LA LIBERTÀ SECONDO DOSTOEVSKIJ

di Maria Russo

 

 

 

 

1.     Introduzione: sul concetto di libertà e di libero arbitrio

 

2.     Quali possibilità per la libertà? Dialogo tra Nietzsche e Dostoevskij dal sottosuolo

 

3.     Cosa non è libertà? Incontri con anime belle e demoni

 

4.     Oltre il libero arbitrio, la libertà

 

5.     La libertà implica la tragedia dell’esistenza?

 

6.     Conclusioni: felicità o libertà oppure felicità della libertà?

 

Introduzione: sul concetto di libertà e di libero arbitrio

 

Dostoevskij non è un filosofo. Eppure, presenta un carnevale di filosofie ognuna incarnata in un personaggio, che non solo espone ma anche vive: smaschera e/o mostra anche la coerenza con il discorso.

I personaggi in Dostoevskij sono indagati sempre “al limite”: niente può essere tiepido, si cerca appositamente il termine ultimo delle dinamiche di azione e reazione per esplorare ed indagare (e Pareyson arriva a definire questa ricerca “pneumatologica” anziché psicologica). Gli spesso improbabili esperimenti mentali della filosofia analitica sono insipidi e inefficaci a confronto di questi personaggi, reali estensioni della gamma delle emozioni umane. Ogni idea acquista così uno spessore organico, fino appunto a “pulsare”. L’idea è una sorta di ossessione, talmente ingombrante da assorbire interamente il personaggio. In Dostoevskij l’idea non è una dimensione dell’uomo; è l’uomo ad essere carne di tale idea. I personaggi che invece non si esauriscono in questa sintesi eccedono il carnevale di maschere e riescono ad emergere come persone.

Questione fondante, tarlo e dei suoi personaggi e dell’autore stesso, è l’individuazione dei confini e delle possibilità della libertà.

Essa per Dostoevskij non è il superamento di ogni limite orizzontale, uno sbarazzarsi di ogni vincolo (che bisogna ben distinguerla dal libero arbitrio), ma lo sprofondarsi in un abisso di verticalità: una vertigine, che rende difficile l’affacciarsi sull’abbandono della razionalità.

 

 

Quali possibilità per la libertà? Nietzsche e Dostoevskij dal sottosuolo

 

Le argomentazioni filosofiche che Dostoevskij propone rientrano nella logica narrativa del monologo e del dialogo, ma non si potrebbe esaurire all’interno di una trattazione saggistica. Eppure, egli non si è limitato a dare voce al pensiero contemporaneo o alla propria biblioteca di sapere: ci sono forme e contenuti originali, nuovi in virtù anche della loro visione “profetica” e lungimirante. Non sarà allora certo anacronistico o indebito acconsentire ad un dialogo tra lo scrittore russo e il più giovane F. Nietzsche, che si è definito suo “fratello di sangue”. In entrambi, vi è una moltiplicazione di giochi di maschere che lasciano spesso dubitare la critica quale sia il volto più rispondente al pensiero dell’autore. Ma le analogie non terminano qui: sia Nietzsche sia Dostoevskij hanno vagliato l’autenticità del valore della libertà, interrogando in modo lucido e spietato la tradizione, senza alcun pudore reverenziale nei confronti di un auctoritas ormai metabolizzata. Nietzsche però si è arreso di fronte alla decostruzione del significato “genealogico” della libertà, mentre Dostoevskij ha tentato di varcare le porte della storicità del termine per indicarne una possibilità normativa. Nietzsche e Dostoevskij sono campioni contro l’ingenuità; hanno alzato il velo di Maja e mostrato le ipocrisie e le illusioni dell’orizzonte comune della morale. La libertà, per essere scelta, ha bisogno di un soggetto forte che la affermi e la voglia. Nietzsche lascia la libertà impotente sostenendo l’inconsistenza dell’Io. La vera differenza tra Nietzsche e Dostoevskij non è la preferenza rispettivamente per il dionisiaco e per la croce, ma per la concezione della volontà: per il primo è un’energia indipendente ed autosussistente mentre per il secondo si tratta sempre della “volontà di qualcuno”. Nietzsche relega il senso di responsabilità e di colpa a ciò che deve divenire al più presto possibile un passato di mistificazione; Dostoevskij ne riconosce i limiti, ma sa bene che sono ineliminabili per ciò che l’uomo è dal punto di vista costitutivo (e, presumibilmente, continuerà ad essere).

Se si estrapolano alcune frasi o interi brani da Memorie del sottosuolo non sarebbe certo difficile attribuirli alla penna graffiante e scorretta del maestro del sospetto che chiama per nome l’intera tradizione “nichilismo”. Quello che Nietzsche descrive corrisponde alla confessione di quest’uomo del risentimento, che deride e prova disgusto nei confronti del costume, della società e del prossimo –ma in realtà anche di se stesso, ancora imbrigliato nei sentimenti morali.

 L’uomo del sottosuolo è l’uomo occidentale che si risveglia dalle “essenze profumate” del Romanticismo e che nega con la forza di chi non è da sempre stato all’opposizione ma si è sentito tradito da quei valori falsi ed ambigui. Le dinamiche di vanità, orgoglio, invidia, ossessione, sdoppiamento,… sono da entrambi indagate. Nietzsche con estrema lucidità investe di luce fredda i “meccanismi” dell’uomo e li svuota, Dostoevskij li fa corrodere dall’interno. Nietzsche è esplosivo, Dostoevskij è implosivo. L’uno grida, l’altro conduce il lettore a vedere.

A Dostoevskij non importa dire che e se gli uomini del sottosuolo siano inferiori o superiori –cosa che invece è priorità per Nietzsche. È più probabile che Dostoevskij li veda come uomini più comuni di quanto diano a vedere, consapevoli sì, ma ben lontani dalle altezze vertiginose dei “peccatori santi”. L’uomo del sottosuolo è lucidamente aspro, si tormenta perché il suo unico interesse è essere spiacevolmente sincero, beffeggiandosi del benessere e della convenienza sociale e psicologica. Ma dalla propria consapevolezza non sa che ricavare altro che cinismo e osservazione voyeuristica della vita degli altri, fino ad arrivare ad essere spettatore della propria. Procedendo in questa direzione, si arriva a perdere il senso dell’agire e del riconoscimento della propria identità in ciò che si fa, si dice, si vive.  

Per Nietzsche la libertà si identifica quasi totalmente nel libero arbitrio, che viene considerato come una sorta di trucco cattolico, tirato fuori dal cappello da prestigio di una morale nichilistica che si è assunta il ruolo di guida dell’Occidente per attuare la sua volontà di potenza e di vendetta. La libertà non è neppure attribuita all’Ubermensch, come a dire: che se ne fa della libertà l’Oltreuomo? Vecchia parola, gravida di fraintendimenti storici. La volontà di potenza è oggettiva; lasciarla fluire non è la scelta di un soggetto che si stempera sempre di più come puro fascio conduttore di un’energia che non può essere “mia” o “tua” scelta.

Dostoevskij invece crede concretamente e profondamente nel soggetto, e anche nella possibilità di una significazione nuova di libertà, dopo aver cancellato tutti gli equivoci superficiali legati a questa parola.

 

 

Cosa non è libertà? Incontri con anime belle e demoni

 

E d’altro canto Dostoevskij non propone affatto una proclamazione dei valori ingenua; l’anima bella schilleriana viene compatita, e presentata come figura tragicomica che si affaccia fallimentare nel mondo.

Basti pensare al principe Myskin de L’idiota, che come l’albatros di Baudelaire non è adeguato alla terra e non è portato alla vita; infatti, non riuscirà nemmeno ad esplicare la sua funzione salvifica, che sarebbe prerogativa essenziale per riconoscere la figura cristologica (si mantiene l’onniscienza, ma non certo l’onnipotenza: è un Cristo fine spettatore del mondo ma impotente –dopo il servo, ora l’idiota). Myskin è un uomo distaccato dalla vita tanto quanto la sua nemesi (che potrebbe essere lo Stavrogin dei Demoni): è un Cristo a cui mancano la volontà e l’incarnazione. Cristo ha una portata rivoluzionaria che non ha niente a che fare con la mitezza di Myskin: non vi è un corrispettivo dell’episodio del tempio. Nessuna spada promessa, e nessun tipo di manichea distinzione tra bene e male. Myskin nei suoi momenti “magici” intuisce che in fondo tutto può essere il contrario di tutto. La sua estrema tolleranza deriva anche dal fatto che sa bene quale sia il potere dell’ideologia e che ogni possibile alternativa non potrà che configurarsi come un’ulteriore dottrina dogmatica. Egli risulta inadeguato rispetto al “medio” (tanto è che solo i personaggi più estremi, Rogozin e Nastas’ja, possono instaurare con lui una sorta di empatia che portano, paradossalmente, il primo ad esserne profondamente geloso e la seconda ad innamorarsi); non è in cerca di proseliti, accenna all’azione, ma viene solo confermata la sua impossibilità di poter incarnare l’ideale di bene che pur intendeva. Alla fine dilegua, come il Cristo della Leggenda, e non si sa cosa sia venuto a fare e perché. 

 

L’altra faccia della medaglia, in parte nemesi e in parte complemento del Myskin che sente sciogliere i propri limiti umani durante l’epilessia, è Stavrogin. I Demoni è il romanzo che si costruisce come vera Apocalisse risultato dell’esasperazione dell’affermazione dell’oltreuomo. Il “tutto è permesso” è qui indagato concretamente nei suoi esiti più catastrofici. Non è possibile costruire un edificio etico con ideali estremi astrattamente applicati nella realtà pratica; da qui, la confutazione del socialismo, dell’ateismo e del nichilismo.

I demoni vogliono liberarsi dal pensiero religioso, ma con un inno a un nuovo Dio, tutto fatto di negazione e decostruzione. Ma cosa è che davvero conta, la possibilità teor(et)ica di quel Dio –il cui carattere eccezionale già è affermato dall’autentico cavaliere della fede- o ciò che viene compiuto nel suo nome? Il Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov, ad esempio, usa Dio e Cristo come stendardo che faccia ombra al suo potere manipolatorio.

Stavrogin, il burattinaio diabolico che è sempre presente anche quando non è in scena come centro motore di tutti gli altri personaggi, non è altro che un “sepolcro imbiancato”, indifferente, privo di personalità e di umanità, mera energia che si manifesta. Infatti, lungi dall’essere un punto di orientamento è centro di attrazione magnetica che però conduce in un vortice caotico e privo di senso. Egli affida a tutti i suoi “adepti” una maschera, un’idea da portare, convince ad ideali che per lui sono solo possibilità che mai sceglie; e lui stesso sarà ben presto vittima di questa spirale di sperimentazione non finalizzata ad una posizione. Nessuna redenzione, nessun dispiacere morale: perfino il vescovo Tichon è costretto a riconoscere che neppure il suicidio e la confessione sono sintomo di salvezza nel suo caso. La perdizione di Stavrogin deriva dal suo freddo distacco dalla vita e dalla sua distanza rispetto agli altri: egli non guarda il suo prossimo, è incapace di vederlo come “persona”, e quindi non può riconoscersi e portare verso se stesso il rispetto di cui gode la “persona”. Si potrebbe forse definire Stavrogin come il demone di Kant, colui che nega nel modo più grave e convinto il regno dei fini in sé della Critica della Ragion Pratica. Una volontà che vuole senza contenuto sembra necessariamente andare a configurarsi come un capriccio. Stavrogin è l’emblema dell’indifferenza: è immorale, tutto vuole che sia suo campo d’azione ma in realtà è una figura aleatoria che non si può soffermare su niente.

Personaggi come Stavrogin o Raskol’nikov arrivano a preoccuparsi solo di categorie estetiche –laddove l’unico timore che può fungere da freno è l’ossessione di cadere nel ridicolo. Tanto è che si smaschera il vero volto del libero arbitrio, ossia un’autocelebrazione piuttosto narcisistica che ben poco si preoccupa seriamente dell’azione. Stavrogin si permette di non soffrire né amare proprio perché è spettatore disinteressato della propria vita e regista sperimentatore di quelle altrui (conservando però sempre il medesimo distacco scientifico). Tutti gli ideali che vengono qui messi in gioco da questa elite demoniaca della società pietroburghese sono ulteriori esemplificazioni del fraintendimento della libertà. L’idea è un Dio disumano, l’antitesi della libertà: si arriva a colpevolizzare il soggetto perché non è stato in grado di adeguarsi all’idea.

Non è un conservatore Dostoevskij: l’unione del potere temporale e spirituale, così come l’universalismo umanitaristico sono proposte di cui percepisce il fallimento e l’inumanità.

Ma di cosa è fatto l’uomo? E senza aspettare Freud, è il sogno a suggerire a Raskol’nikov (attraverso la metafora della cavallina, prefigurazione del delitto dell’usuraia e di Lizaveta) e a Stavrogin (attraverso il ricordo della bambina stuprata, riproposizione del suo misfatto) che la contraddizione non sussiste tra “uomo mediocre” e “idea nobile”, bensì tra “idea idolo” e “vita vera”.

Paradigmatica è la figura di Kirillov, che per affermare la massima libertà propone il suicidio scelto senza motivo e senza orrore (una sorta di “resurrezione in parodia” del Cristo). Nella teoria, Kirillov afferma un paradiso concreto, dove la morte viene sconfitta in quanto non più vissuta come un traguardo obbligatorio (in fondo la vera costrizione della natura umana, che si nasconde dietro a tutte le sue declinazioni quotidiane, negli impedimenti e negli ostacoli della sofferenza); tuttavia, al momento di compiere questo rito così programmato e giustificato razionalmente, in Kirillov si scatena l’atavica paura. Non si può essere Napoleone, oltreuomini, Dei incarnati, neppure Demoni. L’uomo “nuovo, felice e superbo” dovrebbe superare il dolore e la paura; ma questi sono sentimenti che appartengono costitutivamente all’uomo. Liberarsi dal tempo e dallo spazio interiore legato alla sofferenza significa snaturare l’uomo (e non nobilitarlo) cadendo in una contraddizione infinita: chi propone questo non è affatto indifferente alle conseguenze del tempo, agisce per paura della paura e per dolore del dolore.

Può essere questa la libertà? Essa è tragica solo nei suoi fraintendimenti. Kirillov voleva “suicidare” in sé l’uomo, e ci riesce, ma a parte la “prepotenza” del nulla, non vi è altro oltre-l’-uomo. Raskol’nikov e Kirillov compiono entrambi un atto terribile; essi sono convinti di non avvertirne il sapore del senso sostenendo la sua gratuità. Non si rendono conto, però, che la mancanza di ogni pretesto non può che far precipitare nell’orrore e nella follia. La storia di ognuno di questi personaggi, macchiette, marionette e manipolatori, non è altro che una tragedia annunciata.

Questo perché non esiste una libertà al di là del bene e del male; sembrerebbe davvero che “tertium non datur”: è una scelta binaria ineludibile, che però si può articolare su più livelli.

E l’ostinazione a non essere ciò che si è, ma il rifiuto della propria sagoma non conduce certo ad un’estensione di sé fino a ricoprire un’ulteriorità da sempre ambita: come una macchia, si dilata, si disperde, infine si asciuga. 

 

 

Oltre il libero arbitrio, la libertà

 

In Delitto e castigo viene mostrato come la libertà non possa trovare la propria assoluta realizzazione nel rendersi dimentichi di tutti i valori della tradizione e perfino della propria etica interiore. Raskol’nikov uccide per essere un Napoleone, uccide per la sua personale idea, per la sua specifica volontà di potenza. E a partire da questo gesto, che sarebbe dovuto essere compiuto nella più totale indifferenza, il protagonista viene invece inghiottito in un tunnel senza luce di sensi di colpa, miseria ancora più nera e bassezza morale.

Raskol’nikov arriva addirittura ad invocare (senza crederci e senza esserne pienamente consapevole) una punizione oggettiva, un verdetto proprio da quella società da cui si era alienato in “quella stanzetta” che rappresenta esattamente l’ambiente interiore dello studente, con tutta la sua atmosfera di soffocamento e di involuzione del pensiero in un caos buio. Si pensi alla figura del giudice, solo un giocattolo nelle mani delle dinamiche più o meno inconsce della coscienza di Raskol’nikov (come se si invertisse il gioco di “guardie e ladri”). Con la punizione oggettiva non giunge anche il pentimento e quindi l’espiazione, poiché essa si può configurare solo come percorso assolutamente interiore. Il giudice è una figura impersonale, che non identifica l’altro (o meglio, lo spersonalizza nel suo atto) e che quindi non può neppure identificare se stesso con una ricchezza che vada oltre alla mera sintesi del suo ruolo.

Raskol’nikov è deluso da se stesso, e crede di essere stato lui, proprio lui, non in grado di negare il limite, che in fondo sarebbe bastato ancora poco, solo un altro passo, per non rimpiangere più, per non avvertire la colpa e la meschinità del suo gesto. In realtà, non è un fallimento di Raskol’nikov, non è mancanza di talento o qualità, ma è un volto ineliminabile dell’uomo; da questa impossibilità di oltrepassare ogni vincolo non si esce però attraverso la morale comune –che Dostoevskij non è certo un paternalista che punta il dito contro i tentativi di sfondare la gabbia di valori eteroimposti e non elaborati interiormente- ma mediante l’eccedenza positiva e “miracolosa” della stessa morale.

Tale eccedenza in Delitto e castigo è personificata da Sonja, che con tutta la sua umiltà e la sua vergogna è figura quasi impossibile: una prostituta che è emblema di pudore (nel senso greco del termine, αιδός, reverenza sacra), che vive nel degrado della metropoli noir di San Pietroburgo ma che tremante recita i brani di redenzione della Bibbia. La contraddittorietà è miracolosamente presente in Sonja: una Madonna apparentemente assorbita “dall’ideale di Sodoma” (questa duplicità nella figura femminile sarà più volte ripresa in modo analogo). Ed è proprio Sonja a prendere per mano Raskol’nikov, a mostrare l’inutilità del percorso punitivo della tradizione e dell’iter giuridico e sociale; la sua prima domanda, nel momento in cui viene resa partecipe del delitto di Raskol’nikov attraverso la sua confessione, non è “cosa hai fatto?” bensì “cosa ti sei fatto?”. Sonja mostra come la presunta negazione dell’orizzonte comune della morale apparentemente voluta e scelta da Raskol’nikov non sia altro che un dipendere da esso e non un suo superamento. Anche Sonja è un’emarginata, anche lei è schiava nel corpo della società; ma nonostante questo essere, a suo modo, un outsider, è invulnerabile nella sua fede e nel suo potere più profondo e autenticamente cristiano: il perdono.

Nietzsche aveva reso il cristianesimo sinonimo di inganno e contraffazione; eppure, nell’Anticristo, anch’egli aveva dovuto ammettere il suo fascino per la figura del Cristo, che pure nella sua crocifissione non adotta alcuna modalità di risentimento ed è sordo alle tentazioni di rivalsa e di instaurazione del potere. Cristo tace, assume su di sé il suo destino, lo afferma fino alla fine, avvertendo la solitudine tanto nei confronti del proprio padre divino tanto rispetto ai propri discepoli davvero umani troppo umani; è Paolo ad avere instaurato le dinamiche del reissentiment.

Il perdono non è un ulteriore ricatto che attende una risposta di gratitudine; è gratuità pura, redenzione libera da ogni reazione e ricompensa. In questo, Dostoevskij sembra non discostarsi molto da Kierkegaard e dai suoi tre “livelli”: l’uomo che si pone astrattamente fuori dalla morale, l’uomo etico che ingenuamente segue pedissequamente i dettami della Legge positiva e l’Abramo di Timore e tremore, che sa porsi davanti allo sguardo dell’intera comunità con quell’eccedenza che sola e terribile dice la vera fede.

Raskol’nikov parte da una logica ferrea, e le sue premesse razionalmente inconfutabili arrivano ad esaurirsi e a consumarsi attraverso la loro incarnazione. Affacciarsi sulle colonne d’Ercole del libero arbitrio diventa un’esplorazione superflua, pericolosa, ma, soprattutto senza meta e tesoro.

 

 

 

 

 

La libertà implica la tragedia dell’esistenza?

 

L’abisso inaccettabile della libertà è infine indagato nei Fratelli Karamazov dove ogni personaggio rappresenta un’esplorazione della libertà, e di quella più primaria e fondante tutte le altre: quella del rapporto che sussiste tra l’uomo e Dio. Questa compresenza è ancora più evidente in quanto nel palcoscenico della stessa famiglia, dello stesso sangue.

Si potrebbe raffigurare il sistema dei personaggi in relazione alla libertà in questo modo:

 

 

Affermazione teorica

Affermazione concreta

Libero arbitrio

Ivan

Smerdjakov

Libertà

Alesa

Dmitrij

 

Nella configurazione dei rapporti intercorrenti tra i quattro fratelli viene proprio posta in evidenza la differenza tra libero arbitrio e libertà, che per Dostoevskij è davvero essenziale. Ivan e Alesa si confrontano all’interno di una sfida tutta razionale e verbale, tesa a rispondere alla domanda cardine di ogni teodicea: perché c’è la sofferenza? I rispettivi campioni sono lo Starec Zosima che si inchina di fronte al peccatore pellegrino sulla Terra e il Grande Inquisitore che cinicamente sancisce come incompatibili la felicità e la libertà (senza considerare che vi è la possibilità, tutta realizzabile, della felicità della libertà).

Il perdono che Sonja sa offrire a Raskol’nikov, Alesa lo professa necessario per tutti. La “logica euclidea” di Ivan è limitata (a dimostrazione: la possibilità di poter dire qualcosa oltre il quinto postulato); la fede può essere intravista da questa ratio, ma si colloca ben al di fuori. La morte di Dio è funzionale alla liceità infinita e senza controllo di azione e distruzione; ed è proprio lo scandalo del dolore a dire potentemente il nome di Dio. Infatti, si domanda Dostoevskij: senza Dio, quale scandalo? Le sofferenze permangono, ma non possono più essere redente e compiante.

Smerdjakov e Dmitrij si confrontano invece nella reazione concreta alla sofferenza, nel campo della colpevolezza effettiva, delle mani sporche di sangue. Dmitrij è peccatore, ha voluto scendere nella dimensione del possesso materialista del padre (denaro e passione per la donna del vecchio Karamazov, Grusenka). Eppure egli è “anima larga”: tocca il fondo della bassezza ma lo usa come spinta propulsiva per ascendere alla nobiltà. Alesa è il Cristo prima delle tentazioni, mentre Dmitrij rappresenta il dubbio del Getsemani. E d’altronde per Dostoevskij il vero miracolo, la vera affermazione paradigmatica della libertà, è decisa nello scenario del deserto durante le tre tentazioni poste dal diavolo a Cristo. Il deserto simbolicamente rappresenta la solitudine nella quale ogni singolo nella sua irriducibile personalità deve decidere il proprio destino, la propria scelta e posizione (tanto è vero che Ivan si rende perfettamente conto del fatto che il diavolo è una propria oggettivazione, e in fondo non può dirgli nulla di nuovo, perché è l’uomo stesso). Seguire le tre tentazioni equivarrebbe ad esercitare il proprio libero arbitrio, al tentativo di sciogliersi da qualsiasi vincolo, infrangendo le leggi del fenomeno e della necessità attraverso l’irruzione del miracoloso. Ma sono solo effetti speciali che di certo non riempiono di contenuto l’eccezionalità della libertà e di Cristo.

La libertà è anche rinuncia e proposizione di un modus vivendi che forse è inconcepibile per i più ma è la vera santità concretamente realizzata sulla Terra. È come se Dostoevskij (come anche intuisce Pareyson) confutasse la possibilità di un uomo-Dio (soluzione androteistica), ma affermasse potentemente l’esempio del Dio-uomo (soluzione teandrica). Un esempio che non si risolve nella ripetizione meccanica di parole e gestualità; il Cristo della Spagna dell’Inquisizione nulla dice e nulla fa, ma da tutti è riconosciuto; si permette solo di sconvolgere ancora una volta le dinamiche del potere che nessun Diluvio universale è riuscito a cancellare. Dio ha una più alta considerazione dell’uomo in quanto pronto a scommettere il tesoro terribile della libertà; è l’uomo che si rende misero nel volersi sbarazzare a tutti i costi di questo onere/onore, scambiandolo per vaso di Pandora.

Resta da chiedersi se la libertà in Dostoevskij venga davvero percepita come tragedia. Per Lukacs Dostoevskij supera il romanzo proprio richiamando l’atmosfera dell’epos arcaico. Ma il dramma qui non è nell’abbattersi di situazioni esterne, dove il personaggio è impotente spettatore che può solo accettare a testa alta, bensì nel loro riflesso nell’animo del personaggio, dove si gioca eternamente la sfida.

Ma è davvero tragico l’uomo che sceglie di essere libero? Si immerge nel conflitto oppure lo supera mediante una conciliazione che ha il punto di partenza nel dolore e nell’amarezza e quello di arrivo, la meta finale, nella vera pace? Forse la libertà può essere intesa come tragedia solo prima di sceglierla: Ivan la demonizza come un potere troppo ingombrante, ma lo è per chi non è in grado di farne propria bandiera. La libertà libera dalla pesantezza, non è essa stessa un macigno: permette uno sguardo tutto nuovo, che non subisce ma che vive.

Dmitrij (che più di ogni altro personaggio si avvicina alla figura del peccatore santo) non parte per la Siberia in un clima interiore di rassegnazione, ma di serena accettazione. Egli ha riconosciuto mediante la libertà la propria profondità umana, la stessa per cui Dio ha voluto una propria incarnazione. Anzi, rovesciando: è il rifiuto della libertà e la sterile imposizione del libero arbitrio a condurre alle contraddizioni più gravi, fino a portare alla follia (si pensi al ruolo della febbre cerebrale in Raskol’nikov e in Ivan, e all’atmosfera di monologo esasperato e di delirio in cui vengono condotti).

Il vero parricidio, il più terribile, è quello dell’uomo nei confronti di Dio. Fondamentale per riflettere intorno alla concezione di libertà in Dostoevskij è proprio l’episodio del Grande Inquisitore (“risolvere il problema dell’uomo significa risolvere il problema di Dio” secondo Berdjaev). “Voi potete fare il bene e il male, ma il bene e il male che io vi dirò”; apparentemente l’Inquisitore ha spezzato ogni vincolo a favore dell’umanità intera, che ora è libera dalla libertà, dal suo abisso, dal suo carattere terribile e insostenibile. L’Inquisitore ha risposto affermativamente allo spirito negatore del deserto, concretizzandolo sotto le spoglie della Chiesa. Ma l’amore e la cura per il prossimo non devono diluirsi in un umanitarismo idealista e formale, devono realmente rivolgersi alla concretezza dell’individualità. La Spagna del Seicento sembra richiamare, con tratti trasfigurati, quella visione socialista dove le persone vengono raggruppate come un unico organismo complessivo a scapito delle singole personalità. È questa la scelta del Grande Inquisitore, la risposta alla tentazione di compiere un percorso più facile.

Dostoevskij rivendica la spiritualità, contrapponendola a quel materialismo che è tanto proprio del socialismo quanto dell’eudemonismo più in generale. È per questo che vale la pena accettare anche la sofferenza dei bambini: mentre Ivan vorrebbe restituire il biglietto allo spettacolo divino, Alesa comprende che non è attraverso il rifiuto di questo mondo che si può ricomporre la ferita infertagli.

Il male ed il dolore, addirittura, rovesciando, diventano in effetti la testimonianza ardente del Cristo. È proprio perché esiste la sofferenza inutile che Dio esiste, poiché a scandalo si risponde a scandalo (ed il primo non è confutazione, bensì dimostrazione del secondo). È solo il pensiero euclideo di Ivan che crede di aver trovato l’indiscutibile falla nell’architettura perfetta di Dio, senza aver capito invece che le effettive dinamiche dell’armonia sono ben altre. E pur non avendo mai parlato il Cristo della Leggenda, è in quel bacio che ha la prima e l’ultima parola; a questo, l’Inquisitore è incapace di trovare alcun tipo di risposta.

Dio e Satana non sono posti come cause fenomeniche, per cui in realtà non si genera un conflitto tra spazio umano e divino/diabolico. Come ben sottolinea Girard, sono l’emblema del modo in cui rivolgersi verso l’Altro (e, aggiungerei, del rivolgersi autenticamente verso se stessi).

 

 

Conclusioni: felicità o libertà oppure felicità della libertà?

 

“Solo la bellezza può salvare il mondo” lungi dall’essere un heideggeriano appello metafisico o un ritorno ad una prospettiva estetizzante, risulta essere un’invocazione fatta da Dio nei confronti dell’uomo, che può scegliere di creare il Bello.

Dostoevskij sottolinea come l’uomo debba essere artefice di se stesso: non si può limitare alla mera imitazione di modelli archetipi, o a una dialettica necessaria (l’espressione si trova sempre in Pareyson) per cui dalla ribellione si passa ineluttabilmente alla matura celebrazione di Dio.

Di fronte alla sofferenza, non è scontato l’adagio eschileo del “παθει μαθος”: l’uomo può scegliere, di fronte all’ostacolo, se aggirarlo, abbassarsi o saltarlo innalzandosi oltre ad esso. Il tragico non è una dimensione obbligatoria: l’uomo può attivamente reagire di fronte ad una realtà che pure si presenta come irriducibilmente contraddittoria. Ma nonostante questo, Pareyson forse inquadra ancora una volta la libertà in una sintesi, la intrappola in una definizione: essa non può essere associata alla tragedia, perché è ciò che permette di uscire dalle categorie del teatro.

Dostoevskij sa bene che non si può banalmente associare il male al libero arbitrio ed il bene alla libertà; il bene per essere davvero libero deve essere scelto, accolto fino in fondo e nel profondo delle sue conseguenze. Il dolore è davvero un “punto di svolta” (ancora Pareyson), ma non scontato: è una possibilità “tutta da giocare”. Nei confronti del dolore si può passivamente imbruttirsi e rintanarsi nel sottosuolo, oppure agire attivamente e non aspettare ma conferire senso alla propria esperienza ed esistenza.

La libertà non è indagata solo dal punto di vista metafisico, ma anche e soprattutto da quello ontologico: è la libertà quella caratteristica costitutiva dell’essere umano (ma non nel senso di funzione: essa è connessa inestricabilmente alla sostanza).

 

Dostoevskij non ha visto Auschwitz. Eppure il silenzio e il “piccolo testamento” sacro che propone non come soluzione ma come espiazione di fronte alla sofferenza dei bambini sono gli stessi che avrebbero permesso di non far precipitare Auschwitz nell’oblio, ma di inciderlo nella memoria (anche se “quel che resta del fuoco” è la cenere). Che sia questa la vera libertà, l’autentica cura alla ferita che pure non si cancella? Una fiamma che non si spegne, neppure nel gelo della Siberia. Ed è proprio grazie al contrasto con un crudo e spietato manto di niente che quella luce ha ancora più valore e grandezza.   

 

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