Estetica antica
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Ciò che è bello, sia un animale sia ogni altra cosa costituita di parti, deve avere non soltanto queste parti ordinate al loro posto, ma anche una grandezza che non sia casuale; il bello infatti sta nella grandezza e nell’ordinata disposizione delle parti (Aristotele, Poetica).



A cura di Roberta Musolesi


Nike di Samotracia

 

 

È possibile parlare di estetica antica?

 

In linea di principio, parlare di estetica antica rappresenta una contraddizione perché l’estetica, come disciplina filosofica, nasce alla fine del Settecento. La disciplina cui, a metà del XVIII secolo, Baumgarten impose il nome di estetica, intendendo con essa la dottrina della conoscenza sensibile e della sua perfetta realizzazione nella bellezza, non ebbe infatti nell’antichità un suo proprio territorio teorico, ma tale mancata autonomia non autorizza comunque ad ignorare gli apporti del pensiero greco e romano alla storia dell’estetica occidentale. E’ quindi corretto affermare che l’indagine estetica ha certamente avuto inizio in Europa oltre 2000 anni prima che fosse trovato per essa un termine specifico e si costituisse un campo di studi autonomo.

Secondo Gianni Carchia[1] inoltre non solo è possibile parlare di estetica antica come riflessione sulla sensibilità, sul bello e sull’arte, ma l’aver isolato un ambito specifico, dal Settecento in poi, non è stato sicuramente un bene. Dal suo punto di vista parlare di estetica antica significa pertanto cercare di comprendere cosa hanno detto sulla sensibilità, sull’arte e sulla bellezza Pitagora, Democrito e Platone, mentre parlare di estetica moderna significa, nella maggior parte dei casi, occuparsi di figure minori o di spazi marginali che le maggiori personalità filosofiche hanno dedicato, per lo più per esigenze di sistema, alle suddette tematiche. Secondo Carchia inoltre le riflessioni estetiche degli antichi non si limitano, come comunemente si pensa, esclusivamente alla poesia, ma coinvolgono l’essere, la fenomenologia e la psicologia.

Dello stesso parere è Giovanni Lombardo[2], anche se con opportune precisazioni. Se è vero infatti che l’antichità classica, che non giunse a sviluppare compiutamente un’idea di autocoscienza, non attinse quasi mai alla dimensione soggettivistica dell’esperienza estetica, è vero anche che su un piano più generale è oggi possibile interpretare alcuni personaggi, ad esempio, del dramma antico come anticipatori della consapevolezza propria del mondo moderno e analogamente alcune teorizzazioni ed acquisizioni del pensiero antico (si vedano, ad esempio, la concezione platonica del bello o quella aristotelica dell’opera letteraria) sembrano  precorrere sensibilità sicuramente molto vicine al nostro tempo. Fra estetica antica e moderna esistono tuttavia, dal punto di vista dell’autore, alcune importanti e fondamentali distinzioni e differenze: l’estetica moderna è abituata a cercare la bellezza soprattutto nell’opera d’arte, che viene ammirata in quanto rappresentazione di un significato indipendente da qualsiasi vincolo utilitaristico o morale, l’estetica antica inserisce invece l’arte fra le competenze tecniche ed artigianali, i cui prodotti sono destinati ad una fruizione prevalentemente pubblica entro spazi istituzionali come feste, simposi e riti religiosi.

Di opinione contraria a quella di Carchia e Lombardo è invece Sergio Givone, secondo il quale parlare di estetica riferendosi alla riflessione classica, e greca in particolare, sul bello e sull’arte appare problematico non solo perché per i Greci l’arte aveva a che fare con l’intelletto e non con la sensibilità, cui invece il termine moderno di estetica rimanda, ma anche perchè gli stessi concetti di arte e di bello che noi impieghiamo non sono semanticamente equivalenti ai corrispondenti termini della lingua greca.

 

Arte e bellezza

 

Anche se quanto appena esposto, come vedremo in seguito, corrisponde a verità, è comunque possibile affermare con certezza che, già nel periodo cosiddetto arcaico, che va da VI secolo a. C. all’inizio del V secolo, i Greci, che già possedevano una grande arte, avevano sviluppato anche una loro concezione precisa del bello e dell’arte stessa, che non misero per iscritto, ma che può essere ricostruita a partire dalla prassi artistica concreta.

I Greci, come iniziatori di questa inedita forma di riflessione, dovettero pertanto inventare un linguaggio per poter parlare dell’arte da loro stessi inventata e definire dei concetti che anche noi oggi utilizziamo, anche se con un significato diverso.

 

Il bello

 

Il primo di questi concetti fondamentali è appunto il concetto di bello.

La parola kalón, che noi traduciamo con “bello”, aveva in realtà un significato più ampio rispetto a quello attuale: comprendeva non solo ciò che risultava gradito all’occhio e all’orecchio, ma anche qualità del carattere e della mente umana. Gli antichi mantengono inoltre separate la sfera del bello e la sfera dell’arte e conferiscono alla bellezza un fondamento ontologico, per ricercarne conseguentemente le manifestazioni nella natura e, in particolare, nel corpo dell’uomo, il più nobile e alto fra gli esseri naturali. Proprio per questo primato, l’uomo è in grado di esprimere la sua bellezza, oltre che nella proporzione delle forme fisiche, anche nella dignità dei comportamenti pratici: da qui deriva il forte legame fra bello e buono, che nella Grecia classica trova la sua espressione suprema nell’ideale formativo della kalokagathía, la condizione propria cioè di chi sa di potersi dimostrare, nello stesso tempo, bello e buono. Buono, agathós, rappresenta l’aspetto morale, unito alle sfumature sociale e mondana che provengono dalle origini, bello, kalós, è la bellezza fisica, con l’inevitabile aura erotica e sensuale che l’accompagna. Già da solo, tuttavia, l’aggettivo kalós è in grado di qualificare, insieme alla bellezza fisica, anche quella morale, così come nell’aggettivo latino bellus, da cui deriva l’italiano bello, si rileva un diminutivo di bonus (dwenosdwenolosbenlos)

Quello di “bello” era quindi un concetto dal significato molto complesso e ricco, cui i Greci ricondussero schematicamente:

1.     l’armonia, rilevabile nell’equilibrio cosmico;

2.     la simmetria, cioè misura appropriata;

3.     l’euritmia, cioè ritmo esatto e dalle corrette proporzioni.

Tutto ciò è riassumibile nel concetto di kósmos, che si riferisce alla bellezza di un oggetto dovuta alla perfezione della sua struttura in ragione della proporzione della sue parti. Fin dall’età arcaica l’opera d’arte viene infatti concepita come un insieme composito di elementi che rappresentano la copia e la riproduzione di un ordine esterno all’opera stessa e che, in virtù del loro trattamento rappresentativo, generano piacere e ammirazione. Nel campo delle arti verbali, come riferisce lo stesso Omero, il concetto di kósmos si collega all’armonia e alla coerenza: di un cantore si può dire che esegua un canto secondo i canoni della bellezza se procede katá kósmon, secondo un bell’ordine, riproponendo cioè in una coerente struttura verbale la successione reale degli eventi. Nella lirica arcaica il testo poetico viene inteso come un kósmos epéōn, cioè un bell’ordine di parole.

Il processo compositivo del kósmos è attivato, a sua volta, dall’impulso a riprodurre che, secondo Aristotele, caratterizza l’uomo in quanto essere rivolto e orientato verso la conoscenza. Tale impulso riproduttivo viene definito dallo Stagirita come mímēsis, il processo imitativo cioè che può riferirsi non solo ai procedimenti della poesia, delle arti figurative e della musica, ma anche della voce e della recitazione, fino ad arrivare ad accezioni più filosofiche, come l’assunzione di comportamenti ritenuti esemplari, il legame fra i nomi e le cose, il rapporto fra l’essere e il divenire fino ad arrivare addirittura alla contemplazione delle forme ideali. Il concetto di mímēsis apparve assai presto e persistette a lungo nella cultura e nell’arte della Grecia classica; prima di assumere il succitato significato di riproduzione della realtà con le sue molteplici sfumature, si riferiva originariamente alla danza e aveva un significato del tutto diverso, in quanto stava ad indicare l’espressione dei sentimenti e la manifestazione dell’esperienza attraverso il movimento, il suono e le parole. Tale concetto comparve per la prima volta in connessione con il culto di Dioniso e le danze rituali dei sacerdoti; in Pindaro, infatti, la parola mímēsis sta a significare una danza nel senso antico del termine, intesa cioè come danza non imitativa, ma espressiva, tesa cioè ad esprimere sentimenti piuttosto che a imitarli.

 

L’arte

 

Per quanto concerne l’altro concetto fondamentale, quello di arte, i Greci si riferivano ad essa mediante il termine téchnē, in cui veniva fatto rientrare ogni prodotto dell’abilità tecnica, dal lavoro manuale dei tessitori, dei calzolai (l’arte di fare le scarpe) e dei tessitori a quello degli architetti. Rappresentare la realtà significa, anche ai livelli più elementari e soprattutto alle origini dell’antichità classica, filtrarla attraverso un meccanismo selettivo tale da estrapolare gli elementi maggiormente significativi per ricomporli in un nuovo ordine; l’artista, in definitiva, secondo la prospettiva classica, opera alla stregua di un fabbricatore, di un poiētēs, che  mediante una tecnica ed una particolare abilità riproduttiva, mette assieme un kósmos  artificiale analogo e per certi versi simile al kósmos reale. Come affermava anche Democrito, il kósmos artistico presuppone l’atto del costruire, del tektáinesthai, espressione verbale che è vicina, con la radice tek-, congiungere, al termine greco téchnē. La costruzione di un kósmos riesce inoltre tanto più bella ed attraente quanto più in essa ciò che è stato imitato risplende agli occhi con la luce che gli è propria. L’artista infatti ottiene successo anche in funzione della sua capacità di trasformare i propri mezzi espressivi rendendoli adeguati alla situazione che essi devono rappresentare e alle circostanze cui essi, davanti all’opera finita, vengono recepiti; in definitiva la sua attività, sia nel momento della produzione che in quello della fruizione, è connessa e si innesta sempre in un preciso kairós, cioè in una giusta occasione: ciò che l’artista riesce a ritagliare dalla realtà deve poi essere opportunamente innestato ed adattato nelle reazioni dei fruitori, che devono cogliere il piacere estetico dato dall’identità fra l’opera e la realtà in essa rappresentata.

Il termine téchnē fa quindi riferimento:

1.     all’attività umana in quanto opposta alla spontaneità della natura;

2.     all’aspetto della produzione manuale, visto in alternativa a quello dell’attività conoscitiva;

3.     alla relazione con l’abilità e non con l’ispirazione;

4.     alla presenza di norme operative generali e non di semplice abitudine ed ammaestramento meccanico.

L’aspetto dell’abilità era ritenuto essenziale, ragione per cui l’arte era considerata un’attività dell’ingegno, e fondamentali erano considerate anche le conoscenze che l’esercizio dell’arte stessa richiedeva. Per i Greci, inoltre, quelle che più tardi coincisero con le “belle arti” non erano distinte dalle arti manuali e qualunque artigiano, dēmiourgós, a qualunque arte si dedicasse, poteva raggiungere la perfezione e diventare un maestro, architéktōn.

L’atteggiamento dei Greci verso coloro che esercitavano le arti era inoltre caratterizzato da una marcata ambivalenza: da un lato essi erano stimati per le conoscenze che possedevano, ma dall’altro erano disprezzati per il fatto di esercitare un’attività manuale dalla quale ricavavano i mezzi per il loro sostentamento. Anche la divisione delle arti risentiva, in un certo senso, di questa visione preconcetta. Ad un livello superiore, infatti, erano collocate le arti libere, quelle cioè che non richiedevano fatica e sforzo fisico, dall’altro stavano le arti servili, che richiedevano, al contrario, impegno fisico ed attività manuale; tanto per fare un esempio, la musica era considerata arte libera, mentre la scultura e anche la pittura erano considerate arti servili. La separazione fra arti libere e arti servili rifletteva quindi una cultura per la quale il lavoro manuale aveva in sé qualcosa di poco nobile. La stessa condizione degli artisti, non solo di quelli che praticavano le arti servili, ma anche dei musici, degli attori e dei ballerini, rifletteva chiaramente questo pregiudizio, cui nei fatti se ne aggiungevano altri: gli attori, che pure non praticavano un’arte servile, sono stati oggetto, da allora fino all’età moderna, di duri giudizi di condanna per lo stile di vita fuori dai canoni della normalità che a causa della loro professione conducevano.

 

La poesia

 

I Greci non classificavano la poesia fra le arti: l’arte era un’attività che, in virtù di specifiche abilità e seguendo precise regole, portava alla produzione di oggetti materiali, mentre la poesia era considerata frutto dell’ispirazione. In definitiva, nell’arte, l’intervento dell’abilità tecnica impediva di avvertire il coinvolgimento dell’ispirazione, mentre nella poesia accadeva esattamente il contrario e per questo non si vedeva alcun possibile rapporto fra le due. La poesia pertanto, per queste ragioni, venne accostata alla divinazione e i poeti furono classificati come indovini, in quanto si riteneva che potessero portare a termine la loro opera solo grazie all’ispirazione concessa dalle potenze celesti. Ciò contribuì a confermare la forza seduttiva della poesia e la circondò di un alone magico. Se non fu possibile infatti per i Greci cogliere il legame fra poesia e arte, fu invece immediata la connessione fra poesia, musica e canto, che fu a tal punto accentuata da giungere a ritenerle unite ed appartenenti alla stessa sfera creativa. Tale affinità era motivata in primo luogo dal fatto che la poesia veniva normalmente recitata insieme ad un accompagnamento musicale, ed era quindi percepita acusticamente come musica, e secondariamente perché entrambe erano in grado di produrre nel fruitore uno stato di esaltazione. Il canto nelle epoche più antiche era interpretato come un dono soprannaturale in grado di generare l’entousiasmos, in grado cioè di dilettare e affascinare gli ascoltatori. Lo stesso termine estetica, che prende le sue origini dal termine greco áisthēsis, fa riferimento non solo alla percezione sensoriale nel suo complesso, ma anche, in particolare, alla percezione per mezzo dell’orecchio, implicita nel verbo aiō: l’ascolto dell’esecuzione di un aedo si riteneva potesse comportare l’attivazione di un’esperienza estetica portata avanti in virtù dell’ispirazione del poeta, in grado di rafforzare i poteri visualizzanti della sua arte, poteri che, sul piano tecnico, si esplicavano attraverso i procedimenti dell’enárgeia e coinvolgevano immediatamente l’uditorio negli eventi evocati dal canto. Pertanto, proprio nel momento in cui gli spettatori potevano cogliere l’affinità fra il corso delle parole e il corso delle cose, provavano le medesime emozioni che avrebbero provato se gli avvenimenti presentati dal canto si fossero svolti davanti a loro.

Importante e significativo è inoltre il legame esistente fra poesia e filosofia. Prima di scendere nel dettaglio delle riflessioni filosofiche sull’arte sviluppate dai singoli artisti o dai vari pensatori, è possibile anticipare che è Omero, con la distinzione fra poetica della verità, esemplificata da Demodoco, e poetica della finzione, esemplificata dalle sirene, a dare l’avvio alla contrapposizione fra pensiero filosofico e poesia che segnerà tutto il dibattito letterario fra il VII e IV secolo a.C. In seguito Esiodo, polemico nei confronti dei racconti di finzione e delle favole dell’epos, si proclama depositario di un messaggio di verità che presenta come trasmesso direttamente dalle Muse; Parmenide, invece, operando una distinzione fra l’ambito della verità e quello del non essere e dell’opinione e individuando nei discorsi propri della doxa, cioè dell’opinione, un ordine ingannevole, giunge a denunciare la fallacia di ogni rappresentazione costruita per mezzo della poesia e, a suo avviso, il “bell’ordine delle parole”, tramite espressivo della doxa, è portatore di un messaggio inaffidabile. Platone, erede della metafisica parmenidea e difensore strenuo del primato della componente razionale dell’anima protesa verso l’apprensione delle idee, porta alle estreme conseguenze la separazione fra poesia e filosofia. L’arte in generale, e la poesia in particolare, si riferiscono infatti, dal suo punto di vista, al mondo delle apparenze e delle sensazioni e sono per questo molto lontane dall’eterno splendore del mondo delle idee; queste quindi, in quanto riproducono l’intricata e contorta molteplicità del divenire, restano limitate al gradino più basso della scala verso la verità e, poichè sollecitano emozioni, sono ritenute da Platone attività che offuscano lo sviluppo e l’ascesa della ragione. Aristotele rovescia invece la prospettiva platonica affermando che la poesia, in quanto mímēsis práxeōs, cioè rispecchiamento di un’azione reale o possibile, svolge una fondamentale funzione conoscitiva. Poichè infatti può riprodurre ciò che accade ed anticipare, secondo le regole della verosimiglianza o del principio causa-effetto, ciò che potrebbe accadere, la poesia risulta più vicina alla filosofia di quanto, ad esempio, non possa essere la storia: la poesia, ponendo ordine nel caos dell’esperienza e nel tumulto delle passioni, che vengono così organizzati in una sintesi coerente, è in grado di rendere comprensibili gli eventi spesso confusi e contraddittori della vita reale. I fatti, che rimangono comunque imprevedibili, con la poesia verrebbero quindi proposti, secondo lo Stagirita, secondo un preciso ordine formale ed essa si presenta pertanto certamente come un inganno, ma solo apparente, un inganno cioè che viene comunque sostenuto e convalidato dalla precisione e dalla coerenza della rappresentazione. Secondo Aristotele la poesia appare così come un “ordine disordinato”, un ordine cioè che riespone, senza cancellarlo od annullarlo, l’inestricabile disordine delle passioni.

Le strade tracciate da Platone e da Aristotele si perpetueranno in seguito nella contrapposizione fra due possibili funzioni della poesia, quella moralistica del prodesse e quella edonistica del delectare, ma la ricerca aristotelica sulla conoscenza mediante la mímēsis sarà all’origine, in età ellenistica, di una nuova sensibilità nei confronti del testo, sia dal punto di vista filologico sia sul piano dello stile.

Gli Stoici, che riprenderanno, in chiave puramente individualistica, le idee platoniche ed aristoteliche relative ai processi psicologici legati alla visualizzazione mentale, svilupperanno un’idea della creatività estremamente moderna, in quanto ritenuta frutto dell’espressione dell’immaginazione personale dell’artista. Questa idea si ritroverà anche in Cicerone e verrà elaborata poi da Plotino in un senso che la spingerà oltre il mondo classico. Dalla concezione plotiniana del bello come traguardo del viaggio spirituale verso l’assoluto discenderà infatti, per mezzo di Agostino, l’estetica cristiana del Medioevo.

 



[1] Gianni Carchia, L'estetica antica, Laterza, Roma-Bari, 1999.

 

[2] Giovanni Lombardo, L’estetica antica, Il Mulino, Bologna, 2002.






La filosofia e i suoi eroi