DWORKIN

 



A cura di Diego Fusaro



 

"Il liberalismo deve avere fondazioni etiche".



VITA E PENSIERO


DWORKIN

Ronald Myles Dworkin nacque a Worcester (nel Massachussets) nel 1931. Dopo aver condotto ad Harvard i suoi studi, ha insegnato a Yale. Divenuto docente di diritto a Oxford, ha anche insegnato alla Law School della New York State University ed è stato visiting professor presso numerose università degli USA. Tra le sue tante opere, meritano di essere ricordate: Taking Rights Seriously (1977), Questioni di principio (1985), L’impero del diritto (1986), Il dominio della vita (1994), I fondamenti del liberalismo (scritto con Sebastiano Maffettone, 1996), Virtù sovrana (2000). Nei suoi scritti, Dworkin è andato elaborando una forma etica del liberalismo, derivante valori e diritti da una nozione di libertà strettamente imparentata con quella di eguaglianza. In Taking Rights Seriously, Dworkin mette in luce come l’istituzione di diritti nei confronti dello Stato non sia né un dono divino, né un’antica consuetudine, né uno “sport nazionale”, ma piuttosto una pratica complessa che rende l’opera dello Stato più difficile e dispendiosa, al fine di garantire un beneficio comune. Si tratterebbe sicuramente di una pratica inutile e frivole se poggiasse su una base non solida e se non servisse a un ben preciso scopo. Le due idee imprescindibili a cui fare riferimento sono la “vaga ma potente” idea della dignità umana (già scoperta da Kant) e la “più familiare” idea di uguaglianza politica. Ne segue che il liberalismo, per Dworkin, dev’essere imperniato in una considerazione degli individui “come uguali” (as equals) e in una teoria delle istituzioni giuridiche e politiche come organi finalizzati a garantire il diritto di ciascuno all’equal concern and respect. Sicché il liberalismo dev’essere una teoria dei diritti “presi sul serio”, come recita il titolo dell’opera Taking Rights Seriously: una teoria che dunque ne rappresenti il fondamento intrinseco (constitutive morality) e l’assetto normativo. Nel delineare questa forma di liberalismo, Dworkin intende opporsi ai modelli del positivismo giuridico alla Kelsen e dell’utilitarismo tradizionale, tutti e due nemici alla “antica idea dei diritti umani individuali”. Al cuore delle successive opere di Dworkin (sempre più attente al tema dell’eguaglianza) sta la teoria per cui gli individui sono titolari di diritti connessi a princìpi eticamente fondati (in primis la “uguale considerazione e rispetto”) e pertanto preesistenti alla loro codificazione positiva e alle scelte politiche e giuridiche concrete. Nello scritto Virtù sovrana (una raccolta di saggi degli anni Ottanta e Novanta, significativamente sottotitolato Teoria dell’eguaglianza) Dworkin osserva, in bilico tra ironia e preoccupazione, come, nel regno degli ideali politici, oggi la specie in pericolo d’estinzione sia l’eguaglianza. Perfino i politici più spostati a Sinistra tendono oggi a rifiutarla: ciò significa che essa debba essere rigettata? Secondo Dworkin, un governo può dirsi legittimo nella misura in cui dimostra uguale considerazione per la sorte di quei cittadini sui quali pretende di esercitare la sovranità. Se viene a mancare questo presupposto, “il governo è soltanto tirannia”. La “nuova Sinistra” non rifiuta “l’eguale considerazione”, ma una specifica concezione di quel che l’eguale considerazione richiede. Sicuramente assicurare l’eguaglianza non significa assicurare a tutti la stessa ricchezza, sennò ne scaturirebbe un mondo in cui “le persone che scelgono di non lavorare, essendo in condizione di farlo, sono premiate col frutto del lavoro svolto dalle persone operose”. Che cosa vuol dire allora che il governo deve trattare tutti con equal concern and respect? Non si può rispondere a questa domanda in maniera chiara e inequivocabile, nota Dworkin: infatti, l’idea di eguaglianza è controversa e gli studiosi ne hanno dato definizioni diverse. Se ne deve allora trarre la conclusione che è meglio rinunciare a tale ideale problematico, seguendo la nuova moda? Dworkin replica che, se l’eguale considerazione è un requisito imprescindibile della legittimità politica, sarebbe poco saggio rinunciare a decidere se l’eguaglianza, e non semplicemente una diminuzione della disuguaglianza, debba essere un obiettivo legittimo per una comunità. Proprio per questa ragione, il filosofo americano ha continuato ininterrottamente a porsi il problema dell’eguaglianza: e l’ha intesa in termini di risorse e di opportunità più che di generico benessere. In opposizione ad ogni modello di Welfare State, egli nota come il liberalismo non possa andare tanto in là fino a decretare un modello di benessere uguale per tutti gli uomini, ma debba piuttosto limitarsi a garantire porzioni uguali di risorse e di opportunità. Ma del resto la libertà non è mai libertà di fare qualunque cosa ci passi per la testa, ma è piuttosto libertà di fare qualunque cosa si desideri e che rispetti i diritti legittimi degli altri individui. Per questo motivo, una coerente teoria liberale (e non liberista) non deve mai perdere di vista la doppia stella polare del principio di pari importanza (ciascuno dev’essere messo in condizione di poter attuare appieno le proprie aspirazioni) e del principio di responsabilità particolare (ciascuno è responsabile delle scelte che compie quando tenta di attuare le proprie aspirazioni). Il primo principio richiede che il governo adotti leggi e politiche in grado di assicurare che la sorte dei cittadini non dipenda dalle loro condizioni economiche, di sesso, di razza, ecc. Il secondo principio richiede che il governo agisca per far dipendere la sorte dei cittadini dalle scelte che essi hanno compiuto. Si viene in questo modo a delineare un nuovo liberalismo, costituente una terza via rispetto alle due antiche della Destra e della Sinistra. I vecchi egualitari ignoravano le responsabilità individuali; queste erano riconosciute dai conservatori, che però ignoravano la responsabilità collettiva. La scelta tra queste due vie è inutile e pericolosa: si tratta piuttosto di percorrere la nuova via del modello liberale avanzato da Dworkin, che identifica eguaglianza e responsabilità rispettandole tutt’e due. Sicché, se in origine Dworkin aveva riconosciuto il cuore del liberalismo nella neutralità tra le teorie del bene, in seguito egli ha scorto l’essenza del liberalismo nella cosiddetta teoria dell’eguaglianza liberale, per cui libertà, uguaglianza e comunità, lungi dall’essere tre virtù in perenne conflitto tra loro, sono “aspetti complementari di un’unica visione politica” (I fondamenti del liberalismo). Forte di questa nuova lettura del liberalismo, Dworkin passa in rassegna una nutrita serie di posizioni di filosofia politica, distruggendole una dopo l’altra: sbaglia Berlin a intendere la libertà e l’eguaglianza come valori politici in competizione; sbaglia Nozick a riconoscere lo Stato giusto nello Stato “poliziotto”, che assiste all’indisturbato svolgersi delle azioni di mercato; lungi dall’essere semplicemente un poliziotto che controlla che non ci siano disturbi sul mercato, lo Stato, secondo Dworkin, non può restare indifferente alle disuguaglianze di risorse e di opportunità. Sbagliano anche i comunitaristi radicali, che nell’esaltare la comunità si scordano le libertà e le responsabilità dell’individuo. Ma più di tutti sbaglia Rawls, accusato di essere “discontinuo” nella misura in cui separa la politica dall’etica: in opposizione, Dworkin propone una visione “continuista”, incentrata sul nesso morale-politica e sul rapporto tra il liberalismo e le concezioni filosofiche più appropriate sulla vita buona. Dworkin è infatti convinto che “il liberalismo deve avere fondazioni etiche” (Virtù sovrana) e che esso deve far sua non un’etica dell’impatto, bensì un’etica della sfida. Per l’etica dell’impatto, il valore di una vita buona consiste in ciò che essa produce, ossia nelle sue conseguenze per il resto del mondo (così ammiriamo Mozart per le Nozze di Figaro, Fleming per la scoperta della penicillina, ecc); per l’etica della sfida, una vita buona dal suo valore intrinseco, a tal punto che gli eventi, le realizzazioni e le esperienze possono avere un valore etico anche quando non producono alcun impatto al di fuori della vita in cui hanno luogo. Tentando di salvaguardare libertà, eguaglianza e comunità, Dworkin ha sostenuto il primato etico della comunità sulla vita individuale, adombrando la necessità di armonizzare due ideali etici che, in apparenza, fanno a pugni: l’ideale dei progetti e delle appartenenze personali, il quale domina la nostra vita privata  e riguarda la responsabilità che crediamo di avere per le persone che, in qualche modo, ci sono vicine; e l’ideale dell’eguale considerazione politica dell’altro, che domina la nostra vita politica e che ha a che fare con un’eguale considerazione per tutti gli uomini. Nelle società in cui l’ingiustizia è sostanziale, secondo Dworkin gli individui che sono attratti da entrambi gli ideali si trovano in un lacerante stato di dilemma etico che li porta necessariamente a sacrificare, con le loro scelte, uno dei due ideali a favore dell’altro: in tal modo, quale che sia la scelta effettuata, è indelebilmente pregiudicato il successo della loro vita. Al contrario, nelle società giuste, ossia in quelle società caratterizzate da un’equa distribuzione delle risorse, è possibile conciliare entrambi gli ideali, cosicché diventa possibile per gli individui aver successo nella vita.         

 


BRANI ANTOLOGICI


Il diritto di morire


Se sia nel migliore interesse di ciascuno che la vita si concluda in un modo anziché in un altro dipende in modo così stretto da quant'altro di speciale c'è in lui (dallo stile e dal carattere della vita, dal suo senso dell'integrità e dagli interessi critici) che nessuna decisione collettiva uniforme potrà mai sperare di promuovere così adeguatamente gli interessi di una persona. Abbiamo così anche una ragione fondata sulla beneficenza, oltre alla ragione fondata sull'autonomia, perché lo Stato non imponga alcuna uniforme concezione generale attraverso la sovranità della legge, ma piuttosto incoraggi le persone a dare esse stesse disposizioni meglio che possono per la loro assistenza futura, e perché in assenza di queste disposizioni, la legge, nei limiti del possibile, lasci la decisione nelle mani dei loro familiari o di altre persone intime, il cui senso del loro migliore interesse è probabilmente molto più corretto di un giudizio teorico e astratto concepito nelle stanze segrete, tra manovre di interesse e transazioni politiche.
(Ronald Dworkin, ll dominio della vita. Aborto, eutanasia e libertà individuale, trad. it. di C. Bagnoli, Edizioni di Comunità, Milano, 1994, pp.294-295)


Limitazioni leggittime e illeggittime della libertà


La maggior parte delle leggi che diminuiscono la mia libertà, vengono giustificate per motivi utilitaristi, per essere state emanate in funzione dell'interesse generale o per il benessere generale; se, come Bentham suppone, ciascuna di queste leggi diminuisce la mia libertà, nondimeno non sottraggono nulla di quanto io ho diritto ad avere. Ciò non vuol dire, nel caso della strada a senso unico, che, nonostante io abbia il diritto di guidare nel senso opposto in Lexington Avenue, nondimeno lo stato, per speciali ragioni, è giustificato se mi toglie quel diritto. Questo mi sembra sciocco, perché lo stato non ha bisogno di speciali giustificazioni, ma solo di una giustificazione, per questo tipo di leggi. Così si può avere un diritto politico di libertà, ma tale che ogni limitazione diminuisce o infrange quel diritto, ma solo in un significato talmente debole, che il diritto di libertà non è affatto in concorrenza con diritti forti come il diritto all'uguaglianza. Se invece pensiamo ad un significato forte di diritto, in conflitto con il diritto all'uguaglianza, allora non esiste affatto un generale diritto di libertà.
(Ronald Dworkin, I diritti presi sul serio, trad. it. di F. Oriana, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 319-322)


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