BURCKHARDT E LA STORIA



Baumgarten e Shaftesbury

 

Burckhardt inizia la sua opera contrapponendosi alla filosofia della storia di Hegel, si tratta di rinunciare ad ogni sistematicità e con essa alle “ idee sulla storia universale “, per “ collegare una serie di osservazioni e di esperienze storiche ora uno, ora un altro nesso semicausale di pensieri “.

“ La filosofia della storia fino ad oggi: un centauro, in quanto la storia, vale a dire il coordinare, è non – filosofia e la filosofia, vale a dire il subordinare, è non – storia.  ( … ) “

La coordinazione della storia è inferiore alla subordinazione dell’ attività filosofica, i fatti di cui si occupa la storia sono inconciliabile con l’ universale, aspetto questo che avvicina Burckhardt ad una prospettiva squisitamente schopenhaueriana.

Schopenhauer nel capitolo 38 dei supplementi [ è un commento al paragrafo 51 del primo libro ] de “ Il mondo come volontà e rappresentazione “ , dice che alla fondazione dell’ uomo è più necessaria la poesia che non la storia, riprendendo un’ argomentazione di Aristotele tratta dal “ De poetica “: “ In ogni specie e genere di cose i fatti sono innumerevoli, gli esseri singoli infiniti, la varietà delle loro differenze incalcolabile. Solo a gettarvi uno sguardo, lo spirito assetato di sapere è colto da vertigini: egli si vede, per quanto ampiamente indaghi, condannato all’ ignoranza. Ma ecco che viene la scienza: essa scevera il molteplice innumerevole, lo raccoglie sotto concetti di genere, e questi a loro volta sotto concetti di specie, aprendo in tal modo la via a una conoscenza del generale e dello speciale, che abbraccia anche le innumerevoli cose particolari, in quanto vale di tutto, senza che si debba considerare ogni cosa per sé. Poi tutte le scienze si pongono l’ una accanto all’ altra e al di sopra del mondo delle cose particolari, che si sono ripartite tra loro. Ma al di sopra di esse tutte sta la filosofia, come il sapere più generale e perciò più importante che promette quei lumi a cui soltanto le altre preparano. Solo la storia non può veramente rientrare in quella categoria, non potendosi vantare dello stesso pregio delle altre: le manca infatti il carattere fondamentale della scienza, la subordinazione delle conoscenze, invece della quale può esibire solo una mera coordinazione di esse. Quindi non si dà nessun sistema di storia, come invece se ne dà di ogni altra scienza. La storia è pertanto sì un sapere, ma non una scienza. Perché non conosce mai il particolare per mezzo del generale, ma deve afferrare il particolare in modo immediato e continuare così a strisciare per così dire sul terreno dell’ esperienza; mentre le vere scienze si librano al di sopra di esso, avendo acquisito concetti comprensivi, mediante i quali dominano il particolare e, almeno entro certi limiti, prevedendo le possibilità delle cose del loro campo, sicché possono essere tranquille anche su ciò che vi si può aggiungere. Le scienze essendo sistemi di concetti, parlano sempre di generi; la storia di individui. Essa sarebbe una scienza di individui, il che sarebbe una contraddizione. Dalle cose dette segue anche che le scienze tutte quante parlano di ciò che è sempre; la storia invece di ciò che è solo una volta e non più. Siccome inoltre la storia ha a che fare con ciò che assolutamente particolare e individuale, che è per sua natura inesauribile, sa di tutto solo imperfettamente e a metà. “

Hegel comincia le berlinesi “ Lezioni sulla filosofia della storia “ sostenendo che l’argomento delle sue lezioni è la filosofia della storia, un essere strano che sorge dall’ esigenza di trattare filosoficamente la storia stessa. La filosofia è in contraddizione con la storia che cerca di attenersi al dato, ma questa opposizione deve essere inserita in un movimento di tipo dialettico.

La filosofia della storia non introduce vari pensieri nella storia, bensì uno solo quello relativo alla ragione, che è sostanza infinita, potenza, forma e materia.

Nell’ eliminazione dell’ accidentale inteso come ciò che ha la sua causa in ciò che è esterno a sé, il particolare brilla della luce dell’ universale in quanto la ragione permea il tutto.

Ne “ Le lezione sulla filosofia della storia “, Hegel scrive: “ Ma, parlando dell'esigenza di conoscere il piano della divina provvidenza, io ho insieme alluso a un problema che ai nostri tempi ha importanza primaria, e cioè a quello della possibilità di conoscere Iddio: o meglio, giacché ha cessato di esser un problema, alla tesi dell'impossibilità di conoscerlo, che è diventata pregiudizio e che contrasta con ciò che la Sacra Scrittura comanda come dovere supremo, quando ordina non solo di amare Iddio, ma anche di conoscerlo. Tesi che nega ciò che ivi appunto vien detto, e cioè che è proprio lo spirito che guida alla verità, che conosce tutte le cose e penetra anche le profondità del divino.

La fede ingenua può rinunciare a un esame piú particolare, e arrestarsi all'idea generica di un governo divino del mondo. Chi fa così non merita biasimo, finché la sua fede non divenga polemica. Ma ci si può anche attenere non ingenuamente a questa idea, e tale principio generale può, proprio per la sua generalità, avere anche uno speciale significato negativo, nel senso che l'essere divino venga tenuto a distanza e confinato al di là del mondo e del sapere dell'uomo. In tal modo ci si riserva, d'altro canto, la libertà di allontanare l'esigenza di conoscere ciò che sia vero e razionale, e si acquista la comoda facoltà di dare libero campo alle proprie fantasie. In questo senso, quella rappresentazione di Dio diventa una vuota chiacchiera. Se Dio vien posto al di là della nostra coscienza razionale, noi siamo dispensati tanto dall'occuparci della sua natura quanto dal trovare una ragione nella storia del mondo; campo libero hanno allora le ipotesi. La pia umiltà sa bene ciò che acquista con le sue rinunce.

Avrei potuto tralasciar l'avvertenza che il nostro principio, secondo cui la ragione governa e ha governato il mondo, viene espresso in forma religiosa nell'idea del dominio della provvidenza, per evitare l'accenno alla questione concernente la possibilità di conoscere Dio. Tuttavia non ho voluto tralasciarla, sia per far notare le connessioni ulteriori di tali argomenti, sia, anche, per evitare il sospetto che la filosofia esiti o debba esitare di fronte alla menzione delle verità religiose e perciò le scansi, e proprio per non avere, rispetto ad esse, la coscienza tranquilla. Si è giunti piuttosto, in tempi recenti, al punto che, contro certa specie di teologia, è la filosofia che deve prendersi cura della materia religiosa.

Si può, come si è detto, sentir spesso tacciare di presunzione il desiderio di conoscere il piano della provvidenza. In ciò è da vedere il portato dell'idea, ormai quasi universalmente passata in assioma, che non si possa conoscere Iddio. E se è la teologia stessa che è giunta a disperare così, è necessario rifugiarsi proprio nella filosofia, quando si voglia conoscere Iddio. Certo, viene imputato alla superbia della ragione il voler sapere qualcosa in proposito. Ma piuttosto si deve dire che la vera umiltà consiste appunto nel riconoscere Iddio in tutto, nel tributargli onore dappertutto, e principalmente nel teatro della storia universale. Una tradizione che ci si tira dietro è quella che la saggezza di Dio vada riconosciuta nella natura. Così fu di moda, un tempo, l'ammirare la sapienza divina in animali e in piante. Si mostra di conoscere Iddio facendo meraviglie di destini umani o di prodotti della natura. Ora, anche concesso che la provvidenza si manifesti in tali oggetti e materie, perché non si manifesterà anche nella storia del mondo? Questa materia parrebbe forse troppo grande? Vero è che, nel fatto, s'immagina di solito la provvidenza come agente solo nel piccolo, e la si pensa come un uomo ricco, che distribuisce elemosine agli uomini e provvede per essi. Se però si crede che la materia della storia universale sia troppo vasta per la provvidenza, si erra, perché la sapienza divina è una e medesima, nel grande e nel piccolo. Nella pianta e nell'insetto essa è tale quale nei destini d'interi popoli e imperi, e non dobbiamo ritenere Iddio troppo debole per adoperare la sua sapienza in cose grandi. Quando si pensa che la sapienza divina non agisca dappertutto, la sfiduciata umiltà di tale considerazione dovrebbe concernere la materia dell'azione, non la sapienza agente. La natura d'altronde, a paragone della storia, è un campo d'azione subordinato. La natura è la sfera in cui l'idea divina si trova nell'elemento dell'aconcettualità; nello spirituale essa è invece nel suo proprio terreno, e ivi appunto dev'essere conoscibile. Armati del concetto della ragione, noi non dobbiamo esitare di fronte a nessuna materia [...].

Nella religione cristiana Dio si è rivelato, cioè ha concesso agli uomini di conoscere la sua natura, in modo da non esser piú qualcosa di chiuso, di segreto. Questa possibilità di conoscere Iddio importa per noi anche il dovere di farlo, e lo sviluppo dello spirito pensante, che ha avuto origine da questa base, dalla rivelazione dell'essere divino, deve riuscire in ultimo a concepire anche con il pensiero ciò che inizialmente si è presentato allo spirito nel sentimento e nell'intuizione. Se il tempo sia maturo per tale conoscenza, è cosa che deve dipendere dalla condizione che ciò che è scopo finale del mondo sia entrato finalmente nella realtà in modo universalmente valido e consapevole. Ora, l'eccellenza della religione cristiana consiste nel fatto che con essa è giunta questa età: fatto che, nella storia del mondo, fa assolutamente epoca, cioè segna il piú importante punto di svolta. é divenuto manifesto quel che sia la natura di Dio [...].

Nel cristianesimo è dottrina fondamentale che la provvidenza abbia governato e governi il mondo, che quel che in esso avviene abbia il suo posto determinato nel regime divino e gli sia conforme. Questa dottrina si oppone all'idea del caso e dei fini limitati, come per esempio quello della conservazione del popolo ebreo. é lo scopo affatto universale e finale, esiste in sé e per sé. Nella religione non si procede oltre questa idea generale: essa infatti si arresta al piano della generalità. Ma il punto di partenza da cui bisogna muovere per giungere alla filosofia e alla filosofia della storia è appunto questa fede generale, che la storia è un prodotto della ragione eterna, e che è stata questa a determinare le sue grandi rivoluzioni.

Si deve dire quindi che, anche in senso assoluto, è giunto il tempo in cui questa convinzione, questa certezza, potrà non rimanere soltanto nello stadio dell'intuizione, ma esser pensata, sviluppata, conosciuta, in una determinata scienza [...].

Nel cristianesimo, invece, Dio è rivelato come spirito, e infatti esso è in primo luogo Padre, Potenza, un universale astratto, che è ancora velato; in secondo luogo è oggetto a se stesso, un Altro da se stesso, qualcosa che si sdoppia, il Figlio. Questo altro da se stesso è però, con eguale immediatezza, lui stesso; egli vi sa se stesso e vi si contempla, e appunto questo sapersi e contemplarsi è, in terzo luogo, lo Spirito stesso. Cioè, la totalità è lo spirito, non l'uno né l'altro momento per sé solo. Dio, espresso nel modo del sentimento, è l'eterno amore, questo aver l'altro come suo proprio. È per questa tri-unità che la religione cristiana sta piú in alto delle altre religioni. Essa vi costituisce l'elemento speculativo, ed è sua mercé che la filosofia trova anche in essa l'idea della ragione [...].

Ciò che altrimenti ha il nome di realtà vien considerato dalla filosofia come qualcosa d'inconsistente, che può avere un'apparenza, ma che non è reale in sé e per sé. Questa nozione serve, per così dire, di conforto contro l'idea dell'assoluta infelicità e stoltezza di quanto è accaduto. Il conforto però non è che il compenso per un male che non avrebbe dovuto accadere, ed ha il suo luogo nella realtà finita. La filosofia non è quindi un conforto: essa è di piú, essa riconcilia il reale, che sembra ingiusto, con il razionale, lo trasfigura in esso, fa vedere come esso abbia il suo fondamento proprio nell'idea, e come debba perciò soddisfare la ragione. Il divino è infatti nella ragione. Il contenuto che sta a fondamento della ragione è l'idea divina, è essenzialmente il piano di Dio. Concepita come storia del mondo, pari all'idea non è la ragione nella volontà del soggetto, ma solo l'attività di Dio. Ma, nella rappresentazione, la ragione è il percepire l'idea; anche etimologicamente, è il percepire ciò che è espresso (Logos), cioè il vero. La verità del vero, questo è il mondo creato. Dio parla; egli esprime solo se stesso, ed è il potere di esprimersi, di rendersi percepibile. Ed è la verità di Dio, la sua immagine, che viene percepita nella ragione. La filosofia tende quindi ad affermare che ciò che è vuoto non è un ideale, che tale è solo ciò che è reale: essa mira a che l'idea si renda percepibile.”

Kant nelle “ Idee per una storia universale da un punto di vista cosmopolitico “ del 1784 si chiede se una storia universale venga ad essere una volta realizzata una sorta di romanzo, o realmente esistano fini razionali. La risposta di Kant è affermativa, vi può essere una storia universale a priori. Se abbiamo presupposto che la natura soggiaccia a fini razionali, come è possibile che non esistano fini razionali nell’ attività dell’ uomo, che rappresenta la massima espressione della natura? Sussiste quindi una continuità tra natura e storia, che garantisce una storia universale, si tratta di un continuo modo di miglioramento, di progresso dall’ antichità fino al Moderno.

Kant si chiede : “ A cosa serve, infatti, lodare la magnificenza e la saggezza della creazione nel regno naturale, privo di ragione, e raccomandarne lo studio, quando la parte del vasto teatro della suprema saggezza che contiene il fine di tutto questo – la storia del genere umano – deve restare una permanente obiezione in contrario, la cui vista ci costringe con disgusto a distogliere lo sguardo da essa, e poiché disperiamo di trovarvi mai un compiuto disegno razionale, ci induce a riporre la speranza di quest’ ultimo solo in un altro mondo? “ Idee per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, Nona tesi.

Burckhardt afferma che togliendo un inizio ed una fine nella storia, rimane quasi in accezione schopenhaueriana l’ uomo che soffre e patisce, l’ interesse quindi gravita verso ciò che si ripete e rimane immutato [ il futuro scrive B. esiste nella misura in cui accade ].

Le costituzioni, i ceti privilegiati, la religione secolarizzata, il ceto dei possidenti sono forme dello spirito che si scontrano con lo spirito, inteso come “ la forza di concepire idealmente ogni cosa temperale “, dinanzi a quest’ opposizione spirito – forma dobbiamo tenere un atteggiamento contemplativo, un modo di agire attivo che passa dal riconoscimento che noi abbiamo del passato.

In una giusta ottica storica bisogna rinunziare – dice Burckhardt – ad ogni considerazione sugli inizi, sul clima, sul terreno e sui fattori cosmici, ciò che si deve porre in rilievo è la finitudine umana sia quanto la s’ intende come attività che come comprensione.

Sul finire dell’ “ Introduzione “ lo storico svizzero sottolinea con grande acume l’ importanza che riveste lo scetticismo all’ interno di una dimensione temporale dove si è perso l’ inizio e la fine, una dimensione slegata dal pensiero forte direbbe Vattimo.

Il vero ed il buono sono soggetti ad una temporalizzazione che in un certo qual modo li relativizza, ciò non si presenta per la bellezza, una sorta di “ mondo a sé “.

In “ Felicità e fortuna, infelicità e sfortuna “ Burckhardt riprende il valore demistificante dello scetticismo sulle pretese di universalità dei giudizi riguardo alla felicità o infelicità di un’ epoca, la relatività e la soggettività sono insuperabili ostacoli medianti i quali l’ autore del “ Rubens “ demolisce una filosofia della storia che per sua predisposizione naturale tende a divenire una storia universale della civiltà.

Più ci avviciniamo al presente, e maggiormente quei giudizi formulati in senso universale cominciano a scontarsi tra di loro non riuscendo a giungere ad una prospettiva conciliatrice; i moderni vedono la felicità in quelle epoche dove è avvenuta una ricca fioritura e l’ infelicità come manifestazione della devastazione.

Gli antichi quali ad esempio Esiodo, si facevano alfieri di una teoria del decadimento storico da una leggendaria età dell’ oro, i moderni invece figli dell’ Illuminismo, intravedono un continuo progresso, tale visione si basa su una serie di premesse che Burckhardt si presta sistematicamente a smontare.

L’ illuminismo della “ cultura generale “, massificato da interessi ed esigenze utilitaristiche e pragmatiche nella sua lettura storica si fonda su un’ impazienza retrospettiva [ ciò che sembra noioso lo si chiama infelice, quello che risulta interessante invece felice ], Burckhardt dice che seguendo questa linea interpretativa si è disposti a sacrificare una delle dinastie egiziane per giungere al Re Amasi ed al suo progressivismo liberale che ci attira di più.

La ricostruzione dell’ orizzonte del passato si chiama cultura “ Kultur “, i barbari sono coloro che non sanno rinnovare la propria cultura [ gli americani sono per Burckhardt i barbari della modernità ],  Burckhardt sottolinea in maniera acuta come il problema della felicità e dell’ infelicità di un’ epoca dipendano dal nostro giudizio, la prospettiva dei moderni finalizzata a cogliere un continuo sviluppo nella storia [ sussiste una notevole critica all’ Illuminismo che pretende in virtù di desideri più che di ragionamenti di pervenire all’ idea di un continuo progresso, si tratta quindi di un Illuminismo massificato ], è diametralmente opposta a quella degli antichi, basti pensare ad Esiodo.

Nella storia si manifestano fratture, dolore e morte, con questi elementi lo Stato, la religione e la cultura vengono modificate nello spirito; soltanto nella lotta l’ uomo capisce ciò che vuole e può realizzare, la stessa Riforma protestante per prendere piede dovette utilizzare la forza e la violenza.

Il giudizio storico fondato sulla “ cultura “ risente della critiche burckhardtiane, si basa sul grado di cultura, sulla comodità di vita ed istruzione scolastica di un’ epoca passata valutate mediante gli occhi dei moderni, che liquidano sbrigativamente tale epoca; anche il giudizio che poggia sul “ gusto in generale “ è da rigettare dato la felicità dipende dal fatto che nell’ elemento analizzato vi sia qualcosa caro a chi conduce la ricerca.

Sia il giudizio sulla “ simpatia politica “ che quello sulla “ sicurezza “ dove la subordinazione dell’ arbitrio ad un parametro oggettivo é la condizione della felicità di un’ epoca, sono criticati duramente da Burckhardt.

Coloro che analizzano un periodo storico tramite il canone della “ grandezza “ realizzano un’ analisi unilaterale e superficiale che non prende in considerazione come quella grandezza si venga a costituire sulla sofferenza e morte di molti individui.

Tutti i giudizi formulati in precedenza rientrano nella categoria dell’ egoismo, dato che l’ egocentrismo ci porta a considerare felici certe epoche che si avvicinano al nostro temperamento e degno di lode il passato nella misura in cui fonda il presente attuale dell’ esistenza [ la storia universale in funzione di noi stessi ].

Burckhardt nota come se ogni cosa sia immersa nella totalità caotica degli eventi, perda la sua pretesa di universalità [ il suo essere in funzione di se stessa ] e conseguentemente le possibili tesi sulla felicità ed infelicità di un’ epoca abbiano poche pretese di porsi come prospettive meta – soggettive e meta – contingenti.

Bisogna eliminare il termine “ felicità “ che è stato erroneamente usato in vari contesti senza nessun criterio valido, e lasciare il termine  “ infelicità “ che getta luce su quell’ uomo che soffre e patisce e deve rapportarsi con il male inteso come molla massima dello sviluppo storico.

L’ idea di una felicità permanente è del tutto falsa, dato che la fissità é sinonimo di morte, l’ unico modo di intendere la felicità è in accezione schopenhaueriana come assenza di dolore.

Analizzando la questione relativa all’ infelicità Burckhardt giunge a considerare il male, come una molla non giustificata del movimento storico, come in natura il diritto del più forte nichilizza il debole, altrettanto avviene nella storia.

È interessante notare come i più forti non siano identificabili con i migliori, il soccombere di ciò che è nobile costituisce il pericolo delle epoche in cui domina la cultura “ generale “ [ con le categorie moderne, si direbbe cultura di massa ].

In linea di massima la violenza che fonda la potenza è resa legale dal sopraggiungere dell’ umanità, il male è un tratto decisivo e fondamentale della storia, ciò che risulta in un dato momento negativo per un popolo o una civiltà, può divenire una condizione prima per lo sviluppo di un altro popolo.

Noi avendo una prospettiva finita e limitata non possiamo conoscere l’ economia generale della storia che ci resta sempre oscura, molto spesso ingenuamente crediamo che un valente condottiero se non fosse morte avrebbe proseguito la sua ascesa al successo ed alla vittoria, in realtà questa tesi non è fondata [ Burckhardt fa l’ esempio di Alessandro Magno ].

L’ umanità colpita dai dardi velenosi del male cambia centro di gravità, questa “ compensazione “ non è “ un risarcimento delle perdite “, lo spostarsi del commercio e dell’ economia dal bacino del Mediterraneo all’ Oceano Atlantico è una chiara manifestazione della validità di tale tesi.

Vi sono vari modi attraverso il quali si rende possibile la “ compensazione”: in primis mediante la procrastinazione, un evento che sembrava porsi come risolutore di una serie di fatti accade non nell’ imminenza, in secundis grazie alla sostituzione di singoli rami della cultura con altri [ pittura e la poesia erano presenti in maniera minore nel XVIII secolo rispetto alla musica.

Se nel XV secolo fossero state scoperte opere greche, forse non vi sarebbe stato un così grande ed inteso fermento culturale ed artistico [ basti pensare a Michelangelo e Raffaello ] questo a convalidare la teoria della compensazione.

Non si tratta quindi di essere obbiettivi e freddi nel condurre l’ analisi sulla storia, bensì rendersi conto e comprendere la cecità dei nostri desideri.

In “ La storia nel XIX secolo “, Burckhardt inizia il suo discorso analizzando il problema del futuro e della sua eventuale conoscenza, in relazione al singolo come ad un’ intera civiltà.

In termini ontologici il futuro esiste nella misura in cui accade, anche andando al di là della sua insufficienza sostanziale la possibilità di conoscerlo non è desiderabile in quanto per la vita è di primaria importanza agire “ ciecamente “, mediante le forze interiori.

La conoscenza di tale dimensione temporale renderebbe impossibile sia l’ esistenza che l’ attività dell’ individuo isolato come del macrocosmo di una civiltà.

Non c’è nessuna teodicea eccetto quella che sostiene l’ impossibilità di ogni teodicea, il male nella natura si protrae anche nella dimensione storica, è una realtà di fatto non giustificata, sono i vincitori che si devono giustificare dinanzi al male.

Il futuro è tale nella misura in cui esso accade, si tratta di una proiezione di ciò che noi vorremmo che fosse rispetto alla nostra situazione presente; possiamo studiare l’ elemento storico ma non la storia, inoltre c’è un elemento universale: lo spirito umano.

Lo spirito umano è mutevole ma non caduto, ogni sua espressione è soggetta alla contingenza ed alla molteplicità.

Se si parla di universalità dello spirito umano lo si fa all’ interno della categoria della mutevolezza, comprendiamo dunque come il “ Geist “ hegeliano sia all’ antitesi di quello burckhardtiano.

Dato che un senso per il passato non c’è, gli eventi di una cultura diversa non sono manifestazioni dello spirito universale, spetta quindi a noi ricostruire una continuità.

L’ ermeneutica da questo punto di vista è similare alla prospettiva enucleata da Burckhardt relativamente alla storia, lo stesso Schleiermacher dirà che nel dialogo “ il fraintendimento è ciò che viene da sé “.

Fin dall’ inizio l’ ermeneutica significa comprensione di ciò che in prima battuta si sottrae a noi, Jauß sulla scia di Gadamer criticherà l’ autore di “ Verità e metodo “ dicendo che l’ estraneità di ciò che è distante è utile nella misura in cui ricostruiamo l’ epoca storica, ne segue che ogni evento deve essere riconosciuto e ricostruito nella sua estraneità.

Burckhardt mostra come il lavoro intellettuale non possa essere piacevole, in quanto noi studiamo ed analizziamo ciò che è estraneo a noi stessi, o testimonianza del passato non fa altro che esprimere sé.

Gadamer in “ Verità e metodo “ sosterrà che nella storia è sempre la coscienza che dialoga con se stessa, quest’ aspetto è palesemente filo – hegeliano [ nulla può essere estraneo alla coscienza ], l’ ermeneutica dell’ estraneità – sostiene Jauß - è più sulla scia di Burckhardt che di Gadamer.

Dopo questa considerazione sul futuro, Burckhardt apre la seconda parte della sua analisi sostenendo che nel XIX secolo ci siano migliori condizioni per una vera ed autentica conoscenza storica: vi sarebbero una serie di fattori tali da permettere ciò.

Nonostante il processo della stampa che accompagna da “ ormai quattro secoli “ l’ attività e l’ esercizio intellettuale, il conoscere storico può vantare dalla sua – scrive Burckhardt – una serie di eventi fondamentali per il suo sviluppo.

Il cosmopolitismo sociale e culturale, l’ accessibilità alla letteratura, alle lingue, agli archivi ed il potenziamento della ricerca filologica sono quegli eventi e realtà a cui si riferisce lo studioso svizzero.

Oltre all’ ascesa degli studi filosofici uniti a vaste pubblicazioni, compaiono nel XIX secolo delle facilitazioni interne, come ad esempio il disinteresse degli Stati per le ricerche storiche che vengono valutate come non pericolose e prive d’ interesse per le monarchie europee.

Infine la Rivoluzione francese: “ e la sua motivazione in quello che l’ aveva preceduta ha abituato lo sguardo a indagare non solo i nessi causali di tipo materiale ma, soprattutto, quelli di carattere spirituale e il loro visibile rovesciarsi in conseguenze materiali. “

“ Il nostro compito “, si apre con la considerazione di come per la vastità degli studi storici non basterebbero mille vite umane per portarli a termine; chi si avvicina per la prima volta allo studio della storia [ poi Burckhardt preciserà dell’ “ elemento storico “ ] sono da evitare le eccessive specializzazioni e generalizzazione in quanto improduttive.

Burckhardt in questa lezione traccia le linee fondamentali che dovranno seguire coloro che avranno l’ interesse di avvicinarsi allo studio dell’ elemento storico.

In primis occorre avere un saldo bagaglio di giuridico e teologico, tale da essere potenziato con l’ acquisizione delle lingue antiche e di almeno qualche lingua moderna.

Sarà opportuno non leggere i romanzi storici tanto in voga nel XIX secolo, in quanto cumulo di superficialità; una dote chiave sarà quella del valutare anche accadimenti che non si riferiscono direttamente o indirettamente al nostro bisogno e disagio.

In un lavoro intellettuale non concepibile come mero godimento si rischia la paralisi se per troppo tempo si ha a che fare con le stesse cose.

La vita intesa come flusso e movimento incessante, permette all’ individuo di cercare e trovare lati ed aspetti originali in una fonte antica e “ stratificata “ da varie letture, in proposito Burckhardt sostiene che Sofocle potrebbe fare un effetto diverso su coloro che sono nati oggi rispetto al passato.

Oltre alla specializzazione in campi specifici risulta opportuno essere dilettanti in tanti campi per non avere visioni ristrette e “ rozze “ [ il pregiudizio sul dilettantismo proviene dall’ arte, che scorge o maestri o nullità ].

Nel corso dello studio eventuali errori commessi all’ inizio possono essere corretti tramite il controllo di più fonti, a conclusione di ciò le scienze naturali sono le uniche disinteressate, la teologia e la giurisprudenza vogliono far da maestre a contatto con una filosofia che pretende di stare al di sopra di tutte le altre discipline, ma ne è ospite.

In “ Le tre potenze “ , lo Stato [ potenza statica ], la cultura [ potenza dinamica ] e la religione [ potenza statica ] sono le tre potenze di cui parla Burckhardt in “ Sullo studio della Storia “, tale distinzione è del tutto arbitraria; la cultura non è altro che l’ insieme di tutto ciò che spiritualmente e moralmente sorto promuove la vita materiale [ ciò che è spontaneo e libero, quasi in accezione schilleriana ].

La cultura rappresenta il mondo della mobilità e della liberà che non rivendica – a differenza dello Stato e della religione – né un’ area circoscritta né una validità universale.

Lo Stato – pensa Burckhardt – non ha né un inizio né una sua origine, l’ ipotesi contrattualista - Rousseau in primis - è totalmente infondata in quanto lo Stato non è la manifestazione dell’ omogeneizzazione del popolo, neanche sul versante linguistico.

Sia Nietzsche che Burckhardt tentano di distruggere l’ identificazione tra lo Stato e la nazione, lo storico svizzero afferma che lo Stato è un assemblaggio delle culture più diverse e di differenti etnie, esso sorge nel momento in cui un’ etnia superiore mediante la violenza prende il potere [ il potere quindi finisce per essere malvagio ]; soffermandosi sulle tre forme costituzionali aristoteliche, egli mostra come in realtà ve ne sia ancora di diverse.

La violenza è un prius che sorge di per sé dall’ ineguaglianza delle attitudini umane e potrebbe essere considerato come la sistemazione della violenza.

Nel Medioevo lo Stato era ereditario [ B. sottolinea l’ importanza delle dinastie e delle usurpazioni ], il popolo non aveva nessun ruolo politico attivo ed il suo ambito d’ azione era limitato dalla Chiesa, dalle università e dagli ordini religiosi.

Ogni Stato è differente da ogni altro a causa delle influenze religiose ed culturali; il grande Stato ha importanti finalità esterne quali il conservare e proteggere la cultura, il piccolo Stato – invece – è funzionale affinché ci sia un’ effettiva libertà [ Burckhardt pensa alla polis greca ], la città – stato greca da questo punto di vista – nota B. – era più avanzata rispetto alle moderne monarchie.

Premettendo come le monarchie universali siano le forme più ingenue di Stato [ non hanno una solida struttura interna ], e si possano condurre guerre in anticipo per “ evitare “ possibili scontri futuri, Burckhardt sottolinea in maniera inequivocabile come non sussista nessun tipo di assoluzione morale per il predatore e un bene “ che segue non scusa un male precedente “.

Nonostante le più grandi catastrofi, l’ umanità deve sapere andare avanti e ricostruire dalle macerie proprio perché lo spirito umano è mutevole ma non caduto, e il saper spostare il centro di gravità risulta l’ unica maniera per far fronte “ alle cose più terribili “.

 

“ L’ effettivo amalgama di ciò che è stato depredato non rappresenta però una assoluzione morale del predatore, come in generale un bene che segue non scusa un male precedente. [ B, 6 ] Anche dopo le cose più terribili accadute l’ umanità si deve di nuovo adattare, raccogliere le forze sane rimaste e continuare a costruire. “. J. Burckhardt,  Sullo studio della storia, Delle tre potenze.

 

Burckhardt si scaglia duramente contro la prospettiva hegeliana seconda la quale vi sia una grande e indiretta giustificazione interna alla storia, è impossibile “ cogliere la rosa nella croce “.

L’ opinione dei più sul fatto che si possano civilizzare le barbarie è da rigettare in quanto da un lato l’ Occidente non ha una missione storico – universale e dall’ altro “ non è ammesso che i mezzi usati per assoggettare e domare coloro che fino allora erano barbari siano ancora più barbarici “.

Lo Stato sorge nella misura in cui gli egoismi individuali si intrecciano e trovano in esso fondamento, “ la cosa più alta lo Stato giunge è poi il senso del dovere dei migliori, il patriottismo in entrambe le sue gradazioni “ , nel popolo tale patriottismo si manifesta come virtù ed odio verso la diversità, negli individui colti come esigenza di pervenire all’ universale.

Lo Stato [  “ istituto d’ emergenza “ scrive Burckhardt ] inteso come “ Stendardo del diritto e del bene “ differente dal “ faro della moralità “ non può avere nessun tipo di funzione etica, la sua massima aspirazione coincide nel reggere il diritto convenzionale e nel difendere – ponendosi al di sopra delle parti – le diversità religiose, metafisiche e le differenti “ concezioni della vita civile “.

La religione è la seconda potenza [ statica ] presa in considerazione da Burckhardt, è definita “ l’ espressione dell’ eterna e indistruttibile esigenza metafisica della natura umana “; le religioni “ irradiano “ l’ esistenza di un intero popolo o epoca, ma questa impronta è soggetta al processo cangiante del flusso temporale.

Non si può scorgere un inizio per il fenomeno religioso, e quest’ ultimo non è presente tra i popoli selvaggi o semiselvaggi dato che la “ paura “ eterna non potrà mai essere fondamento.

A differenza di quanto pensava Burckhardt, l’ antropologia del 900’ ha mostrato come le religioni primitive si fondassero sulla paura; Nietzsche ne “ La nascita della tragedia “ scrisse che gli dei greci non erano altro riproposizione “ divinizzate “ dei pregi e dei difetti umani.

Alla base della religione – secondo Burckhardt – vi sarebbe un singolo individuo [ prodotta da “ un uomo normale “ ] che lega il suo nome e la sua esistenza ad un accadimento mistico, è interessante notare come l’ insigne studioso evidenzi in maniera radicale la differenza che separa la religione monoteista da quella politeista, quest’ ultima può essere pensata come la fusione di culti preesistenti.

È interessante notare come per Schleiermacher le grandi religioni nascano da individui geniali che hanno saputo far vibrare l'essenza spirituale della moltitudine, la loro intuizione si compie nella singolarità dell'esistenza, ma nello stesso si propone come universale. Ogni religione ha una uguale dignità e valore, nonostante ciò il filosofo tedesco parlerà del cristianesimo come: << la religione delle religioni >>: le varie religioni sono viste come tentativi di giungere all'infinito.

Burckhardt riprendendo Lasaulx compie una distinzione triadica di primaria importanza: in primis il binomio “ panteismo orientale – politeismo greco “, in secundis “ monoteismo ebraico – islamismo “ ed infine “ la dottrina trinitaria cristiana “ che si pone in una dimensione superiore rispetto alle altre religioni, proprio per il suo incontro tra l’ immanenza e la trascendenza.

Dopo questo schema distintivo delle varie religioni Burckhardt ne introduce un altro in base al problema dell’ al di là, del modo di concepirlo e viverlo: in primis le religioni che hanno l’ idea di un al di là remunerativo ed una forte base escatologica, in secundis religioni come quella greca dove l’ al di là è “ sbiadito “ ed è marcato l’ orizzonte terrestre, subito dopo quelle costituite sulla metempsicosi e sull’ eternità del mondo [ di forte sapore filosofico ], infine “ la gran fede degli Indiani “ basata tramite l’ azione del Buddha sul tentativo di pervenire al Nirvana.

“ Il maggiore o minore sviluppo dell’ al di là “ è dovuto in linea di massima al grado di estensione del potere sacerdotale, in quanto quest’ ultimo dispone “ del collegamento con l’ oltretomba “ .

Le religioni dell’ al di là sono quelle fornite di una forte base dogmatica e “ di personalità piene di zelo “ che infiammano le masse e mettono tutto sottosopra.

Burckhardt opera un’ ulteriore distinzione tra le religioni nazionali.

Quelle universali sono le più antiche e risultano essere imbevute di ricordi, cultura e storia “ dei popoli rispettivi “, “ nutrono una speranza universale “ ma nello stesso tempo sono talmente rafforzate internamente da divenire “ isolate esternamente “ mostrando dopo una breve apertura tollerante ad altre divinità, un comportamento colmo di disprezzo.

Il buddismo, il cristianesimo e l’ Islam rientrano nella categorie delle “ religioni universali “ [ portano alle maggiori crisi ] e trovano il loro migliore appiglio nella dimensione sociale, propongono l’ abolizione della caste in favore dei poveri e degli schiavi [ solo l’ Islam “ è una religione di conquistatori “ ] e prescindono da una lingua sacra dando la possibilità di tradurre  le scritture [ l’ Islam mantiene il suo Corano in arabo ].

Le religioni  delle civiltà superiori poggiano in relazione “ agli strati sociali “ su tre stadi principali: la fede inizialmente originaria è ingenua, poi diviene tradizione ed infine “ fa appello alla propria antichità “ e si lega con le memorie nazionali.

La condizione di esaltazione in cui nasce una religione [ di cui noi ne abbiamo pochissime conoscenze ] è fondamentale per le istituzioni, il sacerdozio, il suo colore ed i miti.

Può succedere anche che una religione s’ intrecci in maniera stretta “ a una situazione pubblica “ costruendo un rapporto politico con lo Stato, e facendo sì che lo spirito si ritragga e le sue possibile produzioni siano viste come eresie e quindi perseguitate.

Burckhardt scorge nell’ eresia l’ incapacità della religione dominante a corrispondere “ all’ esigenza metafisica che a suo tempo l’ aveva creata “.

Gli Stati di dimensioni ridotte dove il sacro si manifesta nella vita civile le eresie possono essere tenute più lontane a differenza “ degli imperi mondiali “.

Nonostante tutte le religioni abbiano la pretesa di universalità, nascondono un elemento umano tale da permettere e legittimare questa pretesa.

L’ atrocità delle guerre di religione aumentano se la religione si intreccia alla nazionalità, se si fonde con la morale ed accentua il problema dell’ al di là; più i popoli sono civili e maggiori sono i mezzi di offesa e difesa.

Le persecuzioni sono funzionalità a sbarazzarsi di un empio che potrebbe portare con il suo agire un intero popolo alla sofferenza sotto la punizione divina.

Le religioni universali sono molto radicali nel debellare l’ esistenza di una metafisica difforme alla loro, l’ Islam non si preoccupa di fare proselitismi ma nello stesso tempo “ distrugge con i maltrattamenti ed il disprezzo “ i popoli conquistati, il cristianesimo invece fa ricorso al braccio secolare.

Le guerre di religione possono avvenire solo tra religioni monoteiste, la guerra dei Persiani contro i Greci è spiegabile mediante ragioni di matrice economica; la religione monoteista si avvale del braccio secolare, del potere statale che nello stesso tempo può farla giungere al capolinea dato che una manifestazione religiosa non può auto – dissolversi per motivi interni [ qui Burckhardt si sbaglia ].

Il martire che sopravvive ai tormenti ed alle pene, diviene a sua volta – scrive Burckhardt – persecutore [ sia all’ interno della religione che non ], il cristianesimo che un tempo rappresentò la vittoria della coscienza sulla violenza ora “ opera sulle coscienza con il fuoco e la spada “, la Chiesa “ adesso “ lascia la martire la scelta tra il “ suo dogma “ e il rogo.

In questo modo si viene a creare un’ opposizione radicale tra l’ ignoranza delle masse, la dannazione eterna e la fede “ di per sé evidente “ giustificatrice delle possibile ed eventuali persecuzioni contro “ una dottrina errata “ in nome della salvezza meta – terrena.

La Chiesa mediante un’ educazione coercitiva, le persecuzioni e l’ alleanza con il braccio secolare finisce con il diventare:” un’ istituzione di polizia e i suoi gerarchi ne assumono il sentore “.

Dopo i “ riformatori “ i movimenti spirituali del XVIII produssero “ una battuta d’ arresto nelle persecuzioni “, in quanto da un lato era sorta una nuova concezione dello Stato e dall’ altro la “ tolleranza “ era divenuta una sorta di religiosità; la stessa filosofia dell’ Illuminismo ebbe i suoi martiri e fervidi sostenitori.

L’ Illuminismo inteso come processo di demistificazione del sacro finisce per assumere una veste “ religiosa “ come scrive lo stesso Burckhardt, proprio in questo punto possiamo scorgere un parallelismo davvero interessante con la posizione hegeliana.

Hegel ne “ La fenomenologia dello spirito “ scrive: “ [ La diffusione della pura intellezione. ] – Essa sa la fede come ciò che è opposto a lei, alla ragione e alla verità. Come a lei la fede è in genere un tessuto di superstizioni, di pregiudizi e di errori, così a lei la coscienza di questo contenuto continua a organizzare in un regno dell’ errore, dove la falsa intellezione è una volta immediatamente, ingenuamente e senza riflessione in se stessa la massa generale della coscienza; ma ha anche il lei il momento della riflessione in se stessa, ossia il momento dell’ autocoscienza, separato da quell’ ingenuità; lo ha come una intellezione che resta per sé nello sfondo e come una cattiva intenzione, onde quel momento viene perturbato. Quella massa è la vittima dell’ inganno di un clero che mette in pratica la propria invidiosa vanità di restar solo in possesso dell’ intellezione, nonché il suo tradizionale egoismo; e che in pari tempo congiura con il dispotismo, il quale come l’ unità sintetica priva di concetto del regno reale e di quello ideale, - un’ essenza come raramente se ne vedono di così inconseguenti, - sta sopra la cattiva intellezione della folla e sopra la cattiva intenzione dei preti; il dispotismo, unificando in sé le due cose, entrambe disprezzando per la confusione e l’ ottusità ingenerate nel popolo dal clero ingannatore, ne ricava il vantaggio del quieto dominio e dell’ appagamento delle sue voglie e del suo arbitrio, pur essendo anche, il dispotismo, quella medesima ottusità dell’ intellezione, un identico pregiudizio, e un identico errore. “

Il tramonto di una religione non può avvenire solo mediante una dissoluzione interna intesa come crisi spirituale, ha bensì bisogno della “ violenza dello Stato “, senza il braccio secolare la Riforma luterana non avrebbe potuto attuarsi.

Il progresso scientifico è possibile dal distaccamento della cultura rispetto alla religione, la miseria culturale del mondo islamico è legata alla mancanza di una prospettiva storica ed una vision totalmente fatalista.

La cultura è intesa da Burckhardt come l’ insieme “ degli sviluppi spirituali che avvengono spontaneamente e che non rivendicano nessuna validità coercitiva universale “, diviene critica solo quando non è asservita allo Stato ed alla religione, si tratta di un processo che porta il pensiero ingenuo umano a divenire “ capacità riflessiva “, scienza ed in ultima analisi filosofia.

La cultura è scandita da fasi di fioritura, di caduta e trapasso, vi sono poliedrici elementi che continuano “ a sopravvivere inconsapevolmente come acquisizioni “ nel dna dell’ umanità.

In questo punto la prospettiva burckhardtiana è molto vicina a quella che avevano gli hegeliani di Sinistra, prima di continuare l’ analisi su Burckhardt, soffermiamoci brevemente sul rapporto Destra e Sinistra hegeliana.

L’ interpretazione del rapporto tra la religione e la filosofia nel sistema hegeliano da parte degli studiosi, divenne l’ origine della frattura tra Destra e Sinistra hegeliana; la prima avendo una visione conservatrice vide una piena identità qualitativa, la seconda considerava la religione come una sorta di narrazione mitologica irrimediabilmente inferiore alla filosofia.

Tra la Destra e la Sinistra, sussisteva un’ evidente linea di demarcazione riguardo l’interpretazione politica del pensiero hegeliano; la fazione conservatrice si auto rappresentò concettualmente nell’ espressione “ tutto ciò che è reale, è razionale “, la Sinistra, decisamente più progressista trovò il suo manifesto in “ tutto ciò che è razionale, è reale “.

È necessario sottolineare come l’ identità – tanto discussa e contestata – tra reale e razionale, si compia sul piano dell’ idealità: la razionalità nel suo moto processuale incontra l’ accidentale, ergo la coincidenza deve essere analizzata sul piano dell’ idealità, per far ciò bisogna sapere cogliere la rosa nella croce, rileggere il finito come manifestazione dell’ infinito.

L’ intento del pensatore tedesco era quello di mostrare come la razionalità non fosse qualcosa al di fuori della natura e della storia, bensì fosse reale perché concretamente realizzatasi.

La cultura – in Burckhardt - ha il suo campo d’ azione nella società e si manifesta tramite la libertà [ possiamo intravedere come qui il Nostro autore stia navigando per il mare schilleriano ], Burckhardt sottolinea in maniera inequivocabile come l’ importanza della lingua e della scrittura: la lingua è il materiale più durevole che un popolo ha per ricostruire la sua storia, finché la tradizione è solo orale la cultura non può iniziare, la concretizzazione scritturale della lingua nella poesia e nella letteratura porta all’ esegesi della cultura.

La lingua diviene la più autentica manifestazione dello spirito che riveste “ di parole il pensiero “ , ciò si può cogliere nelle parole “ dei grandi letterati e pensatori “.

Quando inizialmente compare la lingua è più ricca, solo quando comincia a sfiorire fa la sua comparsa la cultura intellettuale “ con i suoi capolavori “.

Nell’ individuo non opera solamente un unico aspetto, bensì numerosi fattori, anche se alcuni “ sono più deboli e inconsapevoli “.

Le arti sono un autentico fenomeno straordinario ancora più enigmatico della scienze; Burckhardt dice che è sbagliato considerare il bello – come fa Schiller in “ Gli artisti “ – “ punto di passaggio e come educazione al vero “.

Le scienze “ sono le grandi raccoglitrici “ e scopritrici di ciò che già esiste, la filosofia invece cerca di penetrare “ le leggi supreme “ della realtà che sussiste anche prima dell’ indagine scientifica e della speculazione filosofica.

Le arti che poggiano su “ misteriose vibrazioni che si impadroniscono dell’ animo “, si differenziano dalle scienze perché non devono scoprire leggi, bensì hanno il compito di “ rappresentare una vita più elevata “, sganciata dal piano dell’ individuale e capace di pervenire all’ “ imperituro “.

L’ arte e la letteratura “ raccolgono “ dal mondo, dalla temporalità e dalla dimensione naturale, “ immagini intelligibili e universali “ ed hanno in sé quanto basta per “ entusiasmare e unificare spiritualmente “ interi millenni successivi.

L’ architettura è la suprema manifestazione dell’ arte rivelandone la sua essenza proprio perché è libera dalle intenzioni secondarie che la materia introduce.

L’ arte – scrive Burckhardt – ha avuto una funzione religiosa di primaria importanza, anche se in alcuni casi l’ esigenza metafisica insita nel fenomeno religioso non “ promuoveva lo sviluppo delle arti “ o addirittura le soffocava.

È da rifiutare ogni tentativo di “ inchiodare “ l’ arte a meri dati di fatto o a pensieri, questo processo risulterebbe notevolmente deleterio, inoltre la letteratura è la forma d’ arte maggiormente educativa dato che non si limita a raccontare l’ accadere degli eventi, bensì crea realtà ex novo, ponendosi in antitesi e come completamento della ricerca filosofica.

Nella storia della cultura acquistano una funzione vitale il commercio ed i contatti tra i vari popoli; ad Atene e Firenze – dove vige il pregiudizio secondo il quale “ è tutto possibile “ – si generano individui “ notevoli “ , di genio.

Burckhardt scaglia le sue critiche contro le medie e grandi città della modernità dove compaiono solo occasioni di istruzione, tali realtà si differenziano in maniera radicale da oasi culturali quali Atene e Firenze.

La società è una condizione primaria di ogni cultura superiore, quando la cultura appartiene ad una casta ristretta – come nel caso degli Egiziani – per quanto possa essere alta, produce stagnazione “ e ristrettezza verso l’ esterno “.

Solo mediante una vera “ socialità “ dove le attività spiritualmente più elevate si fondono le quelle più umili, si viene a costituire “ un forum “ per le arti.

Lo sviluppo della moralità consiste: in primis nella poliedricità e ricchezza della cultura, ed in secundis nell’ asservimento dell’ individuo ad un forte potere statale.

La moralità concepita come forza esiste in maniera similare in tutte le epoche, dalle più rozze alle più civilizzate, in quanto c’è sempre stato chi ha sacrificato la sua vita per quella di un altro.

Con Rousseau la moralità superiore è uno stadio passato, il cristianesimo invece si pone come apportatore di salvezza, ma solo “ per i suoi seguaci “.

Nel XIX secolo lo studioso ha un notevole vantaggio per il tentativo di comprendere gli eventi passati ed attuali oggettivamente, ma soprattutto per una letteratura cosmopolita, inoltre la Chiesa e lo Stato non sono più repressivi come un tempo.

Burckhardt sostiene che sia esiguo il vantaggio che “ traggono dalla cultura coloro che vivono del proprio lavoro”, il soggetto civile immerso in mille impegni deve rinunciare alla sua pretesa di conoscere molte cose in poco tempo, tali individui sono rappresentanti in massima parte dagli americani, che una volta abbandonato il “ fondamento storico “ scorgono nell’ arte e nella letteratura un mero “ lusso “.

Riprendendo Schopenhauer – la poesia – permette di conoscere l’ essenza dell’ umanità meglio che la storia, ma nello stesso tempo quest’ ultima trova nell’ attività poetica “ una delle sue fonti più valide “.

La poesia quindi ha un funzione illuminante per ogni epoca storica, essendo ciò che di eterno si salva dall’ oblio del tempo proprio perché può proiettare “ grandiosi chiarimenti sui tempi “, inoltre un’ altra funzione di importanza vitale consiste nella capacità di porsi come “ organo della religione “.

Tra arte e religione sussiste una connessione complessa e problematica, Burckhardt vi scorge una rapporto dialettico [ le cinque arti avrebbe origine dal culto ].

Il fine dell’ arte consiste nel far nascere le grandi individualità, ad Atene e a Firenze proprio le grandi individualità producevano la suprema arte, i moderni non possono sperare nel ritorno della grandezza culturale artistica dell’ antica Atene e di Firenze, in quanto ciò che domina i sentieri della modernità non è solo hegelianamente la conversione dal cielo alla terra, ma un negativo spirito di mediocrità.

La poesia è stata – secondo Burckhardt – l’ unica forma comunicativa, nell’ antichità il viatico privilegiato dell’ etica e della religione, o la rivelazione del “ degno “ e magnifico “ per ogni epoca, dall’ epos inteso come manifestazione della “ vita nazionale “ fino alle forme moderne.

Se nel passato era la materia a scegliere il poeta, ora il poeta sceglie la materia, questa transizione ne accompagna un’ altra, il passaggio di una poesia come specchio della dimensione oggettiva e nazionale, ad una poesia che svela l’ interiorità del singolo contrapposta allo spirito del tempo.

Il romanzo moderno realista [ “ sbocco dell’ epica “ ] è l’ unica forma che permette alla poesia “ di avvicinarsi a quella grande massa di lettore che essa desidera avere “, il dramma invece, sia per materia e spirito, è una manifestazione grandiosa di un popolo [ frutto anche di fattori esterni e contingenti ] e una disposizione profonda nell’ uomo.

Burckhardt analizza i vari tipi di dramma, quello cinese non riesce a superare “ il realismo borghese “, il dramma indiano ha uno sviluppo minore causato da una visione fatalista e dalla mancanza di una forte personalità che vi si sappia opporre, infine quello attico oltre a detenere un’ importanza sociale e “ gettare luce sull’ esistenza “ greca, trova nella figura di Dioniso la sua massima espressione.

Il teatro spagnolo a differenza di quello inglese relegato tra la Corte e Londra, assume un forte carattere nazionale e diviene “ l’ esatto pendant “ di quello greco, nel XIX secolo il teatro è un luogo di distrazione per gli oziosi e per coloro che sono affaticati dal lavoro, venendo a perdere raffinatezza ed inserito nella categoria dell’ “ affare “.

La storia si esprime nell’ arte attraverso l’ architettura monumentale, nella scultura e nella pittura si manifesta principalmente la religione, Burckhardt intravede una transizione paradigmatica dal sacro al profano, con la delineazione di diverse concezioni artistiche.

In “ La considerazione dei sei condizionamenti “ Burckhardt accenna ad una dialettica del condizionamento e dell’ essere condizionato, dicendo che la storia è la meno scientifica delle discipline, e se la logica ha bisogno di “ definizioni concettuali nette “, la storia ha a che fare con concetti “ aperti e fluidi “.

A differenza della filosofia della storia che si interessa dei contrasti tra le varie epoche e popoli, occorre prendere in considerazione ciò che è identico o nutre delle affinità.

Lo schema che Burckhardt introduce una griglia riassuntiva che contiene quella dialettica a cui abbiamo accennato poc’ anzi.

 

-         la cultura condizionata dallo Stato;

 

Prescindendo dal problema dell’ origine dello Stato e della cultura, Burckhardt dice di voler interessarti esclusivamente agli Stati civili, tralasciando i nomadi e quegli Stati dotati di una semicultura come i Celti.

L’ Egitto rappresenta senza dubbio il modello principale da cui partire, dove lo Stato può sfoggiare un diritto divino ed assoluto consentito dalla sfera religiosa, e la cultura come sapere e pensiero è relegato alla casta dei sacerdoti.

Proprio in questo ambito è negata l’ individualità e tale negazione fa scaturire una cultura elevata che porta ad un consistente miglioramento tecnico – manuale [ il lavoro si tramanda di padre in figlio ] e spiritualmente compare una situazione di stagnazione evidente.

Dalle monarchie universali e dai dispotismi orientali si passa alla libertà della polis greca, dove la professione è indipendente dalla nascita, e si compie una compenetrazione bipolare del singolo nella polis e della polis nel singolo.

Sparta a differenza del modello della città – Stato rappresenta un caso a sé, inoltre Burckhardt mostra come l’ arte e la scienza fioriscano paradossalmente meglio sotto “ tirannidi stabili “ che non sotto la libertà.

Roma “ salvò “ tutte le civiltà del mondo antico, la sua grande fortuna fu il suo filellenismo, che le permise di avere una continuità spirituale.

L’ interesse governativo fece sì che vi furono varie religioni in una “ libera tolleranza “, l’ arte fu apprezzata nella misura in cui poteva celebrare la grandezza statale.

Il Medioevo come trapasso dell’ Impero romano d’ Occidente pose le basi per la creazione di una nuova forma vitale fondata su due caste, quella del clero e della nobiltà; oltre a ciò va aggiunto la comparsa della figura del cittadino, che presto diventerà rappresentante delle varie branche culturali.

Con il tramonto e la decadenza del clero e della nobiltà, sorsero le realtà comunali detentrici di una culturale universale e lo Stato moderno “ accentratore e moderno “ [ restrittivo per la cultura ] ad opera di Federico II nell’ Italia meridionale.

Solo con Luigi XIV si giunse “ alla perfetta realizzazione dello Stato moderno “, dotato di un potere coercitivo e forte capace di controllare ogni sorta di produzione culturale contro la libertà politica ed intellettuale.

Questo Stato sintesi del diritto romano, delle idee del Rinascimento e stretto alleato della Chiesa, fu imitato “ il più possibile “, e divenne un organismo di potere “ in sé e per sé “, non curante dell’ industria e nichilizzante nei confronti di alcune classi avendo un atteggiamento discriminante e repressivo.

L’ arte e la letteratura e “ perfino la filosofia “ diventano servizievoli e “ monumentali “, inchinandosi dinanzi ai fatti e vestendo i panni cortigiani, contemporaneamente la Corte diviene il modello di gusto e di stile da imporre “ per l’ intera vita sociale “.

Dopo aver parlato dello Stato di Luigi XIV, Burckhardt passa ad analizzare da un lato il tentativo della cultura di rivestire lo Stato stesso di una funzione morale e dall’ altro lo statalismo basato sulla tradizione, a conclusione di ciò l’ insigne storico mostrerà come il potere sia di per se stesso malvagio indipendentemente da chi lo eserciti.

 

-         lo Stato condizionato dalla cultura;

 

Lo Stato non è una creazione o un riflesso della cultura di un popolo, nelle città fenicie la forma monarchica o repubblicana sorge con un intento culturale e si basa su una conoscenza cosmopolita ed un grande edonismo.

Nelle colonie greche la cultura, il commercio e l’ artigiano sono elementi fondamentali [ basti pensare alla comparse della filosofia ] e l’ affermazione della democrazia è la manifestazione della sopraffazione della cultura sullo Stato.

Atene e Firenze sono focolai culturali e centri di scambio spirituale, Roma in quanto Stato è stata superiore alla cultura che ha prodotto; giunti a C. Magno lo Stato non è più condizionato dalla cultura, quest’ ultima è un terzo elemento.

Nel Feudalesimo il mondo è diviso in corporazioni e caste, nello stesso tempo si fa avanti a stento e a fatica la figura del borghese, il nobile invece “ per la sua dignità cavalleresca “ si sottrae del tutto dallo Stato, la cultura è di tipo parziale.

Solo nel XVIII ha inizio la cultura moderna, lo Stato cade sotto il dominio della riflessione e dell’ astrazione filosofica, il commercio e le prime formi “ industriali “ prendono piede facendo diventare da questo punti di vista l’ Inghilterra un modello supremo.

Le idee della Rivoluzione francese incarnate dai “ philosophes “ hanno avuto un forte impatto sociale e politico che si protrarrà a lungo, si viene ad affermare un commercio che permette allo Stato di detenere una posizione egemonica sulla cultura, tanto da far assumere al commercio ed al guadagno una funzione primaria mentre i confini tra la cultura e lo Stato sono ridefiniti da quest’ ultimo.

 

-         la cultura condizionata dalla religione;

 

La religione corrisponde all’ esigenza metafisica dell’ uomo, la cultura ad esigenze pratico – spirituali, quando una religione è potente colora ogni elemento della cultura, se agisse in assoluta libertà finirebbe con l’ asservire sia lo Stato che la cultura stessa [ come avviene negli Stati fondati sul diritto sacro ].

Il cristianesimo non solo compenetrò la cultura ma la soppianto tanto da subentrare ad ogni letteratura, i gerarchi della Chiesa divennero personaggi potentissimi, in Islam dove si ha una fusione religiosa – statale, l’ organizzazione dispotica è ancora più dannosa della contemplazione e dall’ ascesi cristiana per la cultura.

Burckhardt descrive in maniera molto acuta i tratti caratterizzanti dell’ Islam: l’ odio per l’ epica si lega ad un privilegiamento della lingua e della grammatica sul contenuto connesso ad un studio insufficiente relativo alle scienze naturali e storiche. Una forma radicale di fatalismo si unisce ad uno sviluppo dell’ architettura ed una totale inesistenza della scultura e della pittura.

Una religione imprime nello spirito di un popolo un solco profondo e decisivo, le religioni classiche non divederono grandi intralci alla cultura, Burckhardt scrive a proposito di ciò: “ Il mondo degli dei e degli eroi greci come riflesso ideale del mondo umano con modelli divini ed eroici per ogni aspirazione nobile e per ogni godimento. Il dio del fuoco divenne un fabbro sapiente, la dea della guerra e del fulmine la protettrice di ogni cultura e di ogni arte nonché degli uomini dal chiaro e razionale intelletto, il dio delle greggi il signore delle vie, di tutti i messaggeri e di qualunque commercio “.

I romani divinizzarono qualsiasi attività terrena, la religione finì per diventare “ mantica e magia “ e dovette soccombere al cristianesimo “ incalzante “.

Le arti hanno trascorso gran parte del periodo della loro giovinezza al “ servizio della religione “, la cultura imbevuta di manifestazioni religiose fece “ maturare nelle arti la coscienza di leggi superiori “, imponendo all’ artista lo stile [ l’ uniformità ha un valore enorme per la formazione di stili ].

Lo stile egiziano si dovette arrestare ad un certo punto senza riuscire a compiere ulteriori passi verso l ‘ individualità, a Bisanzio fu lecito unidimensionalmente il “ sacro “, i Greci superarono lo stile ieratico per glorificare l’ individuale ed il “ momentaneo “.

L’ arte figurativa – nota Burckhardt – restò più a lungo legata al servizio della religione rispetto alla poesia, l’ architettura ebbe il destino di divenire la massima ancella espressiva della “ religio “, alla scultura ed alla pittura spettò di realizzare un ciclo di figure comprensibili ed omogenee.

Infine, Burckhardt conclude dicendo che la religione ha offerto nel corso dei secoli una vasta gamma di sentimenti: “ Certamente, ciò che la musica crea all’ interno di questa sfera può, nella sua vaga determinatezza, sopravvivere a lungo alla religione medesima “.

 

-         la religione condizionata dalla cultura;

 

Burckhardt apre questa sezione dicendo che la religione può nascere dalla deificazione della cultura e che quest’ ultima può divenire critica alla religione, si tratta della dialettica di due fenomeni interconnessi ma diversi.

Nelle religioni politeistiche la natura in primis ed i vari rami della cultura in secundis sono divinizzati, senza portare dissidio tra la cultura e la religione; anche nel cristianesimo i santi protettori e soccorritori sono “ semplici reminiscenze dell’ antica divinizzazione della cultura “.

Le modificazioni avvenute nella Chiesa sono causate dall’ ingresso di vari popoli, quali i greci, i romani, i germani ed i celti, proprio perché l’ individuo non può prescindere del tutto dalla cultura del suo tempo.

Oggi la morale si colloca in maniera autonoma rispetto alla religione, da questa separazione – scrive Burckhardt – scaturisce il filantropismo moderno, un tempo ciò non avveniva, il cristianesimo produsse una sua morale basata sulla voce interiore della coscienza individuale.

La poesia e l’ arte hanno da sempre espresso l’ elemento religioso, l’ arte è “ traditrice “ nei confronti della religione nel momento in cui divulga il contenuto religioso e conduce alleanze temporanee con i fatti e le cose di questo mondo [ “ alleanze libere “ ].

Burckhardt in maniera sottile evidenzia come l’ arte si faccia “ solo stimolare “ dal compito religioso, non riducendosi a mero strumento pedagogico – educativo dei contenuti religiosi; una religione che si accorge di ciò tenta di attuare una “ restaurazione “ dell’ arte perdendo inesorabilmente il flusso della vita.

Quali sono le epoche in cui l’ arte concorre a determinare il contributo religioso, si chiede lo studioso di Basilea? Omero e Fidia crearono gli dei per l’antica Grecia, poi i cicli figurativi medioevali e gli “ autos sagramentales “.

Nella tarda Grecia e nel Rinascimento la religione vive solo come arte, proprio perché quest’ ultima “ per nessun motivo si fa cacciare dal tempio “, infine Burckhardt conclude dicendo: “ Ma le religioni si sbagliano di molto se credono che l’ arte cerchi da loro semplicemente il pane. L’ arte, nei suoi più alti e più nobili rappresentanti, non lo cerca neppure dalla cultura profana del suo tempo, anche se spesso sembra che ciò accada quando artisti abili e famosi si prestano a illustrare le letture dei filistei “.

 

 

-         lo Stato condizionato dalla religione;

 

La religione ha assunto una fondazione per lo Stato in seguito a crisi spaventose, basti pensare alla formazioni statali sul diritto sacro; gli ebrei tendono ad una “ teocrazia “ ed auspicano alla dominio del mondo tramite la loro religione, nello regno persiano Stato e religione si riuniscono rovinandosi a vicenda.

La religione nel mondo greco è pienamente sviluppata, in quello romano compaiono religioni statali e culturali, questa prospettiva si capovolge con l’ avvento del cristianesimo.

In una prima fase la Chiesa giudica l’ Impero romano solo secondo la devozione ed i propri fini, successivamente la Chiesa costringe lo Stato a fornirle il “ brachium saeculare “ dinanzi alle dottrine eretiche.

Tramite mezzi estremi consolida il suo potere nel Medioevo, iniziando un conservatorismo assoluto ed opponendo alla formazione ed emancipazione dello Stato “ forte “, in seguito ad un periodo di crisi alla Chiesa non rimane altro che allearsi con il trono per difendere i suoi molteplici.

Nonostante sia avversa al “moderno spirito politico dei popoli “, fa in modo che alcuni suoi esponenti si compromettano irrimediabilmente con tale spirito.

Nel 600’ la Chiesa afferma il diritto divino dei governanti [ Bossuet in primis ], praticando la tolleranza dove vi è costretta; nasce la Chiesa protestante in Germania e quella di Stato in Svizzera.

Per “ restaurazione “, Burckhardt intende il ripristino della religione di un nucleo statale o nazionale del passato, la grandezza consiste nello sforzo che si compie per realizzarla.

Risulta necessario separare lo Stato dalla Chiesa, la differenza religiosa non può intaccare l’ universale uguaglianza dei diritti, inoltre lo Stato è ormai mutato e quindi incapace di accompagnare la religione.

Quali sono le caratteristiche di tale Stato? In primis si basa su un sistema ugualitario, in secundis sulla presenza di due o più religioni o Chiese di Stato ed infine la cultura influenza lo Stato.

 

-         la religione condizionata dallo Stato.

 

La religiosità dei greci e dei romani è in piena correlazione con il loro mondo perfettamente laico, non avendo nessuna forma rivelativa scritturale la religione non era superiore allo Stato, Burckhardt sostiene che la mancanza di un impianto teologico forte ha permesso paradossalmente la creazione di uno “ Stato perfetto “.

Gli ebrei ed i primi cristiani edificarono la società sulla religione, l’ Oriente e gli Stati fondati sul diritto sacro sono condizionati dalla religione.

Una religione mantiene la sua idealità quando verso lo Stato ha un rapporto di sofferenza e protesta, il cristianesimo è la religione “ per quelli che soffrono “ ed ha una forte pretese si universalità [ da questo punto di vista il buddismo è similare al cristianesimo ]

Sia il cristianesimo che il buddismo risultano essere i culti meno adatti ad entrare in relazione allo Stato, il loro modo di illuminare l’ interiorità dei singoli crea una frattura con la dimensione sociale, già vista per certi versi da Hegel nei suoi studi teologici giovanili.

In “ Religione popolare e cristianesimo “  ( 1792 – 1794 ), dove popolare non sta per divulgativa, bensì  vuol dire “ religione del popolo “ ,  Hegel allude ad una religione che tenda ad identificarsi con l’identità nazionale di un popolo.

In quest’opera, Hegel affronta il problema del rapporto tra le due forme di religione richiamate dal titolo ( la religione pubblica, festiva, greco – romana, e quella interiorizzante, privata cristiana ) e la religione razionale pura, cioè quella indicata da Kant come derivante della legge morale presente in ognuno di noi e realizzatesi nel rispetto dei comandi derivanti da tale legge.

Egli attua una sorta di gerarchia: al vertice la religione kantiana, in quanto la più pura e la più immune dagli attacchi del dogmatismo, al secondo posto la religione greca dove non avviene una scissione con la società, per ultimo il cristianesimo ( religione interiorizzata e oggettiva ).

L’ideale kantiano è il più difficile da realizzare, Hegel compie un confronto dialettico tra la figura di Socrate e Cristo, e il diverso modo di porsi dinnanzi alla morte delle due religioni. Socrate, libero tra gli uomini liberi, si rivolge in maniera razionale a tutti, non limitando il numero dei discepoli proprio perché non ne ha, chiunque usi la ragione con spirito critico può dirsi suo seguace.

Nello stesso tempo, il messaggio socratico s’incarna nel sociale, non è alienante in quanto il nucleo della sua riflessione indica il porsi cosciente dell’individuo nel suo pratico e sociale operare.

Dall’ altro Gesù, si rivolge a uomini legati ad una fede molto rigida ( gli ebrei ) e fa riferimento alla fede in un Dio comune; il suo viatico etico e religioso è simbolo di un modello di virtù altissimo; nonostante ciò il suo messaggio distacca i singoli dal sociale, avviene una frattura tipica del cristianesimo tra la sfera religiosa e quella della società. Hegel preferisce il modello socratico e quindi greco, che pone l’individuo nella concretezza, facendo si che avvenga un piena identificazione tra popolo e religione. Capiamo la scelta hegeliana alla luce dei suoi studi giovanili di stampo protestante, Lutero stesso aveva mostrato come il sacerdote non sia staccato dalla società e nel medesimo tempo come ognuno abbia una funzione “ sacra “, come se vi fosse identità tra professione di lavoro e professione di fede.

Accanto a queste influenze di matrice luterana, siamo di  fronte al rifiuto hegeliano dell’astratto ( dal latino, abstrahere, tirar via ) a favore del concreto ( dal latino, concresco, crescere insieme ), essendo astratte le cose concepite separatamente le une dalle altre e concrete quelle concepite le une in relazione alle altre, Hegel preferirà la prospettiva greca dove l’uomo è al tempo stesso cittadino e religioso.

Per quanto concerne il tema della morte, il filosofo tedesco mostra la superiorità dell’atteggiamento greco rispetto a quello cristiano, nella religione greca, la morte è simbolo del godimento della vita: ” un genio bello, fratello del sonno, eternato da monumenti funebri “.

Nell’ambito cristiano la morte diviene l’emblema della sofferenza dell’uomo, gli oratori la “ dipingono con i colori più orribili “. Il testo si conclude con la sottolineatura del fatto che l’umanità è di nuovo in grado di riprendersi il “ bello della natura umana “.

Ritornando a Burckhardt occorre vedere come il cristianesimo riuscì nonostante quanto si è avuto modo di dire poc’ anzi a stringere così forti legami con lo Stato.

I cristiani costituirono una loro società gerarchica fondandosi su un’ unica dottrina ortodossa e condizionando le altre, in questo modo la religione divenne l’ elemento fondamentale.

Alla formazione della potenza esteriore è connessa una dissoluzione interiore, dato che il potere “ è malvagio in sé “, da un lato la Chiesa assunse un potere forte dall’ altro cercò il sigillo di unità mediante la violenza.

 

“ Ma quali ecatombi sono state sacrificate all’ unità, che è stata veramente una fissazione! “. J. Burckhardt, Sullo studio della storia, La considerazione dei sei condizionamenti.

 

Con la Riforma protestante avviene un cambiamento notevole, in seguito alla Controriforma, la Chiesa crea un’ alleanza con lo Stato, durante il regno di Luigi XIV il cattolicesimo diviene un “ instrumentum imperii “.

Burckhardt nota acutamente come non si tratti di una liaison [ tra lo Stato e la Chiesa ] a livello di principi bensì puramente di carattere utilitarista, di “ interessi “ economico – pragmatici.

Se con la Rivoluzione francese lo Stato influenzato dalle idee dell’ Illuminismo tiene una posizione di inimicizia contro la Chiesa, con il concordato del 1901 sancito da Napoleone la Chiesa stessa si tramuta in un’ istituzione statale.

Se in “ La considerazione dei sei condizionamenti “ Burckhardt analizzava fasi graduali e costanti “ delle grandi potenze universali “, ora egli passa a trattare “ i processi accelerati “.

La guerra rappresenta una tappa di crisi ma di sviluppo necessario per una civiltà, l’ opposizione tra due individui come tra due popoli accade assai di frequente all’ interno della storia.

 

“ Un popolo impara a conoscere realmente la sua piena energia nazionale solo in guerra, nel combattimento contro altri popoli, poiché solo allora essa è realmente presente. A questo punto quel popolo dovrà cercare di mantenere ferma questa energia. ( … ) “ J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Le crisi storiche.

 

La guerra intesa come antagonismo è “ causa di ogni divenire “, lo stesso Burckhardt cita a proposito quanto diceva Eraclito, facendo ciò permette un parallelismo con Hegel.

Il pensatore di Stoccarda dinanzi al rifiuto di ogni forma di diritto universale, vede nella guerra l’ unico modo per risolvere le contese tra gli Stati, per decidere chi abbia torto o ragione; inoltre la guerra finisce con il diventare la concretizzazione di quell’ opposizione dialettica tanto decantata da Hegel.

Nonostante Burckhardt sia come nota Loewith più rivoluzionario del primo Nietzsche, sganciandosi dal piano del pensiero teologico presente nella filosofia della storia, egli nutre un rapporto problematico e da non trascurare [ anche a livello espressivo ] sulla questione relativa alla guerra con il “ grande ciarlatano “per usare un’ espressione di schopenhaueriana memoria.

La guerra – sostiene Burckhardt – purifica l’ atmosfera “ alla pari delle bufere temporalesche “ e permette l’ espressione delle virtù eroiche che furono a fondamento degli Stati.

La pace produce una situazione di stagnazione, di “ snervamento “ dove un’ infinità di esistenze miserabili e “ angosciate “ degradano la linfa vitale della nazione e le vere energie; nella guerra è superato l’ egoismo singolo per una cooperazione funzionale all’ universale.

La guerra nei termini in cui ne parla Burckhardt è di carattere difensivo e risveglia l’ esistenza collettiva di un popolo [ è curioso notare come lo stesso Hegel avesse detto che durante la guerra si tempra l’ unità e la vitalità di un popolo all’ insegna del suo “ spirito “ ], eliminando ciò che è vecchio con nuovi elementi.

Le guerre attuali sono manifestazioni di una crisi generale ma se le prendiamo in considerazione singolarmente sono prive del significato di un’ autentica crisi: non necessariamente in ogni distruzione sono presenti i germi di un ringiovanimento futuro, né in Grecia né in Macedonia e a Roma vi furono vere crisi.

Nell’ abbandono del progetto di una storia universale superiore, l’ esistenza umana è considerata per quanto essa merita.

Le crisi autentiche sono rare, una delle condizioni fondamentali consiste nella migrazione dei popoli legata ad un sistema di comunicazione ampiamente sviluppato, nella fusione tra un vecchio ed un nuovo elemento; in una dimensione dove si è giunti alla stratificazione di Stato, religione e cultura, c’è un elemento che ha raggiunto una potenza eccessiva e soggiogherà gli altri elementi: tale esplosione investe ogni cosa con una rapidità straordinaria.

La crisi in una prima fase si presenta con toni accusatori verso il passato, ha inizio da una causa per poi essere portata avanti da più cause, ne prendono parte coloro che aspirano ad un cambiamento della situazione esistente, l’ eloquenza di alcuni conferisce alla crisi uno splendore ideale, infine nelle masse l’ odio per il passato di accompagna ad una visione ottimistica per il futuro [ Burckhardt nota come manchi totalmente la riflessione critica ].

Se da un lato è impossibile valutare il grado ed il valore di una crisi [ ciò si realizza a lungo termine ], dall’ altro la resistenza materiale è ciò “ che infiamma le crisi autentiche e paralizza quella false “.

Nel primo stadio della crisi si manifesta un fenomeno che desta meraviglia, i capi iniziali sono allontanati e prendono il potere altri individui, questo avviene per varie ragioni.

Nei momenti di crisi è facile riscontrare passaggi dalla sfrenatezza all’ abbondanza [ e viceversa ] e lo sviluppo della miseria e della cupidigia; quando due crisi si incontrano la più forte si nutre ai danni dell’ altra.

Burckhardt proseguendo afferma come il terrorismo sia deleterio e compromettente per la crisi: “ L’ origine del terrorismo, che suole addurre la ben nota scusa della minaccia esterna, mentre esso scaturisce da un furore esasperato fino all’ estremo contro i nemici interni in parte inafferrabili, come del resto dal bisogno di un facile mezzo di governo, nonché dalla consapevolezza crescente di essere in minoranza “.

Nelle Repubbliche greche e rinascimentali, l’ annientamento dell’ avversario si presenta come l’ unico mezzo di salvezza, “ con la biscia muore il veleno “; quando la crisi nutre un’ influenza sui popoli di uno stesso ceppo culturale si comincia a spegnere dove si è originata, ciò accade per gli enormi eccessi perpetrati, l’ indifferenza delle masse, inoltre il risveglio della violenza elimina il contenuto ideale facendo scomparire i più forti trasformando i rappresentanti in superstiti della crisi.

Premesso che la crisi non debba cadere nella mani di uno straniero, fanno la loro comparsa individui “ freddi e risoluti “ che approfittano degli eventi per arricchirsi facendo soccombere gli alfieri dei veri ideali, i “ nuovi proprietari “ dotati di ciniche capacità calcolatrici si servono della crisi fino a quando non hanno al sicuro i loro guadagni.

Il colpo di Stato è l’ eliminazione di una rappresentanza statale mediante un potere militare e nello stesso tempo il militarismo assume una funzione fondante e forgiante per lo Stato.

Il despota non può e non deve concedere una costituzione libera, in quanto sarebbe surclassato da un altro, egli porta ricchezza materiale ma il suo potere interno non presenta nessuna garanzia di solidità e stabilità.

I “ fuoriusciti “ che ritornando dopo le crisi sono un elemento destabilizzante proprio perché si vanno a scontrare con il “ privilegium juventutis “: “ Proprio mentre si cerca di rimettere in piedi alcuni frammenti e principi del passato, si devono fare i conti con la “ nuova generazione “ cresciuta durante la crisi (… ) “

Burckhardt sostiene la felice possibilità che i fuoriusciti non ritornino mai accettando la loro sofferenza ed il loro destino dato che la nuova generazione non si ravvedrà mai.

 

“ Talvolta sopraggiunge poi un filosofo con un’ utopia che stabilisce come e con quali norme un popolo debba o avrebbe dovuto essere organizzato fin dall’ inizio per non subire nessun imbroglio democratico, nessuna guerra del Peloponneso, nessun nuovo intervento persiano. Ad esempio la Repubblica di Platone, la dottrina per evitare le crisi, ma a prezzo di quale privazione della libertà! E certo bisognerebbe ancora chiedersi quanto si debba attendere perché scoppi una rivoluzione perfino nelle Utopie. Nello Stato platonico lo scoppio di una rivoluzione non sarebbe poi tanto difficile: non appena i suoi filosofi attaccassero briga tra loro, gli altri ceti fino allora oppressi si ribellerebbero spontaneamente. Eppure in altri casi l’ utopista si è presentato già molto prima e ha aiutato ad accendere il fuoco: Rousseau, Le contrat social. “ J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Le crisi storiche.

 

La passione autentica mira a creare qualcosa di nuovo, in un turbinio di energie le manifestazioni di fanatismo sono da considerare come indizi di vitalità, le grandi crisi eliminano gli organismi parassiti che conducono un’ esistenza mediocre facendo emergere “ individualità fresche e potenti “.

L’ “ atmosfera frizzante “ della crisi vivifica le grandi individualità artistiche ed intellettuali, nei tempi di tranquillità assoluta l’ agio intorpidisce lo spirito creativo e la sua grandezza.

 

“ Al contrario, in tempi di tranquillità assoluta, la vita privata con i suoi interessi e i suoi agi circuisce lo spirito creatore e lo priva della grandezza. Primeggiano i semplici talenti, riconoscibili dal fatto che l’ arte e la letteratura servono tra loro come ambiti speculativi, come mezzi per attrarre l’ attenzione. Essi non hanno alcune difficoltà a sfruttare la loro abilità, giacché non li ostacola l’ esuberanza del genio. E molto spesso non si tratta neppure di talento.

La grande originalità, qui soffocata e soprafatta, deve attendere tempi burrascosi quando da sé tutti i contratti editoriali, inclusi i paragrafi sulla ristampa. “J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Le crisi storiche.

 

Burckhardt si sposta ad analizzare “ l’ origine e la natura della crisi attuale “, mostrando come le idee della Rivoluzione francese non siano state cancellate dalla Restaurazione fondata sul principio di “ legittimità “, lo Stato non può rinunciare a certo esiti raggiunti con l’ evento di fine secolo in Francia, basti pensare all’ estensione del suo potere.

I processi di industrializzazione portano verso una forma di assolutizzazione dell’ importanza del guadagno e del profitto, mercificando l’ arte e la letteratura mediante un’ intensificazione delle comunicazioni [ “ pubblicità e propaganda sensazionalista “ ], inoltre dal “ 1840 si assiste allo sviluppo delle “ teorie socialiste “ e “ comuniste “, che in parte derivavano dalle condizioni delle grandi città industriali francesi e inglesi e adesso erano elaborate fino a diventare compiute costruzioni sociali (… ) “.

 

“ La concezione “ di colui che guadagna “: da un lato lo Stato dovrebbe essere il protettore e il garante dei suoi interessi e del suo modo di pensare, che ovviamente sono ormai considerati come lo scopo principale del mondo. “J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Le crisi storiche.

 

Più avanti Burckhardt scrive:

 

“ La produzione spirituale nell’ arte e nella scienza deve durare una grande fatica per non degradarsi a livello di un puro e semplice ramo dell’ attività affaristica delle grandi città, per mantenersi indipendente dalla pubblicità e dalla propaganda sensazionalista, per non essere trascinata nell’ inquietudine generale. I legami dell’ arte e della scienza con la stampa quotidiana, con il traffico cosmopolita, con le esposizioni universali; l’ esaurimento dell’ aspetto locale con i suoi vantaggi e svantaggi; il forte declino dello stesso elemento nazionale. “ J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Le crisi storiche.

 

Con l’ avvento del socialismo e del comunismo si fa avanti la massa, quella massa intesa esistenzialmente come folla contrapposta al “ Singolo “ kierkegaardiano, Burckhardt non si risparmi di lanciare i suoi darsi velenosi:

 

“ Le masse vogliono tranquillità e guadagno e se la repubblica o la monarchia possono garantir loro tutto ciò, esse staranno indifferentemente con una delle due, altrimenti i popoli, senza troppo riflettere, favoriranno la prima forma statale che prometta loro vantaggi “.J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Le crisi storiche.

 

Per concludere sorge uno scontro  dialettico e dinamico tra l’ ottimismo culturale della concezione del mondo scaturita dalla Rivoluzione francese e la Chiesa cattolica alfiere di un pessimismo, la decisione tra queste due alternativa sarà affidato all’ interiorità dell’ umanità.

Si tratta ora di concludere la trattazione di “ Sullo studio della storia “ prendendo in considerazione la sua ultima parte intitolata “ Gli Individui e l’ Universale. La Grandezza storica. “, Burckhardt dice che nella definizione del concetto di grandezza storica dobbiamo rinunciare ad ogni pretesa di sistematicità e scientificità, la grandezza è quel “ che noi non siamo “.

Il nostro giudizio e sentimento possono oscillare fortemente entrando a contatto con la sensibilità, Burckhardt come ha già fatto in precedenza vuole mostrare la finitudine e  l’ imperfezione del conoscere umano, sussiste il rischio di confondere la grandezza con la mera potenza conferendo troppo importanza alla nostra esistenza.

 

“ Il grande individuo è colui senza il quale il mondo ci apparirebbe incompleto, giacché alcune determinate grandi imprese, che sono state possibili nel suo tempo e nel suo ambiente solo per opera sua, sarebbero altrimenti impensabili. Egli è in sostanza collegato alla grande corrente principale delle cause e degli effetti. “J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Gli Individui e l’ Universale. La Grandezza storica.

 

L’ uomo unico ed indispensabile è dotato di un’ eccezionale energia morale ed intellettuale il cui operare riguarda l’ umanità intera.

Nel XIX secolo si riescono ad apprezzare tutte le grandezze della varie epoche, questo grazie all’ intensificazione delle comunicazioni, le connessioni tra le varie culture e la recettività universale.

La gioventù del grande uomo è subito minacciata da una vita ostile che molto spesso gli toglie ogni possibilità di sviluppo, proprio perché la grandezza è rara; artisti, letterati e filosofi sono i rappresentanti più illustri dello spirito, la loro attività non mira all’ utile ed al bisogno, ma mira porre idealmente in rilievo la propria epoca tramandando un messaggio eterno che si sottragga alle sabbie del tempo.

Perché nonostante i loro grandi risultati pratici e sociali gli scopritori e gli inventori non possono essere considerati grandi uomini?

 

“ Perché appunto non hanno avuto a che fare con l’ insieme dell’ universo, diversamente dagli artisti, dai letterati e dai filosofi. Si ha anche la sensazione che siano sostituibili e che gli altri, più tardi sarebbe giunti agli stessi risultati, mentre ogni singolo grande artista, poeta e filosofo  è assolutamente insostituibile, poiché l’ universo si combina in modo unico con l’ individualità di ciascuno, ed essa si realizza soltanto in quel modo, in quel preciso momento, pur avendo validità universale “.J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Gli Individui e l’ Universale. La Grandezza storica.

 

Nonostante Cristoforo Colombo sia collocabile sullo stesso piano dei grandi filosofi, per aver accertato la forma sferica della terra e rivoluzionato il modo di pensare, si potrebbe affermare che Colombo “ non fosse indispensabile “, l’ America sarebbe stata scoperta anche se egli fosse morto nella culla.

Ciò non si può dire per Fidia, Platone ed Eschilo, le loro opere sono irriducibili ed irripetibili, in questo frangente il discorso di Burckhardt non è molto distante da quello kantiano sul genio, dove il pensatore prussiano mostrava l’ inimitabilità del genio [ anche se per Kant il genio era solo relativo all’ arte ].

Chi scopre terre lontane trova una forma di grandezza non in se stesso ma nell’ oggetto di quella scoperta, la gratitudine che riserbiamo a tali individui è stato reso “ solo una volta “.

Nella ricerca scientifica sono grandi relativamente alcuni uomini, sono resi grandi per il progresso apportato in quella disciplina, nelle scienze storiche non ci sono grandi individui.

Nell’ ambito matematico – fisico sussistono figure universalmente riconosciute, l’ emancipazione del pensiero umano è iniziata da quando Copernico ha tolto la Terra dal centro dell’ universo collocandolo nel sistema solare, solo Newton e Galileo possono rientrare nella categoria dei grandi ricercatori

 

“ Solo con i grandi filosofi ha inizio il dominio della vera e propria grandezza, della unicità e dell’ insostituibilità, dell’ abnorme energia e della relazione con l’ universale. Ognuno di loro, a suo modo, avvicina l’ umanità alla soluzione del grande enigma della vita. Il loro oggetto è l’ insieme dell’ universo in tutti i suoi aspetti, incluso , si noti bene, l’ uomo. Solo i filosofi abbracciano con lo sguardo e dominano il rapporto tra il singolo e questa totalità, perciò essi sono in grado di additare alle singole scienza le direzioni e le prospettive da prendere. A essi si obbedisce, anche se di soliti inconsapevolmente o controvoglia. Le singole scienze spesso non conoscono affatto attraverso quali fili esse dipendano dalle idee dei grandi filosofi. “J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Gli Individui e l’ Universale. La Grandezza storica.

 

Burckhardt riprende una lettera di Schiller a Goethe, dove l’ autore di “ Grazia e dignità “ diceva che il migliore filosofo è la caricatura del poeta, se al pensatore è affidata la verità al poeta la bellezza da esprimere simbolicamente.

L’ operare dell’ artista si basa sulla fantasia intesa come un’ energia divina, le sue peculiarità sono la potenza ed una geniale capacità creativa, egli attrae nella propria orbita l’ esistenza oltre la mediocrità del quotidiano, esprimendo il sentimento in una sfera più alta ed offrendo un’ immagine del mondo “ libera dalla zavorra di ciò che è casuale “ all’ insegna della profondità di significato e della bellezza.

Gli artisti ed i letterati nel rappresentare esteriormente ciò che è celato nell’ interiorità dell’ animo umano, appaiono insostituibili ai nostri occhi, trasportando il fugace ed il transeunto che ci “ scorre davanti “ in un mondo superiore.

Vi sono tre generi qualitativamente differenti di artisti: i primi, sono i grandi artisti che si legittimano per la loro arte quando sono ancora in vita, i secondi sono coloro che fissano la “ libera creazione “ dei primi in uno stili ed infine gli ultimi si limitano a copiare lo stile mostrando “ ancora una volta quanto possente debba essere stato quel grande uomo “.

I grandi artisti sono sempre fecondi come se ciò sia dovuto ad un “ presentimento di morte precoce “, così in Schiller e Mozart e Raffaello, tali uomini devono avere un’ alta concentrazione di volontà, una produzione continua ed una forza titanica per superare le fasi precedenti.

La poesia coglie l’ universale umano e lo trasforma in forma ideale rivelando i segreti dell’ uomo, parla in una lingua meravigliosa e riproduce gli stati d’ animo “ che travalicano dolore e gioia “.

I grandi letterati sono testimonianza dello spirito del tempo e sono la più coerente rivelazione della vita interiore dell’ uomo; risulta opportuno sapere distinguere la grandezza del singolo letterato dalla diffusione delle sue opere, egli può avere un’ importanza per la sua epoca maggiore del suo reale valore poetico, se Euripide è la fonte della mentalità ateniese, Eschilo e Sofocle ci hanno tramandato un messaggio eterno.

Nel cantore epico lo spirito del popolo parla in lui e si manifesta artisticamente, i pittori e gli scultori nei santuari muovono i primi passi in direzione del sublime, dato che la religione è la dimensione in cui l’ arte nelle sue prime fasi si rende possibile, solo successivamente compaiono i singoli nomi e la fama ad essi legata, permettendo al reale di vestirsi di una “ magia a cui non è possibile sfuggire “ ed assumendo una dialettica dello sprofondare nella servitù per poi sollevarsi come superiore allegoria della vita.

Nell’ arte greca quando conosciamo i nomi difficilmente riusciamo a riferirli a determinate opere d’ arte, nell’ arte medioevale nordica mancano proprio i nomi ( un discorso analogo si fa relativamente alla poesia popolare ).

Nonostante la fecondità dei geni artistici le loro opere sono in numero assai limitato, Burckhardt infatti scrive:

 

“ Per quanto siano stati fecondi, le loro opere sono tuttavia diffuse sulla terra in numero limitato e noi dobbiamo tremare all’ idea che possano cessare di esistere. “J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Gli Individui e l’ Universale. La Grandezza storica.

 

Si è soliti dire che la grandezza dell’ architettura spetti più all’ epoca che al maestro, risulta meno comprensibile della pittura e della scultura fin quando non è considerata come un’ arte.

I creatori di stili ci sono oscuri molto spesso, ciò avviene soprattutto nella Grecia e nel Medioevo, invece nel Rinascimento conosciamo il nome di tanti artisti perché non si sono limitati a riproporre una copia, bensì a creare sempre nuove combinazioni, solo Michelangelo e Erwin von Steinbach hanno raggiunto la grandezza monumentale.

La posizione della musica è enigmatica e meravigliosa, si pone “ sul lembo delle altre arti “ essendo un simbolo della vita superiore dell’ uomo e una “ cometa che ruota intorno alla vita umana in un’ orbita amplissima ed enormemente alta, ma che poi torna ad abbassarsi come nessun’ altra de