IL RAPPORTO DIRITTO-MORALE


 

 

Ci concentreremo ora sul rapporto che intercorre tra il diritto e la morale. Come abbiamo visto, uno dei dogmi fondamentali su cui poggia il positivismo giuridico è la tesi della separatezza tra diritto e morale. I giusnatutalisti (e non soltanto essi) sostengono invece la tesi della connessione tra i due. Questa netta contrapposizione tra la morale e il diritto comincia a delinearsi nel momento in cui la modernità prende a pensare diversamente la genesi del diritto: in questo senso, Hobbes è ancora una volta un autore particolarmente significativo, poiché nelle pieghe del suo discorso già si intravede la distinzione tra legalità e moralità, ancorché in questo autore non sia ancora tematizzata la distinzione tra l’obbligo legale e quello morale: infatti, per Hobbes le leggi giuridiche obbligano moralmente.

La genesi della contrapposizione tra diritto e moralità dev’essere ricercata in area tedesca, nella riflessione di Christian Thomasius (1655-1728), il quale teorizza i rapporti tra diritto, morale e politica in una maniera destinata a godere di grande fortuna per tutto il Settecento. Nel suo scritto Fundamenta juris naturae et gentium (1705), egli opera una differenziazione tra il diritto, la morale e la politica riconducendoli a loro volta a tre categorie: honestum, justum, decorum. L’ambito dell’“onesto” è la morale, il cui fine è l’“honeste vivere”: la massima costitutiva della morale recita “fai a te stesso ciò che vorresti che gli altri facessero a te”. L’ambito del “giusto” è quello giuridico, la cui massima dice “non fare ad altri ciò che non vorresti che gli altri facessero a te”. Infine, l’ambito politico è quello del “decoro”: la sua massima recita “fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te”. Non è difficile evincere come questa massima politica implichi un atteggiamento supererogatorio che prescrive un obbligo cooperativo e solidaristico a intervenire là dove c’è una situazione di necessità.

Nella sua Politica (scritta all’inizio del Seicento), Johannes Althusius aveva definito la politica come “consociatio symbiotica”, ossia come consociazione avente per oggetto il vivere associato e caratterizzata dall’incessante sforzo cooperativistico colto da Thomasius, la cui tripartizione è ben chiara a Immanuel Kant quando, nella Metafisica dei costumi e in Per la pace perpetua, cerca di connettere politica e morale. Come è noto, in Kant la legalità è la conformità delle azioni a leggi che riguardano azioni esterne, mentre la moralità è conformità a leggi che esigono di essere intese come principi determinanti delle azioni: pertanto le leggi giuridiche prescrivono in nome della volontà di un altro, mentre le leggi morali prescrivono in nome della pura ragione. Nell’introduzione alla Metafisica dei costumi, Kant specifica che la norma morale è quella in cui coincidono il dovere e l’impulso, mentre la norma giuridica è quella in cui essi divergono.

Da questa opposizione tra morale e diritto prende le mosse anche Hans Kelsen nella sua Dottrina pura del diritto (1960): nel capitolo II di quest’opera, viene affrontato il problema del rapporto tra il diritto e la morale a partire dalla tradizione kantiana. La distinzione tra il diritto e la morale – nota Kelsen – non può fondarsi sul tipo di comportamento al quale l’uomo è obbligato dalle norme dei due sistemi, nel senso che lo stesso comportamento può essere oggetto di norme giuridiche e di norme morali ( ad esempio, il divieto di uccidere). Non è neppure corretto pensare che la moralità riguardi l’interno e la legalità l’esterno, come appare evidente non appena si consideri il caso del coraggio: esso implica un atteggiamento interno che però deve avere risvolti esterni; lo stesso divieto di uccidere ha risvolti interni, nel senso che vieta anche l’intenzione omicida. La distinzione tra morale e diritto non può nemmeno fondarsi sul modo di produzione e di applicazione delle norme: anche le norme morali, infatti, si possono produrre positivamente o perché statuite o per consuetudine.

La conclusione cui Kelsen addiviene è che si può distinguere tra diritto e morale solamente se si tiene presente che solo il diritto è coercitivo, ossia fa ricorso alla forza organizzata. In Kelsen, si approda quindi a una negazione di principio delle tesi della connessione tra morale e diritto: la tesi per la quale il diritto è tale nella misura in cui è posizione in leggi di norme morali deve essere buttata a mare, poiché la “dottrina pura del diritto” respinge i presupposti statalisti propri del vetero-giuspositivismo e ha un compito essenzialmente descrittivo. Tuttavia, tradizionalmente accade l’opposto, nel senso che il giuspositivista legittima acriticamente l’ordinamento coercitivo appellandosi a una morale assoluta, in un imperativismo che finisce fatalmente nella dottrina dello “Stato etico”.

Occorre leggere queste riflessioni kelseniane alla luce degli scritti di Kelsen dedicati alla democrazia, nei quali il nostro autore sostiene la tesi del relativismo etico (che è una forma di “non-cognitivismo” etico); un relativismo che garantisce un buon funzionamento della democrazia: se infatti si avesse una “morale assoluta”, allora crollerebbero le condizioni di sviluppo della democrazia. Kelsen si sofferma su quelle “morali relative” che accettano la loro reciproca differenza: in questi casi, le norme, per poter essere intese come diritto, devono avere qualche elemento comune fra loro, ma questo è assai difficile: di comune esse non hanno il contenuto, bensì la forma, vale a dire il carattere normativo.                           

 

 


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