ADAM FERGUSON

 

A cura di Roberta Musolesi

 

 

"Chi desidera il bene altrui scopre che la felicità degli altri è la fonte più generosa della propria felicità. ".


 

 

Adam Ferguson, filosofo, storico e ritenuto comunemente uno dei padri fondatori della sociologia, nacque a Logierait, nel Perthshire, in Scozia, il 20 giugno del 1723. Frequentò la Perth Grammar School e l’Università di St Andrews. Nel 1745, grazie alla sua conoscenza della lingua gaelica, fu nominato cappellano delegato del 43° reggimento, le Guardie Nere, incarico che gli venne impartito in virtù di una particolare dispensa, visto che all’epoca non aveva completato i sei anni di studi teologici richiesti. Nella battaglia di Fontenoy, nel 1745, Ferguson combattè strenuamente nelle fila dell’esercito e, malgrado gli ordini impartitigli dal suo colonnello, rifiutò di lasciare il campo di battaglia. Continuò ad operare nel 43° reggimento fino al 1754, quando, malgrado il suo disappunto, non ottenne la possibilità di rimanere a vita nell’esercito; dal quel momento si dedicò alla cura dei suoi interessi letterari.

Nel gennaio del 1757 sostituì Hume nell’incarico di bibliotecario della Facoltà di Legge, ma presto abbandonò anche questo incarico per divenire precettore presso la famiglia di Lord Bute. In quella veste accompagnò il giovane Earl in viaggio per l’Europa e in tale circostanza ebbe la possibilità di conoscere i filosofi francesi. La sua prolungata assenza da Edimburgo lo portò ad affrontare una causa legale, in cui egli tuttavia difese se stesso con successo e potè quindi riprendere, in seguito, la sua attività universitaria.

Nel 1759 venne nominato professore di filosofia naturale presso l’Università di Edimburgo e nel 1764 venne trasferito alla cattedra di metafisica e filosofia morale. Nel 1767 pubblicò il suo Essay of history of Civil Society, che fu accolto con particolare entusiasmo dai lettori e fu tradotto in numerose lingue. Si tratta di una storia naturale del progresso del genere umano, sviluppata secondo i principi teorici dell’Illuminismo inglese, in particolare quelli di Hume, il quale, pur ritenendo Ferguson uno studioso “dotato di maggior genio degli altri”, ne criticò tuttavia molto duramente il saggio, giudicandolo superficiale. Nel 1776 viene pubblicato, anonimo, un suo pamphlet sulla Rivoluzione Americana, in opposizione allo scritto di Price Osservazioni sulla natura della libertà civile, e in questo breve lavoro Ferguson mostra di prendere posizione a favore del governo britannico; nel 1778 diviene segretario della commissione che tentò, senza successo, di negoziare un accordo con le colonie americane insorte.

Nel 1783 viene pubblicato il suo Progress and Termination of the Roman Republic che venne accolto con molto favore esso e fu pubblicato in numerose edizioni. Questo lavoro nasce dalla convinzione che la storia romana, durante il periodo del suo massimo splendore, rappresentò un esempio pratico di attuazione di quei principi etici e politici che da sempre erano stati oggetto degli studi di Ferguson. Il testo è scritto con uno stile particolarmente gradevole ed accattivante e con spirito di imparzialità, rivelando, nel contempo, un uso consapevole dell’autorità, frutto sicuramente dell’esperienza militare dell’autore.

Ritenendosi inadatto al mestiere di insegnante, si dimise dall’incarico di professore nel 1785 e da quel momento si dedicò alla revisione scrupolosa delle sue lezioni, che pubblicò nel 1792 con il titolo Principles of Moral and Political Science. All’età di  70 anni, Ferguson, con il progetto di pubblicare una nuova opera storica, visitò l’Italia e le principali città europee, dove fu ricevuto con i massimi onori e dove collaborò con i massimi studiosi dell’epoca, fra i quali anche Voltaire.

Dal 1795 risedette nel castello di Neidpath, vicino a Peebles, a Hallyard on Manor e a St. Andrews, dove morì il 22 febbraio del 1816.

 

 

 

Le opere

 

 

Le traduzioni in italiano

§         Divisione del lavoro e diseguaglianza sociale in Ideologie nella rivoluzione industriale, a cura di Fulvio Papi, Bologna, Zanichelli, 1976

§         Istituzioni di Filosofia morale del sig. Fergusson tradotte dall'inglese opera classica per l'esattezza nel metodo, per la profondita e sicurezza ne' principj, e per la chiarezza nella esposizione. Ad uso delle Scuole pubbliche e private d'Italia, realizzato in Venezia, nella stamperia Graziosi a S. Apollinare, 1790

§         Romani go home, traduzione di Ranieri Carano, Milano, A. Mondadori, 1972

§         Saggio sulla storia della società civile, a cura di Pasquale Salvucci, con bio-bibliografia ragionata di Mariangelo Massi, Firenze, Vallecchi, 1973.

 

 

 

Il pensiero di Ferguson

Nel suo sistema etico Ferguson analizza l’uomo nell’ambito dei rapporti sociali ed illustra le sue dottrine con esempi politici. Il suo pensiero, criticato da Cousin (si veda il suo Cours d’histoire de la philosophie morale au dix-huitième siècle, 1839-1840), lascia trasparire, nel metodo, la saggezza e la cautela della Scuola Scozzese, con tratti di maggiore fermezza e decisione nei risultati. L’individuazione da parte di Ferguson del principio della perfezione come molla del progresso dell’uomo, principio nuovo e sicuramente più razionale ed esaustivo della benevolenza e della simpatia e  sulla base del quale egli cerca di rivedere e integrare tutti i sistemi etici, lo colloca al di sopra dei suoi predecessori. Sul piano più strettamente politico, Ferguson fece riferimento al pensiero di Montesquieu e perseguì la causa di una libertà ben regolata e di un governo libero.

 

 

§        Saggio sulla storia della società civile: divisione del lavoro e subordinazione

 

Ferguson è uno dei massimi esponenti della cosiddetta “Scuola Scozzese”. Tenendo sempre presenti le riflessioni di Montesquieu, gli autori della “Scuola scozzese” elaborano una “storia naturale della società” articolandola in quattro stadi, nella convinzione che, per poter capire gli usi, i costumi, le leggi vigenti in una società, si debba inevitabilmente fare riferimento al modo in cui gli uomini si procurano di che vivere. Il primo stadio è quello “selvaggio”, nel quale sul piano conoscitivo domina la magia e su quello sociale regna la comunità non strutturata; gli uomini vivevano di pesca e di caccia. Il secondo stadio è quello “barbarico”: esso è contraddistinto dal mito sul piano conoscitivo; sul piano della vita associata, si passa dalla comunità non strutturata alla comunità dotata di proprietà ma priva di leggi. Infine, gli uomini pervengono allo stadio della “società civile”, col quale gli uomini diventano civilizzati: sul piano conoscitivo, trionfa la scienza e, su quello sociale, si instaura la comunità armonica disciplinata dalle leggi. Stando al modello proposto da Ferguson, l’umanità diventa sempre più civile nella misura in cui si addomestica e si ammansisce, espellendo e sublimando i residui ferini che ancora permangono in essa. In ciò, risiede propriamente l’incivilimento, che, a livello di morale, trova la propria compiuta espressione nel trionfo dell’etica kantiana (introiettiva e basata sull’imperativo categorico) sull’arcaica “legge del taglione”. Secondo Ferguson, “la civilizzazione è il risultato dell’azione dell’uomo, non dell’attuarsi di un qualche progetto umano”: frase che ben adombra come, nella prospettiva degli “Scozzesi”, la storia della società debba essere intesa in modo “naturale”, come si può fare una storia della natura, senza considerare presunte finalità o scopi di sorta.

È il sorgere dell’agricoltura a determinare la nascita delle leggi: infatti, alla nascita dell’agricoltura segue quella della proprietà privata, la quale viene protetta dalle leggi. Nella prospettiva dei filosofi della “Scuola scozzese”, la funzione del governo è quella di eliminare gli ostacoli che intralciano uno sviluppo armonico della società civile e tale per cui io produco ciò che manca a te, e tu produci ciò che manca a me. Il presupposto di tutti questi autori è che esista un interesse comune che si sviluppa spontaneamente, come se aiutato – per dirla con Adam Smith – da una misteriosa “mano invisibile” che, dietro l’egoismo dei singoli attori sociali, finisce poi per “dare una mano” a tutti. In una simile prospettiva, nella quale si produce spontaneamente un interesse in favore di tutti, il governo deve limitarsi a garantire i diritti della “società civile” rimuovendo tutto ciò che ne ostacola lo sviluppo. Sicché lo Stato è del tutto subordinato alla “società civile”: contro questa subordinazione protesteranno, pur con intenti e prospettive diversissime, Hegel e Marx.

Nel suo Saggio sulla storia della società civile, Adam Ferguson anticipa alcune considerazioni sul tema della divisione del lavoro che saranno riprese ed ampliate da Adam Smith e da Karl Marx.
Ferguson ritiene che:

 

…il sentimento di utilità spinge gli uomini a suddividere senza fine le loro professioni". [Infatti] …è evidente che un popolo ... non potrebbe fare nessun grande progresso nel coltivare le arti della vita, fin tanto che non abbia separato e affidato a persone diverse i vari compiti che richiedono una peculiare abilità e attenzione".

 

La divisione dei compiti e la loro distribuzione  a soggetti diversi diventa quindi prassi diffusa in ogni società al fine di raggiungere minori costi di produzione e aumento dei profitti. Infatti  Ferguson afferma:

 

"Ogni imprenditore di manifattura trova che quanto più nell'azienda può suddividere i compiti dei suoi operai e quante più mani può impegnare nei distinti articoli, tanto più diminuiscono le sue spese e aumentano i suoi profitti".

Tuttavia, parallelamente ad un ampliamento della ricchezza, si assiste ad una così evidente degradazione della condizione umana, tale da mettere in dubbio lo stesso progresso e la stessa evoluzione sociale.

A dimostrazione di ciò, Ferguson sottolinea che molti mestieri manuali non richiedono alcuna particolare competenza e riescono perfettamente anche supponendo la totale cancellazione del sentimento e della ragione. Per questi motivi le attività produttive industriali possono prosperare anche quando la mente dell’uomo che in esse opera viene attivata il meno possibile; a ragione quindi la fabbrica e l’officina possono essere considerate alla stregua di enormi macchine, parte dei cui ingranaggi è costituita da uomini. Il proletariato industriale vive quindi condizioni di lavoro che divengono via via sempre più disumane, mentre l’imprenditore concentra su di sé l’intero dominio del processo produttivo. Infatti:

 

"…se nella pratica di ogni arte e nel dettaglio di ogni dipartimento, vi sono molte parti che non richiedono abilità o tendono attualmente a restringere e a limitare l'orizzonte intellettuale, ve ne sono altre che portano a riflessioni generali e all'ampliamento del pensiero. Nella stessa manifattura il genio dell'imprenditore viene, forse, coltivato, mentre quello dell'operaio dipendente resta incolto…Il primo può avere guadagnato ciò che l'ultimo ha perduto".


Anche coloro che lavorano nel settore statale sono equiparati da Ferguson a parti di una macchina che concorrono in modo unitario a garantire allo stato le sue ricchezze, la sua forza e la sua condotta. Quindi, ciò che accade nell’industria privata, si verifica allo stesso modo nel settore pubblico:


"…l'uomo di stato può avere una profonda conoscenza degli affari umani, mentre quelli di cui egli si serve come strumenti ignorano il sistema al quale partecipano come parti".

 

Tale dualismo fra soggetti che hanno la possibilità di far uso della propria mente ed individui la cui funzione non richiede né ragionamento né passioni si spinge, secondo Ferguson, a tal punto che lo stesso esercizio del pensiero può diventare una professione particolare.

I fattori che spiegano la pesante subordinazione dei lavoratori agli imprenditori, sono così spiegati da Ferguson:

 

"il primo fondamento di subordinazione è nella differenza dei talenti e delle disposizioni naturali; il secondo nella ineguale divisione della proprietà; il terzo, che non è meno rilevante, risulta dalle abitudini che vengono acquisite a mezzo della pratica delle differenti arti".

 

Quest’ultimo fattore appare in effetti fondamentale, in quanto, secondo Ferguson, a determinare concretamente lo stato di subordinazione non è tanto l’assenza di facoltà, quanto il non uso. Quando infatti le facoltà intellettive non vengono impiegate, restano nascoste persino a chi le possiede e il protrarsi del loro mancato utilizzo ne impedisce lo sviluppo e l’affinamento; ciò risulta poi essere aggravato dalla mancanza di istruzione, in quanto:

 

"[si ritiene che] l'estrema abiezione di certe classi debba sorgere principalmente da una carenza di conoscenze e dalla mancanza di una educazione liberale".

 

Applicando questi concetti all’analisi della società nel suo complesso, Ferguson afferma che le qualità intellettuali di un popolo sono coltivate o trascurate nella misura in cui esse vengono utilizzate nelle attività produttive e nell’esercizio degli affari. I costumi sociali, infatti, migliorano se un popolo è incoraggiato ad agire secondo principi di libertà e giustizia o, al contrario, peggiorano se esso  è spinto a vivere in una condizione di miseria e di schiavitù.

La società preindustriale, in conclusione, ponendosi come obiettivo principale l’aumento della produzione, spinge verso una sempre più capillare divisione del lavoro, che si traduce in una maggiore produttività. Tuttavia, così facendo, le varie società risultano formate da soggetti che, al di là del loro mestieri particolari, ignorano la maggior parte delle questioni umane.
Di pari passo con l’aumento della produttività, si manifestano quindi, a livello sociale, tutti gli aspetti negativi connessi alla separazione del lavoro manuale da quello intellettuale: il differenziarsi delle professioni, infatti, se da un lato favorisce il perfezionamento delle abilità ed è la spinta che conduce al miglioramento della produttività, dall’altro rompe il legame sociale e allontana e separa gli individui. Con la distinzione delle professioni e la conseguente separazione dei membri della società civile, si diffonde la parcellizzazione delle funzioni e si riduce così la società ad un insieme di parti, nessuna delle quali sente l’esigenza di unirsi alle altre. Il contributo più originale di Ferguson è quindi l’aver individuato il legame fra divisione del lavoro e frammentazione della società, frammentazione che trova i suoi presupposti nella divisione fra lavoro manuale e intellettuale e quindi nell’assenza di uguali possibilità, in seno alla collettività, di sviluppo e cura delle facoltà intellettuali. A suo avviso, inoltre, quando si manifesta una disparità fra le condizioni ed una disuguale possibilità di coltivare le facoltà intellettuali, risulta molto difficile conservare la democrazia e da questo ne consegue che la divisione del lavoro risulta essere un ostacolo anche all’esercizio del potere popolare. In effetti anche Ferguson riconosce che le assemblee popolari, qualora dovessero essere composte da individui dalle inclinazioni abiette e dediti ad occupazioni illiberali, risulterebbero certamente inadatte a scegliere i rappresentanti destinati a guidare la nazione; con tale affermazione l’autore sembra quasi prevedere l’inevitabilità dell’avvento di regimi dittatoriali nel caso di sistemi produttivi che, relegando la maggior parte degli individui all’esecuzione di operazioni meccaniche e ripetitive, ne annullano totalmente le capacità intellettuali. Le professioni che richiedono maggiori conoscenze e che si basano sull’esercizio della fantasia e dell’amore della perfezione, migliorano lo status sociale dei  lavoratori che le esercitano e li conducono ad essere sempre più vicini a quella che si ritiene essere la condizione migliore per gli esseri umani. In questa condizione gli uomini, liberi di seguire le loro inclinazioni intellettuali, non sono legati ad un compito particolare e possono così svolgere nella società quel ruolo veramente attivo che la comunità si aspetta da loro.

Ciò che quindi sarebbe veramente auspicabile, per il benessere degli individui e per la salute della società è, secondo Ferguson, offrire a tutti la possibilità di scegliere liberamente come utilizzare le proprie capacità, intellettuali o manuali.

 

 

 

Principles of Moral and Political Science: l’analisi della natura umana

L’opera Principles of Moral and Political Science, pubblicata in due volumi  nel 1792, affronta tematiche di carattere sociologico ed antropologico, etico e morale, aventi tutte come tema unificante la qualità dell’esistenza dell’uomo nella disumanizzante dialettica del mondo economico.  Il metodo seguito in questa opera è di tipo empirico, quindi basato sulla ricerca di prove concrete a sostegno delle affermazioni; Ferguson, malgrado non giunga mai ad una totale equiparazione delle scienze umane a quelle naturali, nega infatti la possibilità di conoscere l’uomo con un metodo diverso dall’esperienza diretta mediata dal procedimento scientifico.

L’oggetto dell’analisi di Ferguson è la natura umana, nello studio della quale  rifugge da soluzioni riconducibili allo stato di natura o al contratto sociale: egli afferma che così come l’origine dei venti è per noi incomprensibile, allo stesso modo, a suo avviso, le forze che producono l’umana società derivano da oscure e lontane origini; esse si sono manifestate prima del sorgere della filosofia e sono il prodotto non della speculazione umana, bensì dall’istinto. Secondo Ferguson, che rifiuta in questo modo anche la prospettiva edonistica di Hume, il comportamento umano è guidato non solo dal conseguimento del piacere, ma anche e soprattutto da volontà di potere, dall’aggressività, dall’animosità, dal desiderio istintivo per il conflitto e dalla predisposizione alla corruzione. Egli afferma infatti che intimorire, intimidire o, quando non è possibile persuadere con la ragione, imporre con la forza sono le occupazioni che mettono maggiormente in azione una mente attiva, consentendole di ottenere i più grandi trionfi; chi non ha mai lottato con i suoi simili è infatti, secondo Ferguson, del tutto estraneo ai comuni sentimenti umani.

Entrando maggiormente in dettaglio nell’analisi sulla natura umana, Ferguson sottolinea in primo luogo la particolare posizione che l’uomo occupa nella scala degli esseri viventi, unica nel suo genere: l’uomo è rispetto alla natura, vista come passiva, autosufficiente ed indipendente e ciò accade in virtù del suo carattere aperto allo sviluppo, al miglioramento e all’evoluzione. Sullo sfondo di queste sue argomentazioni vi è l’idea di un ordine cosmico statico (la “Great Chain of Being” del XVIII secolo) in cui ad ogni vivente viene attribuito un posto fisso e stabile, idea questa molto diffusa ed oggetto di particolare discussione fra uomini di scienza, filosofi e poeti.

Ferguson procede quindi nell’analisi delle facoltà precipuamente umane, come consapevolezza, percezione, memoria, immaginazione, astrazione, ragionamento, per poi spingersi in seguito a considerare tutte le caratteristiche umane connesse all’esercizio della volontà ed approdare infine ad un discorso sulla morale, il tema forse di maggior interesse. Partendo dal presupposto che l’uomo, come la natura, sia esplorabile, Ferguson giunge ad affermare che il futuro dell’essere umano dipende in massima parte dalla conoscenza delle leggi che regolano il suo “funzionamento” animale ed intellettuale, conoscenza che l’uomo è in grado e ha il dovere di realizzare e di impiegare per raggiungere i grandi fini cui tende la sua esistenza. Una di queste leggi è, secondo Ferguson, il sentimento morale, su cui la stessa natura umana si costruisce.
Altro elemento da non trascurare in una corretta indagine sulla natura dell’uomo è, secondo Ferguson, l’analisi dei sentimenti che l’uomo prova nel rapporto con i suoi simili e per questo aspetto, accettando la prospettiva aristotelica dell’uomo come animale politico, si ispira a Montesquieu e al suo modo di concepire l’essere umano, come soggetto che nasce in società e che lì rimane. Secondo Ferguson, molte specie animali mostrano l’istinto di vivere in gruppo, ma soltanto l’uomo mostra la capacità di progredire: ciò che lo differenzia dall’animale non è tanto la capacità di crescere e svilupparsi, quanto piuttosto il fatto che è in grado di migliorare grazie alla sua capacità inventiva e di porsi anche come obiettivo il perfezionamento della società a partire da ciò che egli trova già presente in natura. Questa caratteristica rappresenta, secondo Ferguson, il vantaggio fondamentale che l’uomo ha nei confronti di tutti gli altri esseri viventi.

Altro principio fondamentale e determinante per la vita dell’uomo è, secondo Ferguson, il principio di conservazione:  così come Hobbes e Hume, anche lo stesso Ferguson individua nel principio dell’interesse e dell’utilità personale lo strumento principale per la realizzazione del destino umano, il cui scopo effettivo è il raggiungimento della perfezione. Il principio di conservazione, prosegue l’autore, appare in due diverse forme: una, completamente animalesca, che punta alla conservazione fisica del singolo essere e della specie nel suo complesso, l’altra, tipicamente umana, che fa riferimento alla capacità dell’uomo di sentirsi membro di una comunità. Nel primo aspetto l’uomo è in tutto e per tutto simile agli animali, ma a questa sua “animalità” unisce la capacità di provare desideri, di riflettere, di fare previsioni, di apprezzare il possesso e di comprendere ciò che è nel suo interesse: spinto da queste “molle”, l’uomo giunge progressivamente a fare della ricchezza la sua principale preoccupazione e il suo obiettivo più alto, giungendo però a confondere la mole delle ricchezze possedute con il valore della persona. Accade così, secondo Ferguson, che il desiderio di perseguire il proprio interesse conduce l’uomo a negare uno dei principi fondamentali della vita umana, la propensione all’unione e all’associazione. Se l’istinto di conservazione fosse l’unico scopo dell’uomo, allora, secondo Ferguson, una delusione o un piacere in questo campo dovrebbero essere le uniche passioni di cui un essere umano si rende capace. Ciò, tuttavia, non corrisponde in alcun modo a quella che è l’effettiva condizione umana: osservando infatti il comportamento dell’uomo nei confronti degli oggetti naturali inanimati e dei suoi simili, appare evidente, secondo Ferguson, che egli si contraddistingue sempre per la propensione ai rapporti sociali e per il fatto di mostrare attenzione ed interesse per ciò che proviene dai suoi simili. Tali sentimenti, afferma l’autore, uniti alle motivazioni che provengono dalla ragione, sono alla base della natura morale dell’uomo e la felicità di tutti, e non l’istinto di autoconservazione, è generalmente l’obiettivo verso cui sono rivolte tutte le azioni umane.

Altro tratto peculiare della natura umana è la predisposizione verso l’attività e il progresso, in virtù della quale l’uomo tende sempre alla ricerca di nuovi obiettivi; l’esistenza dell’uomo quindi è costantemente segnata dall’azione e dalla lotta. Se il possesso rappresentasse l’unica fonte di felicità per l’uomo, si dovrebbe concludere che, una volta conquistato ciò che desidera, egli raggiungerebbe di fatto la agognata felicità. Tuttavia, afferma Ferguson, appare evidente che l’uomo raggiunge questa condizione solo raramente e per tempi molto brevi e tale conquista è solo in minima parte legata a fattori esteriori, come la sicurezza, la protezione e l’alimentazione. L’attività umana inoltre, prosegue Ferguson, può essere indirizzata verso la contrapposizione con i suoi simili o verso la positiva convivenza con gli altri. Questa seconda forma di espressione dell’attività umana comprende i sentimenti che legano i genitori ai figli e che uniscono in generale gli uomini, ma, innalzata all’ennesima potenza, essa si manifesta come aspirazione a raggiungere la metà ritenuta più alta, il benessere della società, che rappresenta la chiave per la felicità del singolo individuo e per l’umanità nel suo complesso.

Ferguson a questo punto si chiede come sia possibile per una società, date queste premesse, giungere al declino.

Egli rileva che l’uomo, spinto dalla sua natura verso un miglioramento ed un perfezionamento costanti, può interrompere il suo cammino di progresso solo quando sopravvengono l’avidità di profitto e la brama di guadagno. L’avidità disgrega la comunità poiché rende ogni individuo completamente disinteressato nei confronti dell’attività dei propri simili: poiché ognuno inizia a lavorare unicamente per se stesso, tutti cessano di sentirsi parte di una comunità, i rapporti interpersonali non sono più mediati da sentimenti positivi e la vita della comunità viene condotta unicamente in funzione dell’interesse. Emarginando se stesso dalla comunità, l’uomo inizia così a percorrere i primi passi sulla via della decadenza. Questo processo, non necessario, ma certamente favorito, in uno stato, dalle gravi manchevolezze di cui si macchiano i governanti, conduce inevitabilmente verso un regime politico di carattere dispotico, che tuttavia non può perdurare a lungo in quanto contiene già in se stesso il germe dell’autodistruzione.

Ciò che appare interessante, e fondamentalmente ottimistico, nell’analisi di Ferguson è il rilievo attribuito alla non necessità del processo di decadenza e di declino: egli, proprio per le caratteristiche che la sua ricerca assume e per la volontà di mostrare all’umanità come fuggire dall’involuzione, non può ritenere il declino necessario ed ineluttabile e ciò che emerge quindi come messaggio finale dell’opera è la completa fiducia nelle capacità del singolo individuo e nella sua forza che, intrinseca alla sua stessa natura, sarà in grado di riscattarlo dalle drammatiche condizioni che storicamente si trova a vivere.



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