Demonatte


"Errare è degli uomini; ma sollevare chi è caduto in errore è di un Dio, o di un uomo simile a un Dio ".


 

Demonatte fu esponente della corrente radicale del Cinismo; egli fu contemporaneo di Enomao. Per la verità, Demonatte temperò, in alcuni punti, certi eccessi del Cinismo: "non falsava i suoi costumi e le maniere per essere ammirato", ci riferisce Luciano, ossia per attirare su di sé ostentatamente l’attenzione della gente, e, in particolare, non si abbandonava a gesti estremistici tipici della cinica "anaideia".

D’altra parte, egli espressamente confessava di non ammirare solamente Diogene, ma di rispettare Socrate e di amare Aristippo. Studiò anche il pensiero di altri filosofi e non in modo superficiale; cosa, questa, non comune fra i Cinici. Dal Cinismo trasse, in primo luogo, il grande amore per la libertà e il "franco parlare", e nella "libertà" fece consistere la felicità. Ecco alcune significative testimonianze di Luciano:

Demonatte [...] spregiò tutti i beni umani, non volle altro mai che essere libero e liberamente parlare. (Epitteto, Diatribe, III, 22, 45-54)

Uno gli domandò in che riponeva egli la felicità. Rispose: "Solo l’uomo libero è felice". E quegli: "Ce n’è tanti liberi!". Ed egli: "Per me è libero chi non teme né spera nulla". E colui: "Ma come ci può essere costui, se tutti siamo servi di queste due passioni?". Ed egli: "Se consideri le cose umane, troverai che per esse non si deve né sperare né temere, perché passano tutte e le piacevoli e le spiacevoli".

Anche il suo atteggiamento nei confronti della religione pubblica, dei misteri e delle credenze circa l’anima e le sue sorti nell’aldilà fu in piena sintonia con il radicalismo cinico e, anzi, proprio per questo fu accusato e chiamato in giudizio, sulla base dell’accusa formale di non essere mai stato visto sacrificare agli Dei e di non essere mai stato iniziato ai misteri eleusini. Dall’accusa egli si difese brillantemente, sostenendo, in primo luogo, che gli Dei non hanno bisogno dei sacrifici degli uomini, e, per quanto concerne i misteri, sostenendo che egli non avrebbe in alcun caso potuto rispettarli e non parlarne ai non iniziati: infatti se gli fossero sembrati cattivi, lo avrebbe rivelato per distogliere i non iniziati da cose cattive, e se gli si fossero rivelati buoni ne avrebbe parlato a tutti per amore dell’umanità. Circa le sue opinioni intorno all’immortalità dell’anima e alle sue sorti ecco quanto Luciano riferisce:

Uno gli domandava se l’anima è immortale. "È immortale come ogni altra cosa" egli rispose.

Gli domandò alcuno: "Che cosa credi che ci sia nell’inferno?". "Attendi che io vi sia – rispose – e di là te ne scriverò".

Anche il culto dell’esercizio e della fatica fu da lui ribadito e fu esaltata l’autarchia.

Demonatte riprese, inoltre, la componente filantropica del cinismo, che, prima di lui, soprattutto Cratete aveva saputo far valere. Scrive Luciano a questo riguardo:

Non fu mai veduto gridare, contendere, adirarsi, neppure se doveva sgridare qualcuno: riprendeva i vizi, ma perdonava ai viziosi, e diceva doversi imitare i medici che curano le malattie, e non si sdegnano con gli ammalati. Credeva appunto che errare è degli uomini: ma sollevare chi è caduto nell’errore è di un Dio, o di un uomo simile ad un Dio.

E ancora:

Cercava di rappacificare i fratelli discordi, di mettere pace tra le mogli ed i mariti, e talvolta nelle dissensioni dei popolo parlò opportunamente, e persuase la moltitudine a fare il bene della patria. Di questa natura era la sua filosofia, dolce, amabile, allegra. Solamente lo addolorava la malattia o la morte di un amico perché stimava l’amicizia il maggior bene degli uomini: e perciò egli era l’amico di tutti, e teneva per prossimo chiunque era uomo.

E infine:

Visse intorno ai cent’anni senza malori, senza dolori, non importunando alcuno, né chiedendo nulla, utile agli amici, senza aver mai un nemico. Tanto amore avevano per lui gli Ateniesi e tutti i Greci, che quando egli passava, i magistrati si alzavano in piedi, e tutti si tacevano. Essendo assai innanzi negli anni spesso gii avveniva d’entrare a caso in un’abitazione, e ivi mangiava e dormiva, e la gente di quella casa credeva che fosse comparso un dio, e che fosse entrato un buon genio in casa loro.


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