indicarle col dito. Significativamente Aristotele (Metafisica, IV 5, 1010A) ci fornisce un’importante testimonianza sul pensiero cratileo:

Costui [Cratilo] finì per convincersi che non si dovesse nemmeno parlare, e si limitava a muovere semplicemente il dito, rimproverando perfino Eraclito di aver detto che non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume: Cratilo, infatti, pensava che non fosse possibile neppure una volta.

Ben si evince come le posizioni eraclitee siano tenui se raffrontate con quelle radicali di Cratilo: non è possibile bagnarsi nelle stesse acque di un fiume nemmeno una sola volta, tanto è il divenire a cui esso è soggetto. Da ciò segue la tesi cratilea dell’inconoscibilità del reale: in quanto mai fissa, ma sempre fluente in un corso ininterrotto, la realtà non può mai essere afferrata – e dunque conosciuta – dal pensiero. Stando così le cose, Cratilo è non solo il filosofo del divenire, ma anche il filosofo dell’inconoscibilità del reale, tema sul quale egli è addirittura più radicale di quanto non saranno, in età ellenistica, gli Scettici (per i quali non è dato sapere se si conosca o meno la realtà). Sempre Aristotele riporta (Metafisica, I, 6, 987 A) che Platone stesso, prima del suo incontro decisivo con Socrate e col suo modo di far filosofia, sarebbe stato discepolo di Cratilo, da cui avrebbe desunto la convinzione del perenne fluire di ogni cosa:

Platone, infatti, essendo stato fin da giovane amico di Cratilo e seguace delle dottrine eraclitee, secondo le quali tutte quante le cose sensibili sono in continuo flusso e di esse non è possibile scienza, mantenne queste convinzioni anche in seguito.

In questa sua ricostruzione storica del pensiero platonico, Aristotele ci sta suggerendo che Platone, per sfuggire al panta rei prospettato da Cratilo come dominatore del mondo, escogitò la dottrina delle idee come enti perennemente stabili e sottratti al costante divenire imperante nel mondo sensibile: in questa plausibile ricostruzione, Platone avrebbe mutuato da Cratilo la concezione (che mai avrebbe abbandonato) del mondo in incessante divenire e avrebbe proposto la dottrina iperuranica delle idee come antidoto; in questa maniera, l’essere parmenide e il divenire cratileo troverebbero entrambi posto in una realtà dicotomica per cui il mondo fisico diviene senza tregua e quello ideale è fisso nel suo essere immutabile. Potremmo a questo punto dire che le preziose testimonianze riportate da Aristotele ci hanno aiutato a far luce su Cratilo, se non fosse che anche Platone, all’interno dei suoi dialoghi, ci fornisce informazioni imprescindibili su Cratilo e – cosa paradossale – esse non solo non coincidono con quelle aristoteliche, ma addirittura dicono cose opposte. Ci troviamo pertanto nell’imbarazzante situazione di aver dinanzi a noi due Cratili diametralmente opposti: finora abbiamo preso in esame quello di Aristotele, ma ora è giunto il momento di analizzare anche quello di cui ci parla Platone, che a Cratilo dedica un dialogo che porta il suo nome (il Cratilo appunto), costruito intorno al problema del linguaggio. L’aspetto paradossale è che fin dalle prime pagine di quest’opera Cratilo ci è presentato (di contro a quello aristotelico, propugnatore del perenne divenire delle cose, dell’impossibilità di nominarle e di conoscerle) come il fervido sostenitore della dottrina naturalistica del linguaggio, tale per cui esso non sarebbe il frutto di una statuizione degli uomini (come invece sostiene l’altro interlocutore dell’opera, Ermogene), ma, al contrario, avrebbe un’origine naturale (kata fusin): che la sedia si chiami sedia, dunque, non è il frutto di un accordo con cui abbiamo stabilito di attribuire ad essa tale nome, ma è piuttosto come se la natura stessa dell’oggetto ci avesse suggerito il nome da attribuirgli. Significativamente, il dialogo platonico si apre con un’esposizione delle tesi cratilee da parte di Ermogene a un Socrate che entra improvvisamente in scena, senza nulla sapere della tenzone filosofica che vede i due contrapposti:

Cratilo, qui presente, sostiene che ciascun essere possiede la correttezza del nome che per natura gli conviene e che il nome non è quello col quale alcuni, come accordatisi a chiamarlo, lo chiamano, mettendo fuori una piccola parte della propria voce, ma che una correttezza riguardo i nomi esista per natura per Greci e barbari ed è la stessa per tutti. Io gli domando dunque se egli ha a nome Cratilo conforme verità ed egli ne conviene. "E che dire", gli chiedo, "per Socrate?" "Socrate", mi risponde.

Ne segue, allora, che – nominando le cose – si coglie in maniera fissa, stabile e incontrovertibile (l’errore non è in alcun caso possibile) la loro essenza: ma ciò è l’esatto opposto di quel che sostiene il Cratilo di cui parla Aristotele, quel Cratilo per il quale la realtà scorre così in fretta che non è possibile conoscere le cose né nominarle. Chi dunque – Aristotele o Platone? – dice il vero? E’ storicamente esistito il Cratilo aristotelico, quello del perenne fluire di ogni cosa, o quello platonico, dei nomi come copia infallibile della realtà? Non possiamo fornire una risposta certa, ma possiamo presumibilmente ritenere più attendibile la testimonianza aristotelica, soprattutto in riferimento al fatto che il Cratilo platonico è innanzitutto un piacevole divertissement di Platone (prova ne è l’ampia sezione dedicata alle etimologie, in cui Socrate si sbizzarrisce nelle etimologie più strampalate): del resto, che la cornice del dialogo venga nel Cratilo impiegata in maniera "ironica", quasi come una prova di bravura dialettica, è provato dal fatto che Cratilo, in ogni situazione renitente ad accettare le tesi mediane di Socrate (a metà strada tra convenzionalismo e naturalismo), finisca poi per accettare con entusiasmo proprio la parte più caduca del discorso socratico, ovvero quella inerente alle etimologie; come se non bastasse, Cratilo è convinto che il Socrate delle etimologie sia invasato e parli per tramite di una divinità! Forse non è casuale, tuttavia, che il naturalismo di cui Cratilo è vessillifero porti in fin dei conti ad una sorta di relativismo in bilico fra eraclitismo e protagonismo, tale per cui è impossibile attribuire nomi falsi; ogni nome è giusto (è messa al bando la possibilità dell’errore, in maniera protagorea) perché dettato dalla natura stessa dell’oggetto di cui è nome, cosicché esso non fa che cogliere in maniera fissa ed infallibile l’essenza della cosa. Sulla serietà dell’Aristotele storico della filosofia, invece, non v’è dubbio alcuno, cosicché possiamo fidarci della sua testimonianza senz’altro più di quanto non possiamo nei confronti di quella di Platone, inserita in quello spaesante contesto rappresentato dal dialogo platonico. Dei due Cratili tramandatici dalla tradizione tende dunque ad imporsi, grazie alla voce veritativa di Aristotele, quello del panta rei, sebbene il fantasma del Cratilo naturalista dei nomi non possa del tutto dirsi allontanato.


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