L’UTOPIA: DAGLI ALBORI DELLA STORIA FINO AD OGGI.
E’ ANCORA POSSIBILE UN PENSIERO UTOPICO?



Che cos’è un’utopia? E’ una terra di perfetta armonia, dove vige la giustizia e da dove le iniquità sono state bandite, anzi, dove propriamente non sono mai esistite, a dispetto della società in cui quotidianamente ci troviamo a vivere, fluttuante tra le imperfezioni e i difetti della peggior specie. Nel linguaggio comune, si dice che è utopico un progetto immaginario, una fantasticheria che non è realizzabile, ma che se lo fosse sarebbe un bene: ogni tanto fa a tutti piacere sottrarsi all’ordinarietà della vita per trovar rifugio nelle sconfinate lande dell’utopia, del mondo fatto su misura per noi. “Utopia” è un termine greco, anche se non furono i Greci a coniarlo, ma un pensatore cristiano vissuto in età rinascimentale, Tommaso Moro: inappagato della realtà in cui viveva, del clima di accesa intolleranza che in quegli anni si respirava nell’Inghilterra dilaniata dai conflitti religiosi, egli volle immaginare un’isola felice, sulla quale gli abitanti conducessero una vita migliore, più umana e solidale.

A quest’isola immaginaria attribuì il nome di “Utopia”, giocando sulla bivalenza del termine: esso infatti, può derivare tanto dal greco ou - topos (luogo che non c’è), quanto da eu (bene) + topoV (luogo felice); in un certo senso, comunque, i due significati erano compresenti nell’accezione in cui Moro intendeva la sua isola fantastica, visto che essa era sì un luogo inesistente nella realtà, ma anche un luogo felice, in cui regnava la concordia e la pace tra gli uomini. I motivi che hanno indotto nella storia i pensatori a prendere le distanze dalle società reali e a rifugiarsi in costituzioni e paesi immaginari, frutto della loro fervida fantasia, possono essere tanti: primo fra tutti è senz’altro la profonda insoddisfazione nei confronti dello stato di cose, un senso di amara delusione per il paese in cui si vive. Di fronte a ciò però, sembrerebbe più saggio mobilitarsi per cambiare le cose che non estraniarsi e trovare asilo politico in fantasmagoriche città che, almeno nella realtà, non esistono: il problema è che mutar le cose non è semplice, e anzi, talvolta è impossibile.

Questo è il caso di Tommaso Moro, che nulla poteva fare di fronte ad una società ingiusta come quella inglese, che vedeva ogni giorno crescere la massa dei nullatenenti grazie a quei brutali atti di violenza con cui i terreni comuni venivano espropriati e passavano nelle mani dei signorotti locali. Ma, tornando indietro nei secoli, è anche il caso di Platone, il filosofo ateniese che, dopo aver per qualche tempo nutrito la speranza di far diventare filosofo il tiranno di Siracusa, venne smentito e da lì nacque il suo disincanto: uno stato perfetto, in questo mondo, mai c’è stato né mai ci sarà, e l’unica cosa saggia che si possa fare è provare a tratteggiarne uno, assolutamente ideale, che serva da modello e, al contempo, da critica a quello reale.

Ed è su questi presupposti che ebbe origine la “Repubblica”, il poderoso scritto in cui Platone tracciava uno stato perfetto, destinato ad essere preso a modello per interi secoli, dai comunisti, dai socialisti e, in qualche modo, perfino dai nazisti, che nei loro zaini custodivano sempre una copia del testo, affascinati soprattutto dalla vita “cameratesca” e dalla selezione “eugenetica” proposta da Platone. Solo Popper si accorse delle insidie che si annidavano nello scritto platonico, cogliendo in esso una forma di “società chiusa”, che, in quanto già perfetta, non ha alcun bisogno di “aprirsi” al confronto con altre società: ed è questo, secondo il pensatore viennese, un carattere in qualche misura comune a tutte le utopie, in quanto tutte avanzano la pretesa di essere modelli perfetti; dal canto suo, invece, la “società aperta” non è perfetta, ma ha coscienza della propria imperfezione ed è perciò stimolata al confronto con le altre società, per potersi così perfezionare incessantemente.

Le critiche mosse da Popper all’utopia non sono certo fuori luogo, anche se, forse, un po’ forzate: si ha quasi l’impressione che Popper, nella foga, finisca per dimenticare che si tratta di utopie, ossia di società paradigmatiche, che sono sì perfette, ma inesistenti e, al contempo, irrealizzabili, cosicchè non è del tutto corretto criticarle come se già si fossero concretizzate. Lo stesso Platone era pienamente cosciente dell’inattuabilità del suo ambizioso progetto: ed è per questo che, successivamente, egli lo accantonò e passò a delineare, nel suo scritto “Le leggi”, uno “stato secondo”, ossia un’altra società, meno perfetta, ma - a differenza dello “stato ideale” - non incompatibile con la realtà. Ciò non toglie che anch’essa fosse in qualche misura utopica e altamente rivoluzionaria, mirante a contestare la città di Atene in carne ed ossa, quella città che aveva mandato a morte Socrate, il suo uomo migliore. In questo senso, un’utopia è un progetto pensato a cui la realtà deve tendere, ma con cui non potrà mai identificarsi: non ci sarà mai lo stato ideale immaginato da Platone, ma potrà esserci uno Stato che si ispira il più possibile al progetto platonico, pur con un inevitabile margine di differenza, dovuto in buona parte alla naturale impossibilità di calare perfettamente un’idea nella materia concreta. In questo senso, l’immagine che probabilmente meglio esprime il significato delle utopie è quella delle idee kantiane: esse sono forme mentali a carattere infinito e, per questo, non possono mai trovare un corrispettivo nella realtà finita; così l’idea di Dio, di anima e di mondo non potremo mai applicarle alla realtà, “riempendole” di contenuto empirico, ma ciò non toglie che esse abbiano un ruolo costitutivo ed euristico, servono cioè a guidare l'indagine verso sempre maggiore unitarietà e sistematicità, sono il faro che illumina il mio conoscere.

Nella prospettiva kantiana, tenderò dunque a sistematicizzare all'infinito il mio sapere, a organizzare le mie conoscenze interne “come se” potessero essere attribuite ad un'unica sostanza (l'anima), oppure ad organizzare tutte le mie esperienze esterne “come se” appartenessero ad un unico mondo, o ancora ad organizzare tutte le mie conoscenze (interne ed esterne) “come se” fossero effetti di un'unica causa (Dio). Sotto questo profilo, anche l’utopia è un’idea: è un fine a cui aspirare, pur nella consapevolezza della sua irrealizzabilità; sono tenuto a cambiare lo stato di cose in vista del progetto utopico, pur sapendo che non potrò mai raggiungerlo completamente. E’ un modello a cui tendere all’infinito, è una strada infinita che porta alla perfezione, forse perché è ricercando l’impossibile che abbiamo sempre realizzato il possibile.

Eduard Bernstein, nel suo scritto del 1899 “I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia”, legge in chiave kantiana il socialismo, arrivando a proclamare che la rivoluzione profetizzata da Marx non ci sarà mai: il socialismo è, ai suoi occhi, un’idea kantiana, un modello di società perfetta da seguire, ma che non troverà mai una realizzazione. Chi si abbandona ad immaginare società utopiche, lo fa perché non appagato dalle società reali: Leibniz, ad esempio, con uno spirito esasperatamente ottimistico, sostiene che tra tutti i mondi possibili, Dio ha creato il migliore, cosicchè perde di significato sperare in società migliori. Nel Novecento, Ernst Bloch insiste sul fatto che la realtà data non appaga mai pienamente il soggetto e, sotto questo profilo, non è “vera”: la verità cui tende il soggetto, immaginando e bramando quel che gli manca, non è data, ma è utopia che trascende il presente in direzione del futuro. Il pensiero utopico può scoprire tracce del futuro nel passato e oltrepassa sempre il dato per mirare al futuro, che assurge in posizione di primato. Esso, però, si distingue dalla pura e semplice fantasticheria in quanto media con quel che intende oltrepassare, cioè con le tendenze reali operanti nel presente, come aveva insegnato il maestro Marx: sotto questo profilo, esso è - secondo Bloch - utopia concreta, possibilità reale.

Al centro del pensiero utopico c'è, dunque, la nozione di dialettica, indispensabile per inserirsi in maniera efficace all'interno delle contraddizioni che presenta la realtà e collegarsi al movimento reale della storia per realizzare la verità utopica. La speranza , come attesa trepidante del nuovo apportatore di salvezza, occupa una posizione di primato tra gli affetti. Con queste riflessioni, Bloch elabora un’ontologia del “non-essere-ancora”, per la quale è costitutivo dell'essere in generale il non essere ancora, l'anticipare il futuro e il mirare ad esso: la sua realtà è realtà di qualcosa che è nel futuro e il futuro è già reale come possibilità oggettiva. Da ciò egli fa derivare che il regno della libertà - vera utopia - non è il regno di Dio, ma il regno dell'uomo nuovo su una terra nuova, cioè il regno della fine dello sfruttamento dell'uomo e della natura, in cui natura e uomo possano trovare il proprio compimento in un'alleanza pacifica tra di loro, venendo a formare un armonioso binomio indisgiungibile. Ma non tutti i progetti ideali a cui tendere sono, necessariamente, utopie, nell’accezione di “luoghi felici”: non sempre, infatti, le idee sono superiori alla realtà - cosa di cui Platone pare non essersi accorto. Ed è quindi bene operare una distinzione tra “utopico” ed “utopistico”: un progetto utopico si distingue da uno utopistico per il fatto che è altamente positivo, degno di essere concretizzato; sotto questo profilo, l’abolizione della schiavitù può essere definita utopica, un modello “buono” da cui trarre ispirazione. Al contrario, qualora non sussistesse la schiavitù, sarebbe utopistico il progetto di ripristinarla: sarebbe cioè un qualcosa di negativo, indegno di essere applicato.

Ma quale potrà essere il criterio per giudicare se un’utopia ha carattere utopico o utopistico? Esistono valori assoluti? Esistono, cioè, cose utopiche in sé e altre utopistiche in sé? Forse, già solo per il fatto che non tutti concordano su cosa sia utopico e cosa invece utopistico, è più corretto ritenere che la pietra di paragone siano gli uomini, in particolare la maggioranza: ciò che ai più pare un progetto utopico, sarà tale; ciò che, viceversa, ai più pare utopistico, sarà utopistico. Che i singoli individui si trovino d’accordo, è cosa difficile: ad esempio, a Popper il progetto di società ideale proposto da Platone pare utopistico; a me può invece sembrare utopico, ma non è possibile dire chi abbia ragione in assoluto, sebbene io possa dare per scontato che quelli che per me sono valori, lo siano in assoluto, a tal punto da delineare una città in cui quei valori diventano universalmente validi. Quasi tutti gli “ingegneri” di città utopiche nel corso della storia si sono accorti, o almeno hanno intuito, di come, vivendo in una società, si finisca per adeguarsi ad essa e ai suoi costumi, vivendola come l’unica possibile e non come una fra le tante: quasi come se si venisse assorbiti e inghiottiti dalle sue strutture, perdendo la propria autonomia di pensiero.

Questo avviene, probabilmente, perché il nostro pensiero prende sempre le mosse dal contesto materiale in cui ci muoviamo: così chi vive in Europa troverà assolutamente assurde le usanze invalse in Oriente, senza accorgersi che le sue di Europeo, agli occhi di un Orientale, presentano lo stesso carattere di assurdità. Di ciò si accorsero in primo luogo i Sofisti, con quel loro relativismo che investiva ogni ambito della realtà: ma non furono i soli; nell’età in cui risplendevano i Lumi della Ragione, Montesquieu compose una lettera che immaginava scritta da un gruppo di Persiani in visita a Parigi, destinata a dei loro amici in Persia. Da essa traspare un senso di sconcerto per le usanze europee, così diverse da quelle persiane: l'ovvio e il quotidiano diventano l'assurdo e il grottesco e il lettore viene abituato all'ottica del relativismo culturale: la Francia e l'Europa non sono più il centro, ma solo un angolo del mondo. Ora, chi vive arroccato nella sua società, senza guardar fuori, nutre la convinzione che ciò che non rientra nelle tradizioni in vigore in essa, sia diverso e quindi inferiore, di minor valore e dunque da combattere: fatta eccezione per i Sofisti, che si accorsero, con estrema acutezza, di come non esista un vero, di cui sarebbero in possesso i Greci, ma una miriade di verità (per dirla con Pirandello, la verità è una, nessuna e centomila), cosicchè le tradizioni dei Persiani sarebbero vere per i Persiani, quelle dei greci sarebbero vere per i Greci e così via, la restante parte del popolo greco rimaneva fedelmente legata ai costumi della sua città, senza osar discostarsene. Anche perché l’uomo greco era polithV nella misura in cui compartecipava delle attività della polis: Socrate stesso, di fronte all’infamante accusa di sovversione della religione e di corruzione dei giovani, rifiuta di evadere e di trasgredire la legge, perché, così facendo, commetterebbe ingiustizia non verso i suoi calunniatori, ma verso la poliV, nei confronti della quale egli è profondamente debitore.

Questo attaccamento alla società così come essa si presenta nella realtà - attaccamento che si è conservato fino ai giorni nostri -, sfocia facilmente in quella che Marx definiva “ideologia”, cioè quel particolare atteggiamento che mira a legittimare lo stato di cose, inteso come espressione della massima razionalità. In tal prospettiva, è vittima di un’ideologia il padrone che si schiera in difesa del feudalesimo, il borghese che argomenta in favore del capitalismo, e anche colui che assume le difese della società in cui vive, senza sviluppare alcuna istanza critica verso di essa. Potrebbe essere questo il caso del già citato Leibniz, fervido sostenitore dell’idea che il mondo in cui viviamo è il migliore tra quelli possibili; lo stesso Hegel sostiene che la realtà esistente è espressione della razionalità e, pertanto, è inutile cercare società alternative. Lo stesso Aristotele, a differenza del maestro Platone, che aveva constatato con amarezza la frattura incolmabile tra ideale e reale e la netta inferiorità di quest’ultimo, non dà spazio all’interno del proprio sistema a progetti utopici, poiché - com’egli ama spesso ripetere - la natura non fa nulla invano: ogni cosa è, secondo Aristotele, giustificata nell’economia del tutto ed è orientata ad un preciso fine, con la conseguenza che non c’è bisogno di alzare lo sguardo a fantastici “mondi migliori”.

A cavallo tra Ottocento e Novecento, Karl Mannheim riprende in un certo senso la concezione marxiana: egli riconosce che gli utopisti sono individui e gruppi scarsamente concreti, poco rispettosi della realtà effettuale e in genere incapaci di “diagnosi corrette” relativamente al mondo in cui vivono. Dall'altro, però, sottolinea che il loro proiettarsi verso situazioni o idealità nuove ha una considerevole valenza positiva e innovatrice, capace di rivoluzionare la realtà. In effetti, mentre il pensiero ideologico è essenzialmente quello dei gruppi dominanti, che tendono a nascondere lo stato reale della società allo scopo di mantenerlo così com'è (e pertanto esercitano su di esso una funzione conservatrice), il pensiero utopico assume un atteggiamento risolutamente critico nei confronti di tale società e tende a elaborare una nuova direttiva per un'azione trasformatrice della realtà. L'utopia si configura così come una realtà che non c'è ma che può essere realizzata: una verità forse prematura ma ricca di un suo irriducibile valore, alla quale è bene tendere fin d'ora.
Delle principali utopie della storia d'Occidente, Mannheim esamina alcuni esempi concreti: la prospettiva chiliastica degli anabbattisti, il liberalismo/umanitarismo settecentesco, il socialismo/comunismo del secolo successivo. E Mannheim fa una vigorosa difesa dello spirito utopico nel mondo contemporaneo: egli conosce bene le cause, anche assai fondate, che hanno condotto la moderna civiltà d'Occidente a diffidare dei movimenti utopici, così spesso emotivi e irrazionali, ma è anche convinto che la passionalità e la fede degli utopisti sono dei valori da non perdere: soprattutto in un'epoca caratterizzata dal crescente successo di una mentalità prosaica, razionalistica nel senso più ristretto del termine, privilegiante il mero funzionamento meccanico dell'esistente. Di qui il vivo elogio mannheimiano della dimensione intellettuale dell'utopia: la sola in grado di rilanciare quella tensione spirituale (trasformatrice ed emancipatrice della realtà) che appare oggi più che mai indispensabile. Così egli scrive nel suo celebre saggio del 1929, “Ideologia e Utopia”:
“La completa sparizione dell'elemento utopico del pensiero e della prassi dell'individuo verrebbe a dare alla natura e allo sviluppo dell'uomo un carattere radicalmente nuovo. La scomparsa dell'utopia porta a una condizione statica in cui l'uomo non è più che una cosa. Ci troveremmo allora dinanzi al più grande paradosso immaginabile: al paradosso, cioè, che l'individuo proprio in quanto ha conseguito il massimo livello di razionalità nel controllo della realtà, resta senza ideali e diviene una pura creatura impulsiva”.
La distinzione fondamentale - che campeggia a partire dal titolo - è tra ideologia ed utopia: di fronte allo stato di cose, si può assumere un atteggiamento conservatore, volto a legittimare la realtà (in questo caso si ha l’ideologia), oppure ribellarsi ad essa, contrapponendo un modello ideale e giusto a cui far riferimento (si parla allora di utopia). Ma sui caratteri dell’utopia nel Novecento - su cui insiste Mannheim - torneremo più avanti, dopo aver messo in chiaro le concezioni affiorate nelle età precedenti. Piuttosto, pare che, per alcuni versi, l’utopia possa essere terra di frontiera tra la “reazione” e il mito: come vedremo meglio più avanti, Cicerone tratteggia uno stato utopico non proiettato verso il futuro, ma teso al passato, a restaurare cioè quei valori andati perduti. Fino a che punto è legittimo parlare, in questo caso, di utopia, e non - piuttosto - di nostalgico rimpianto? Ora, se l’utopia è un concetto dalle forti connotazioni rivoluzionarie, di rottura sì con il presente, ma in vista del futuro, a che titolo possiamo definire “utopico” un progetto che aspiri a restaurare modelli sorpassati dalla storia? Ma è ancora più problematico, forse, tracciare un netto confine tra l’utopia e il mito, tra il progetto ideale e l’immagine irreale: è difficile stabilire la differenza, anche perché spesso l’utopia tende a sfumare nel mito, e viceversa. Eppure, secondo Sorel le due cose sono diversissime: l’utopia è un’invenzione di istituzioni immaginarie, un rifugio per sottrarsi alla realtà; il mito, invece, è qualcosa di più profondo, che corrisponde ad un complesso di immagini in grado di agire sull'istinto, sprigionando in questo modo l'azione.

Benchè entrambi rivolti alla prassi futura, il mito si definisce attraverso la sua contrapposizione all'utopia: mentre quest'ultima è una rappresentazione intellettuale che può essere razionalmente esaminata e discussa, e che quindi non ha un effetto pratico dirompente, il mito è l'espressione immediata per immagini della volontà che attende di tradursi in azione. In questo senso, non ha alcuna rilevanza il fatto che il contenuto del mito sia o non sia realizzabile: in ogni caso esso diventa il potente motore dell'azione dell'uomo e la sola fonte di creazione di nuova realtà. In questo senso, il mito è una pulsione irrazionale e istintiva, capace di smuovere la realtà in modo improvviso, mentre l’utopia è piuttosto una ragionata riflessione sulle contraddizioni del presente, una riflessione che - proprio in quanto tale - è destinata a dare i suoi frutti, nel caso li dia, solo sul lungo termine.

Sembrerebbe, da quanto detto finora, che l’ “ingegnere” di città utopiche si faccia portavoce di un messaggio relativista, quasi come se si proponesse di delineare stati diversi per mettere in luce la relatività di quei valori che nella società in cui vive sono assolutizzati. In realtà, propriamente, le cose stanno in altri termini: l’utopista, nel corso della storia, non è un relativista, poiché il suo ufficio non è solamente quello di mettere in evidenza l’irrazionalità che regna nel reale e la relatività dei suoi valori, ma è anche di fissare valori incrollabili, universali, i migliori che ci siano. E del resto, se tutto fosse in balia di un fluire costante, immerso in un relativismo totale, una società ideale non varrebbe più di una reale, essendo in tal modo caratterizzate da un identico tasso di relatività: l’utopista mette sì in mostra come si tenda ad adeguarsi alla città in cui si vive, ma lo scopo di questa sua azione non è quello di propugnare il relativismo, bensì quello di chiarire che la società in cui viviamo e che a noi pare la migliore possibile, in realtà sia imperfetta, del tutto inadeguata rispetto a quella utopica da lui disegnata, dove invece si potrebbe vivere la miglior vita possibile, in un luogo che viene spesso connotato con le caratteristiche tipiche del “locus amoenus”. In tal senso, un magnifico esempio di locus amoenus, non privo delle connotazioni utopiche, è l’isola di Calipso, nella quale Ulisse entra a contatto con una natura verdeggiante e policromatica, di cui l’uomo è parte integrante, e conduce una vita divina, salvo poi abbandonare l’isola per far ritorno ad Itaca, nel mondo della realtà.

L’utopista è, come abbiam detto, convinto dell’irrazionalità del reale, cui contrappone la razionalità della città utopica, con i suoi valori universalmente validi: anche se, ad onor del vero, il fatto che ogni città utopica delineata nella storia rispecchi i valori ideali propri della sua epoca, sembra deporre a favore del relativismo; eppure, se leggiamo le più grandi opere utopiche, ci accorgiamo facilmente di come alcuni valori siano ricorrenti e quasi invariati: da Platone fino ai socialisti utopisti dell’Ottocento, nella società ideale è stata abolita la proprietà, fonte di burrascose contese fra gli uomini e generatrice dell’odio e dell’invidia; ma non solo: anche la comunione delle donne è un tratto spesso comune, lo troviamo già nella “Repubblica” di Platone, e viene predicato ancora da Marx, che pure non voleva assolutamente essere etichettato come utopista. Ma un’utopia può essere proiettata nel futuro oppure nel passato: così Esiodo, nelle “Opere e i giorni”, contrappone, alla società a lui contemporanea, una mitica età dell’oro, in cui gli uomini “come dèi vivevano, senza affanni nel cuore, / lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava / la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, / nei conviti gioivano lontano da tutti i malanni; / morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni / c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra / senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti, / sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti, / ricchi d’armenti, cari agli dèi beati”. Lo stesso paradiso terrestre dei Cristiani - prima del peccato di Adamo ed Eva -, quel fantastico mondo utopico in cui si viveva senza lavorare e soffrire, godendo a tempo pieno, molto deve ad Esiodo. Anche Platone, nel “Crizia”, immagina una formidabile civiltà del passato, fiorita sull’isola di Atlantide, in cui la vita scorreva serena e felice e in cui la proprietà privata e la guerra erano state eliminate: gli uomini però insuperbirono, peccando di tracotanza e di irriverenza verso gli dèi, e fu per questo che il padre Zeus volle punirli facendo sprofondare l’isola.

Anche alcuni illuministi tendevano spesso a guardare con simpatia al passato: è questo il caso di Rousseau, che, dopo aver preso atto che l’uomo nasce libero, ma ovunque è in catene, criticava la società del suo tempo, incentrata sul denaro e sulla proprietà e dimentica dei valori più squisitamente umani; ad essa egli opponeva un mitico passato in cui l’uomo era selvaggio ma più umano, un passato che era a quei tempi ancora presente nelle civiltà meno progredite dell’America e che trova nel romanzo “Robinson Crusue” di Defoe una conferma. Ma è soprattutto sul futuro che si affacciano i progetti utopici, un futuro difficile da identificare e da prevedere, un futuro che forse è destinato a rimanere sempre futuro: così Platone, dopo aver prestato attenzione al passato nel “Crizia”, con la “Repubblica” volge lo sguardo all’avvenire. Il punto di partenza è la definizione dell’uomo giusto, in particolare il tentativo di confutare le tesi di certa sofistica che vogliono negare ogni forma di giustizia naturale e propugnare il diritto del più forte. Una tesi difficile da smontare, ma non impossibile: Platone lo fa - per bocca di Socrate - ricorrendo ad un esempio probante: i briganti, coloro cioè che sostengono il diritto del più forte, dopo aver compiuto una rapina, dovranno pur spartirsi il bottino, e per farlo dovranno necessariamente ricorrere a qualche criterio di giustizia.

Ma, allora, se c’è una giustizia vuol dire che è possibile distinguere con certezza il giusto dall’ingiusto e, di conseguenza, che un uomo può essere più giusto di un altro, e così una società più di un’altra: si tratta dunque, per Platone, di capire chi realmente sia l’uomo integro indagando su quale sia la società giusta, al cui delineamento è dedicata buona parte dell’opera. Nella società ideale verranno eliminate la proprietà privata e la famiglia, in modo tale da far sì che scompaiano l’invidia e l’arroganza e ciascuno ami il suo prossimo come un familiare. Nella società platonica non c’è posto per le differenze tra uomini e donne, che peraltro sono talmente irrisorie da essere accostate a quelle che intercorrono tra calvi e chiomati: se anche gli uomini sono congenitamente più forti, non esistono, propriamente, mansioni maschili, che siano interdette alle donne. Indistintamente dal sesso, gli individui sono divisi in classi di appartenenza: al gradino più basso vi sono i produttori, il cui ufficio è di generare benessere per al società; al secondo posto troviamo invece i guardiani, preposti alla custodia dello stato e, infine, al vertice della piramide, sono i governatori, che si identificano con i filosofi.
A partire dalla nascita, essi seguono una rigida educazione volta a far loro acquisire le giuste competenze per governare: nei primi anni di vita vengono educati alla musica e all’attività fisica, successivamente alla matematica, la quale nel sistema platonico occupa un posto di grande rilievo, e, infine, intraprendono la via della conoscenza filosofica. Ciò che risulta più paradossale è che, dopo aver esercitato la pratica filosofica, essi non vorrebbero assolutamente abbandonarla per passare a governare la città: ed è per questo che, secondo Platone, essi devono essere coercitivamente portati sul trono, a prendersi cura dello stato. A capo della città ideale di Platone sta dunque il filosofo, ossia colui che ha raggiunto una piena conoscenza di che cosa sia il Bene e che, pertanto, può scegliere per il bene della comunità: l’itinerario educativo dei futuri sovrani viene anche illustrato, con dovizia di particolari, nel famoso mito della caverna platonica, dove chi si libera dalle catene che lo tengono imprigionato sul fondo della caverna, risale in superficie a contemplare la realtà nella sua essenza ideale, per poi far ritorno nelle profondità da cui si era allontanato, in modo tale da poter illuminare anche gli altri uomini con le conoscenze acquisite.

E’ particolarmente significativo come Platone, artista fra gli artisti, proibisca l’arte nella città ideale, in quanto convinto che essa altro non sia se non una copia di oggetti che popolano un mondo di second’ordine, del tutto inferiore a quello ideale; una copia che, per di più, è incline a trasmettere ai giovani valori esecrabili, a presentare dèi ed eroi in atteggiamenti poco convenienti, in preda a passioni o a collere inaccettabili. Si salvano solo la musica e la poesia patriottica, cui Platone riconosce il merito di indirizzare la gioventù sulla retta via. Parecchi secoli dopo, Plotino riprenderà gli insegnamenti platonici e avanzerà la proposta di far sorgere in Campania una vera città basata sui precetti platonici, cui dare il nome di Platonopoli: nonostante l’amicizia dell’imperatore Galieno, il progetto sfumò per l'opposizione di membri della corte, ma non si deve pensare che esso fosse la reviviscenza del filosofo-politico di stampo platonico; la città a cui Plotino aspirava era piuttosto il rifugio del filosofo e dei suoi compagni e, in questo senso, essa é stata paragonata a una sorta di monastero o convento pagano.

Nonostante l’aspra critica mossa da Popper al disegno platonico, l’utopia della “Repubblica” era destinata a grande successo: già in età ellenistica Zenone di Cizio fu autore di un’opera omonima, in cui immaginava un fantasmagorico stato poggiante su valori comunemente riconosciuti come dis-valori: venivan difese l’abolizione della moneta e dei matrimoni e la distruzione dei templi, era predicata la liceità dell’incesto e, in extremis, dell’antropofagia; la vera comunità doveva, secondo Zenone, ruotare attorno alla comunità degli uomini “buoni”, che egli in seguito avrebbe identificato con il saggio stoico. Anche nella descrizione delle prerogative che si attagliano a questa figura non mancheranno i connotati utopici: il vero saggio sarà, secondo Zenone e gli altri Stoici, colui che saprà vivere con assoluta razionalità, seguendo l’ordine del cosmo e raggiungendo una perfetta armonia con esso: dalla coscienza della sua virtù scaturirà in lui una felicità incrollabile, destinata a non essere nemmeno scalfita qualora fosse torturato nel temibile bue di Falaride. Ma Zenone non fu il solo a rimanere ammaliato dall’utopia platonica: ancora Cicerone, in quel periodo della sua vita che coincise con il suo forzato allontanamento dalla vita politica e il ripiego sulla filosofia, riprese il modello platonico per elaborare il suo “De re publica”, alla cui stesura si dedicò assiduamente per più di tre anni. Lo spunto gli proveniva indubbiamente - almeno per il titolo e per la struttura dialogica - dal capolavoro platonico, ma la realizzazione tendeva più a seguire lo schema dell’altra opera utopica di Platone, il “Crizia”: Cicerone, infatti, non cercò di costruire a tavolino un favoloso stato ideale che potesse realizzarsi in un lontano futuro; al contrario, si proiettò nel passato, per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni e per convincere i Romani ad improntare l’educazione dei giovani sulla solida base degli insegnamenti della tradizione. E infatti Scipione Emiliano è, insieme all’amico e collaboratore Lelio, il principale interlocutore del dialogo: Aristotele, nella “Politica”, aveva mostrato come le tre fondamentali forme di governo fossero la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia e come esse potessero capovolgersi nelle loro corrispettive degenerazioni: tirannide, oligarchia e olocrazia.

Partendo da questi presupposti di remota ascendenza aristotelica, Scipione mette in luce come lo stato romano dei “maiores” si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali : l'elemento monarchico si rispecchia nell'istituzione del consolato, l'elemento aristocratico nell'istituzione del senato, l'elemento democratico nell'istituzione dei comizi. Lo stato ideale a cui aveva guardato Platone non era immune da conflitti bellici, tant’è che una delle tre classi sociali che lo contraddistinguevano era costituita appunto dai guardiani: ora, lo stato ideale di Cicerone non è esente dall’imperialismo, alla cui apologia è dedicata buona parte dell’opera. In particolare, si tratta di smascherare le argomentazioni che Carneade aveva addotto, durante la sua ambasceria a Roma, contro l’imperialismo romano: qui Cicerone non dà il meglio di sé, le sue argomentazioni (per bocca di Scipione) sono impacciate, poco concludenti di fronte all’inoppugnabile accusa mossa da Carneade a Roma, sempre pronta ad accorrere in soccorso dei suoi alleati per poter così estendere su di essi la propria egemonia. Se la difesa ciceroniana dell’imperialismo romano appare un po’ deludente, molto più suggestive sono le parti dell’opera in cui tratteggia la figura del “princeps” destinato ad esercitare il potere sullo stato ideale: per mettere in luce come il “rector et gubernator rei publicae” dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche, principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza, Scipione l’Emiliano - in chiusura dell’opera - rievoca il sogno, avuto tempo addietro, in cui gli era apparso l'avo, Scipione Africano, per mostrargli, dall'alto del cielo, la piccolezza e l'insignificanza di tutte le cose umane, anche della gloria terrena, e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell'aldilà le anime dei grandi uomini di stato. Cicerone disegna così l'immagine di un dominatore-asceta , rappresentante in terra della volontà divina, rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo stato dalla sua “despicentia” verso le passioni umane.

Ciò che forse passa inosservato di fronte alla magnificenza stilistica del periodare messo in atto da Cicerone nell’opera è come egli tratteggi uno stato ideale dove non sia contemplato un aumento della libertà e dei diritti, ma, piuttosto, con uno sguardo al passato, una involuzione autoritaria ed elitaria, con la quale tenere ancora più distanti le masse dalla gestione della cosa pubblica. Mentre una già grande fortuna arrideva all’opera platonica, c’era anche chi metteva in scena immaginarie città giuste: si tratta del commediografo ateniese Aristofane, che di Platone fu contemporaneo e in più occasioni non esitò a colpire Socrate coi velenosi dardi della satira. Ma Aristofane, si sa, era un commediografo, uno di quelli che, pur di far ridere, non risparmiava nessuno, nemmeno gli uomini politici più in vista, tra cui Cleone (il potente capo del partito democratico): le sue proposte utopiche hanno più i tratti della provocazione che non del modello da seguire, e di ciò è fulgida prova il fatto che vengano abilmente messe in ridicolo le conseguenze che deriverebbero dall’attuazione di quelle società. Ciò testimonia come, in realtà, lo scopo di Aristofane fosse di far ridere gli Ateniesi a teatro più che di proporre modelli alternativi. Nella “Lisistrata”, nelle “Tesmoforiazusai” e nelle “Ecclesiazusai” il commediografo ateniese presenta la “città ideale” come un mondo alla rovescia, costruendo l'utopia in due momenti dialettici: quello “distruttivo” della critica all'esistente e quello “costruttivo” dell'edificazione del modello alternativo. In particolare, Aristofane ha piena coscienza del fallimento della politica maschile, cui contrappone un “potere femminile” instaurato attraverso le congiure delle donne e avente per fine l’armonia e la gestione comune dei beni. Detto così, sembrerebbe un’utopia “seria”, degna di essere perseguita: ma Aristofane condisce il tutto con una buona dose di ironia, quando ad esempio - nella “Lisistrata” - Lisistrata e le altre donne impongono il loro potere rifiutando di avere rapporti sessuali con gli uomini o quando, nelle “Tesmoforiazusai”, processano Euripide, reo di aver diffamato nelle sue tragedie il gentil sesso; ma è soprattutto nell’ “Ecclesiazusai” che emerge il carattere esilarante delle utopie aristofanesche: ci troviamo di fronte ad un nutrito gruppo di donne che, insoddisfatte dalla politica maschile e maschilista, congedano brutalmente gli uomini e occupano i loro posti dell’assemblea, instaurando il comunismo dei beni e delle donne: grazie al primo, nessuno ruberà più, grazie al secondo ogni bambino rispetterà come suo possibile genitore ciascuno degli adulti. Il nuovo regime metterà poi su un piano paritario le donne avvenenti e quelle brutte, perché ogni cittadino, prima di potersi unire alla fanciulla che più gli aggrada, sarà costretto a soddisfare le legittime esigenze di una donna fra le più brutte o vecchie. Il motivo scatenante della rivolta femminile è, nella “Lisistrata”, nobile: l’opposizione all’interminabile guerra che vede combattersi Atene e Sparta; ma gli esiti sono divertentissimi, spesso al limite del paradossale: sul finale, ad esempio, troviamo una gustosa lite fra tre vecchie per il diritto di prelazione che ciascuna vanta sul malcapitato giovane; è l’esilarante conclusione di una commedia che in realtà, nonostante la palese comicità delle situazioni, risulta pervasa da una vena di tristezza, quella tristezza che Aristofane prova nell’assistere al tracollo di Atene, un tempo faro dell’Ellade, ora luogo di perdizione e di smarrimento di ogni principio morale.

Al modello utopico Aristofane era molto legato: ancora in un’altra opera, “Gli Uccelli”, lo ritroviamo. Qui due vecchi Ateniesi, disgustati dal degrado e dall’invivibilità della loro città, decidono di abbandonarla e di cercarne un’altra; ma, poiché città coi requisiti richiesi non ce ne sono, viene loro proposto di fondarne una nuova in aria. Gli uccelli, però , oppongono una ferma resistenza, finchè non vengono persuasi che, con la fondazione della nuova città, potrebbero tornare a dominare, come un tempo, sugli uomini, ricattandoli con l’intercettare il fumo dei sacrifici agli dèi. Non appena fondata la città, la sua salvezza è subita messa a repentaglio dall’improvvisa guerra con la “Città dei baggiani fra le nuvole” e dall’avversione degli dèi per il blocco dei fumi sacrificali. Nemmeno l’ambasceria divina composta da Posidone, Eracle e Triballo riesce nel suo tentativo di far cessare il blocco. L’opera si chiude con l’egemonia degli uccelli, nuovamente padroni del mondo. Il motivo di scontentezza per il reale che induce Aristofane ad ipotizzare una città che - nel senso letterale - non sta sulla terra va ravvisato in un’Atene ormai invivibile, travagliata da problemi di vario genere, politici, economici e militari.

Con gli esempi storici di città utopiche delineate in diverse opere, si può notare come, affascinata dalle precise rappresentazioni della geometria, l’opera dell’utopista assuma da subito una prospettiva totalizzante: la comunità è descrivibile come un gigantesco meccanismo dove i ruoli e le funzioni sociali e produttive sono definiti a priori, una raffinata catena di montaggio in cui la libertà e la dignità individuale vengono sì ampliate, ma comunque regolamentate. Il regolamento e la disciplina costituiscono il cardine del funzionamento della società utopica che sembra garantire il suo successo solo se tutto è prevedibile, solo se tutto è standardizzato. “Chi conosce una sola città le conosce tutte, tanto sono interamente simili tra loro”, sostiene Tommaso Moro nella sua “Utopia”, riferendosi a una delle cinquantaquattro città dell’isola, iniziando una tradizione che arriva fino ai giorni nostri in cui l’urbanistica diventa un cardine del controllo sociale. Chi contravviene alle norme vigenti nello Stato, andrà punito severamente, perché rischia di far scricchiolare le strutture statali: questo è uno di quei tratti comuni che caratterizzano le città utopiche prospettate dai pensatori di ogni epoca. Ciò era già vero per i Greci, ed è per questo che l’utopia rientra nel novero di quei concetti inventati dalla cultura greca, nei confronti della quale siamo profondamente debitori: ogni nostro concetto è filtrato da quella cultura, ne è una rielaborazione.

Anche il mondo latino attinse a piene mani dalla civiltà greca: abbiamo già preso in esame il “De re publica” di Cicerone; ma l’Arpinate non fu il solo a volersi mettere alla prova con il genere utopico. Già Varrone il Reatino fu autore di un’opera intitolata “Marcopolis”: su di essa non sappiamo pressochè nulla perché, purtroppo, è andata perduta; però non è inverosimile pensare che la città utopica così come Varrone la immaginava fosse saldamente legata al passato tradizionale di Roma, e non tanto a valori rivoluzionari. Questo aspetto può essere desunto dal pensiero stesso di Varrone, accanito difensore del “mos maiorum”, ma anche da un’altra sua opera, intitolata “Sexagesis”, in cui raccontava di un personaggio che, addormentatosi da ragazzo, si svegliava a sessant’anni per accorgersi che a Roma tutto era mutato in peggio. Ancora in un altro passo dei suoi scritti, Varrone guarda con ammirazione alla società perfetta delle api, alla loro operosità e alla loro solidale convivenza. Anche Seneca provò - in età imperiale - a tracciare, nel suo scritto “De clementia”, un progetto utopico, imperniato sull’ordinamento del principato: il potere unico è, a suo avviso, il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico retto dal logos universale, il più idoneo a rappresentare l'ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l'impero. Il problema che si pone Seneca non è tanto quello della forma di governo da assumere, quanto piuttosto quello del sovrano che dovrà detenere il potere, un problema, questo, che verrà ripreso, in età rinascimentale, dallo stesso Machiavelli.

In uno stato basato sul potere assoluto, l'unico freno del sovrano sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà trattenere dal governare in modo tirannico. Sotto tale profilo, l'ideale senecano di clemenza è una misurata commistione di indulgenza e moderazione. Negli anni in cui vive Seneca, si è già sviluppato e diffuso il cristianesimo, nonostante la forte avversione che per esso nutriva Nerone e gran parte del mondo pagano: quella cristiana appare, per molti versi, una delle più grandi utopie della storia, forse quella destinata a godere di maggior fortuna e longevità. Di fronte alle ingiustizie dilaganti nel mondo terreno, sui cui sentieri ciascuno di noi è viandante, il cristianesimo pose riparo costruendo un mondo totalmente altro, che compendiasse entro di sé tutti quei valori che non trovavano spazio per emergere nella mondanità: la giustizia, l’uguaglianza, la felicità, il piacere. Il mondo sospeso nei cieli non era però il mondo degli “Uccelli” di Aristofane, ma piuttosto qualcosa di metafisico, il cui accesso era destinato alle sole anime che avessero dato prova di comportarsi rettamente nella vita terrena. In questa maniera, per usare le parole di Nietzsche, il nostro mondo divenne favola, fu succube di una radicale svalutazione: perso il suo carattere di “autenticità”, la vita terrena diventa un puro e semplice palcoscenico su cui far le prove per selezionare chi è davvero meritevole di accedere alla vera vita - quella celeste - e chi, invece, sarà condannato a subire i patimenti infernali, fino al fatidico giorno del Giudizio Universale. Il Paradiso cristiano diviene così un’idea kantiana a cui tendere e a cui adeguarsi, cercando di vivere degnamente per poter così innalzarsi ai Cieli: e tuttavia l’ideale cristiano finiva per mettere in una cattiva luce il mondo terreno, il mondo su cui ogni giorno ci muoviamo, facendo di esso una realtà depotenziata e di second’ordine, a cui non dar troppo peso per non farsi accecare. In questo modo, l’utopia del Regno dei Cieli non esercita una funzione rivoluzionaria, un’ideale a cui ispirarsi per cambiare il mondo: piuttosto, pare un farmaco da assumere per meglio sopportare - con rassegnazione - le ingiustizie di quaggiù, sperando che lassù tutto proceda diversamente. La realtà per il cristiano non va cambiata, ma sotto-valutata: di fronte alle ingiustizie, non si deve lottare in nome di un progetto utopico, ma, al contrario, si deve volgere lo sguardo al progetto utopico per poterle meglio sopportare.

Gramsci, nei suoi “Quaderni del carcere”, sostiene che “la religione è la più gigantesca utopia”, condividendo la prospettiva crociana, secondo cui la religione altro non è se non una concezione del mondo che diventa norma di vita: Gramsci scorge in ciò una componente altamente utopica, una conciliazione delle contraddizioni che costellano la realtà storica, ma nota un imprescindibile limite nel fatto che tale conciliazione non si traduca nella trasformazione effettiva della realtà storica, ma venga - al contrario - proiettata nell’aldilà. Ciononostante, la religione - e Gramsci ha soprattutto in mente quella cristiana - mette a disposizione degli uomini criteri mediante i quali valutare la discrepanza della realtà storica rispetto ad una compiuta realizzazione di essi e può, secondo Gramsci, fungere da motore di rivendicazioni e rivolte.
Sempre in tema di cristianità, Agostino - come recita il titolo di una sua opera - parla espressamente di “civitas Dei”, ossia di una città divina situata nell’alto dei Cieli e contrapposta a quella terrena, dominata dall’amore in sé. Nella prima, trovano cittadinanza gli uomini giusti, mentre la seconda è popolata dagli ingiusti, angeli ribelli , diavolo e uomini , che vivono accecati dalle passioni materiali e dalla carne.

La lotta che contrappone le due città ritma il corso della storia e prende il sopravvento sullo schema della successione delle età del mondo: sin dalla caduta di Adamo, la razza umana é stata divisa in due città e l' appartenenza a ciascuna delle due dipende solo dalla grazia divina. Già prima di Cristo infatti alcuni uomini facevano parte della città di Dio. Non ci si deve però far ingannare dal linguaggio impiegato da Agostino nel “De civitate Dei”: per “città terrena” - il cui capostipite è individuato in Caino - egli non intende, banalmente, lo stato, ma piuttosto la società che venera gli "dei falsi e bugiardi", i demoni, e perciò non vive secondo i veri valori . Nasce di qui la "libido dominandi", la sete di potere, su cui si fonda la città del diavolo, ossia gli imperi umani , che coltivano i culti pagani. I membri della città terrena rifiutano, infatti, di considerare effimero ciò che essi hanno creato e in tal modo sconvolgono l'ordine delle cose. L’urbanistica agostiniana dà un assetto metodico e filosofico alla città dei cristiani: una città giusta e popolata dai soli individui graditi a Dio.

Questo modello di utopia dominò incontrastato per tutta l’età medioevale, nella quale Dio era riconosciuto come il vertice supremo della realtà e tutto veniva a lui rimandato. In età umanistico-rinascimentale, però, l’uomo tornò al centro della scena, prendendosi il posto occupato da Dio: ma, nonostante la centralità assunta dall’uomo e dalle sue realizzazioni in età rinascimentale, il problema religioso continuava ad occupare una posizione di gran rilievo, soprattutto quando divampò, con estrema violenza, la Riforma protestante e, in risposta ad essa, una altrettanto veemente contro-riforma, in cui le posizioni cattoliche venivano marcatamente irrigidite. Il “cuius regio, eius religio” rappresentava senz’altro un importante passo verso la tolleranza, ma essa rimaneva solamente all’orizzonte: in questo tormentato contesto, Tommaso Moro condannò le contese religiose e le ingiustizie della società inglese nella sua “Utopia”. Alla base della sua costituzione ideale egli pone il netto rifiuto di ogni forma di proprietà privata, intesa - sulle orme di Platone - come inevitabile fonte di dissidi tra gli uomini: gli abitanti di Utopia, pertanto, non lavorano per accumulare ricchezze, ma per provvedere ai beni necessari alla propria esistenza. Il lavoro occuperà solo sei ore della giornata, in modo tale che il restante tempo possa essere dedicato all’istruzione e, in particolare, all’educazione, che deve orbitare intorno alle scienze naturali e alla filosofia morale, l’unica che abbia un risvolto pratico e, dunque, utile sulla vita degli uomini. Per questa ragione, saranno trascurate la metafisica e la logica.

A dispetto della società inglese, dove la proprietà tende ad accentrarsi sempre più nelle mani di pochi, ad Utopia non c'é miseria nè disuguaglianza, il lavoro é obbligatorio per tutti e ognuno lavora per la comunità. In questo modo, la comunione dei beni libera ciascuno dal bisogno e dalla paura , assicura cioè a tutti la vera ricchezza. I prodromi di tale concezione vanno evidentemente rintracciati nella “Repubblica” di Platone. Per quel che riguarda la religione - ed è questo forse il punto più innovativo dell’opera di More - , si tratta di una religione naturale, a fondo monoteistico; pur professando religioni diverse, gli abitanti di Utopia riconoscono nei vari dèi un unico Dio e ciascuno é libero di professare la sua religione e può anche fare opera di proselitismo, ma senza usare mezzi coercitivi, pena l'esilio o la servitù. Il legislatore di Utopia si é di proposito rifiutato di legiferare in materia religiosa e di imporre particolari riti o credenze perché, forse, Dio stesso ama la varietà e la molteplicità dei culti.

Questo motivo, che più che di tolleranza può essere considerato di vera libertà, deriva a Moro direttamente, nell'immagine e nell'espressione, da Cusano e da Ficino: é il motivo che sfronda le diverse ispirazioni religiose dei propri elementi differenziali e le risolve, in definitiva, in un'unica religione entro i limiti della ragione. Solamente gli atei non trovano cittadinanza ad Utopia, perché essi sono, per loro stessa natura, intransigenti e intolleranti. Il progetto utopico elaborato da Moro sarebbe presto stato smentito dai fatti, quando, neanche un secolo dopo la sua morte, sarebbe scoppiata per motivi di intolleranza religiosa la Guerra dei Trent’anni. In quegli anni di forti contestazioni religiose, brulicavano gli scritti utopici, destinati a svilupparsi con estremo successo anche nel secolo successivo: oltre a quello di Tommaso Moro, meritano di essere ricordati “La Città felice” di Francesco Patrizi - scritta nel 1551 e pubblicata a Venezia nel 1553 -, “Il mondo savio e pazzo” (1552) di Antonio Francesco Doni, “La repubblica immaginaria” (1585) di Ludovico Agostini, “Christianopolis” (1619) di Johann Valentin Andreae e “La Repubblica di Evandria” di Lodovico Zuccolo (1625).

Negli anni Venti del Cinquecento erano poi sorte ovunque schiere di “riformati” che non si riconoscevano minimamente in Lutero e che, a loro volta, si facevano riconoscere dalla risoluta negazione del valore del battesimo somministrato ai bambini; questi settari che predicavano con toni accesi l’imminente apocalisse e sapevano affrontare il martirio e la morte, si facevano ribattezzare e, per questo motivo, vennero chiamati col nome dispregiativo di “anabattisti”. Reclutati in massima parte fra le classi popolari, memori delle idee rivoluzionarie di Münzter (cui lo stesso Engels dedicherà “La guerra tedesca dei contadini”), essi appaiono come perturbatori dell’ordine sociale e - è stato soprattutto Mannheim a cogliere questo aspetto - inguaribili utopisti: la società a cui essi aspirano è poligamica, comunistica e solidale, scevra di ogni ingiustizia. Ma la loro era qualcosa di più di un’utopia: era un progetto che rischiava di diventare reale, e fu per questo che l’intera Europa rabbrividì con orrore, torturandoli, massacrandoli, portandoli sul rogo e annegandoli.

Nonostante questa avversità e la mancanza di protezione da parte dei principi, gli anabattisti riuscirono a prendere il potere nella città westfalica di Münster e lo mantennero dal 1533 al 1535: l’utopia diventava realtà, anche se destinata a vita effimera. La tematica religiosa era portante anche nel progetto utopico di Tommaso Campanella, esposto nel suo scritto “La città del Sole”: ancora una volta l’innovazione, l’ansia di rinnovamento, il tentare e l'intravedere strade nuove viene da un religioso, ribelle per l’epoca perché “troppo avanti e ardito” nelle sue intuizioni. Campanella confessò di esser nato “a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi ipocrisia”, ed è appunto queste tre piaghe che egli mira a sconfiggere nella sua città ideale, una città con un regime comunitario, dove la famiglia è la grande assente perché si identifica con lo Stato, è retta da Potenza, Sapienza, Amore, sopra i quali sta il detentore del “vero sapere”. La religione professata dai suoi abitanti è un deismo privo di dogmi, con confessione pubblica e cremazione dopo la morte: alla sommità del monte più alto si trova un tempio di forma circolare, consacrato al Sole, sulla cui volta sono dipinte le stelle maggiori. Al centro della vita pubblica della Città del Sole - su cui non vi è proprietà privata e le donne sono di tutti - è posto il lavoro, considerato l'unico fattore di differenziazione dei cittadini in base alle loro capacità. Il progetto appare in bilico tra l’utopico e l’utopistico, in quanto è sì animato da una sincera volontà di render felici gli uomini, ma, di fatto, non viene lasciato quasi nessuno spazio alla libertà dell'autodeterminazione individuale; il che rende l’utopia di Campanella molto meno moderna di quella formulata quasi un secolo prima da Moro.

Scoraggiato anch’egli dalla politica della società inglese e lui stesso allontanatone per motivi di corruzione, Francis Bacon sviluppò i suoi ideali politici ricorrendo all’utopia: al centro del progetto baconiano, tuttavia, non vi è il problema religioso, ma quello scientifico; la fantastica isola su cui ambienta la sua società ideale, è l’Atlantide di Platone, o, meglio, la “Nuova Atlantide” (come recita il titolo dell’opera di Bacone del 1627 in cui è custodito il progetto); sì, perché il pensatore inglese era solito prendere spunto dai filosofi antichi, ma per criticarli, convinto che la verità - in quanto “figlia del tempo” - risiedesse più nel futuro che nel passato. E’ quasi come se Bacone intentasse una diatriba personale con Aristotele sul piano della logica e con Platone su quello utopico: se Platone aveva posto a capo della sua città ideale i filosofi, e Campanella un sacerdote, ora Bacone riserva il trono agli scienziati, dotati di un sapere pratico in grado di trasformare la realtà. Nell'opera, c'è una continua, pungente polemica contro la sapienza contemplativa e uno slancio entusiastico che annuncia il regno dell'uomo come l'avvento di una nuova era. Per Bacone il “regno dell'uomo” è in realtà la riconquista del paradiso terrestre, l'utopia è un mito del ripristino della condizione edenica. La conoscenza diventa uno strumento di dominio sul mondo, e la società ideale si serve della scienza come guida all'azione: il fine della ricerca scientifica stessa é “l'allargamento dei confini dell'impero umano” attraverso la conoscenza delle cause e dei moti delle cose, poiché è solo conoscendo la natura che la si può padroneggiare.

Ecco perché la tradizione attribuisce a Bacone il motto “sapere è potere”, riconoscendo nel filosofo inglese colui che per primo e in modo più marcato instaurò un forte legame tra il sapere e l’azione. Egli narra di una fittizia tempesta che travolse l’imbarcazione su cui navigava coi suoi compagni costringendoli a naufragare e a chiedere riparo agli abitanti di un’isola sconosciuta, quasi appartenente ad un altro mondo. Si tratta, è evidente, di un naufragio “positivo”, che porta Bacone e i suoi compagni di viaggio a contatto con una cultura più avanzata, una civiltà che conosce tutte le altre, ma che è sconosciuta e che ha sempre saputo rimanere “pura”, senza degenerare attraverso contatti con le altre società; proprio per questo motivo, in un primo tempo si mostra riluttante ad accogliere e a far sbarcare l’equipaggio straniero. Finalmente sbarcati, i forestieri vengono guidati per l’isola, apprendendo come i suoi abitanti attribuiscano ogni singola entità a Dio: gli stessi scienziati che reggono la città possono estendere il loro dominio sulla realtà, trasformarla, alterarla, imitarla, riprodurla, soltanto in quanto la conoscono secondo verità, secondo il suggello su di essa imposto da Dio.
Si capisce bene come, più che di una città, si tratti di un gigantesco laboratorio scientifico, finalizzato all’ “estensione dei confini del potere umano ad ogni cosa possibile”, per poter in tal modo perfezionare la vita di tutti. Si fanno preparati medicinali, si riproducono i fenomeni atmosferici, si generano artificialmente gli insetti, si depura l'acqua salata per renderla dolce, si prolunga la vita dell'uomo, si elaborano strumenti tecnici all'avanguardia, si edificano torri altissime (addirittura mezzo miglio di altezza), si creano pozioni e acque nutrientissime, si sperimentano sugli animali ogni sorta di veleni per meglio provvedere alla salute del corpo umano... il tutto senza l'apporto della matematica, poco considerata da Bacone. Le cascate d'acqua vengono ingegnosamente impiegate come forza motrice e gli abitanti dispongono di aria condizionata, di microscopi, di telescopi, di condotti capaci di trasmettere i suoni a grande distanza, di sommergibili e, perfino, di macchine per volare. Il progetto baconiano può essere però soggetto a critiche: oltre a non essere una democrazia e ad essere fin troppo lontano dal reale, non tiene conto delle differenze tra tecnica e politica, non si accorge cioè che la politica non é fatta di sole scelte tecniche. E l’isola su cui Bacone proietta la sua utopica città scientifica presenta incredibili analogie con quella su cui Shakespeare ambienta la sua commedia “La tempesta”, risalente ai primi anni del Seicento. Certo, qui il riferimento scientifico è assolutamente assente, ma c’è, in qualche modo, qualcosa che ne prende il posto: si tratta della magia, del clima sognante che aleggia nell’opera dall’inizio alla fine e che troverà la sua più compiuta espressione nei famosissimi versi pronunciati dal protagonista, Prospero: “noi siamo della stoffa di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è cinta di sonno”. Come nello scritto baconiano, anche ne “La tempesta” il mare è inteso come un qualcosa insieme positivo e negativo, un qualcosa che, al contempo, collega e separa: significativi sono, a questo proposito, le parole di uno dei tanti personaggi che animano l’opera, Ferdinando, il quale dice che “il mare, che spesso ci minaccia, è anche, talvolta, misericordioso”.

Allontanato proditoriamente dal ducato di Milano ad opera del perfido fratello e dei suoi sgherri, Prospero ha trovato riparo insieme alla figlia Miranda su una sperduta isola meravigliosa, regno della magia e degli spiriti. Non appena si presenta l’occasione, Prospero ne approfitta: sapendo che suo fratello e i suoi scagnozzi si trovano per mare, egli scatena una tempesta, servendosi delle sue portentose arti magiche. In questo modo i suoi nemici fanno naufragio e son costretti a sbarcare sull’isola di Prospero, di cui si trovano ora prigionieri. Questi appare, fin dalle prime battute, come un simpatico stregone che, al pari dell’Astolfo ariostesco, si destreggia con incredibile agilità con gli strumenti magici e nelle situazioni più straordinarie, in quella stravagante e caleidoscopica realtà - ma forse sarebbe più opportuno parlare di “irrealtà” - che è l’isola magica: dopo aver fatto naufragare i suoi nemici, riesce a far sì che essi gli domandino scusa e si pentano sinceramente delle loro azioni passate; il tutto è inframmezzato da quadretti divertentissimi, da grovigli di vicende inestricabili. In passato, c’è stato chi ha voluto scorgere in Shakespeare e in Bacone la stessa persona: in effetti, molto ne “La tempesta” sembra deporre a favore di questa tesi; in primis, i tratti fortemente utopici che contraddistinguono le due isole, quella tecnocratica di Bacone e quella magica di Skakespeare; ma poi - ed è questo forse l’elemento più probante - sul finire dell’opera, Prospero rinnega l’arte magica, quella “rozza scienza” incontrollabile, con la quale chi la possiede può far tutto: è la magia che cede il passo alla scienza, riconoscendone la superiore saggezza e modernità; ma sono anche due secoli a confronto: il Cinquecento, con la sua fede nelle operazioni magiche, e il Seicento, con il suo indiscusso predominio scientifico, cosicchè nell’atto con cui Prospero si sbarazza dei suoi arnesi magici è lecito leggere la fine di un secolo e l’inizio di un altro. E’ Bacone che ci invita a prendere atto di come la magia abbia oramai cessato di dettar legge e sia stata soppiantata dal rigore del metodo scientifico; restare ancora legati alle arti magiche, di fronte all’incedere del progresso scientifico, sarebbe - appunto - un’utopia, un progetto irreale al massimo grado. Sorprende anche il fatto che, con “La tempesta”, ci troviamo di fronte ad un’utopia nell’utopia: Gonzalo, membro dell’equipaggio fatto naufragare da Prospero, ad un certo punto (atto II, scena I) si lascia andare - lui che è naufragato su un’isola “utopica” - alla descrizione della società ideale secondo i suoi canoni: “Nella comunità vorrei che ogni cosa fosse fatta al contrario di ciò che si fa ordinariamente. Non ammetterei alcuna specie di traffico, alcun autorità di magistrato. L'istruzione vi dovrebbe essere sconosciuta: non ci dovrebbero essere né ricchezza, né povertà, né impieghi servili; non contratti, non successioni, non divisioni, non confini di terre, non coltivazioni, non vigne; nessun uso di metalli, di grano, di vino, di olio; nessuna occupazione: tutti gli uomini in ozio, tutti; ed anche le donne, ma innocenti e pure; nessuna sovranità...[...] La natura dovrebbe produrre tutte le cose in comune senza sudore e senza pena: non ci avrebbero a essere tradimenti, non fellonia, non spade, non picche, non pugnali, non cannoni e nessun bisogno di alcun altro arnese di guerra. La natura dovrebbe generare da se stessa ogni grascia, ogni abbondanza per nutrire il mio innocente popolo. [...] E regnerei, signore, così perfettamente da lasciarmi addietro l'età dell'oro."

Si tratta di un’utopia all’incontrario, che presenta più i caratteri dello sfogo contro una realtà sentita come profondamente ingiusta, che non quelli del progetto alternativo a cui ispirarsi. In questo senso, non sarebbe sbagliato parlare di sogno ad occhi aperti, atteggiamento che si inquadra perfettamente nel clima onirico che si respira nell’opera. Ancora nella seconda metà del Seicento, Gabriel De Foigny propone - in "La Terre australe connue" - una società senza classi, in cui è centrale la comunità dei beni e in cui si affaccia un'umanità libera dalle passioni e dall'avidità, capace di godere di una beatitudine “naturale”. Nel secolo successivo a Shakespeare e a Bacone, il Settecento, si diffonde a macchia d’olio la fiducia nei lumi di una ragione ritenuta la vera legislatrice della vita umana: più che di utopie sulle carte, il nuovo secolo si nutre di utopie fatte reali; la prima, grande esperienza utopica risiede nell’assolutismo illuminato, ossia nel tentativo dei “philosophes” di coinvolgere e indirizzare l’esercizio del potere dei grandi sovrani europei verso modelli più razionali e meno impopolari; alla corte dello zar Pietro il grande, nelle cui mani è accentrato un potere talmente vasto che spesso si è parlato di “autocrazia”, troviamo niente poco di meno che Leibniz, poliedrica figura di genio universale; Voltaire, dal canto suo, intrattiene stretti rapporti di amicizia e di collaborazione con Federico II il Grande, re di Prussia; Cesare Beccaria, infine, lavora presso gli Austriaci a Milano, dove - con il suo scritto “Dei delitti e delle pene” - dimostra l’assurdità e l'infondatezza del sistema giuridico vigente e riesce a persuadere il governo ad abolire la pena di morte.

Ma è dal fallimento dell’esperienza utopica dell’assolutismo illuminato che scaturisce la seconda realizzazione utopica del Settecento: la Rivoluzione Francese. Quando il popolo prese atto dell’inattuabilità del progetto portato avanti dai “philosophes” a corte e del tracollo di quella che doveva essere una rivoluzione gestita dall’ “alto”, allora apparirà impellente la necessità di riformare la società - in maniera rivoluzionaria - dal “basso” e saranno i ceti popolari ad imbracciare le baionette e a scendere sulle piazze, seminando il terrore e gettando alle fiamme tutti gli antichi residui del feudalesimo, retaggio di un passato ormai incompatibile coi tempi.
La Rivoluzione Francese segnò il realizzarsi dell’utopia borghese, il liberarsi da quei vincoli medioevali che impedivano il pieno sviluppo di una società borghese e produttiva; ma anche in quest’età vennero alla luce scritti utopici che contestavano la proprietà privata, in sintonia con la tradizione utopica che da Platone giungeva fino a Campanella e oltre. E’ questo il caso di Morelly, il quale, nel suo “Codice della Natura” (1755), pone al centro la proprietà comune, base per la socievolezza e - attraverso la ragione e l'attività produttiva - condizione per il passaggio al "comunismo conscio del futuro". La comunità regola per Morelly la produzione e la distribuzione - evitando in tal modo il commercio privato - , sulla base di un'educazione collettiva morale intellettuale e tecnica che consente ad ognuno di realizzare la propria professionalità. Ad intraprendere la linea comunistica fu anche Francoi-Noel Babeuf, che però - a differenza di Morelly - cercò di dare un risvolto pratico al suo progetto, ordendo una congiura - passata alla storia come “la congiura degli Uguali” - con la quale si proponeva di rovesciare il governo e di concretizzare il suo disegno. Soprannominato “Gracco Babeuf” per le sue posizioni radicali che rievocavano quelle dell’antico tribuno della plebe romana, egli si fece sostenitore della proprietà comune della terra e dei mezzi di produzione, nonché dell'assoluta eguaglianza di tutti i cittadini, proponendo la creazione di una "Repubblica degli uguali".

Babeuf non si limitava a tratteggiare un progetto ideale, ma forniva anche le strategie affinchè esso potesse essere realizzato: per eliminare la proprietà privata, si doveva a suo avviso far ricorso alla confisca e all’abolizione del principio di eredità; la sua repubblica utopica non potè mai essere realizzata e la congiura ordita da lui e dai suoi sostenitori si concluse in un bagno di sangue, in un massacro generale costato la vita a moltissime persone. Secondo i pensatori dell’età dei Lumi, la ragione sarebbe in grado di dettare leggi giuste ed universali, applicabili sempre e ovunque perché, appunto, razionali: ed è sull’onda di queste considerazioni, che i Francesi tentarono di esportare in tutta Europa la Rivoluzione Francese e i suoi princìpi, senza tener conto - come noterà Cuoco - che le usanze, le norme e i valori cambiano di nazione in nazione, e non sono un qualcosa di atemporale e universalmente valido, che possa essere semplicemente trasferito da un luogo ad un altro: così i princìpi della Rivoluzione, adatti alla situazione francese, si rivelano del tutto inadeguati se trasportati a Napoli, dove assistiamo ad un’autentica ribellione anti-rivoluzionaria (il “sanfedismo”) della popolazione, legata al clero e a valori reazionari.

Ma nel Settecento - soprattutto al di là della Manica - decolla anche l’industria, nascono le fabbriche moderne e, con esse, si sviluppa rapidamente una nuova classe sociale fino ad allora pressochè inesistente: il proletariato, che non ha nulla da vendere se non la propria forza-lavoro e non ha altra ricchezza su cui far affidamento se non sulla prole, mandata a lavorare in fabbrica. Perché il nuovo modo di produzione, fondato sul sistema di fabbrica, potesse affermarsi, era indispensabile che si formasse una massa di popolazione del tutto priva dei mezzi di sostentamento, disponibile a vendere la propria forza-lavoro a chi possedeva gli strumenti di lavoro. In qualche modo, tuttavia, i segni lasciati dalla Rivoluzione Francese permangono: le differenze tra i diversi gruppi sociali non sono più rigidamente fissati dal diritto, ma dall’economia, ossia dal possesso di ricchezze e di strumenti di produzione. L’operaio condannato a lavorare in fabbrica per tutta la vita non si arricchisce, si limita a trarre i mezzi sufficienti per il suo sostentamento, ma genera ricchezza per il capitalista che possiede i mezzi di produzione: di fronte al nuovo assetto di una società in cui cresceva sempre più il benessere ma trovava una sempre meno equa distribuzione, fiorirono numerose opere utopiche che proponevano - almeno sulla carta - società diverse, mettendo un luce come forse fosse possibile un mondo più giusto, in cui tutti potessero raggiungere la felicità. In quest’ottica, Étienne Cabet pubblica nel 1840 “Voyage en Icarie”, un romanzo utopico che prende spunto da Tommaso Moro; nel libro, al capitalismo viene contrapposto un sistema di stampo socialistico-comunistico, dove è chiara l'influenza del comunismo egualitario di Babeuf e Buonarroti e della tradizione illuministica del Settecento francese.

Pur definendosi comunista, Cabet respingeva ogni forma di rivoluzione e propugnava la pace. Icara - capitale di Icaria - è di forma circolare, attraversata nel mezzo da un fiume rettilineo, che sdoppiandosi dà vita a sua volta ad un isola rotonda; le strade a scacchiera sono attraversate da due anelli circolari di boulevards. I negozi sono sotituiti dai magazzini e dagli “ateliers” statali, previsti nella nuova società; i cimiteri, gli ospedali e le officine sono fuori dalla città, immersi nel verde. Nella circolazione si presta particolare attenzione all'incolumità dei pedoni: essi potranno percorrere appositi passaggi coperti, mentre le vetture dovranno circolare all'interno di rotaie, da cui non potranno uscire. Le abitazioni sono standard, ai vari piani corrispondono precise funzioni: la città comprende sessanta quartieri, ciascuno dei quali prenderà il nome da una delle principali sessanta nazioni e ne riprodurrà i caratteri architettonici. Ma Cabet non intendeva lasciare il suo progetto sulle pagine dei libri: era sua intenzione realizzarlo concretamente ed è per questo che egli cerca - con lo scritto “Allons en Icarie” - di raccogliere proseliti; i sostenitori del suo progettono crescono di numero, a tal punto da decidere di imbarcarsi per il Texas, luogo prescelto per la costruzione della nuova città. Nel 1848 l’edificazione della città viene finalmente portata a termine, ma subito nascono i primi dissidi fra i fondatori, dissidi che porteranno - dopo fasi alterne - allo scioglimento definitivo della comunità nel 1895.

Ma quello di Cabet non fu certo il solo progetto utopico maturato nell’Ottocento: l’Europa di quegli anni fu invasa da opere che proponevano modelli di società più giuste e a misura d’uomo, in cui la vita fosse possibile in condizioni decorose per tutte. Ma anche per legittimare la realtà presente, talvolta, si poteva ricorrere a forme utopiche: così Adam Smith sostiene, nel Settecento, che il liberismo è la miglior forma possibile di economia, in quanto esiste una fantomatica “mano invisibile” che fa sì che, dietro l’egoistica ricerca dell’interesse personale condotta dagli individui, vi sia alla fine una distribuzione dei beni diffusa a tutti, seppur in misure diverse. Non è difficile capire come l’ideazione di Adam Smith non sia esente da valenze utopiche. Ritornando alle opere che propongono società alternative nell’Ottocento, si tratta, per lo più, di scritti con venature socialisteggianti e, tra questi, meritano soprattutto di esserne esaminati tre, quelli di Saint-Simone, di Fourier e di Owen, che verranno presi in considerazione dallo stesso Marx: la peculiarità di questi tre autori è di far fronte utopicamente alla realtà scaturita dalla rivoluzione industriale, alla vita di fabbrica, a cui son condannati gli operai, le donne, i bambini e perfino gli animali.

A queste forme di socialismo “utopistico”, Marx ne contrapporrà uno rigorosamente scientifico, che prenderà le mosse dall’analisi scientifica della realtà e delle sue insanabili contraddizioni: dall’irrazionalità del reale e dalle contraddizioni del sistema capitalistico dovrà, secondo Marx, necessariamente scatenarsi una rivoluzione che capovolgerà violentemente lo stato di cose, segnando il passaggio materiale dalla fase capitalistica a quella comunistica, in cui scompariranno lo stato e la proprietà privata dei mezzi di produzione, quella proprietà che fa sì che l’operaio possa essere sfruttato all’inverosimile. L'atteggiamento assunto da Marx è critico in ogni istante, prende e supera le tradizioni precedenti con il modello dialettico desunto dal sistema hegeliano: e così, sul piano politico, accetta la critica al capitalismo ma ne biasima il carattere utopistico che finora l'ha contraddistinta, precisando che dal socialismo utopistico si deve passare al socialismo scientifico , ovvero il socialismo va inteso non come delineamento mentale di una società ideale, bensì come necessaria conseguenza del tramonto imminente del capitalismo.

Studiando in modo approfondito il capitalismo, infatti, è impossibile non vedere come esso, infetto dalle sue stesse contraddizioni, si ribalterà, prima o poi, nel suo opposto: è un'analisi scientifica, una constatazione che si basa su dati di fatto e che porta a prevedere ciò che necessariamente sarà. Le contraddizioni ravvisate da Marx nel sistema capitalistico sono parecchie e, tra le tante, possiamo qui menzionare, come esempio, il meccanismo della concorrenza, la quale tende essa stessa a capovolgersi in oligopolismo.

Nel “Manifesto del partito comunista”, Marx distingue varie forme di socialismo: quello utopistico, quello conservatore e quello reazionario. Nei confronti del “socialismo utopistico”, il filosofo di Treviri dà un giudizio più generoso e benigno rispetto a quello dato agli altri due: a Saint-Simon, a Fourier e a Owen spetta il merito di aver denunciato le contraddizioni e la brutalità del sistema capitalistico, anche se, invece di costruire su queste considerazioni una dottrina scientifica, si sono messi a tavolino - come Platone - a delineare fantasmagoriche società ideali, per di più appellandosi non agli operai perchè imbracciassero i fucili per far la rivoluzione, ma ai capitalisti, affinchè umanamente accettassero di attuare le società giuste da loro tratteggiate. Ma Marx, pur criticandone questo aspetto, riconosce che i limiti degli "utopisti" sono giustificabili dal fatto che ai loro tempi il proletariato non aveva ancora acquisito coscienza di sè e dunque non ci si poteva rivolgere ad esso; è solo ai tempi di Marx che “lo spettro del comunismo” si aggira per l'Europa, pienamente consapevole dei propri interessi e delle proprie potenzialità.

Ma, in sostanza, a che forme di società guardavano questi pensatori? Partendo da Saint-Simon, egli si basò su una filosofia fortemente industrialista, fondata sulla ricerca delle leggi scientifiche di sviluppo della società e sulla centralità delle forme economiche; propugnò la necessità di una battaglia contro gli “oziosi”, eredi della società feudale (clero, esercito e nobiltà), affinchè i produttori potessero conquistare il potere politico. Ma nel tratteggiare la sua società tecnocratica, Saint-Simon commette un grave errore: si scaglia contro i ceti parassitari e sostiene che la società debba essere amministrata dagli “industriali”, ovvero dagli imprenditori e dai lavoratori, senza accorgersi dell’inevitabilità di quello scontro di classe tra proletariato e borghesia che sta alla base della società moderna.
Fourier, dal canto suo, fu un caustico oppositore dell’industrialismo, ricercò forme di armonia sociale fondate sul libero dispiegarsi delle tendenze naturali degli uomini e concepì i “falansteri” come cellule costitutive della futura civiltà armonica. Il falansterio è una comunità di 1620 persone alloggiate in un complesso di edifici con servizi comunali: esso permetterà, nell’ottica di Fourier, una cooperazione non comunistica, in cui il lavoro - frequentemente variato per renderlo attraente e non ripetitivo - coesisterà con la proprietà individuale dei mezzi di produzione e una ripartizione non egualitaria del prodotto. Sui generis è invece il caso di Robert Owen, che esordisce come operaio per poi passare al ruolo di direttore di una filanda e, infine, a quello di imprenditore: consapevole delle ingiustizie dilaganti nel mondo industriale - vissute sulla sua pelle -, egli trasformò il suo cotonificio di New Lanarck in un’azienda modello, pagando salari elevati, risanando l’ambiente morale degradato della fabbrica e migliorando le condizioni generali di vita; tentò anche di fondare una comunità socialista negli Stati Uniti, New Harmony, ma essa fallì.

Con minore simpatia Marx guarda al progetto utopico di Proudhon, la cui idea centrale era quella di realizzare una società basata sulla cooperazione tra i piccoli produttori, con la scomparsa sia dei capitalisti sia dei proletari; e, pur essendo la proprietà privata per Proudhon un furto, essa starebbe alla base di tale cooperazione. Marx tuona contro questa prospettiva: una teoria come quella di Proudhon, che mira ad una società di piccoli produttori senza ricchi e poveri, è una società ideale sganciata dalla realtà e dalla scientificità (non c'è nessun dato di fatto che spinga in quella direzione): non si tratta di attenuare le contraddizioni del capitalismo, ma, al contrario, di far leva su di esse per farlo saltare; la proposta di Proudhon, del resto, vorrebbe trasformare tutti in borghesi, mentre Marx ha in mente una situazione in cui la borghesia sparisce e, con essa, anche il proletariato, poichè la ricchezza della borghesia si fonda sullo sfruttamento del proletariato.

Marx, sfaldate sotto i colpi di una critica demolitrice le utopie dei suoi predecessori, profetizza l’avvento di una società futura senza classi, senza stato e senza proprietà, rifiutando con fermezza il titolo di “utopista” di cui spesso è stato insignito: la sua non è utopia, ma inevitabile realizzazione di una realtà prevedibile scientificamente sulla base del presente; non è un progetto ideale a cui tendere, ma il necessario accadere degli eventi post-capitalistici. Pare tuttavia arduo delimitare i confini che separano, nel progetto marxiano, l’utopia dal realismo: lui che per tutta la vita criticò duramente chi rimase impigliato dai fantasmi delle utopie, fino a che punto non ne fu a sua volta malato? Nei pochi passi della sua opera da cui filtrano brevi descrizioni della futura società comunistica, è facile evincere come essa sia in buona parte connotata dalle caratteristiche tipiche della società ideale: così, ne “L’ideologia tedesca”, leggiamo che l’uomo inserito nell’era comunista è al contempo cacciatore, pescatore, pastore, e critico.

Al di là di questa caratterizzazione arcadica e assai poco moderna della vita nella società futura, Marx prospetta - nella sua “Critica del programma di Gotha” - una fase socialista come intermedia tra quella capitalistica e quella comunista: tramontato il sistema capitalistico, sarebbe impossibile passare immediatamente al momento comunista, in cui vien meno la proprietà, poiché gli individui sono ancora in parte ideologicamente legati alla società passata, basata sul denaro e sulla proprietà; si dovrà pertanto, secondo Marx, attuare una fase intermedia, in cui si realizzeranno quegli obiettivi che il sistema capitalistico si era chimericamente proposto di raggiungere, senza mai riuscirvi: il motto di questa fase di passaggio sarà dunque “a ciascuno secondo il suo lavoro”, espressione che compendia la necessità di una distribuzione dei beni pari al lavoro compiuto, in antitesi al sistema di fabbrica, dove chi lavora non guadagna e chi guadagna non lavora. Questo socialismo di frontiera si configurerà allora come piena realizzazione di quella meritocrazia (esaltata a gran voce dal sistema capitalistico, ma nei fatti ipocritamente accantonata) per cui ciascuno guadagna in base a quanto produce.

Spianata in questo modo la strada e venuta meno la mentalità imperante nell’età del capitalismo, sarà possibile il passaggio al terzo momento, quello comunistico, in cui al motto “a ciascuno secondo il suo lavoro” si sostituirà quello “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. In questo nuovo modello di società, infinitamente distante da tutte quelle finora realizzatesi (e per questo fortemente utopica), l’individuo sarà compensato sulla base non di quel che produce, ma, al contrario, di ciò di cui abbisogna; in quest’ottica, ognuno sarà tenuto a svolgere prestazioni lavorative pari alle sue capacità, per poi ricevere compensi proporzionali ai suoi bisogni. Le critiche più scontate (e più frequenti) che si possono indirizzare al progetto marxiano fanno leva essenzialmente su due punti: in primis, in una società così organizzata, in cui ciascuno riceverà a seconda dei suoi bisogni e non delle sue prestazioni, abbonderanno i “furfanti”, che faranno il meno possibile, nella consapevolezza di ricevere ugualmente ciò che serve loro per vivere. In secundis, non è forse ingiusto che non ci sia un riconoscimento dei meriti degli individui (indubbiamente non equiparabili), né una distribuzione proporzionale al lavoro?

Una possibile risposta ad entrambe queste obiezioni fa leva sul fatto che, colui che le muove, è ancora storicamente situato in una società di stampo capitalistico e, pertanto, è alimentato da un’ideologia che mira a legittimarla: in altri termini, chi critica il comunismo marxiano lo fa perché lo vede come un qualcosa di diverso da quella società capitalistica in cui si muove e pensa. In direzione anti-capitalistica, ma con un’accentuata attenzione per l’assurdità di gran parte delle convenzioni sociali, si dirigeva anche lo scritto “Che fare?” (il cui titolo sarà ripreso dallo stesso Lenin) di Cernyševskij, in cui lo scrittore russo propugnava utopicamente l’uguaglianza dei sessi e una produzione di tipo cooperativistico, capace di garantire una distribuzione egualitaria dei profitti. In sostanza, tuttavia, per le modalità e le soluzioni prospettate, il progetto era inevitabilmente condannato a rimanere sulle pagine dei libri, senza poter sperare una reale attuazione, nonostante l’Ottocento (ma più ancora il Novecento) sia per molti versi stata un’epoca di incontro della realtà con l’utopia.

Ancora la Francia ne fu la grande protagonista: nel febbraio del 1848, quando pressochè tutta l’Europa fu percorsa da un sisma rivoluzionario che aveva il suo epicentro a Parigi, un socialista moderato, Blanc, fu nominato ministro del lavoro e potè in tal modo far diventare realtà la sua progettazione utopica. Il suo presupposto riposa sulla convinzione che gli operai, se messi nelle condizioni di autogestire le industrie, siano capaci di dimostrare la loro concorrenzialità rispetto ai “privati”: rispetto a questi ultimi, infatti, nei “laboratori sociali” - così Blanc denomina le aziende autogestite - manca il profitto per il padrone e, dunque, i prodotti ultimati costeranno meno, con la necessaria conseguenza che le aziende “private” saranno sgominate dalla concorrenza. Divenuto ministro del lavoro, Blanc potè puntare sulla realizzazione di tali “laboratori sociali”, ma tuttavia fu duramente ostacolato nel suo progetto, a tal punto che vennero creati “laboratori nazionali” - e non “sociali”, come prevedeva il ministro francese -, cosicchè l’ideale di Blanc fu snaturato e costretto a fallire miseramente.

Più di vent’anni dopo l’esperienza dei “laboratori nazionali”, in seguito alla sconfitta militare di Napoleone III, le masse popolari di Parigi furono decisive nelle manifestazioni pubbliche che portarono alla proclamazione della famosa “Comune di Parigi”, primo governo socialista della storia: tutte le mirabolanti società utopiche delineate nella storia trovavano finalmente in qualche modo una loro realizzazione, una concretizzazione in cui rispecchiarsi, il loro primo grande incontro con la realtà; scese dall’alto, si calavano nel reale, scontrandosi con una pluralità di problematiche imprevedibili sulla carta. Ben presto, però, questo stralcio di “realtà utopica” venne bandita dal reale per essere ricacciata verso l’intelligibile, con una repressione feroce che portò alla fucilazione immediata perfino di donne, bambini e anziani; la fiamma della speranza fu spenta e l’utopia tornò ad essere tale, abbandonando il mondo terreno e chi in essa aveva fiduciosamente creduto.

L’impeto utopistico, nonostante le repressioni e i bagni di sangue cui era andato incontro nell’Ottocento, non si smorzò nel secolo successivo, ma, anzi, crebbe di un rinnovato vigore fino ad allora sconosciuto: la Rivoluzione Russa prima, quella Cubana poi, nonché le sterminate rivolte che costellarono la vita politica novecentesca a livello mondiale, portarono l’utopia sul trono, ad insediarsi tra le pieghe della realtà, ma accadde qualcosa fino ad allora sconosciuto e inimmaginato. Quello che, a livello di idea, era considerato pressochè concordemente da tutti un nobile progetto degno di attuazione, quando poi trovava la sua concretizzazione, incontrando la realtà, smarriva improvvisamente ogni suo connotato utopico, cessando di essere un “luogo inesistente” e, soprattutto, “felice” e perfetto, capovolgendosi nel suo esatto contrario: un inferno intollerabile.

Così fu per la Rivoluzione Russa, che dette cittadinanza nel reale all’utopia vagheggiata da Marx nel secolo precedente: liberata la Russia dall’autarchia degli zar e dalla cappa medioevaleggiante che la avviluppava, Lenin seppe modellare la società sui princìpi marxiani - tenendo conto delle differenze del mondo russo rispetto a quello tedesco di Marx - , garantendo al popolo l’uguaglianza, l’abbattimento di ogni divisione di classe e della religione, marxianamente intesa come inutile narcotico che annebbia la mente umana e la aiuta a meglio sopportare una realtà invivibile.
Ma ben presto - con Stalin - vi fu un clamoroso tracollo del progetto avviato da Lenin, cosicchè la società utopica venne sostituita da un’infernale macchina di delitti, di inganni e di tirannia, incapace di garantire ogni forma di libertà all’individuo, ma abilissima nello sbarazzarsi misteriosamente dei suoi nemici politici.

Sorti analoghe si abbatterono sulla Cina comunista, su Cuba e sulla Cambogia: le utopie si tramutavano con impressionante rapidità in anti-utopie o, se preferiamo, in “kakotopie” (da kakoV - topoV), in società a cui le precedenti non avevano nulla da invidiare. Appariva sempre più evidente che l’utopia, nel momento in cui veniva realizzata, cessava di essere tale e veniva inghiottita da quelle contraddizioni del reale a cui si era opposta prima della concretizzazione: in qualche modo, si cominciava a capire che la pretesa avanzata da Platone, da Moro e da tutti gli altri utopisti del passato di cambiare lo stato di cose in nome di un ideale che lo rendesse perfetto era una grande illusione, forse la più grande mai esistita. Come si doveva reagire? Caduta un’utopia, non resta che cercarne un’altra, nella quale riporre le speranze disattese dalla prima, conducendo così una vita immersa nel fluttuare continuo di utopia in utopia, pur nella consapevolezza - taciuta ma a tutti nota - di come cadranno una ad una all’infrangersi con la realtà, quest’imbattibile mostro che si diletta a far strage di progetti ideali.

La conferma di ciò sta nel costante rinascere delle utopie anche dopo il loro fallimento storico: così nel ’68 vi fu una vivace ripresa dell’utopismo e si pensò di essere giunti al momento culminante, alla “fine dell’utopia” - come ebbe a dire Marcuse - ossia al suo trapasso a realtà effettiva e fedele al modello, al suo cessare di essere sogno irraggiungibile. Robert Nozick, nel suo “Anarchia, Stato, Utopia” - prendendo spunto dalle derive utopistiche della Russia e non solo - dice no all'anarchia dello stato di natura e allo statalismo, proponendo invece un'utopia della libertà. Se Wittgenstein, Russell, Picasso, Mosè, Einstein, Socrate, Ford, Gandhi, Sinatra, Colombo, Freud, Edison, Jefferson... voi e i vostri genitori - dice in tono provocatorio liberale Nozick - siete individui differenti, sarà possibile trovare "un genere di vita" unico che sia il migliore per ciascuna di queste persone? Nozick pensa - popperianamente - che dobbiamo abbandonare l'utopia di una società perfetta, valida per tutti, e che, al contrario, dobbiamo prendere in considerazione l'utopia di un luogo in cui la gente sia libera di associarsi volontariamente per tentare di attuare la propria individuale visione della vita, senza imperla agli altri.

L'utopia, dunque, dev'essere una struttura-per-la-libertà, che superi sia l'anarchia (di un ipotetico "stato di natura") sia lo Stato pianificatore (che obbliga qualcuno a fare sacrifici per aiutare altri). In effetti, il retaggio del naufragio dell’utopia russa pesava sulla coscienza di tutti: non era più possibile pensare ad un’utopia senza che accorresse alla mente la triste deriva di quella russa; consapevole del carattere fallimentare destinato a travolgere ogni progetto utopico, Orwell inscenò, nel suo celebre libro “1984” un’utopia al contrario, una “kakotopia” che ricalcava - se letta in trasparenza - gli sviluppi di quella staliniana.
Al centro del racconto troviamo una società utopica, governata secondo i princìpi del Socialismo inglese che si fonda sull'incontestabile autorità del capo carismatico - il Grande Fratello - onnisciente ed onnipresente, i cui occhi sono telecamere che spiano nelle abitazioni, il cui braccio la "psicopolizia" che interviene al minimo sospetto di "psicoreato" , la cui coscienza si insinua in quella della gente comune e suscita il senso di colpa al solo pensiero di un'eresia. Tutto è permesso: pensare, se si aderisce anche col pensiero ai principi del Socialismo; amare, se lo si fa per la continuazione della società perfetta; divertirsi, se si seguono i programmi TV di propaganda del Partito. Si assiste all'avverarsi del paradosso dell'utopia: libertà è libertà di fare tutto ciò che il Partito desidera che si faccia, dall'utopia si scivola così inevitabilmente nella "kakotopia".
Il protagonista - Winston, "l'ultimo uomo in Europa" - e la sua compagna lottano per preservare la loro dignità di esseri umani e, immersi ormai nella ideologia dilagante del Grande Fratello - cercano di combatterlo dall'interno del Partito stesso, in nome di quel mondo oramai cancellato, ma ogni ribellione contro chi ha il potere di controllare le coscienze è condannato allo scacco, a tal punto che Winston, sul finale dell’opera, viene convertito dal Grande Fratello.

Anche nel romanzo “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley si respira un’aria fortemente “kakotopica”: se la distopia di Orwell dipinge un mondo di soffocante totalitarismo realizzato attraverso il controllo dell’informazione, il “nuovo mondo” di Huxley, invece, è costruito attorno a un formidabile sviluppo delle biotecnologie, uno sviluppo che tende a travalicare la stessa centralità della persona umana. È un caliginoso mondo di schiavi felici di una servile felicità, conseguita attraverso l’assunzione di pasticche. L’intera utopia di Huxley, in un certo senso, è sapientemente costruita su due citazioni; la prima è di William Shakespeare, da “La tempesta”: “com’è meravigliosa l’umanità. O splendido mondo nuovo che ospita tali persone”. John Savage, il Selvaggio, l’infelice protagonista della storia, ama e sfugge nello stesso tempo: egli conosce tutto Shakespeare a memoria, a differenza degli abitanti del “mondo nuovo”, dove Shakespeare è proibito perché “vecchio”. La seconda citazione compare nel frontespizio del libro ed è di Nicholas Berdiaeff, già Nicholay Berdiayev, filosofo ucraino: “le utopie sembrano sempre più realizzabili di quanto si credesse nel passato. E noi ci troviamo oggi di fronte a un problema ben più angosciante: come evitare la loro realizzazione definitiva?”. Questa è dunque la terribile minaccia per l’uomo moderno: la capacità di realizzare le proprie utopie, vederle trasformarsi, da chimere da inseguire, in mostri terribili da abbattere.

Ma da dove nascono le utopie? In parte - pensiamo a Esiodo o al Platone della città d’Atlantide -, dalla preistorica credenza dell’uomo in una passata “età dell’oro”, cioè dal sogno stesso del paradiso in terra, quale è appunto il “mondo nuovo”. Esso appare paradisiaco a tutti quelli che lo abitano anche grazie all’”ipnopedia”, cioè al condizionamento psicologico nel sonno, e alla “soma”, la droga perfetta resa disponibile dallo Stato. Ma il “mondo nuovo” non è un paradiso per John Savage, l’uomo scandalosamente nato in modo “viviparo” e non “in vitro”, come si fa ormai da secoli nel nuovo mondo. John Savage, casualmente scovato nella Mesa di Malpais, nell’ultima Riserva Indiana, è inizialmente attratto dalla “civilizzazione”, che non ha mai conosciuto, ma poi cambierà gradualmente idea, arrivando a rivendicare “il diritto di essere infelice”.

Finora abbiamo trattato di utopie “filosofiche”: ma anche la scienza ha le sue. Basti ricordare la pietra filosofale, il moto perpetuo e perfino la fusione nucleare controllata. Persino la matematica non è immune da utopismo: così gli antichi hanno inseguito per lungo tempo il sogno della “quadratura del cerchio”, pratica “razionale” con cui avrebbero dovuto ricavare dal diametro, con il solo uso della squadra e del compasso, un segmento pari alla circonferenza, ovvero, in subordine, un quadrato o un rettangolo di pari area del cerchio dato. Ma in tempi più recenti, all'inizio del Novecento, un illustre matematico italiano, Giuseppe Peano, che affascinò Bertrand Russell con il suo formalismo, incappò in un'utopia colossale, pensando di circoscrivere in un “sistema assiomatico completo” l'intera aritmetica, rendendo una verità incontrovertibile il fatto che due più due faccia quattro.

L'utopia di Peano resistette per più di trent'anni, finchè - nel 1931 - Kurt Gödel dimostrò il più famoso e profondo teorema della logica moderna. La scienza aveva rivendicato con Bacone piena cittadinanza negli apparati statali, a tal punto da volersi imporre a capo dello stato, con un’autentica tecnocrazia: ancora sul finire dell’Ottocento, Edwin Abbott Abbott propose, nel suo celebre scritto “Flatlandia”, un mondo situato in un’altra dimensione, un mondo a due dimensioni, piatto come un foglio di carta (da qui il nome Flatlandia), su cui scivolano le figure gemotriche che lo popolano. Si tratta del regno della geometria, dove essa non solo è al potere, ma penetra e anima l’intera realtà. Mondo bidimensionale abitato da segmenti, triangoli, quadrati, poligoni vari e sublimi circoli, la Flatlandia (o Paese del Piano) ci viene descritta con perizia etnologica e candido humour da un suo abitante, un eccellente Quadrato.
In quel mondo, le gerarchie sono immediatamente evidenti: si passa dai volgari e spigolosi Triangoli (gli operai), ai più rispettabili Quadrati e Pentagoni (i professionisti) e ai nobili Poligoni, che si approssimano indefinitamente ai Circoli (i sacerdoti), nei quali la bruta natura angolare è del tutto annullata. Le donne sono Segmenti, e implicita nella forma è la loro natura bassa e infida, ma supremamente potente e temibile, che viene illustrata in alcune pagine di esilarante misoginia. Siamo introdotti alla complessa legislazione e agli insoluti problemi della Flatlandia; veniamo a conoscere la storia spesso drammatica del paese. E infine assistiamo agli emozionanti incontri del Quadrato narratore con il mondo unidimensionale della Linelandia (o Paese della Linea) e con la sconvolgente realtà dello spazio tridimensionale, scoperta attraverso il dialogo con una Sfera. Si rivela a questo punto la sottigliezza speculativa del libro. Il lettore tridimensionale è partito da una posizione di onnisciente superiorità: cio' che per gli abitanti della Flatlandia è oscuro e inestricabile, appare a lui con assoluta evidenza, così come il nostro mondo, oscuro e inestricabile, potrebbe apparire a una maligna divinità che lo avesse creato come un giocattolo imperfetto. Ma questo meccanismo di mondi concentrici, incompatibili e incomunicanti, in realtà mette in dubbio i nostri stessi punti di riferimento, e il libro si chiuderà con la inquietante ipotesi di una Quarta Dimensione. In un gioco di specchi, questa ultima supposizione ci fa intendere che il nostro mondo tridimensionale è probabilmente osservato da un mondo ulteriore con la stessa superiorità e indifferenza che noi mostriamo verso gli abitanti della Flatlandia, e la prospettiva si apre così su una molteplicità di mondi diversamente ciechi e ignari, incapsulati l'uno nell’altro. A tal proposito, appare particolarmente significativa la dedica iniziale con cui si apre l’opera: “Agli abitanti dello spazio in generale e a H.C. in particolare è dedicata quest'opera da un umile nativo della Flatlandia nella speranza che, come egli fu iniziato ai misteri delle tre dimensioni avendone sino allora conosciute soltanto due così anche i cittadini di quella regione celeste possano aspirare sempre più in alto ai segreti delle quattro o cinque o addirittura sei dimensioni. In tal modo contribuendo all'arricchimento dell'immaginazione e al possibile sviluppo della modestia, qualità rarissima ed eccellente fra le razze superiori dell'umanità solida”.

Non è mancato chi ha voluto vedere nel racconto di Abbott una sorprendente anticipazione della teoria einsteiniana, e infatti il libro è diventato ghiotta lettura di matematici e scienziati. Ma Flatlandia è un universo fantastico, minuscolo e perfetto e, come tale, resta innanzitutto un esercizio inesauribile dell'immaginazione: ma, con occhio critico, possiam notare come sullo sfondo Flatlandia fosse per il suo autore un’utopia. Oltre ad essere presente nella matematica e nelle scienze, anche le fiabe si nutrono di un forte utopismo: pensiamo all’“Isola che non c’è”, il fantastico regno in cui non si cresce mai e Peter Pan, aiutato dai bambini che han smarrito la voglia di diventare adulti, lottano contro le angherie del perfido Capitan Uncino; pensiamo ancora ad “Alice nel Paese delle Meraviglie”, questo incredibile viaggio in un mondo popolato da creature, di sogni e di situazioni che nella realtà ordinaria non trovano spazio. Da ultimo, possiamo accennare brevemente a “Pinocchio” di Collodi, la vivacissima serie di avventure di questo burattino che, - secondo la definizione di Croce - intagliato nel legno di cui è fatta l’umanità, si ribella alle regole che la società prescrive e trova rifugio nel “Paese dei Balocchi”, il regno del gaudio e della spensieratezza, dove la serietà del mondo reale è stata sostituita dal gioco e dallo scherzo. L’attenzione e l’interesse dei bambini per questi mondi irreali testimonia come l’utopicità umana si manifesti, in qualche modo, fin dall’infanzia, per poi non abbandonarci mai del tutto: il bambino stesso coglie, senza mediazioni, come il mondo reale che ha di fronte non sia appagante, ma tenda a reprimere i suoi slanci e a non essere il “migliore tra quelli possibili”; perciò guarda con stupore a mondi “altri”, diversi e straordinari, forse più a misura d’uomo (e di bambino), più vivibili e meno soffocanti. In passato filosofi e letterati si sono sbizzarriti a identificare l’uomo chi come “animal rationale”, chi come “animal symbolicum”, chi come animale parlante: non sembra fuori luogo, tra le tante definizioni, azzardarne una nuova, radicalmente nuova, che intende l’uomo come “animal utopicum”, ossia come quell’unico essere vivente in grado di criticare la realtà in nome di ideali ad essa superiori, a cui far costante riferimento nell’agire. Solo il genere umano, infatti, sa produrre utopie, mondi alternativi e migliori di quello reale: esso solo sa produrli e lottare per piegare ad essi, quanto più è possibile, la realtà.

Certo, nella “Fattoria degli animali” di Orwell ci troviamo di fronte ad un mondo animale che, inappagato dal reale, in cui è soggiogato all’iniquo dominio umano, si rivolta in nome di un mondo idealmente più giusto; ma è facile capire come il mondo animale di Orwell sia uno specchio di quello umano, un abile gioco per mettere in luce i difetti degli uomini e la loro bestialità, l’incapacità di realizzare quegli alti e nobili obiettivi che si propongono. Il mondo animale è per Orwell solo una facciata per penetrare in quello umano, con i suoi ideali e i suoi clamorosi fallimenti, in seguito ai quali gettarsi all’inseguimento di nuovi ideali. L’utopismo che ha accompagnato il genere umano dalle sue origini fino ad oggi è destinato a non spegnersi, ma a brillare di una luce sempre rinnovantesi fin tanto che esisterà l’uomo: abbiamo preso atto della inevitabile impossibilità che l’utopico diventi il reale, non nel senso che un’utopia non possa realizzarsi, ma, piuttosto, nel senso che, realizzandosi, si snatura, diventa altra cosa dal modello originario, come se il contatto con la realtà la depotenziasse, quasi uccidendola, così come al contatto con l’aria alcuni batteri soccombono. L’utopia, in quest’accezione, è incredibilmente vicina al concetto greco di adunaton , con il quale si designa l’impossibile.

Ma utopico non vuol né deve essere a tutti i costi sinonimo di razionale: così Freud, quando cede all’utopismo, non immagina un mondo razionalmente amministrato, ma, piuttosto, un caotico guazzabuglio di pulsioni sessuali incontrollate, che volano libere per l’aria senza dover essere filtrate dalle regole che la società impone per tenerle a freno. In realtà, Freud sa bene che si tratta di un’utopia nell’accezione greca di “non-luogo”, ossia di impossibile realizzazione; più fiducioso nelle possibilità che l’uomo possa finalmente sbarazzarsi dei valori in cui è invischiato e che si trascina dietro da secoli è Nietzsche, traboccante di speranze in un avvenire in cui l’uomo trapassi in “oltre-uomo”, riprendendo contatto con la realtà e scostandosi dagli idealismi che lo accompagnano da millenni. Platone, Moro, Campanella e - entro qualche misura - lo stesso Marx sono convinti che il modello di società ideale da loro ipotizzato sia più razionale della realtà presente, venata da una molteplicità incredibile di contraddizioni e, quindi, da superare; anche Schelling, Fichte e, soprattutto, Hegel restano saldamente legati alla nozione di “razionalità”, senza però arrivare a porla su un piano distinto dalla realtà e ad essa superiore (questo valeva soprattutto per Platone): al contrario, per questi tre idealisti il reale e il razionale coincidono perfettamente, è la realtà stessa che, nelle sue strutture profonde, è assolutamente razionale e, se talvolta non ci appare tale, è solo per un nostro errore di prospettiva. Ciò non implica - come si potrebbe essere indotti a credere - che ogni singolo accadimento sia in sé razionale, ma piuttosto che lo sia il procedere della realtà considerata nel suo complesso, nelle sue strutture generali, con la conseguenza che, in un mondo dove il reale e il razionale sono due facce della stessa medaglia, l’utopismo si sgretola e non riveste più alcuna funzione. Ma lo stesso hegelismo, pur così incline ad intendere la realtà come una totalità processuale necessaria, ha anche aperto spiragli verso l’utopismo ed è stato accolto, in questa sua insolita veste, dagli esponenti della “Sinistra” hegeliana, che hanno recepito il motto “ciò che è razionale è reale” (Hegel, “Lineamenti di filosofia del diritto”) come un’esortazione a battersi per far diventare reale ciò che a livello ideale è razionale e che pertanto merita di trovare cittadinanza nel caotico mondo concreto. Ma, ancora una volta, le vicende del Novecento ci hanno aperto gli occhi, hanno compiuto un’autentica “strage delle utopie”, mettendo in luce come probabilmente sia un bene che esse restino tali, sempre al di là del reale, modelli asintotici a cui avvicinarsi sempre più senza mai raggiungerli definitivamente.

Ma perdere del tutto la fede nell’utopia significherebbe, in fin dei conti, sentirsi appagati dalla realtà presente, che pure è sconvolta da così tante imperfezioni e difetti, e smarrire un ideale dalla cui luce trarre ispirazione per percorrere la strada infinita del perfezionamento. Popper su questo punto ha ragione: una società certa della propria perfezione perderebbe ogni stimolo a migliorarsi e a guardare ad altri modelli. Solo una società “perfetta” come quella delineata da Marx, dove viene meno la necessità di creare utopie e l’uomo stesso diventa Dio, può ripiegarsi interamente su se stessa, senza volgere altrove lo sguardo; ma è dal tragico fallimento del progetto marxiano che si debbon prendere le mosse, tenendo conto che quei problemi che Marx e Lenin avevano erroneamente creduto di risolvere non sono stati risolti da nessun altro, ma incombono ancora oggi in tutta la loro atrocità: la fame nel mondo, il sottosviluppo di alcuni Paesi, l’iniqua distribuzione delle ricchezze che ha da tempo spaccato in due parti distinte la Terra, lo sfruttamento, e mille altri problemi di cui si sente continuamente parlare e della cui esistenza tutti sappiamo, ma che, non per questo, cessano di sussistere. Ed è qui che entra in gioco l’utopia, come modello di società perfetta in cui a tutti sia dato condurre un’esistenza perfetta, felice e pacifica; ma tale modello non deve precipitare dall’alto improvvisamente, come è capitato in Russia o a Cuba, con un immediato intossicamento dell’utopia da parte della realtà; piuttosto, deve essere rincorso nella consapevolezza che non sarà mai possibile attuarlo così com’esso si presenta idealmente: deve, appunto, restare un modello da cui prendere spunto per creare non già una società perfetta, bensì meno ingiusta; non una società dove regni incontrastata la felicità, ma piuttosto dove l’infelicità diminuisca; una società dove la proprietà non venga meno, ma piuttosto riceva una più equa distribuzione. Si tratta - è evidente - di una realizzazione che in parte tradisce il modello, ma lo fa consapevolmente, tenendo presente la grande lezione del Novecento sull’impossibilità di calare in toto l’utopia nella realtà materiale: il modello - proprio perché tale - sarebbe il meglio, poiché metterebbe al bando ogni forma di ingiustizia, di prevaricazione, di guerra, garantendo un mondo che - se idealmente considerato - sarebbe perfetto; ma bisogna fare i conti con la realtà, ed è qui che si è sempre arenato il progetto degli utopisti, accomunati - oltrechè dalla volontà di migliorare il mondo - dalla scarsa attenzione per la realtà, come se si fossero fatti accecare da quell’”Idea del bene” che Platone paragonava al Sole. La realtà non è un qualcosa che facilmente si lasci plasmare e recepisca agevolmente la forma dell’utopia: è anzi, per sua stessa natura, refrattaria e allo stesso tempo ostica, impossibile da padroneggiarsi; e - quel che forse è meno facile a credersi - gli uomini stessi che la popolano, e che di essa sono in certo senso schiavi, lottano per difenderla così come è, svolgendo in questo modo una funzione conservatrice che ben si inquadra nella categoria marxiana di “ideologia”: il benestante, il borghese, l’uomo di Chiesa, non cambierebbero una virgola della realtà, non ne smuoverebbero uno solo degli infiniti atomi che la compongono, perché sono visceralmente attaccati ad essa e alla sua struttura, sono parte integrante del sistema, a al punto da non riuscire a guardare al di là. Ma gli stessi operai e, più in generale, gli sfruttati dal sistema tendono in generale ad assuefarsi all’andamento del sistema, senza accorgersi di come esso possa essere cambiato e, magari, spezzato, per poi essere sostituito da uno diverso: anch’essi finiscono per svolgere una funzione conservatrice, di difesa per la realtà e ostile a chi vuol modificarla. Solo in pochi si sono accorti e si accorgono di come il sistema non sia qualcosa di assoluto, ma piuttosto un ordinamento storicamente determinato, un qualcosa che, pur nella sua datità, potrebbe non esserci: a costoro ogni singola parte della realtà pare contrastante, stridente e da cambiare; ad essa sanno opporre un modello ideale rivoluzionario, capace di ribaltare il tutto in meglio. L’utopia è per loro la lanterna che getta luce sull’oscurità del reale, è assimilabile all’Idea del Bene platonica, che permette di vedere la realtà sotto una nuova e diversa luce, la luce critica della contestazione di ciò che è; dopo averla vista, non possono rimanere nell’inerzia, ma sentono un impulso a cambiare lo status di cose, un impulso che in primis si manifesta nella sua pars destruens come necessità di abbattere il sistema: così oggi vediamo sulle piazze individui che “lottano”, non sanno di preciso per cosa, ma lottano, è filtrata fino ai loro occhi la luce abbagliante dell’utopia, della necessità di cambiare le cose. Combattono in modo rudimentale, senza scopi precisi, poiché non hanno contemplato nella sua interezza il modello utopico: ma hanno presagito la funzione drogante del sistema, la sua carica inibitoria, la sonnolenza che si è impossessata di tutti coloro che ad esso sono piegati e che non riescono a vedere al di là. Questi “guerriglieri” del giorno d’oggi non hanno certezze, ma agiscono in base ad intuizioni: più precisamente, in base all’intuizione che così come è il sistema non va, è gestito da e a vantaggio di pochi, ma ciononostante è difeso dalla stragrande maggioranza, che ne è assorbita e incatenata. Il loro utopismo sta, per ora, nella negazione dei valori e delle regole vigenti: la stessa scienza e la tecnica, per Marx acquisibili mediante il metodo dialettico, diverse sia dall'ideologia, sia dall'utopia, a partire dai pensatori della Scuola di Francoforte e, soprattutto, da Horkheimer sono anch'esse causa ed espressione, al tempo stesso, del dominio totale di una società