IL POSTMODERNISMO


 

 

Nel quadro del “common law”, del diritto giurisprudenziale dal quale scaturisce il “realismo giuridico”, si situa anche un movimento nato negli Stati Uniti d’America negli anni Sessanta e noto col il nome di “critical legal studies”. Gli autori di questa corrente di pensiero adottano il punto di vista della “Left”, talvolta avvicinandosi addirittura alle prospettive marxiste secondo cui il diritto rispecchierebbe gli interessi della classe dominante. Questi “giuristi critici” svelano la parzialità del diritto, il suo tutelare gli interessi di determinate classi sociali: essi sono figli dei “realisti giuridici”; sono, per così dire, i loro fratelli di Sinistra. I “giuristi critici” guardano al diritto più “dal basso”, assumendo il punto di vista giustizialista del diritto delle corti, nei confronti delle quali questi autori sono assai critici: secondo loro, infatti, le corti piegano il diritto come vogliono e quindi fanno sempre politica a sostegno di interessi dominanti. Questa corrente di pensiero, quando è venuta meno la carica emancipatoria sull’onda della quale era sorta, è sfociata nel “postmodernismo giuridico”, che è anche un fenomeno europeo, benché sia più diffuso (e più aggressivo) negli USA. Come è noto, il postmoderno è la filosofia della pluralità e della scepsi, una filosofia che sostiene la non decidibilità razionale delle controversie. Per i postmoderni, non ci sono controversie che non possano essere risolte diversamente a seconda del giudice che decide: in tale prospettiva, quello della certezza del diritto è un mito o, come direbbero Lyotard e Vattimo, un “meta-racconto”. Già Jacques Derrida era chiarissimo su questo punto. Nel suo articolo Postmodernismo giuridico e giuspositivismo (2003), Ettore Gliozzi fornisce un’ottima sintesi delle tesi dei postmodernisti, precisando come essi abbiano portato all’estremo le convinzioni degli ermeneuti nietzscheani, il cui obiettivo decostruttivo è dimostrare l’impossibilità di distinguere le pretese fondate razionalmente. Secondo Gliozzi, sono due gli argomenti che i postmoderni fanno valere in campo giuridico: a) la dimostrazione che ogni pretesa normativa solleva controversie e dissensi dai quali si deve trarre la conclusione che nelle realtà pluraliste di oggi non si possono trovare pretese ultime e razionalmente fondate; b) l’impossibilità di distinguere, in un testo normativo, le interpretazioni corrette da quelle non corrette, giacché tutti i testi normativi sono immancabilmente suscettibili di interpretazioni diverse, come è dimostrato dal fatto che tali testi sono concretamente interpretati in maniere diverse. Come affermava Derrida, un testo è suscettibile di infinite interpretazioni e quel che conta non sono tanto le intenzioni dell’autore quanto piuttosto quelle di chi lo interpreta.

Quella dei postmodernisti giuridici è una radicalizzazione di una tesi che s’era già imposta a inizio Novecento in diverse forme, la tesi dell’indebolimento della razionalità assoluta: le matrici di tale tesi sono il politeismo dei valori (Max Weber), il diritto come voluntas e non come ratio (Hans Kelsen), il decisionismo (Carl Schmitt). A tal proposito, Ettore Gliozzi dice che l’anima nichilistica è interna all’intera tradizione novecentesca del diritto (e non solo alla corrente postmoderna), seppur declinata in modi diversi e con differente intensità.

Il dibattito contemporaneo è attraversato da una frattura tra la linea delle posizioni positivistiche e posizioni postmodernistiche da una parte e, dall’altra parte, la linea delle posizioni cognitivistico-illuministiche, linea che crede che le controversie siano razionalmente decidibili e che l’apparato delle norme serva esattamente a questo. La difficoltà nel decifrare tale dicotomia è dovuta alla complessità delle parti in causa e dalla loro specificità continentale (le posizioni sviluppatesi in Europa sono infatti ben diverse da quelle nate in America). In generale, si può dire che è una opposizione tra le posizioni neocostituzionalistiche (o anche “giusrazionalistiche”: Gustavo Zagrebelsky, Jürgen Habermas, Robert Alexy) e l’irrazionalismo giuridico (Natalino Irti preferisce parlare di nichilismo giuridico). Quest’ultimo – l’irrazionalismo – si articola poi in postmodernismo (soprattutto in America) e in positivismo (in Europa), anche se sappiamo che a sua volta il positivismo ha volti diversi (il normativismo di Kelsen e il decisionismo di Schmitt). I neocostituzionalisti credono (anche se in modi diversi tra loro) nella decidibilità razionale delle controversie, decidibilità che avviene in forme dialogico-comunicative.

Accanto a queste, vi sono poi posizioni che enfatizzano la dimensione del “non diritto”: così, in Flessibile diritto, Jean Carbonnier scrive significativamente che è un mito l’idea che tutto sia risolvibile tramite le norme, come risulta lampante dal confronto con le altre culture non occidentali. I “giuristi dogmatici” (così li chiama Carbonnier) pensano che il diritto, nella sua onniavvolgenza, sia dappertutto; come già dicevano i Romani, “ubi societas, ibi jus”: Carbonnier parla a tal proposito di “pangiurismo”. Il titolo – Flessibile diritto – suona un po’ strano, certo non meno di Il diritto mite (l’opera di Zagrebelsky): tutte e due le opere ben si inquadrano nel clima postmoderno di tramonto dei valori ultimi e della fondatività: la stessa prassi del patteggiamento risponde a questo mutamento di paradigma. Contro il “pangiurismo”, Carbonnier sostiene che non tutto il sociale cade sotto la tutela del diritto: anche Serge Latouche spiega in maniera assai chiara come gli Occidentali abbiano imposto al mondo intero categorie ad esso estranee, tra le quali il diritto.

Nella galassia postmodernista, è radicata la tesi secondo cui le relazioni sociali non sono necessariamente riducibili a diritto: e non ci si limita a mettere in forse la decidibilità razionale delle decisioni, ma si ridimensiona anche lo spazio del diritto e ci si spinge a contestare che esso abbia validità in tutti i campi. Lo stesso rifiuto del potere da parte degli anarchici (tanto nella versione dell’anarchismo iperliberale americano, che rifiuta l’intervento statale, quanto nella versione anarco-socialista europea, che rifiuta la proprietà privata) comprende anche questa matrice.

Sulla base di quanto siamo venuti dicendo, si può capire come la filosofia del diritto contemporanea in Europa si sia trovata esposta alle tensioni scaturenti dal tentativo di coniugare tra loro posizioni diversissime. Significativamente, in Fatti e norme (ma già nel Discorso filosofico della modernità) Habermas si è misurato col pensiero postmoderno identificandosi con una posizione giusrazionalistica che non si appiattisce sulle vecchie posizioni d’un tempo. Lo stesso John Rawls, a partire da Una teoria della giustizia e da Liberalismo politico, ha distinto il “razionale” dal “ragionevole”, reintroducendo così nel dibattito una nozione di razionalità mite (o flessibile) che contrasta con quella fondazionista, invasiva e imperiosa della tradizione e che risente della teorizzazione aristotelica della fronhsiV.       

La novità del neocostituzionalismo ha a che fare con l’oggetto che ne costituisce la preoccupazione costante: lo Stato costituzionale. Sono neocostituzionalisti pensatori molto diversi tra loro, come l’americano Ronald Dworkin (autore de I diritti presi sul serio), il tedesco Robert Alexy, l’italiano Gustavo Zagrebelsky e l’argentino (scomparso prematuramente) Carlos Nino, il quale si occupa del rapporto tra democrazia e diritto e sviluppa una teoria del “diritto come morale applicata” (come recita un suo noto testo). Questi quattro autori concordano nell’ammettere una connessione tra morale e diritto (connessione tipica sia del giusnaturalismo sia del costituzionalismo e rigettata dal positivismo giuridico). Se guardiamo all’opera Il diritto mite di Zagrebelsky, notiamo come il “diritto mite” in questione scaturisca dall’unione di leggi, di diritti e di principi di giustizia: Zagrebelsky insiste molto sulla contrapposizione delle regole (le norme che troviamo nelle leggi) e i principi di giustizia, i quali sono i soli a portare alla realtà costituzionale, giacché costituiscono l’ordine giuridico; le regole, invece, esauriscono in se stesse la loro forza e sono leggi al pari di tutte le altre. Detto altrimenti, i principi sono costitutivi dell’ordine della comunità: mentre le regole ci danno il criterio delle nostre azioni nei vari contesti (autorizzano o vietano certe azioni), i principi non ci dicono nulla direttamente, ci danno criteri per prendere posizione dinanzi a situazioni a priori indeterminate quando queste vengano a determinarsi concretamente. I principi generano orientamenti, un hqoV, un qualcosa che troviamo nella tradizione della filosofia pratica di marca aristotelica. Ben si capisce, allora, in che misura l’elemento dei principi permetta di stabilire un nesso tra costituzionalismo e giusnaturalismo e, al tempo stesso, porti decisamente più in là rispetto al giusnaturalismo. Gli autori neocostituzionalisti insistono sempre nel mostrare come questa concezione del diritto presupponga una sorta di “atto di orgoglio” del diritto positivo e non di rifiuto del medesimo: infatti, con la costituzione viene ad essere il diritto positivo, non quello naturale, giacché si tenta di positivizzare ciò che nei secoli passati era appannaggio del diritto naturale. Le assemblee costituenti, nella loro attività originaria di fondazione di una comunità giuridica, riflettono questi principi attraverso la composizione del pluralismo politico ottenuta con la sublimazione dei principi stessi: così, nella costituzione italiana le tre anime del liberalismo, del cattolicesimo e del comunismo hanno concretamente trovato una composizione delle loro diverse posizioni sublimando i valori in principi che ammansiscono i valori. Quando si ha l’instaurazione di un siffatto ordinamento costituzionale, i principi, i quali hanno composto il pluralismo, svolgono una seconda funzione: perfezionano l’ordinamento giuridico, servono cioè a superare quelle situazioni di paralisi normativa che si hanno quando vi sono antinomie tra le norme. Ciò si verifica assai spesso, poiché un ordinamento giuridico non è mai prodotto unitariamente: in tale eterogeneità di leggi, sono frequentissime le antinomie, gli scontri tra leggi incompatibili tra loro. Per poter risolvere non traumaticamente tali scontri (per poterli cioè risolvere senza avere la paralisi dell’attività giuridica), i principi orientano il legislatore a intervenire in quelle situazioni in cui il conflitto può diventare dirompente.

I principi svolgono anche una terza funzione, che è più problematica e sfuggente rispetto alle prime due: come scrive Zagrebelsky, “la realtà posta a contatto col principio viene per così dire a vivificarsi”, acquisendo valore; in altri termini, i principi valorizzano la realtà illuminandola. Grazie ai principi, infatti, il diritto si eticizza in senso hegeliano, ovvero acquista una valorizzazione concreta: come scrive ancora Zagrebelsky, “il valore si incorpora nel fatto” e in tal maniera esprime una domanda di presa di posizione da parte degli interpreti del diritto. In questa prospettiva, salta quel rigido divisionismo tra “essere” e “dover essere” che ha innervato la tradizione presentandosi sotto forma di dogma: tutta la “filosofia pratica” del Novecento (da Leo Strauss a Voegelin, dalla Arendt a Jonas) mira esattamente a far saltare tale dualismo che occupava un posto centrale nel positivismo giuridico. Secondo questo terzo valore riconosciuto ai principi, dalla realtà stessa i principi farebbero scaturire il “dover essere”: si tratta, in verità, di una tesi che non soddisfa del tutto, poiché i principi, nella misura in cui valorizzano la realtà, possono in fondo essere interpretati e agiti in modi a tal punto diversi da valorizzare qualsiasi realtà, portando per tale via a quella che Carl Schmitt definiva la “tirannia dei valori”, cioè a posizioni valoriali in conflitto tra loro e dunque foriere di cesure e perfino di guerre civili. Dunque, si può affermare che i tre capisaldi di Zagrebelsky (diritti, principi, leggi) si collochino su una scala di crescente problematicità: infatti, se è vero che le leggi non creano alcun problema, è altresì vero che i diritti già creano qualche problema (dove finiscono? Dove iniziano?); nel caso dei principi, poi, la problematicità raggiunge l’apice.

Vi è anche un aspetto giuridico del problema riguardante il neocostituzionalismo: se pensiamo al “diritto mite” come insieme di leggi, di principi e di diritti, allora ragioniamo su un diritto che è eminentemente giudiziario e pertanto ci poniamo nell’ottica del giudice. Molti autori che sono critici nei confronti dei neocostituzionalisti, pur non essendo positivisti giuridici incalliti, avvertono il rischio di una degenerazione dello “Stato di diritto” in uno “Stato giurisdizionale” di tipo medievale, nel quale grande rilevanza aveva la funzione giurisdizionale. Charles McIlwain dice significativamente che il costituzionalismo c’era già in passato e insiste molto sul dualismo medievale tra “gubernaculum” (le funzioni di governo e legislative: il sovrano che emana decreti, non essendoci ancora la divisione dei poteri) e “iurisdictio” (il dire la giustizia, le funzioni giudiziarie). Nell’Età moderna, vige la tripartizione del potere (legislativo, esecutivo, giudiziario): ma i critici del costituzionalismo paventano il ritorno al dualismo medievale, nel senso che – essi notano – i poteri legislativo ed esecutivo sono sempre più difficilmente distinguibili, mentre il potere giudiziario ha guadagnato terreno. Ciò appare evidente se si volge lo sguardo a quella nuova costruzione che è l’Unione Europea, nella quale è lampante la dicotomia tra “gubernaculum” e “iurisdictio” e nella quale il potere legislativo sembra essere sparito, mentre grande spazio ha la “iurisdictio” (basti ricordare che fin dai primi anni ’60, attraverso la Corte di Giustizia di Lussemburgo, è possibile scavalcare la giurisdizione nazionale). Per questo motivo, si dice che il sistema europeo sembra oscillare tra tecnocrazia economica (“gubernaculum”) ed espertocrazia giudiziaria (“iurisdictio”), polarità nella quale si avverte la debolezza della democrazia (il “deficit di democrazia” europeo di cui tanto si parla). Lo stesso Habermas ha espresso ripetutamente la sua preoccupazione circa la deriva giurisprudenziale e la conseguente restrizione della democrazia. E Carlos Nino cerca di mostrare come l’adozione di questo punto di vista di connessione tra diritto e morale possa ridar vita alla democrazia: il rischio è tuttavia la riduzione del diritto alla morale; così, Dworkin afferma esplicitamente che i giudici americani interpretano (e sempre più dovrebbero farlo) la costituzione come insieme di principi morali: il rischio è però quello di voler poi esportare in altri Stati (magari con le armi) quell’insieme di principi morali.                    

 

 


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