Il dolore
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Ogni dolore è facile a disprezzare; quello che comporta sofferenza intensa dura poco tempo, e quello che perdura molto tempo nella carne comporta sofferenza temperata. (Epicuro)



A cura di Cristiano Turbil


 

Il termine dolore (Pain), assume diversi significati, rispetto al sistema etico e al contesto storico-culturale in cui è inserito. In questo saggio breve, si ha l’intenzione di definire il dolore, all’interno di due sistemi etici che ne hanno una considerazione opposta.

Il primo, quello cristiano cattolico, all’interno del quale il dolore viene considerato nella sua veste forse più positiva, assume non più il ruolo di ente negativo che affligge l’uomo ma diventa il mezzo usato dall’umanità per raggiungere e completare, all’interno del viaggio che è la vita, le sofferenze del Cristo, per riscattarsi dal mondo del peccato e raggiungere a pieno titolo la salvezza eterna .

Nella seconda parte, invece, il dolore non viene più analizzato rispetto alla sua valenza negativa o positiva sull’uomo, ma viene studiato all’interno di un contesto logico atto a determinare la sua reale posizione in rapporto con il suo diretto corrispettivo opposto “ Piacere” (Pleasure), muovendo una critica logico-psicologica al valore e al ruolo che hanno questi due termini all’interno delle dottrine etiche di carattere Edonistico quantitativo (ovvero i sistemi etici in cui si agisce con il fine di massimizzare la quantità di piacere senza preoccuparsi della sua qualità) e utilitaristico.

 

 

Il dolore nelle etica cristiana:

 

§1

 

La tematica del dolore all’interno dell’uomo, nell’orizzonte etico cristiano, viene espresso esaurientemente all’interno della lettera enciclica Salvifici Doloris, qui il Pontefice cerca di spiegare come il dolore e la sofferenza siano inseriti necessariamente all’interno della vita dell’uomo.

La lettera si apre con una frase di Paolo tratta dalla prima lettera ai Colossesi “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la chiesa”[1], questo piccolo estratto che sarà poi il filo conduttore di tutta la discussione, mette subito in rilievo come la sofferenza nell’uomo e per l’uomo, sia mezzo per raggiungere la salvezza divina.

Va inoltre precisato che il tema della sofferenza, è profondamente inserito nell’anno liturgico della redenzione come giubileo straordinario (Anno 1984). Qui la sofferenza viene considerata come caratteristica propriamente umana, in quanto oltre a rappresentare il dolore fisico che l’uomo condivide con gli animali, assume un senso più alto, sembra infatti appartenere alla trascendenza dell’uomo e addirittura ad uno di quei punti a cui l’uomo è destinato.

 

 

 

 

 

§2

 

La prima grande questione affrontata è la definizione dell’idea del dolore, e tutti i temi ad essa correlati, soprattutto il  rapporto tra dolore Fisico e Morale.

Il settore più conosciuto della sofferenza nella società moderna  è quello medico che alla luce della scienza dà una più precisa ed esauriente descrizione del dolore e ne determina i diversi metodi del reagire (cioè della terapia). Tuttavia questo è solo un settore, il campo della sofferenza umana è molto più ampio.

Infatti l’uomo soffre in diversi modi, non sempre contemplati dalla medicina, neanche nelle più avanzate specializzazioni. Tutto ciò si può capire nella differenza che intercorre tra dolore fisico e morale:

 

·        La sofferenza fisica si manifesta quando duole in qualsiasi modo il  corpo.

 

·        La sofferenza morale si ha quando duole l’anima.

 

La vastità della sofferenza è quella che fornisce il superamento della medicina come conoscenza della terapia del dolore fisico. Il dolore fisico è solo la parte inferiore del concetto di sofferenza, la vera sofferenza è quella dell’anima.

Infatti della sofferenza morale si trovano moltissimi esempi nelle scritture e in particolare all’interno dell’Antico Testamento, in cui troviamo molti esempi di situazioni che recano i segni della sofferenza:

 

·        Il pericolo di morte

 

·        La morte del figlio primogenito

 

·        La mancanza di prole

 

·        La nostalgia della patria

 

Tutti questi esempi e molti altri portano a considerare l’uomo come un insieme psicofisico che fa un tutt’uno con la sofferenza, dove la sofferenza viene intesa nel significato più ampio di “esperienza del male”.

Nell’ etica cristiana la nozione del male non esiste propriamente, in quanto tutto ciò che esiste è bene, perché proclama la somma e assoluta  bontà del Creatore per le sue creature. L’uomo quindi soffre a causa del male, che è una mancanza, una distorsione del Sommo Bene.

La sofferenza umana costituisce quindi un mondo che esiste insieme all’uomo e possiede una valenza sia soggettiva che collettiva ed ha in sè una propria precisa compattezza.

 

§3

 

Il dolore fisico è ampiamente diffuso nel mondo degli animali, però solamente l’uomo soffrendo sa di soffrire e se ne chiede il perché. Questa domanda l’uomo non la pone al mondo che sembra essere causa delle sue sofferenza, ma la pone invece a Dio.

La risposta a questo interrogativo la si trova all’interno del libro di Giobbe, uno dei grandi libri dell’Antico Testamento, dove si narra la storia di Giobbe un uomo giusto che non conosce il peccato che viene colpito da innumerevoli disgrazie. Qui viene mostrato come il male non sia soltanto inteso come pena (espiazione di una colpa), ovvero data da Dio all’uomo nel momento del peccato e dell’errore, quindi intesa come mezzo redentivo per ristabilire la giustizia. Ma si evince anche, e  soprattutto nel caso specifico di Giobbe, ovvero di un uomo senza alcun peccato e che quindi non merita alcun dolore, che la sofferenza data da Dio deve essere intesa come un mistero che l’uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza.

E’ vero quindi che la sofferenza sia legata alla colpa, ma non è altresì vero che essa sia legata unicamente alla colpa. E un importante prova di questo la troviamo appunto nel caso di Giobbe.

Il libro di Giobbe, pone il perché della sofferenza ma non ne dà la risposta; fa solo capire che la sofferenza è l’utile per l’uomo, in quanto serve alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene del soggetto che riconosce la misericordia divina nella penitenza.

 

§4

 

La soluzione della sofferenza, la troviamo però nella figura di Cristo:

“Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”[2]

Questa frase che può essere considerata uno dei pilastri portanti del nuovo testamento mira ad esprimere la vittoria dell’amore sulla sofferenza; infatti Dio dà il suo unico figlio al mondo, per liberare l’uomo dal male, che porta in sè la definitiva e assoluta prospettiva della sofferenza.

Qui si può facilmente notare come ci si è spostati dalla dimensione della sofferenza come giustizia o mistero (Libro di Giobbe), alla nuova dimensione della redenzione, in cui la sofferenza assume il suo ruolo definitivo, ovvero il mezzo per raggiungere la vita eterna.

Il peccato diventa quindi il contrario della salvezza, la perdita della vita eterna; la vera missione del figlio di Dio assume il ruolo di vincere il peccato e la morte e con la resurrezione ottenere il perdono e la vita eterna. Grazie a questo, anche se la vittoria di Cristo non abolisce le sofferenze temporali della vita umana, né libera la totale dimensione dell’esistenza, tuttavia getta su ogni sofferenza una luce nuova, che è la luce della salvezza.

Questa nuova verità, cambia l’intero quadro delle sofferenze umane nelle sue fondamenta, nonostante il fatto che il peccato originale si sia radicato come “Peccato del mondo” e come somma dei peccati personali.

Dio ha mandato il Cristo, affinché tocchi le radici più profonde del male con la sua innocente sofferenza e salvi l’uomo con la sua morte e resurrezione.

 

§5

 

Nel simbolo della croce di Cristo, non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. Cristo si è addossato il male totale del peccato. L’esperienza di questo male su Cristo, diventa il prezzo della redenzione e cosi il mondo della sofferenza viene aperto agli uomini in un modo del tutto nuovo, che permette di considerare il dolore in una nuova prospettiva finalizzata alla salvezza

La croce di Cristo diventa qui il simbolo di tutto ciò: essa getta in modo tanto penetrante la luce salvifica sulla vita dell’uomo perché mediante la fede lo raggiunga con la risurrezione.

La sofferenza diventa quindi una prova per l’uomo, una prova dove tramite la sua debolezza manifesta la sua potenza, la sua grandezza morale la sua maturità spirituale.

E in conclusione tutti coloro che partecipano della sofferenza di Cristo, comprendono il mistero della croce e della resurrezione, nel quale Cristo scende nella debolezza e muore ma allo stesso tempo compie la sua elevazione.

 

§6

 

Alla luce di tutto questo, il vangelo assume quindi il ruolo di vangelo della sofferenza, in cui Cristo è la chiave di volta di tutto il sistema, che vince la morte con la sofferenza e ottiene la salvezza con la resurrezione.

La stessa cosa dovranno fare tutti gli uomini, come dice Paolo “Tutti quelli che vogliono vivere pienamente in cristo Gesù saranno perseguitati[3]”.

Questo è in conclusione il vero messaggio della sofferenza, che perde nell’etica cristiana quasi tutta la sua valenza negativa e assume un significato oltremodo positivo, diventando il mezzo anzi sarebbe meglio dire il percorso che permette all’uomo di raggiungere la promessa di vita eterna, completando nel suo corpo. tramite il dolore. i patimenti del Cristo che grazie alla sua morte ci ha salvati dal mondo del peccato.

 

Il Dolore e il Piacere nell’analisi di Gilbert Ryle

 

La tematica del Piacere e del Dolore viene analizzata all’ interno del saggio Dilemmas[4].

Nel capitolo quarto di questa piccola raccolta di dilemmi, Ryle analizza le nozioni di Dolore e Piacere rispetto ad una critica motivata del ruolo che assumono all’interno delle classiche dottrine etiche edonistico-psicologiche.

 

§1

 

Nella prima parte della breve dissertazione, l’autore fornisce una veloce ma precisa analisi del ruolo del piacere e del suo corrispettivo all’interno dell’edonismo, descrivendo i vari assiomi che solitamente venivano attribuiti ai comportamenti umani, i quali assumevano proposizioni abbastanza plausibili ma talvolta e nella fattispecie non plausibili.

Si considerava infatti l’uomo come mosso e determinato nei suoi comportamenti rispetto ad alcuni desideri, che venivano considerati tutti come desideri del piacere: di conseguenza ogni azione intenzionale compiuta dall’uomo era motivata solo ed esclusivamente da un incremento quantitativo del piacere provato dall’individuo agente e da una netta diminuzione del dolore dello stesso.

In un sistema cosi strutturato, i piaceri differivano tra di loro, solo ed esclusivamente, non su un rapporto di qualità ma semplicemente su un rapporto di quantità, ovvero un piacere ά era migliore di un altro piacere β solo se esso era rispettivamente più intenso o prolungato o tutte due le cose insieme rispetto all’altro.

Perciò in base a questi assiomi sembrò logico considerare l’altruista come colui che incrementa il piacere altrui e l’egoista come colui che incrementa il proprio piacere.

I termini piacere e dolore venivano quindi ad assumere il ruolo di effetti di atti, il cui movente degli atti stessi veniva ad essere il desiderio di quei piaceri.

I piaceri venivano quindi ad essere considerati come delle sensazioni, prodotte da azioni o altri eventi, come ci dice Ryle “ il desiderio di provare queste sensazioni era interpretato come quel che ci spinge a compiere o a garantirci quelle cose che le producono”[5],  di conseguenza si assumeva che il dolore stesse al piacere, come il dolce all’amaro, il buio alla luce,  cioè essi venivano considerati come l’uno l’antitesi dell’altro o più facilmente come i due poli opposti di una stessa scala graduata, dove il calcolo e la misurazione del piacere doveva essere l’esatto opposto del calcolo della quantità di dolore, quindi dove aumentava uno, diminuiva l’altro.

 

 

 

 

 

§2

 

Anche se queste teorie ci dicono che il concetto piacere è l’esatto opposto del concetto di dolore, in quanto ambedue sono sensazioni, tuttavia ci sono obiezioni invalicabili che non permettono di considerarli come opposti diretti.

Noi uomini siamo abituati a dire che alcune cose ci provocano piacere mentre altre dolore, però non abbiamo la capacità e la possibilità di determinare, ad esempio, il momento in cui abbiamo provato piacere e la sua durata precisa nel tempo. Noi, infatti, possiamo dire al medico dove e quando proviamo dolore ma non possiamo descrivere perché non ne saremmo mai capaci, dove e in che modo proviamo un piacere e come dice lo stesso Ryle “In una parola, il piacere non è affatto una sensazione, e tanto meno una sensazione sulla stessa scala con malesseri e dolori fisici”[6].

Infatti, come ci spiega poi in seguito l’autore, alcune sensazioni sono piacevoli, mentre altre sono spiacevoli, però le une possono cambiare e produrre risultati opposti se cambia il contesto in cui sono inserite, come ad esempio un calore può essere spiacevole, mentre se lo stesso calore prodotto da un the caldo può risultare piacevole.

“Se fosse giusto classificare come sensazione il piacere, dovremmo aspettarci che fosse anche possibile descrivere quindi alcune di queste sensazioni come piacevoli, altre come neutre, ed altre come sgradevoli ma questo è impossibili”[7], ma tutto ciò come spiega Ryle è impossibile, perché se le sensazioni fossero neutre e spiacevoli ci troveremmo di fronte ad una contraddizione, mentre se esse fossero piacevoli risulterebbe una ridondanza.

Anzi, noi abbiamo addirittura la possibilità di ignorare una sensazione, se siamo impegnati a fare altro, per esempio se proviamo male ad un dito ma siamo impegnati in un gioco che occupa tutta nostra attenzione, la sensazione di dolore non viene considerata.

 

§3

 

Mentre, scrive Ryle, per quel che compete alle nozioni di Piacere e Disgusto, esse sono connesse alla consapevolezza in un modo del tutto differente dalle sensazioni. Infatti non è possibile né logicamente, né psicologicamente che una persona goda di una musica senza prestarne attenzione, vi è quindi una contraddizione di fondo nel descrivere qualcuno come mentalmente assente da qualcosa che sta gustando o detestando.

Infatti “il piacere e il disgusto non richiedono diagnosi, mentre possono benissimo richiederne le sensazioni”[8].

Le sensazioni e i sentimenti hanno una precisa collocazione nel tempo, esse possono essere un antecedente, un concomitante oppure un susseguente di altri avvenimenti, mentre per il piacere questo non é possibile.

Noi possiamo benissimo determinare il momento esatto in cui proviamo un dolore ma non possiamo altresì cosi facilmente determinare l’esatto istante in cui proviamo piacere per aver visto un bel film, o per aver mangiato qualche cosa di gustoso, in quanto il piacere non essendo una sensazione, non ha una collocazione precisa nel tempo.

 

§4

 

Per tornare al discorso iniziale, l’assimilazione del godimento e del disgusto all’ interno delle sensazioni, era solo una piccola parte del programma etico teso alla realizzazione della condotta umana.

In questa teoria i desideri e i piaceri, dovevano essere i corrispettivi mentali della pressione, dell’urto e di tutte le cose proprie della teoria meccanica. Mentre i moti psichici sarebbero diventati calcolabili e misurabili quanto l’intensità dei piaceri e dei desideri. Un piacere sarebbe stato quindi determinato di una precisa grandezza, almeno per ciò che compete alla sua durata e intensità.

Mentre, seguendo le obiezioni di Ryle sopra riportate, si nota precisamente che il piacere non essendo una sensazione, non può essere un processo. I processi, infatti, sono caratterizzati da una precisa durata, mentre l’uomo non può provare un piacere in modo veloce o lento.

Quindi, il ruolo che le nozioni di piacere e disgusto assumono nella teoria etica dinamica non possono di certo avere la valenza di processo.

I dolori, alla luce di quanto detto, vengono ad essere considerarti come “l’effetto di cose come la pressione di una scarpa su un dito del piede, e la causa di cose come gesti agitati di insofferenza”[9].

Dopo aver espresso tutto questo, l’autore muove un ultima critica alle teorie etiche edonistiche ed utilitaristiche; avendo dimostrato l’inefficacia di tutti i sistemi che considerano il piacere come un processo, fa notare come tutti noi abbiamo avuto nella nostra vita i nostri momenti edonistici e utilitaristici e ne siamo rimasti insoddisfatti. In essi non abbiamo trovato, soprattutto nell’analisi profonda delle nozioni di disgusto e godimento,delle certezze le quali hanno subito delle sottili e sospette trasformazioni, allorché sono state presentate come le forze di base che determinano le nostre scelte ed intenzioni.

 

§5

 

Nell’ultima parte della dissertazione, Ryle si impegna a definire il concetto di piacere nella descrizione della vita e della condotta umana, scusandosi però di trattarlo da un punto di vista che può ,per il lettore, suonare come arcano o prescientifico.

L’autore definisce infatti come passioni tutti gli stati d’animo agenti sull’uomo potenzialmente sovversivi, come il terrore, la collera, l’allegria, l’odio ecc, e determina che godere o detestare un qualche cosa non vuol dire essere vittime di una passione.

Infatti , se una persona è perfettamente padrona di sé nelle sue azioni, non può essere descritta come agitata, in collera o in preda al panico, nozioni tutte appartenenti in modo intrinseco alle passioni.

Ma nessuna di queste connotazioni si addice al piacere, infatti come ci dice l’autore “se godere di qualcosa con una certa intensità equivalesse ad essere fuori di sé in pari misura, si dovrebbe essere dissennati per tutto il tempo dedicato alle proprie occupazioni preferite”[10].

Una persona in uno stato di perfetta calma può quindi provare anche un grande piacere, la nozione di godimento rifiuta perciò di passare attraverso lo stesso cerchio logico in cui passano le passioni. Il godimento non è qualcosa che noi proviamo a reprimere, che soffochiamo o non riusciamo a soffocare, è una nozione totalmente scollegata al dominio delle passioni.

 

§6

 

In conclusione e per riprendere il filo del discorso precedente,Ryle fa notare che i concetti di godimento e disgusto sono stati erroneamente collocati come appartenenti alla categoria delle sensazioni e dolori fisici, alla categoria di accadimenti come causa di altri accadimenti e al dominio più generale delle passioni.

Ma queste nozioni, come fa ben notare l’autore, opporranno sempre resistenza a ogni tentativo di avvicinarle ai concetti di queste altre famiglie.

Per concludere come sostiene Ryle nelle ultime frasi di questo capitolo “I dilemmi derivano dall’attribuzione erronea di analogie di ragionamento”[11], ovvero come detto appena sopra ad ogni uso non proprio dei concetti di Piacere e Disgusto.

 

 

 

 

 

 

 



[1] Lettere ai Colossesi 1,24

[2] Vangelo di Giovanni 3,16

[3] Seconda lettera a Timoteo 3,12

[4] Gilbert Ryle, Dilemmas 1966 Cambidge  University Press, London

Utilizzata nella traduzione italiana a cura Enrico Mistretta 1968 Ubaldini Editore, s.r.l. Roma.

[5] Dilemmas, p. 61

[6] Idem p. 62

[7] Idem p. 62

[8] Idem p. 63

[9] Idem p. 64

[10] Idem p. 69

[11] Idem p. 70






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