EGESIA

 

 

A cura di Marco Machiorletti

 

 

 

 

Egesia, vissuto nel VI secolo a.C. ribadì il principio della Scuola Cirenaica secondo cui il fine è il piacere, ma lo ritenne qualcosa di non raggiungibile se non in modo saltuario; egli sostenne inoltre che il piacere è qualcosa di relativo e non oggettivo.

Che solo il piacere fosse un bene e il dolore un male e che solo il primo potesse dare la felicità pareva chiaro a Egesia, dal momento che per lui non esistevano altri valori indipendenti dal piacere e dall’utilità:

 

“Nulla sono gratitudine, amicizia e beneficenza, onde queste cose noi le scegliamo non per se stesse ma per ragioni di utilità, mancando le quali neppure quelle sussistono più”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 93)

 

Ma, se è vero che il piacere pare essere l’unico bene, è altrettanto vero che esso ci sfugge di mano e che il suo contrario ha in noi sempre il sopravvento:

 

“Il corpo infatti è pieno di mille sofferenze e l’anima soffre col corpo ed è turbata e la sorte rende vane le cose da noi sperate […]”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 11, 94)

 

Né si può dire che la ricchezza determini il piacere. E nemmeno incidono, nel determinarne la misura, libertà, nobiltà, saggezza, né i loro contrari.

Anzi, Egesia e i suoi seguaci contestavano, come rilevato poc’anzi, che il piacere fosse alcunché di naturalmente determinato in modo oggettivo e lo ritenevano qualcosa di relativo, così come le sensazioni:

 

“Ritenevano che nulla fosse per natura piacevole o spiacevole: per la rarità o per la novità o per la sazietà accade che taluni godano e altri no […]. Svalutavano anche le sensazioni, perché non danno conoscenza certa, ma facevano tutto ciò che loro sembrasse ragionevole”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 11, 94)

 

Sulla base di queste premesse si giungeva alla conclusione che la felicità è irraggiungibile e la vita è indifferente:

 

“La felicità è […] irrealizzabile. Vita e morte sono da prendersi senza preferenza […]. Per l’insensato vivere può essere vantaggioso, per l’uomo saggio indifferente”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, 11, 94)

 

La morte non deve dunque in alcun modo essere temuta, perché non ci separa dai beni, bensì dai mali: concetto, questo, che valse a Egesia il soprannome «persuasore di morte».

 

“La morte ci divide dai mali, non dai beni, se badiamo al vero. È per questo concetto così discusso ampiamente da Egesia Cirenaico che, si dice, il re Tolomeo gli vietò di insegnare quelle idee nelle scuole, poiché molti, uditele, si davano spontaneamente la morte”. (Cicerone, Tusc. disput., I, 34, 83)

 

Il saggio, allora, non si affannerà a ricercare il piacere e la felicità, bensì vivrà evitando i mali, mediante l’indifferenza (tema particolarmente caro agli Scettici):

 

“Perciò il sapiente non si affannerà tanto nel procurarsi i beni quanto nell’evitare i mali, proponendosi come fine una vita né faticosa né dolorosa, il che si realizza con uno stato d’animo di indifferenza per ciò che produce il piacere”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, 95 sg.)

 

Egesia riprese la dottrina socratica dell’«involontarietà della colpa», con i relativi corollari etici e pedagogici:

 

 “Dicevano [scil.: Egesia e i suoi seguaci] che agli errori spetta il perdono: non si sbaglia volontariamente, ma costretti da qualche passione. Non bisogna quindi odiare, ma piuttosto insegnare”.



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