GIUSEPPE FERRARI

 

FILOSOFIA DELLA RIVOLUZIONE

 

 

 

 

 

LONDRA

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Agosto 1851


 

PROEMIO

 

La rivoluzione è il trionfo della filosofia chiamata a governate l'umanità. Fuori della filosofia non v'ha rivoluzione; la ragione non è libera, la scienza non è padrona; il culto è il principio supremo della società, domina la ragione, detta le leggi e governa l'umanità. Ognuno intende per quella di Francia; ognuno sa che la Francia dirige la rivoluzione. Qual deve essere la filosofia della rivoluzione?

Era quella di Locke. Essa vinceva il cristianesimo e trasportava sulla terra il destino dei viventi, essa chiamava ogni uomo ad essere pontefice a sè stesso. Pure dal giorno in cui la rivoluzione cadde sotto le tre reazioni di Napoleone, dei Borboni e di Luigi Filippo, la filosofia di Locke si smarrì, Voltaire e Rousseau rimasero sopraffatti, restò dubbia ogni conquista dello spirito umano. I discepoli di Locke si attenevano ai fatti, e il fatto che non lasciava titubante il diritto: si dimandò che cos'è il fatto, si dimandò se il cristianesimo non è alla volta sua un fatto grande almeno quanto la rivoluzione nascente. Concentravasi il fatto nella sensazione: si dimandò se l'idea non è fatto quanto la sensazione, se il mondo delle idee, che disprezzavasi in Platone, in Descartes, non valesse quanto il mondo della natura, e se la natura potesse stare senza le idee. I discepoli di Locke pendevano al materialismo: fu chiesto se la materia sia fatto certo, avverato, se si conosca della materia qualche cosa di più che il suo apparire, se il suo apparire non sia qualità piuttosto che materia, proprietà piuttosto che sostanza. La scuola di Locke accettava il dubbio e vi trovava nuove forze per disfidare il dogma lungo tempo inoppugnabile della cristianità; il dubbio era liberatore, era il primo principio del libero esame, il dubbio feriva Cristo in cielo e si ricadeva necessariamente sulla terra, nella sensazione di Locke, nella sfera dei fatti. Fu chiesto se il dubbio non feriva il fatto stesso, se distrutto il cielo non invadeva la terra, se non rendeva incerto l'avvenire, incerta la fede nella rivoluzione, incerta ogni speranza di sfuggire alle tirannie del passato. Vedevansi gli uomini sorgere liberi ed eguali dal limo della sensazione: fu chiesto se l'ineguaglianza che sorge dalla sensazione non è anch'essa legittima; se, opera della mente che sovrasta al diritto primitivo, non ha anch'essa il suo diritto. Confidavasi nella ragione: fu chiesto se la ragione non è fuori del senso; se, posta fuori del senso, nelle idee, non ha il diritto di trascendere la natura, se nel trascendere la natura, non ha il diritto di disprezzare il mondo che la scuola di Locke presenta come la terra promessa, se non ha il diritto di metter capo nel cielo di Socrate o di Platone o de' neoplatonici, d'onde si passava nel cielo di Cristo. Quindi nuovi sistemi oltrepassavano disdegnosi la conquista di Locke, spiegavano il volo attraverso la storia, e rimaneva dubbio se la rivoluzione non fosse un accidente, se la negazione volteriana, se la demolizione di Rousseau non fossero traviamenti di un popolo febbricitante; e dottamente si trassero innanzi Leibriiz, Descartes, tutte le filosofie sconfitte, or consigliando a filosofi di allontanarsi dal campo della politica, or consigliando alla rivoluzione di tramutarsi in una nuova fase del cristianesimo, or trasportando il problema dell'umanità in cavilli sì audacemente impotenti, che l'avanzare diveniva impossibile, il retrocedere sembrava buon consiglio.

Mio primo desiderio fu di trovare un maestro, di avviarmi confidente in una via sicura; volli sfuggire ad ogni modo la sventura di essere solo. Non mi fu concesso evitarla. Dovunque mi volgessi, trovai portentosi ingegni, scoperte preziose; non una dottrina ferma nel suo principio: una dottrina che ci ritornasse l'umanità, la sicurezza un tempo concesse ai discepoli di Locke. Condannato a cercare in me stesso la formula in cui potesse compiersi la filosofia della rivoluzione, mi proposi il problema quale affacciavasi in piazza e nelle scuole, presso i filosofi e nelle assemblee politiche. Si tratta di sapere, io mi dissi, in qual modo possiamo rimanere nel fatto, mentre il moto della logica ci trae lungi dal fatto; si tratta di sapere come io possa credere a ciò che vedo, a ciò che sento, mentre il ragionamento mi travia, mi sconcerta, mi impone di rispettare ciò che non vedo, ciò che non sento, ciò che non è. Il catechismo della rivoluzione è semplice, si riduce a due principi, la verità, la giustizia; non v'ha alcuno che lo ignori: ma giunge il sofista, e vi dimanda che cos'è la verità? che cos'è la giustizia? Le riduce al vostro opinar personale, vi mostra che potete ingannarvi, che dovete rispettare l'opinione opposta; resiste alla vostra virtù con una sua virtù, con un suo ascetismo: se vi appellate alla natura, vi oppone la ragione; se parlate di scienza, vi oppone una sua scienza, un suo criterio del vero, reclama la sua libertà, quella dei credenti, e vi invola ciò che vedete, la verità di Voltaire, ciò che sentite, la giustizia di Rousseau. Per sciogliere il problema, rimovere l'inciampo, e far sì che la filosofia non fosse un inganno, che nessuno ci possa illudere sotto pretesto di scienza. Come possiamo rimanere nel fatto, mentre il fato ci vien frodato dalla logica? Il mio libro darà la risposta.

Nella prima parte dimostro la critica che rovescia ogni fatto, e la riduco ad un'unica formula. - Nella seconda parte ristabilisco il regno dei fatti in modo, che si possa procedere coll'unanimità del buon senso, là dove non vi sono errori materiali che ci dividano. - Nella terza parte mostro come la rivoluzione scorra libera sulla via dei fatti, verso il vero ed il giusto, verso il regno della scienza e dell'eguaglianza.

Offro il mio libro all'Italia, che geme in una crisi solenne, è posta tra l'antico sistema cristiano e il rinnovamento compiuto del suo patto sociale, non havvi mezzo, se la filosofia non trionfa, sarannol'imperatore e il papa, Cesare e Cristo che trionferanno sotto le antiche forme o sotto peggiori. Se la rivoluzione organizzata in Francia non continua la sua guerra contro la cristianità, l'Italia resterà sede di un'anarchia che farà desiderare gli antichi tiranni. Ad ogni giorno ne abbiamo novelle prove: ed io le trovo numerose nelle stesse invettive con cui mi rispondevano or ora i regii di Torino, di Genova e di Firenze. La questione da me proposta era pur semplice. È vero, io dico loro, che mentre l'odio del popolo contro l'antico sistema cresceva ad ogni giorno, voi avete voluto evitare ad ogni patto la rivoluzione? è vero che per evitarla avete ingannato il popolo intorno alla volontà del papa e dei principi? è vero che avete sostituito alla guerra della libertà una guerra di conquista? è vero che vi siete affaticati disperatamente perchè il popolo da voi illuso rifiutasse il soccorso del popolo francese? è vero che avete confidata la guerra a un re da voi esperimentato traditore e già intimo alleato dell'Austria? è vero che avete impedito ai popoli di riunire le loro assemblee, di proclamare i loro diritti, di ferire i loro nemici interni, di far salva l'Italia dall'assolutismo che la preme? è vero che la vostra cospirazione regia e cattolica riusciva alla sconfitta di Villafranca, al mistero di Novara? è vero che dopo i disastri più goffi e vergognosi siete millantatori e insolenti come se aveste riportate venti vittorie? Dunque siete felici, siete vincitori, avete vinto? e chi? la democrazia: il papa è a Roma e l'Austria ristaurata. Vi dite nemici dell'Austria! Da quando? Io vi vidi, o signori, ai piedi dell'imperatore, degli arciduchi, dei principi: vi vidi ambasciatori, magistrati, cortigiani del despotismo austro-pontificio; io vi vidi nemici della patria e disprezzatori di ogni libero pensiero, io vi udii dichiarare apostata e rinnegato all'Italia che ripudiava la vostra monarchia, la vostra religione dominante, i vostri padroni, la vostra nazionalità, che volevate rinchiusa nelle frasi dell'Arcadia e nell'ortodossia del sonetto. No, voi nasceste Austriaci, voi lo siete di mente e di cuore: come l'Austria voi difendete il trono e l'altare; come l'Austria imponete il cattolicismo colle baionette e coi gendarmi; come l'Austria venerate i privilegi dei conti, dei marchesi e dei vescovi; come l'Austria negate che il popolo sia sovrano; come l'Austria ricusate al popolo il diritto di votare; come l'Austria proscrivete la filosofia e la rivoluzione, pronti ad avventurare tutto, a tradire tutti, e l'Austria stessa, per fuggire la verità e la giustizia. Peggio che Austriaci, sotto il disprezzo de' principi, sotto il bastone di Radetzky non trovate energia se non per maledire chi parla dei diritti della ragione; peggio che Austriaci vi siete costituiti nei vostri giornali spie pubbliche, officiali per denunziare i repubblicani che vivono in Lombardia e nel Veneto. E se non foste infami, non avrei io torto?

Mi fu risposto che sono utopista: e in che lo sono io? Forse nel ricordare quanto si ripete da ogni ministro ad ogni tribuna che non si libera Roma senza intimare la guerra alla cristianità? Forse nel ripetere, ciò che ognuno sente, essere tutta la cristianità collegata col pontefice e coll'Austria per conservare la servitù dell'Italia? Forse nell'annunziare la guerra inevitabile, continua della rivoluzione francese contro la cristianità? Forse nell'asserire che la guerra della rivoluzione esiliava già dall'Italia il pontefice e l'imperatore, e creava quella nazionalità che i nazionalisti nel delirio della loro contraddizione invocano e rinnegano ad ogni tratto? Sogno io forse parlando di una guerra di cui voi tremate, o signori, più ancora che il popolo non ne speri? Sono io forse utopista nel dichiarare che la rivoluzione deve essere applicata in Italia quale sarà fatto e legge in Francia, quale uscirà discussa, approvata, sancita da una nazione di 36 milioni d'uomini? Sono forse avventato nel dichiarare nullo, irrito, ogni sforzo per discutere in oggi la liberazione d'Italia a Milano, a Napoli, a Firenze, a Roma, dove sotto pene atroci è vietato leggere quanto si pensa dovunque sul sistema della cristianità? Sono forse temerario nel dichiarare sacrilego ogni sforzo di stordire i popoli nel momento dell'insurrezione, sradicando d'un tratto gli Stati, le tradizioni, l'antichissima autonomia, e sopprimendo le assemblee, la voce del popolo per improvvisare un'unità regia o repubblicana che poi al menomo urto cada disciolta? Sono forse paradossale perchè pedissequo del fatto puro, servo del diritto ed anche della legge ove non sia iniqua, predico quel fatto, quel diritto su cui reggeva la resistenza di Venezia e di Roma, e su cui regge ogni Stato, e starebbe anche l'Italia se troppo potenti non fossero l'ignoranza e il tradimento che la straziano, ogniqualvolta non è percossa dalla spada dell'Impero? In breve, si dica che sono avventato perchè diffido dei progetti avventati, degli avventurieri, siano essi re, papi o condottieri, perchè diffido dei capi che alla vigilia della lotta non vedevano la lotta, non sentivano, anzi negavano, anzi tradivano il principio che ferveva in ogni popolo oppresso dal sistema cristiano.

Chi ci accusa di temerità? i signori che si sono costituiti il privilegio di liberare l'Italia senza rivoluzione e senza reazione: or bene, obbediremo; espongano adunque il savio loro disegno. Ci dicano come uno Stato di terz'ordine, che per iperbole chiamasi il Regno, possa vincere l'Austria, confiscare i principali italiani, domare il papato, far fronte alla Germania, alla Russia, trascinar seco l'Inghilterra, mutare il mondo, e in pari tempo ingannare la Francia, sbaragliare la rivoluzione, che metteva già il così detto Regno a soqquadro in Savoia, a Genova, a Nizza, nei tre quarti dell'angusta sua superficie. In qual modo il Piemonte potrà liberare l'Italia? col diritto? Non ha diritti. Colla forza? qual'è la sua forza? Quale? Si tolgano l'Austria ed il pontefice, e sarà ventura se non si scinde in più regioni e se rimane uno degli Stati della federazione repubblicana. Il regio Piemonte è custode dell'Alpi. Contro chi? È l'antemurale del sistema austro-pontificio; è condannato a difenderlo per difendersi, a proteggerlo per sostenersi, se svanisce deve contraffarlo, parodiarlo; deve esser l'avanguardia contro la Francia, deve combattere la rivoluzione, parlando d'indipendenza, di conquista, d'unità, deve assumere la luogotenenza dell'impero nei casi di rivoluzione, deve supplire coll'astuzia, col tradimento al sistema che decade, deve essere ostacolo alla libertà d'Italia sotto pena di morte. Questa è la ragione per cui sta la camera piemontese; per cui il Piemonte affetta di non esser complice della reazione europea; questa è la ragione per cui il gabinetto piemontese cospira a Milano, a Firenze, a Palermo, a Napoli coi capi della corruzione, che mercanteggiano gli stati leggendo la Bibbia; questa è la ragione per cui il ceto-medio piemontese sta collegato colla nobiltà, per dividersi tutti i lucri del regno futuro; questa è la ragione per cui mille scribivendoli liberi o pagati assalgono con un torrente di contumelie chi turba la concordia della cospirazione scempia e malvagia che perde l'Italia; questa è la ragione perchè assalgono ad ogni giorno, in pari tempo, il papato e la filosofia, l'Austria e la rivoluzione, la chiesa e la Francia, sì che ogni cosa resti tra il si ed il no, fuori del fatto, fuori del diritto, in guisa che il buon senso appaia demenza, e la verità impostura. L'insidia previdente oltrepassa già la monarchia; facendosi astratta, s'insinua nel campo della democrazia; facendosi ognor più contraddittoria, parla il linguaggio rivoluzionario per meglio capovolgere la rivoluzione. Qui accoglie ogni idea nemica del popolo, e continua il moto che parte dall'alto; già trasportava la rivoluzione nella dittatura del pontefice, poi in quella d'un re; la trasporterà in un cittadino: purchè impedisca di riunire le assemblee federali, il cittadino sarà caro ai signori; purchè proclami la guerra prima della rivoluzione, sarà caro alla reazione; purchè voglia dirsi Napoleone prima d'ogni vittoria, prima della guerra, sarà acclamato qual nume liberatore; purchè il nume continui l'insidia delle fusioni si chiamerà avverso alla gloria, al primato dell'Italia chiunque non gli sia plaudente. Il più melenso formalismo avrà la sua catastrofe. E che posso, che devo io rispondere agli spaventi simulati da chi ode due mie parole: irreligiose, legge agraria? Nulla. Sia pure dimostrato che sono empio quanto Voltaire, colpevole quanto Rousseau, esecrando quanto Bruno, quanto Campanella, quanto il risorgimento, quanto la rivoluzione, quanto la filosofia. In nome della filosofia accetto la inimicizia di tutti i nemici della democrazia.

 

1 Agosto 1851.


PARTE PRIMA

 

CRITICA DELL'EVIDENZA

 

 

 

Lo stesso procedimento che ci promette la certezza ci conduce al dubbio.

Noi c'inganniamo ad ogni istante: l'errore è sempre immanente al nostro pensiero; siam condannati a diffidare delle nostre idee, dei nostri sensi, della nostra mente siamo costretti a verificare ogni nostro giudizio. Si verificano i nostri giudizi sottomettendoli all'impero della logica. La logica ci promette la certezza con le tre forme dell'identità, dell'equazione e del sillogismo.

L'identità ci assicura che una cosa è quella che è; dubitare dell'identità è negare ciò che si afferma, è un affermare ciò che si nega, è rendere impossibile perfino il discorso. L'equazione spiega una cosa per mezzo di un'altra che le è uguale: anche qui se X è uguale a B, X è conosciuta e non è se non che B sotto un'altra forma: contestarlo sarebbe contestare B che viene affermato. Il sillogismo è costituito da tre termini, il primo de' quali contiene il secondo, il quale contiene il terzo: accordate le premesse, la conseguenza diventa necessaria e trovasi tutta intera nelle premesse.

Per giungere alla certezza noi invochiamo le tre forme della logica, sottoponendo le nostre cognizioni all'impero della logica, scorgesi che tutte sono contraddittorie e paradossali; lungi dal giungere alla verità, siamo condotti all'assurdo; lungi dal verificarsi i nostri giudizi, sono resi tutti impossibili. Ciò è quanto dimostreremo, sommettendo successivamente alla prova della logica: 1.° le cose della natura; 2.° i pensieri dell'uomo; 3.° le nozioni del giusto e dell'utile che governano l'umanità.


SEZIONE PRIMA

 

DELLA NATURA

 

 

 

Capitolo I

 

DELL'ALTERAZIONE

 

Tutto cambia nell'universo, i corpi si trasformano di continuo, l'alterazione è la prima legge della natura Questa legge non regge alla prova della logica. - In primo luogo essa smentisce la forma dell'identità. Una cosa che cambia non è più quella che era, non è più la stessa: il cambiamento le sostituisce una cosa assolutamente nuova, fornita di nuove proprietà. Richiede l'identità che ogni essere rimanga sempre lo stesso; l'acqua deve restare in eterno la stessa acqua: coll'alterazione le cose non sono mai quelle che sono, non ci bagniamo mai due volte nella stessa onda. - Nell'alterazione, la seconda forma della logica, l'equazione, è anch'essa violata. L'oggetto che cambia, cessa d'essere eguale a sè stesso: non v'ha equazione tra l'infanzia e la virilità, tra la virilità e la vecchiaia; l'alterazione adunque nega la seconda forma della logica. - Anche il sillogismo non può seguire la trasformazione degli esseri. Vi ha forse un sillogismo della generazione? Qual'è il termine medio tra l'albero e i frutti che produce? qual'è il termine medio tra la vita e la morte? non havvene alcuno: i due stati di una cosa che si áltera differiscono, restano sempre distinti, sono due estremi che nessun termine potrà mai riunire. La logica, affrontando l'alterazione col sillogismo, riceve pertanto una terza mentita. L'alterazione è logicamente impossibile, benchè materialmente incontestabile.

Quanto si dice dell'alterazione si applica al moto, il quale non è che si riduce all'alterazione relativa allo spazio. Il corpo in moto è là dove non è; non è là dove è; movendosi, lascia un luogo, ne prende un altro; esso diviene più vicino, più lontano da un dato punto. Il moto adunque fa variare l'ordine delle cose, cambia le proporzioni e trasforma la natura l'áltera, e sotto l'azione del moto essa cessa di essere identica con sè stessa per diventare ciò che non è, un'altra natura.

La distinzione che esiste tra i due stati di ciò che si áltera, ci svela una contraddizione nell'origine d'ogni cosa. D'onde proviene quest'oggetto? Non viene logicamente dal suo stato anteriore, non dall'oggetto che lo precedeva; egli non era, egli è; questo solo è certo: dunque procede dal nulla. L'albero non esce dal germe, ma dal vuoto, creato ex nihilo: l'infante non è generato dal padre e dalla madre; egli viene dal non essere. Il nulla è l'antecedente universale, ogni produzione è una creazione assolutamente nuova e improvvisa. D'altra parte, le cose rientrano continuamente nel nulla. Stando alla logica, l'uomo che muore non è reso alla terra, non è fatto polvere, ma s'annienta; il suo cadavere in dissoluzione, la sua polvere sono cose nuove senza razionale rapporto coll'uomo che viveva.

L'assurdità dell'alterazione è sì evidente, che i filosofi primitivi la riconobbero, appena che si sforzarono di spiegare la natura. Di là i sofismi degli antichi: domandavansi se un grano, due grani, tre grani formavano un mucchio: e si continuava la progressione fino al momento in cui l'interlocutore dichiarava che il mucchio era fatto. Si replicava allora, dunque un grano forma un mucchio; il che valeva quanto dire: dunque il passaggio dal grano al mucchio è arbitrario; dunque non vi ha equazione tra i due termini; dunque il mucchio formasi violando le leggi della logica. La stessa dialettica negava la generazione e la corruzione delle cose. Si diceva: Socrate non può nascere nè prima di esistere nè dopo la sua nascita; se nasce prima di esistere, egli è e non è al momento della sua nascita; se nasce quando già esiste, allora nasce due volte. Lo stesso dicevasi della morte; e qui il dilemma intervertito, domandava se Socrate muore quando è vivo o quando è morto. Vivo non può morire, perchè Socrate sarebbe morto e vivo nel tempo stesso: morto non può morire, perchè in quest'ultima ipotesi morrebbe due volte. Per le stesse ragioni la parete non può cadere, ma deve sempre rimanere in piedi o in terra. La palla spinta in alto non deve mai toccare la vôlta, e se la tocca non deve più ricadere. Insomma, nulla deve cambiare. I sofismi sono stravaganti all'aspetto; ma nella sostanza sono fondati, e da due mille anni impugnano l'alterazione.

Concludiamo. Secondo la natura, il passato genera il presente, il presente genera l'avvenire: secondo la logica, il passato rende impossibile il presente, il presente rende impossibile l'avvenire.

 

 

 

Capitolo II

 

I RAPPORTI TRA I CORPI RENDONO IMPOSSIBILI I CORPI

 

L'azione che i corpi esercitano gli uni sugli altri, è contraddittoria quanto l'alterazione.

Per sè stessa l'azione non è che l'alterazione; chi agisce si áltera. Dunque il corpo attivo cessa di essere identico con sè stesso; esce di sè, si trasporta là dove non è, la sua individualità è fallita, la sua identità violata. Nell'azione il corpo cessa di essere eguale a sè stesso; non havvi alcuna equazione tra il corpo e la sua influenza, tra l'oggetto e le sue proprietà, tra l'ossigeno e la combustione. Infine le deduzione è anch'essa violata, essendo impossibile di dedurre da un oggetto qualunque l'azione che esercita: in qual modo il moto proviene dai muscoli? in qual modo il nervo diventa la premessa della sensazione? Perchè l'occhio è l'antecedente della visione? L'oggetto e la sua azione sono termini distinti, termini che si escludono.

Lo stesso ragionamento si applica al corpo, che subisce l'azione. Esso lasciasi invadere dall'agente, non è più quello che era, diminuisce, aumenta, si áltera, si trasforma; e la sua trasformazione non può essere dedotta nè dalla sua essenza, nè dall'essenza di un oggetto che gli è estraneo.

Se due corpi sono distinti, se la loro distinzione è logicamente accettata, non possono più esercitare alcuna influenza l'uno sull'altro. Se io sono separato dagli oggetti che mi circondano, il mio occhio non può vederli, la mia mano non può toccarli. Viceversa, se è logicamente stabilito che io li vedo, che li tocco, che essi sono in rapporto con me, se è riconosciuto che le cose influiscano le une sulle altre, la logica esige che siano in comunicazione tra esse, e la comunicazione richiede che esse formino una sola e medesima cosa, e che la distinzione delle cose sia considerata come un'illusione. O la distinzione dei corpi, o i rapporti tra i corpi; ecco il dilemma.

Volgarmente si crede che per mezzo del contatto la contraddizione sparisca e che il contatto, termine medio tra la separazione e la comunicazione, valga a conciliare i rapporti colla distinzione delle cose. Illusione! Nel contatto i corpi rimangono gli uni fuori degli altri, isolati, esterni, stranieri gli uni agli altri come grani di sabbia; mentre, al contrario, nel rapporto i corpi si collegano, s'identificano, aderiscono gli uni agli altri. D'altronde, il contatto non è punto necessario al rapporto: due ferri calamitati si attraggono prima di toccarsi, i mondi gravitano gli uni verso gli altri a distanze incommensurate. Vorreste dire che i due ferri calamitati, che i mondi gravitanti trovansi in contatto, mercè i loro fluidi invisibili? Allora negate la separazione visibile per supporre un contatto imaginario; la vostra ipotesi interverte il fatto, suppone falsa la separazione che si vede, e vero il contatto negato dagli occhi. Chi autorizza questa supposizione? Imaginare un contatto fittizio tra la terra ed il sole vale quanto affermare un non contatto ipotetico tra le molecole di un pezzo di ferro. Ne' due casi l'esperienza trovasi egualmente smentita; poi la contraddizione non è tolta. Il contatto di due mondi non ne spiega l'attrazione; la separazione di due molecole di ferro non ne spiega l'adesione. - Il dilemma sussiste; chi ammette i rapporti, nega la distinzione delle cose; chi distingue le cose, rende impossibili i rapporti.

Consideriamo i rapporti nella forma più semplice, nell'azione meccanica. Che accade quando il moto si comunica da un corpo all'altro? Il moto lascia il motore e passa nel mobile. Come? Possiamo supporre che le forze passano dal motore al mobile; una stessa forza, dopo di aver portato il motore nella sua corsa, cambierà il suo carico nel momento dell'urto. Questa ipotesi rispetta la logica; essa separa i rapporti dalle cose, separa le forze dai corpi, e mantiene, da una parte, l'esistenza dei rapporti, dall'altra, l'individualità dei corpi; da una parte ci mostra i rapporti senza corpo, dall'altra i corpi senza rapporto. Tale ipotesi non può essere seriamente discussa. Le forze, non sono esseri indipendenti, si manifestano inseparabili dalla materia. Poi supposte indipendenti, non toglierebbero la contraddizione del rapporto: le forze, invadendo i corpi, li traverserebbero come se fossero ombre, si compenetrerebbero momentaneamente con essi, ne distruggerebbero l'individualità, la distinzione delle cose svanirebbe. Il corpo invaso, cessando d'essere ciò che era, subirebbe ancora l'alterazione del moto. D'altronde, il moto identificato colle forze si separerebbe dai corpi quando le forze se ne separano: si vedrebbe la corsa staccarsi dal cavallo; si potrebbe dire colla scuola di Megara: havvi il cavallo, havvi la corsa, non havvi il cavallo che corre. Infine, nell'ipotesi che separa le forze dalle cose, per rimanere coerenti dobbiamo separare altresì tutte le proprietà da tutte le sostanze: se si divide materialmente il peso dal ferro, si deve staccare materialmente il verde dall'albero, e la stranezza del divagare non ha più limite alcuno.

Ammettiamo che le forze siano inerenti alla materia: ciò posto, le forze non passano più da un oggetto all'altro, non possono più essere trasmesse; nell'urto, il motore non fa che risvegliare le forze latenti del mobile; il mobile non è passivo, si move per una sua propria energia, per una reazione eguale all'azione del motore. E tale è la teoria dei fisici; la meccanica si fonda sul principio che la reazione eguaglia l'azione; ma questo principio scopre appunto la contraddizione che si vorrebbe dissimulare. Voi dite che la reazione eguaglia l'azione; voi dite che il mobile si muove traendo il suo moto dall'energia occulta che esso possiede, e che reagisce; ciò prova che voi sentite la necessità logica di rispettare l'individualità del mobile, di fare che non sia invasa, di mantenere la distinzione che la separa da ogni altro oggetto. Spinto dalla logica, isolate talmente il mobile, che gli supponete tutte le forze che gli hanno dato e gli daranno il moto. Non è dunque evidente che il fatto della reazione distrugge la vostra teorica dell'azione? Non volete che le forze del motore si trasportino nel mobile; volete che stiano nel motore. In qual modo il motore risveglierà dunque la reazione là dove non è, nel mobile? Che le sue forze vi si trasportino lasciandolo o non lasciandolo, non cessa egli di esercitare una azione esteriore al suo essere, all'interno di un altro oggetto; non cessa di essere là dove non devesi trovare, non cessa di dare una mentita alla distinzione dei corpi. Che l'essere sottoposto all'azione la subisca passivamente o reagendo colle proprie forze, egli non di meno è invaso o distrutto nella sua identità, e questa volta colla differenza che la reazione è un mistero aggiunto al mistero dell'azione. Dicesi che il mobile è dotato di forze latenti, che possiede una potenza occulta: qual'è questa potenza? Essa può tutto ciò che può diventare il mobile; è la potenza della sua rapidità, della sua lentezza, del suo ingrandire, del suo diminuire; è, come si dice, la sua forza d'inerzia, la forza della sua immobilità e del suo moto, la forza dei contrari. Dunque ogni essere contiene in potenza tutte le sue trasformazioni future; dunque contiene in sè medesimo il suo proprio destino. A che giova dunque l'azione esteriore? Il motore è inutile, il rapporto esteriore è annullato, il principio della reazione addentra e nasconde tutti i rapporti nel fondo di ogni oggetto. - Quando si suppone che ogni mobile contiene in sè il principio d'ogni suo moto, la logica vuole che contenga in sè il principio d'ogni sua alterazione, d'ogni sua trasformazione. Si applichi dunque l'ipotesi della reazione alla coesione, alle affinità chimiche, all'attrazione, a tutte le forze, siano desse proprietà o qualità. Secondo il principio della reazione, tutta l'azione che l'universo esercita sopra una data cosa, si troverà a priori in questa stessa cosa. Si dovrà dire: non è la terra, non è la pioggia, non è l'aria, non il sole che sviluppano questo germe e ne fanno un albero; il germe ha creato l'albero colle forze latenti della sua reazione; l'albero si è formato da sè e in questo modo ogni essere rende inutile l'universo; su questa via si giunge alla conclusione, che tutto è in tutto. Restituendo i rapporti alle cose si fa d'ogni cosa un universo, e quindi sotto altra forma la distinzione degli esseri resta distrutta. Dobbiamo adunque ripetere con Platone, che il rapporto rende dubbia ogni cosa.

 

 

 

Capitolo III

 

OGNI ESSERE È PER SÈ STESSO CONTRADDITTORIO

 

Abbiamo visto che l'alterazione viola la logica, che i rapporti tra le cose sono contraddittorii, v'ha ogni cosa prima d'alterarsi e isolatamente considerata, contiene la contraddizione nel fondo del suo essere. In che consiste la cosa? Da un lato un oggetto unico, un essere indivisibile, individuale, è, come dicevano gli scolastici, un'ecceità; l'albero è sempre uno, nel tronco, ne' rami, nelle radici, in ogni sua parte. Dall'altro lato, la cosa si compone di varie parti, l'albero può essere scomposto; possiamo separare il tronco dai rami, dalle radici, e spingere la divisione fin dove vogliamo. Ora, perchè la cosa fosse un oggetto logico, bisognerebbe trovare l'equazione tra il tutto e le parti, bisognerebbe che l'unità del complesso fosse eguale alla somma degli elementi multipli che lo costituiscono. Ma l'equazione del tutto colle parti non si avvera mai: il tutto è sempre maggiore delle parti. Dov'è l'essere che vive? Nel cuore? nel cervello? nei nervi? nel sangue? Egli è in tutti i suoi organi e, di più, è vivente. L'albero, il fiore, il minerale hanno una vita come l'animale, e l'unità di questa vita non si trova mai nelle loro parti integranti. Poi, per il tutto ogni cosa è una, per le parti è multipla: in qual modo l'unità può trovarsi nel multiplo? in qual modo gli elementi multipli possono riunirsi in una cosa una ed indivisibile come la vita? Non v'ha equazione; il passaggio dal tutto alle parti è una vera contraddizione.

La contraddizione dell'uno e del multiplo passa dalle cose sensibili alle nostre proprie astrazioni. Osservate i numeri dell'aritmetica: ogni cifra differisce dalle unità che la compongono; il dieci è altro che dieci unità, il tre è altra cosa che tre unità; i divisori e i multipli variando nelle diverse cifre, ogni numero è fornito di proprietà che non trovansi ne' suoi elementi. I numeri sono sì distinti, sì diversi, che non possono essere tradotti gli uni negli altri; il dieci non è divisibile per nove, nè il tre per due. Per la stessa ragione, non c'è dato di trovare la quadratura del circolo: si inscrivano quanti quadrati si vogliono nel circolo, essi non hanno ne le proprietà, nè le dimensioni della figura circolare, e la traduzione in misure rettilinee diventa impossibile. Così nella matematica come nella fisica, il tutto combatte le parti, mentre le parti combattono il tutto.

 

 

 

Capitolo IV

 

LE CONTRADDIZIONI DELLA MATERIA

 

 

La materia ci presenta due serie di qualità, le une primarie, le altre secondarie; le qualità primarie sono l'impenetrabilità, la mobilità, l'estensione e la figura; qualità che si chiamano primarie perchè supposte in tutti i corpi. Una cosa che non fosse nè impenetrabile, nè mobile, nè estesa, nè figurata, non sarebbe un corpo. Le qualità primarie sembrano destinate a soddisfare la logica; esse sono, per così dire, intelligibili e ragionevoli, perchè contemplano sempre la natura sotto l'aspetto della quantità. Secondo le qualità primarie, il mondo è una quantità di materia senza origine e senza fine; la materia dividesi in particelle eguali o ineguali, si combina in mille modi senza che cessi d'essere sempre la stessa materia, la stessa quantità, sempre eguale a sè stessa. La disposizione sola varia. Supponiamo che la disposizione ai tempi di Mosè fosse A, ai tempi di Gesù Cristo B, ai tempi di Maometto C; si avrà la doppia equazione A=B=C. Le qualità primarie sono adunque ragionevoli; per esse lo studio della natura diventa logico, e se si vuol costruire il mondo non si ha più che a domandare una data quantità di materia e di moto.

Sotto l'azione della logica le qualità primarie cessano immediatamente di essere razionali, e sono lungi dallo spiegare il mondo, lo rendono imopssibile.

Prendiamo l'impenetrabilità della materia; la logica richiede che ogni atomo sia inaccessibile agli altri atomi, che rimanga eterno, impassibile con tutte le sue qualità, che non entri ne' diversi composti se non conservando la sua individualità. Ciò posto, ci converrà negare le affinità chimiche, la fusione, l'assimilazione organica, tutti i processi coi quali la natura elabora le sue creazioni. In essi gli elementi, i componenti si distruggono mutuamente per costituire nuovi esseri dotati di nuove proprietà. Unite due gas, avrete un liquido, l'acqua: unite l'ossigeno al mercurio, l'uno aeriforme, l'altro liquido, e avrete un precipitato. Il calore è imponderabile; coll'invadere un solido, il ghiaccio, l'oro, il ferro, vi dà un liquido: combinate un seme con una diversa quantità di terra, di aria e di acqua, a capo di qualche anno avrete un albero; deponete un germe in un essere vivente, e vedrete nascere un vivente. Dappertutto l'affinità, la fusione, l'assimilazione fanno sparire due o più elementi per far apparire una cosa affatto nuova. Ma ammessa l'impenetrabilità, la logica vieta il cambiarsi degli elementi; quando li elementi cambiano, vieta al composto di manifestarsi. Dunque tra l'impenetrabilità della materia e le metamorfosi della natura non vi ha nè identità, nè equazione, nè deduzione, vi ha la distanza della contraddizione.

Supponiamo che i componenti rimangano distinti, che il composto si riduca ad una semplice mescolanza senza fusione, a una nuova disposizione di atomi senza assimilazione. Il mondo che uscirà dalla mescolanza delle materie non sarà il mondo in cui viviamo, sarà un mondo in cui ogni qualità unita a una sostanza durerà sempre, e in cui la distruzione della qualità sarà impossibile. In tale mondo le cose si mostreranno variamente disegnate, come mosaici mobili i cui colori saranno eternamente gli stessi. La nascita, la morte saranno tolte, la fusione generatrice per cui la vita si rivela in un essere sostanziale, unico, indivisibile non potrà mai realizzarsi; si vedranno atomi sgranati, non si vedrà alcun oggetto. - Si risponderà: «la natura è in realtà come voi dite; tutto si compone di atomi sgranati, mobili, che cambiano di posizione senza cambiare di essenza; la logica non ci permette di concepire altrimenti la natura; se la vedete in balia dell'assurdo, se i vostri occhi ve la mostrano elaborata e travolta da continue fusioni in cui le qualità nascono, spariscono, cambiano di forma, il torto è vostro; accusate i vostri sensi, la vostra irriflessione, e cedete alla ragione, che stabilisce l'impenetrabilità della materia.» Richiesto, accorderò che la materia è impenetrabile, che la fusione e le metamorfosi della natura non sono che false apparenze, vere illusioni. La nascita, la morte, l'individualità degli esseri siano pure nostri errori. Bisognerà dunque spiegarmi questi errori; e se esistono, anche solo come errori, bisogna renderne ragione dinanzi alla logica. Perchè l'impenetrabilità prende essa l'apparenza della fusione, della vita, della penetrabilità? Perchè l'illusione sarà essa nella penetrabilità piuttosto che nella impenetrabilità? A diritto o a torto l'impenetrabilità prende l'apparenza della penetrabilità; come mai l'impenetrabilità può opporsi così a sè stessa, e creare l'errore della sua propria contraddizione? Questa metamorfosi viola la logica; e se ammettiamo che l'impenetrabilità può diventare l'errore della compenetrazione, perchè non potrebbe essa diventare realmente penetrabile? Siate logico o illogico: non è lecito fermarsi a mezza via.

Anche la seconda delle qualità primarie della materia, la mobilità, si ribella ai fatti che deve spiegare. Non v'ha dubbio che la materia sia mobile, si può metterla in moto, traslocarla: e la mobilità non darebbe luogo a contestazione se la materia non fosse nel tempo stesso motrice, cioè energica, attiva, capace di dare e di darsi il moto. Il vostro corpo che muove la materia è alla sua volta materiale. Ne nasce che da una parte la materia è immobile, d'altra parte è motrice; da una parte riceve il moto, d'altra parte lo dà; di modo che la materia è nel tempo stesso inerte e energica, passiva e attiva. Ora un medesimo oggetto non potrà mai essere passivo e attivo, non potrà mai essere i due contrari senza contraddirsi; bisogna che sia mobile o motore. Il motore suppone un punto di appoggio, dev'essere in sè, deve essere immobile; se non resiste al proprio sforzo, cede, è mobile, è mosso, non muove. Se un oggetto fosse nel tempo stesso motore e mobile, esso avrebbe in sè due parti distinte, la parte che dà il moto e quella che lo riceve; esso avrebbe in sè un motore ed un mobile, l'uno immobile, l'altro in moto; il primo respingerebbe il secondo con tutta la forza della logica, non potendo identificarsi con esso senza costituirsi nel tempo istesso immobile ed in moto. Istessamente se la parte motrice fosse alla sua volta mobile, dovrebbe essa pure contenere un nuovo motore, il quale, ancora per ipotesi essendo mobile, dovrebbe contenerne un altro che bisognerebbe cercare progredendo all'infinito, finchè lo si trovasse immobile e assolutamente al di fuori della natura. Ne consegue che ammesse la mobilità, la passività della materia, la logica rende impossibile l'attività delle cose, nega le mille potenze che animano gli oggetti della natura, distrugge le qualità secondarie eternamente creatrici di esseri sempre nuovi.

Si dirà: «perchè non uscire dalla contraddizione trasportando «in Dio il principio d'ogni moto?» per mille ragioni, tra le altre perchè la forza motrice è dappertutto nella natura. Io la vedo nelle qualità secondarie, in ogni proprietà; nelle affinità delle molecole, nella gravitazione dei mondi. Per voi i cieli e la terra celebrano la gloria di Dio; per me i cieli e la terra sono altrettante divinità: per voi le forze motrici non son che mobili, suppongono un motore trasmondano, e non sono motrici che per una nostra illusione; ma prima di lasciare la terra per trasportarmi in una regione trasmondana, io voglio e devo guardare al punto di partenza. Esso è tutto nel dato che la materia è mobile; voi la dichiarate mobile in realtà, motrice per illusione. Perchè non sarebbe essa, al contrario, motrice in realtà, e mobile per illusione? Le sue qualità primarie sono passive, le sue qualità secondarie sono attive, energiche; la doppia apparenza è contraddittoria, i due termini si escludono: l'azione e la passione si rendono impossibili a vicenda. Per qual ragione sceglieremo noi il primo termine piuttosto che il secondo come punto di partenza? Perchè non diremo noi che la mobilità è illusoria, che si riduce ad una falsa apparenza, che questa apparenza è creata dalle forze, le quali sono chiamate secondarie per errore, mentre son creatrici delle qualità primarie? L'alternativa è geometrica, il dilemma inevitabile, la scelta impossibile.

La terza qualità primaria della materia ripugna, come le due precedenti, alle qualità secondarie della natura. Mentre si dice che la materia è estesa, convien pur dire che la materia è energica, attiva, fornita di forze; ogni qualità secondaria è una vera forza; perciò il colore agisce sull'occhio, il suono sull'orecchio. Possiamo noi combinare l'idea della forza con quella dell'estensione? Le forze sono desse estese? Possiamo noi attribuirle all'estensione? No: la forza è una e indivisibile, è la forza che dà unità al corpo vivente, che ne domina le diverse parti, che le costringe a formare un tutto unico; e se la forza è una, essa rende impossibile il multiplo della estensione, rende impossibile la terza tra le qualità primarie della materia. - Per combinare la forza coll'estensione non ci resta altro espediente che quello dello spiritualismo, dando un'anima ad ogni corpo; e supponendo che in ogni corpo la forza è un'anima, un'essenza, un'entelechia, una monade, come più piace, ma sempre spirituale, cioè una e indivisibile. Però in quest'ipotesi l'anima e il corpo si rendono impossibili a vicenda, e per isfuggire una contraddizione cadiamo nelle mille antinomie dello spirito e della materia. Dopo creata l'anima, dopo identificata la forza coll'anima, non possiamo più raggiungere il corpo; l'anima, l'essenza, la monade, non possono nè indebolirsi, nè fortificarsi, nè nascere, nè morire; sono logiche, sono eterne; meri spiriti, non possono nè dare il moto agli organi, nè dominare la materia estesa; e lo spiritualismo, per ispiegare il fatto dell'unità degli esseri e dell'indivisibilità delle forze, si trova immediatamente, assolutamente fuori della natura, dove si nasce e si muore, e ogni cosa si compone di parti estese. Quindi la sicurezza colla quale il materialismo risponde alle argomentazioni dello spiritualismo, che appagano la logica, ma mentono; procedono per identità, ma non sono di questo mondo. Quindi il dilemma di credere all'anima o al corpo, all'uno o al multiplo, cioè alla forza o all'estensione; dilemma eterno, non essendoci concesso nè di negare l'unità, nè di negare l'estensione, nè di considerare la forza come un'illusione della materia che si opporrebbe a sè stessa, nè di considerare l'estensione come un'illusione della forza che si opporrebbe a sè stessa; non essendoci dato neppure di preferire l'uno o l'altro de' due termini, poichè sono entrambi egualmente patenti e irresistibili. In breve, l'estensione rende impossibile il mondo, e il mondo rende impossibile la materia estesa.

Lo stesso ragionamento si applica alla quarta delle qualità primarie, la figura; la forza che dà la figura, e l'essere che la riceve si escludono a vicenda. La prima non si manifesta all'occhio, s'induce, ma non si vede, si divina, ma non si conosce; prima di agire non è nello spazio, dopo l'azione non lascia vestigio di sè. Una e indivisibile come il triangolo, il quadrato, il circolo, riunisce più particelle della materia, le costringe a convergere verso un solo scopo; in questo modo appunta in sei triangoli il cristallo di rocca, disegna i petali della rosa, e li schiera in un unica corolla. Essa novera, misura le vertebre, i muscoli, i nervi, le vene, gli organi degli animali, organizzati ciascuno da una cifra unica e misteriosa, dotata di multipli e di divisori invariabili. La cifra che ha dato cinque dita alla mano dell'uomo, trentadue denti alla bocca, la qualità agli organi esterni della vista, dell'udito, dell'odorato, della azione e della locomozione, non può in niun modo essere nè estesa, nè divisibile, nè tangibile. Se la figurabilità appartiene alla materia, se è l'evidente proprietà degli esseri; se gli alberi sono alberi, e gli uomini uomini, dobbiamo loro negare la figura. La figurabilità crea, e la figura è creata; essa muove, e la materia è mossa; essa combina, e la materia è combinata; essa dispone, e la materia è disposta; essa è artefice, e la materia è oggetto dell'arte. San Tomaso direbbe che è indivisibile, e la materia è misurata; Spinoza direbbe che è naturante, e la natura è naturata. Dunque dal principio della figura alla figura non vi ha passaggio matematico; tra i due termini vi ha solo la distanza della contraddizione. E qui ancora, se il principio figurativo è reale, la figura è un'illusione; se la figura è reale, l'illusione è nel principio figurativo. Dov'è la verità? dove l'illusione? Non possiamo rispondere, non possiamo ricorrere allo espediente di accusar d'errore l'uno de' due termini del dilemma: perchè, vero o falso, il termine accusato non cesserebbe di esistere; se non si spiega come vero, bisogna spiegarlo come falso, come errore: e la spiegazione costerebbe alla logica quanto la sua vera e reale creazione. Volete dedurre l'illusione della figura dal principio figurativo? conviene che il principio si smentisca per dare l'illusione del suo contrario; volete dedurre il principio figurativo dalla figura? convien che la figura si smentisca, e sempre per dare l'illusione di ciò che la distrugge. Non v'ha uscita: la contraddizione sarà eterna.

Così, secondo le qualità primarie, il mondo di Mosè, di Gesù Cristo e di Maometto è lo stesso, ha variato solo per la disposizione delle parti, e vi ha equazione perfetta fra le tre età. Secondo le qualità secondarie, le tre epoche non sono equivalenti e si sono sviluppate dando una triplice mentita all'impenetrabilità, alla mobilità, all'estensione ed alla figura della materia. Una stessa identica materia è adunque penetrabile e impenetrabile, mobile e senza moto, estesa e inestesa, figurata e senza figura: ciò ripugna alla ragione, ma è.

Per isfuggire all'assurdo si dice da alcuni: «Una stessa cosa non potrebbe essere eguale e diseguale a sè stessa; rendiamo ragionevole il mondo, rendiamolo possibile. Giacchè le qualità primarie si oppongono alle secondarie, separiamo le une dalle altre; diamo le qualità primarie alla materia, agli atomi, alle molecole; le qualità secondarie ad altri esseri, come le essenze, le anime, le monadi. La contraddizione sparirà». No, essa durerà sempre. Separiamo la materia dalle sue qualità secondarie, consideriamo le qualità secondarie come esseri indipendenti, e, se si vuole, come puri spiriti. In quest'ipotesi le cause della cristallizzazione, della vegetazione, della vita, saranno staccate dalle materie, saranno senza estensione, senza figura, senza passività, senza resistenza (cioè penetrabili). Che saranno esse? forze senza materie, essenze immateriali, entelechie, anime in pena, esseri fantastici, e tutte le contraddizioni saranno capovolte e allora converrà dirci in qual modo l'essere senza figura potrà dare la figura; come l'essere inesteso potrà agire sulla estensione; come all'essere penetrabile qual ombra sarà dato di agir su corpi resistenti; infine come l'essere attivo, spoglio d'ogni passività, potrà comunicare il moto, esso incapace di sforzo, di conato, di contrazione e di espansione, essendo incapace di resistenza e di reazione. E che? non sarà la vita inerente al corpo vivente? La cristallizzazione sarà esteriore al cristallo? la vegetazione non sarà nel vegetale? e l'affinità molecolare scorrerà al di fuori delle molecole? Ecco l'universo popolato di animali invisibili, di alberi intangibili, di minerali, di roccie impercettibili e immateriali.

D'altra parte, qual sorte subirà la materia colle quattro qualità primarie che le si vogliono lasciare? Essa è inerte, passiva; senza colore, non si mostra più all'occhio; senza odore, senza sapore, sfugge all'odorato e al palato; non dà più suono, non può più esser udita, non resiste più al tatto, avendo perduta la coesione che deve alle qualità secondarie. Dunque la materia sparisce, diventa intangibile, non è più la materia, e trovasi ormai eguale al non essere. Chi vuoi evitare la contraddizione tra le qualità secondarie e le qualità primarie, tra la natura e la materia, trovasi ridotto a creare una natura che non è la natura, e una materia che non è la materia; deve creare due mondi invisibili, come se l'ombra aggiunta all'ombra potesse generare la luce. Ogni qualvolta si vuole eludere la contraddizione non si fa che raddoppiarla.

 

 

 

Capitolo V

 

I GENERI E GLI INDIVIDUI SI ESCLUDONO

 

I generi si mostrano nello stesso tempo che gli individui e classificano gli oggetti secondo le loro somiglianze. Il genere esiste realmente: quando io guardo un uomo, io vedo un uomo: il genere è un fatto certo, come la nostra esistenza, come la nostra scienza, come il nostro linguaggio. Questo fatto è logico? Il genere e l'individuo differiscono, oppongonsi l'uno all'altro, e sotto l'impero della logica finiscono per contraddirsi.

Esaminiamo il genere: dov'è desso? negli individui, è in essi che si appalesa; ma secondo la logica è possibile che il genere sia unito agli individui, è impossibile che ne sia superato.

Se il genere si unisce coll'individuo, vi saranno due cose in una medesima cosa; lo stesso essere sarà in un medesimo tempo un uomo e l'uomo; non sarà uno, sarà doppio. Il genere che è intelligibile, che non occupa alcun punto dello spazio, si troverà nel luogo delle cose che si rassomigliano, seguirà l'individuo che cammina, si fermerà quando l'individuo si ferma, giacerà quando l'individuo giace. Inalterabile il genere, si troverà compenetrato coll'individuo che si áltera e perisce; unico ed indivisibile, si troverà nel medesimo tempo tutto intero in una moltitudine di cose distinte; il genere uomo sarà nello stesso momento in tutti gli uomini, in Atene, in Roma, in Parigi. Il numero degli uomini varia ad ogni istante: l'uomo dovrà subire questa variazione senza variare, dovrà moltiplicarsi, diminuire e rimaner sempre uno e invariabile. Anche qui troviamo la contraddizione dell'uno e del multiplo che abbiam veduto sorgere in ogni individuo coll'opposizione del tutto e delle parti.

Se il genere non può stare unito all'individuo, non può neppure separarsene. Se vi fossero esseri come l'uomo separato da tutti gli uomini, la bianchezza separata da tutto quello che è bianco, simili esseri formerebbero un mondo a parte, senza rapporto alcuno con il mondo materiale. Quindi se il genere fosse indipendente, cesserebbe di contenere l'individuo; nessun uomo sarebbe uomo, nessuna sostanza sarebbe sostanza, le somiglianze sarebbero separate dagli oggetti che si somigliano, tutto svanirebbe in un'alterazione, in una differenza per noi inconcepibile ed ineffabile. Le somiglianze sarebbero in un altro mondo; e di che sarebbero esse somiglianze? di nulla. Così, separando i generi dagli individui, creansi due mondi opposti, l'uno generale, l'altro individuale; l'uno eterno, l'altro variabile; ciò che sarebbe vero del genere sarebbe falso dell'individuo; la verità dell'individuo sarebbe l'errore nel genere. Nell'ipotesi de' generi indipendenti, invece di sparire, la contraddizione ingrandisce.

Dimentichiamo gli individui: anche tra loro i generi non possono nè combinarsi, nè separarsi. La natura ci mostra che essi si combinano, formano una gerarchia; i più astratti contengono i generi inferiori; e ogni nostra scienza si fonda sulla gradazione conc atenata dei generi. Pure, secondo la logica, ciascun genere essendo uno ed indivisibile, non può trovarsi in altri generi: l'animale non potrebbe scendere nell'uomo, nel cavallo, nel gallo, senza essere uno e multiplo, senza riprodurre nella sfera delle generalità quella contraddizione del genere e dell'individuo per cui l'uomo è ad un tempo tutto intero nell'abitante di Roma e in quello d'Atene. Il genere animale unito al genere dei mammiferi, poi a quello dei cavalli, ci presenterebbe l'identificazione di tre generi distinti, la compenetrazione di tre esseri in un essere, e sempre un essere uno e multiplo, e però contraddittorio. Supponiamo che i generi non si combinino, che restino separati gli uni dagli altri; allora i generi superiori non saranno nei generi inferiori; allora l'uomo non sarà un animale, l'animale non sarà un corpo, il corpo non sarà un essere. La contraddizione si presenta sotto una nuova forma.

Senza traccia d'indiscrezione potrei domandare se i generi sono qualità o sostanze, attributi o cose. Nel primo caso, se i generi sono qualità, allora le sostanze si somiglieranno in forza di esseri che non sono sostanze; i generi non staranno da sè, dovranno aderire ad una sostanza: qual sostanza? non la sostanza in generale, perchè essa pure è una qualità; non le sostanze in particolare, perchè particolarizzate dalle loro qualità determinate dai generi. Quindi i generi saranno raminghi nell'universo, incapaci di stare da sè e di trovare un punto d'appoggio. Se i generi sono sostanze, vorrei sapere come potrà esservi un genere uomo, mentre io non sono uomo che in forza delle mie qualità tutte generiche, come i sensi, la ragione, la statura, l'organismo. Potrei ancora domandare se il genere è bello: dato che io accordi la bellezza al genere, corro pericolo di aver contro di me tutte le persone deformi, che resteranno maledette dal genere, poi, in sì strana posizione che i deformi non potranno più rassomigliarsi tra loro. Se il genere non è bello, allora domando mi si conceda di creare un genere di più per la bellezza: nel tempo stesso non si rifiuti neppure ai ciechi ed ai deformi un genere a loro immagine, perchè possano somigliarsi. Qual'è il rapporto fra il genere dell'essenza e quello della bellezza? tra il genere della bellezza e quello della deformità? Quanto più m'inoltro, più i contrari si moltiplicano: io mi fermo. La prima volta che la filosofia si innalzava, col genio di Platone, nel cielo dei generi, fu creduto che i destini della scienza fossero assicurati per sempre, e che i principi del mondo sensibile sarebbero tolti alle contraddizioni che li straziano. Il giorno dopo, Aristotele applicò la logica ai generi, e mostrò che raddoppiavano tutte le contraddizioni.

Per mettere un termine alla contraddizione fu imaginato di negare i generi e di considerarli come semplici illusioni del nostro spirito. Ma il tentativo è inutile: lo ripetiamo, il genere è dato nello stesso tempo che l'individuo e i due termini devono essere accettati o negati nel tempo stesso. Ammettiamo noi che ci sia dato di considerare l'uno o l'altro dei termini siccome erroneo; quale di essi sarà il vero? L'individuo? allora ogni genere sarà un errore, il più alto de' generi, l'essere, sarà il più grande degli errori: allora ciò che sarà più lungi dall'essere sarà ciò che esiste di più, vi saranno soli individui; saranno e non si potrà più dire che sono: non si potrà più ragionare di ciò che esiste o non esiste: l'essere, il non-essere non avendo più senso, la realtà dello stesso individuo cadrà nel nulla. Vogliamo noi preferire il genere come vero, accusando l'individuo d'essere un'illusione? la realtà sarà in ciò che v'ha di più vago, di più indeterminato; l'individuo sarà eguale al nulla; bisognerà non essere nè uomo, nè animale, nè albero; bisognerà sparire per godere la pienezza dell'esistenza. Ecco il dilemma che si offre quando si pretende stabilire un'alternativa fra il genere e l'individuo; dilemma falso, perchè due fatti simultanei devono essere egualmente accettati; dilemma senza uscita, perchè ci manca il motivo per la scelta. Sotto un aspetto l'essere è tutto, e tolto l'essere nulla è possibile; Sotto un altro aspetto l'individuo è tutto, l'essere senza qualità, senza determinazione, non ha tampoco l'esistenza. I due punti di vista sono egualmente necessari, essi esigono la preferenza per lo stesso titolo: quello di essere inevitabili.

 

 

 

Capitolo VI

 

LA CAUSA E L'EFFETTO SI ESCLUDONO

 

Alcuni principj si presentano come le condizioni dell'universo, come le ipotesi necessarie della natura. Questi sono i principi della causa, della sostanza, del tempo e dello spazio. Lo spazio è necessario all'esistenza del corpo, il tempo a quella del moto; la sostanza è il substrato indispensabile delle qualità, la causa è il principio primo d'ogni manifestazione. Nel fatto i principj enunciati sono la base del mondo materiale, ma sotto l'impero della logica essi lo rendono impossibile.

Nulla accade senza una ragione sufficiente. Ecco il principio della causalità, il quale fa supporre ogni fenomeno generato da una causa e fa dipendere ogni oggetto da un oggetto anteriore che lo produce. Ma chi non vede che la distinzione della causa e dell'effetto si riduce a dividere l'alterazione in due momenti? Non è forse ovvio che le contraddizioni dell'alterazione devono passare nel movimento della causa verso l'effetto? Se la causa esiste, essa dovrà sempre esistere qual'è, nè generare cosa alcuna; la logica, esigendo l'identità eterna della causa, rende l'effetto impossibile. Che, se si ammette l'effetto, sarà impossibile di trovargli una causa senza supporre che in un dato momento. esso non era, e la logica, esigendolo sempre identico, sopprime la causa che lo genera.

Esaminiamo tutte le forme della causalità; la contraddizione tra la causa e l'effetto sarà sempre la stessa.

Primo caso. La causa indivisibile dall'effetto passa tutta nello effetto: così opera la natura, in cui il presente è figlio del passato. In questo caso la causa e l'effetto non sono letteralmente che i due momenti dell'alterazione, e quindi l'uno esclude l'altro.

Secondo caso. La causa genera l'effetto senza alterarsi e rimanendo distinta dall'effetto: dopo d'aver lasciato uscire dal suo seno un altro oggetto, dessa è ancora quella che era e conserva sempre le sue qualità. Egli è in tal modo che, secondo i Cristiani, Dio fa il mondo senza diminuirsi; qui l'effetto viene dal nulla e s'informa dall'assurdo.

Terzo caso. La causa genera l'effetto, modificandosi nel modo che la madre partorisce il figlio. Qui v'ha da una parte l'alterazione, dall'altra l'apparizione di una cosa nuova; da una parte la causa si modifica, si trasforma, cessa di essere quella che era, e trovasi condannata dalla logica; dall'altra parte, abbiamo un fatto nuovo, un fatto che emana dal nulla, e che non evita l'assurdità della sua origine se non appoggiandosi sull'assurdità anteriore della causa che si áltera.

Quarto caso. La causa contiene l'effetto, come la casa contiene i mobili, e l'effetto esce dalla causa senza alterarla e senza derivare dal nulla la sua propria origine. In questo caso la causa è un mero spostamento, essa tocca solo l'ordine delle cose, essa è logica; ma questo è il solo caso che non si verifica mai nella natura; non si dice mai che la casa sia la causa dei mobili che contiene. L'alterazione è sempre necesaria, perchè l'effetto sia da noi riferito ad una causa che precede.

Dunque, la causa e l'effetto invece di unirsi, si respingono a vicenda; i due termini non sono che i due momenti contraddittorii dell'alterazione o del rapporto.

 

 

 

Capitolo VII

 

LA SOSTANZA ESCLUDE LA QUALITÀ

 

Le qualità non possono stare da sé; esse suppongono sempre un essere al quale appartengono, suppongono una sostanza. Questo è un fatto; e se noi ne cerchiamo la ragione, troviamo che il fatto contiene una contraddizione.

Egli è certo che la qualità e la sostanza sono due cose distinte; tra loro non vi ha identità, nè equazione, nè sillogismo. Dunque esse si uniscono a caso: il vincolo che le unisce è assolutamente incognito e per noi interamente arbitrario. Dicesi che la qualità suppone la sostanza, che la sostanza è la condizione che permette alla qualità di esistere; tale è la nostra credenza; ma nella bilancia della logica la qualità e la sostanza pesano egualmente, sono due nozioni di egual valore; se l'una d'esse si pretende condizione dell'altra, la logica non può accettare la pretensione prima d'averla verificata coll'identità, coll'equazione e col sillogismo. Se la sostanza si pretende condizione della qualità, la mancanza d'ogni prova permette d'intervertire la pretensione in favore della qualità: perchè la qualità non sarebbe essa la condizione della sostanza? Io non conosco le sostanze se non per le qualità.

Data la qualità, la logica nega la sostanza; data la sostanza, la logica nega la qualità. Cominciamo dall'ammettere le qualità. Dove è la sostanza? Essa è sotto le qualità, nell'interno delle cose; si giunge ad essa solamente spogliando le cose d'ogni loro qualità. Tolto il colore, il peso, la resistenza, resta la sostanza. Che è dessa adunque? Tolte le qualità, nulla rimane; la sostanza diventa eguale a zero: e ne consegue che le qualità si fondano sul nulla, e che il nulla è la condizione delle cose, il principio del mondo. Al contrario, prendiamo le mosse dalla sostanza; la qualità svanisce. La sostanza è un essere intelligibile, generico, come l'uomo, come l'animale; dunque non ammette gradi, nè alterazione, nè diminuzione, nè aumento nel suo essere. Dunque sarà sempre la stessa sostanza in tutti gli esseri, in quel modo che l'uomo è sempre lo stesso in tutti gli uomini. Dunque la natura avrà una sostanza unica; la sostanza di Nerone sarà identica a quella di Socrate, i due uomini non saranno separati che per un errore della nostra mente. In altri termini, la sostanza assorbirà tutte le sostanze, non permetterà loro di esistere, e da ultimo, lungi dall'essere la condizione delle cose, non lascerà alcun posto agli oggetti di questo mondo, agli esseri della natura; invocata per renderli possibili, li renderà impossibili. Ecco la sostanza nemica delle sostanze, e distruggitrice di tutti gli esseri della natura: chè diremo noi delle qualità, continuando a interrogare la sostanza? Esse non si presentano come attributi della sostanza generale, ma bensì come attributi di sostanze particolari: i colori sono i colori degli oggetti, le affinità sono le affinità delle molecole, le forze sono le forze di questo o di quel corpo. Le qualità si riuniscono, si separano, si aggruppano, non già come i colori di un caleidoscopio inerenti a un tutto unico. ma aderiscono a migliaja di oggetti distintissimi. Dinanzi alla sostanza universale gli oggetti sono illusioni, ombre, o al più attributi, qualità; che saranno dunque le qualità degli oggetti? saranno le ombre delle ombre, le qualità delle qualità; esse cadono a nulla come altrettante negazioni.

Se per un sentimento d'equità vogliamo concedere una particella d'essere alla sostanza, una particella alla qualità, in modo che l'una e l'altra possano convivere, a dispetto della logica, in questo caso, lungi dal conciliarle, le separiamo in una maniera più compiuta. La sostanza rimarrà ciò che è: una, indivisibile, inalterabile; le qualità rimarranno ciò che sono: qualità delle cose ch'esse formano e costituiscono, in realtà o per semplice illusione, poco importa. La pluralità degli esseri sarà dovuta unicamente alle qualità, perchè la sostanza inalterabile non è attiva, nè generatrice, nè creatrice; gli esseri formati dalle qualità resteranno affatto estranei alla sostanza. Quindi le qualità sussisteranno, agiranno, e basteranno a sè come altrettante divinità; quindi la sostanza oziosa ne' suoi limbi non avrà parte alcuna a sostenere nell'universo, nè sarà la condizione delle qualità.

 

 

 

Capitolo VIII

 

LO SPAZIO E I CORPI SI ESCLUDONO

 

Secondo la natura lo spazio è la condizione del corpo, il mondo è nello spazio; secondo la logica lo spazio rende il corpo impossibile, la natura esclude lo spazio che occupa.

Analizziamo lo spazio. È desso una qualità? non offre punto la apparenza delle qualità; ma sta da sè e basta a sè stesso. È desso una sostanza? la sua natura è di non essere sostanziale; esso è vuoto, accessibile ad ogni cosa, esiste come se non esistesse. È desso il nulla? Dacchè si parla della sua esistenza, dacchè le due nozioni dello spazio e del nulla sono distinte, lo spazio deve pur essere qualche cosa, e bisogna che vi sia un principio che spieghi il suo apparire. Lo spazio non è dunque nè la qualità, nè la sostanza, nè il nulla; condizione apparente di tutto ciò che è materiale, si lascia invadere da ogni cosa, ed è immateriale. In qual modo sarà dunque condizione del corpo? Lungi dal supporlo, il corpo deve escluderlo. La cosa è semplice. Il corpo occupa lo spazio, dunque, giusta la logica, il corpo che occupa lo spazio ci offre due fenomeni compenetrati in un solo fenomeno: il corpo e lo spazio; i quali uniti avranno due volte le tre dimensioni: una volta nel corpo, una volta nello spazio. Due cose, due termini distinti, formeranno un sol termine: uno e doppio, contraddittorio.

L'opposizione dello spazio e del corpo è la stessa di quella del vuoto e del pieno. Il vuoto si oppone direttamente al pieno, nessuno lo nega: è impossibile che il vuoto sia pieno, il pieno vuoto; l'uno e l'altro si escludono a vicenda. Ma che cosa è il vuoto? è lo spazio. E il pieno? lo spazio occupato dalla materia. Dunque dire che lo spazio è la condizione dei corpi torna lo stesso che dire essere il vuoto la condizione del pieno e che afferma la necessità contraddittoria di collocare un termine nel seno del suo proprio contrario.

La contraddizione prende nuove forme quando si confrontano i caratteri della materia con quelli dello spazio. La materia è contingente, lo spazio è necessario; e la contingenza non può supporre la necessità, non può prenderla per condizione, ancor meno compenetrarsi con essa, senza che la contingenza occupi la necessità, senza che si metta un contrario nel suo proprio contrario. - La materia è limitata, lo spazio è infinito: come mai lo spazio infinito può accettare i limiti della materia che lo occupa? come mai può lasciarsi dividere dai corpi? L'infinito non si divide, non si limita; e mettere un corpo nello spazio è dividere, limitare; è mettere un fine all'infinito: affermare che lo spazio è la condizione de' corpi, è un affermare che l'infinito deve essere e non essere ad un tempo. Dunque, a dispetto dell'apparenza che riunisce di continuo il corpo e lo spazio, a dispetto della nostra convinzione che lo spazio sia la condizione del corpo, la logica ci mostra che i due termini sono distinti, che si escludono, che l'uno è necessario, l'altro contingente, che l'uno è infinito, l'altro finito, e che non possono essere ravvicinati ed uniti se non dall'assurdo. Lo spazio vieta alla natura di esistere.

Per rendere possibile la natura si tentò di distruggerlo, di considerarlo come un non essere, un'illusione, si ridusse alla materia e alle dimensioni della materia. Inutile sotterfugio! Il corpo e lo spazio sono due fatti distinti, egualmente evidenti, come la causa e l'effetto, come la sostanza e la qualità; non vi ha ragione di preferire l'uno all'altro, non motivo di negare lo spazio piuttosto che il corpo. Poi converrebbe sempre spiegare l'illusione dello spazio: nè la logica potrebbe ammettere che il corpo prenda l'apparenza dello spazio per ingannarci, senza ammettere nello stesso tempo un'alterazione nel corpo portentosa quanto l'esistenza dello spazio. Il corpo diverrebbe ciò che non è; acquisterebbe la necessità, l'immensità, creerebbe l'infinito; e le contraddizioni muterebbero di posto senza diminuire. Infine, anche lo spazio avrebbe il diritto di rivendicare i privilegi del corpo, potrebbe alla sua volta negare il corpo, trattarlo come un'illusione, volerlo spiegare, come se opponendosi a sè stesso potesse creare l'apparenza del corpo, l'apparenza del proprio contrario.

 

 

 

Capitolo IX

 

IL TEMPO E IL MOTO SI ESCLUDONO

 

Quanto si dice dello spazio si applica anche al tempo.

Secondo la natura, il tempo è la condizione del moto; pure tra i due termini non vi ha identità, nè equazione, nè sillogismo; e se si vogliono forzatamente avvicinare, si vedrà che si escludono a vicenda. Che cosa è il tempo? Non è una qualità, perchè è indipendente e sussiste da sè; non è una sostanza, perchè si lascia invadere dal moto; non è il nulla, perché appare, e se pur fosse illusorio ancora un principio dovrebbe spiegarlo. Il tempo è dunque come lo spazio, una cosa sui generis che ci è impossibile di paragonare colle altre cose. E desso la condizione del moto? volete credere alla natura che lo stabilisce come la condizione di ogni successione? Ciò posto, il tempo si compenetrerà col moto, la successione delle ore sarà identica con quella del cambiamento; i due termini formeranno un termine solo; vi saranno due successioni in una stessa successione; il che è impossibile. Dunque il tempo respinge il moto.

Si comparino i caratteri del tempo e quelli del moto, la contraddizione aumenterà. Il tempo è necessario, il moto è contingente: come una successione può essere da un lato necessaria, dall'altro contingente? In qual modo la necessità può compenetrarsi colla contingenza, e così trovarsi la condizione del contrario, da cui è negata? Il tempo è infinito; non ha principio nè fine, non si può concepire nè l'epoca in cui non era, nè quella in cui non sarà; il moto, al contrario, è finito per natura, benchè possa intendersi eterno per accidente. Dunque il moto divide il tempo, dunque finisce l'infinito, dunque lo distrugge, dunque è impossibile che subisca la condizione del tempo. Aggiungasi, che il moto, effettuandosi in uno stesso mentre nello spazio e nel tempo, raddoppia così le sue contraddizioni: s'identifica così due volte con termini che lo respingono; finito e transitorio, esso è due volte smentito da due apparenze eterne ed infinite.

Nè si fugge l'assurdo, ove si neghi il tempo e si riduca all'apparenza del moto, a un'illusione: il tempo è, come lo spazio, me la sostanza, come la causa, come il genere: apparenza irresistibile, fatto primitivo e irreducibile. Esso è evidente quanto il moto, è dato in uno col moto; non si può ottare tra il tempo e il moto, non si può immolare un termine all'altro senza operare a capriccio, senza che l'operazione dialettica implichi l'assurdo di creare col fenomeno del moto il suo contrario del tempo, o col fenomeno tempo quello del moto.

 

 

 

Capitolo X

 

IL FINITO E L'INFINITO

 

Quanto più si applica la logica, tanto più la contraddizione si sviluppa; essa diventa l'anima della natura. Compariamo due esseri, un fanciullo ed un uomo: che dice la logica? Tra il fanciullo e l'uomo non vi ha identità, nè equazione, nè deduzione; perchè? perchè il fanciullo differisce dall'uomo. Qual'è questa differenza? Il fanciullo non ha la statura, nè la forza, nè la ragione, nè l'esperienza dell'uomo; tutte qualità che relativamente al fanciullo sono negazioni, che si potrebbero rappresentare col - dell'algebra. Proseguiamo l'esame: il fanciullo si áltera, diventa uomo, e tutte le negazioni sono diventate affermazioni, che potrebbero essere presentate col + dell'algebra. Gli oggetti passano adunque dalla negazione alla affermazione, e viceversa dalla affermazione alla negazione, dal meno al più, e dal più al meno; in altri termini, passano da un contrario all'altro. Enesidemo diceva che il contrario appare nello stesso; egli è certo che il sì e il no appaiono in ogni oggetto.

Il finito e l'infinito sono i contrari matematici dell'universo: si scoprono volendo misurare gli oggetti. A prima giunta, misurando le cose, siamo d'accordo colla logica, procediamo, per equazioni; però, datosi principio al misurare, la logica richiede che si continui, che si finisca, che le parti più piccole e le più grandi siano misurate e volendo obbedire alla logica ci accorgiamo che non possiamo obbedire, che non finiremo mai di misurare, che siamo in faccia allo incommensurabile, in faccia a un doppio infinito che si scopre agli estremi della piccolezza. D'onde la opposizione del finito coll'infinito; se l'uno è, l'altro è impossibile; il finito finisce l'infinito, l'infinito sopprime il finito.

Il tempo e lo spazio sono due elementi in cui il finito e l'infinito si combattono di continuo. Il tempo è illimitato, eterno: ma se l'eternità esiste, il presente, il passato, l'avvenire sono impossibili; essi dividono l'infinito, essi lo distruggono. La lotta è la stessa nello spazio: esso è immenso, ma i corpi lo occupano, lo dividono, lo misurano, lo finiscono, dunque ne distruggon l'immensità. L'infinito s'interverte, invece di svilupparsi nella grandezza si svolge nella piccolezza; e qui ancora combatte il finito e lo prende a rovescio come una grandezza impossibile. Un dato spazio, sia un metro, può dividersi all'infinito; dunque si compone di un numero infinito di parti; dunque quest'infinito eguaglia il finito, il metro. Un dato tempo, sia un'ora, può dividersi all'infinito; dunque l'ora si compone di un numero infinito di parti; dunque l'infinito eguaglia il finito. Pongasi l'infinito nella grandezza, nel tutto, le parti sono impossibili; pongasi l'infinito nella piccolezza, nell'estrema divisione delle parti, il tutto è egualmente impossibile.

L'alterazione, il moto, la materia, tutto ciò che cade sotto le condizioni del tempo e dello spazio vien distrutto dalla contraddizione sempre immanente del finito e dell'infinito. Un germe scompare, gli succede un albero; ecco una quantità che cade a zero, ecco un'altra quantità che esce da zero, ecco due volte la contraddizione dell'infinito. Il moto può esser diviso, ritardato, accelerato, continuato all'infinito; la materia, i corpi, l'intensità delle forze, del calore, dell'espansione, della condensazione possono svilupparsi o diminuire all'infinito, nello stesso mentre che l'infinito è la negazione della materia, dei corpi, delle forze, dei fluidi, dell'espansione e della condensazione. Nè per toglierci all'assurdo che ci inviluppa possiamo prendere il ripiego di negare l'infinito e di confinarlo tra le illusioni. L'infinito è evidente quanto il finito; se volete negare l'uno de' due termini, non vi ha motivo di preferire l'uno all'altro; se scegliete a caso, la dialettica negativa del termine reietto, intervertita, potrà capovolgere l'operazione, e ristabilire a vicenda l'uno e l'altro termine; il perchè al razionalismo si oppone eterno il materialismo, esso pure incapace di trionfare. Negato anche a ragione l'uno dei due termini, resta il dovere di spiegarlo come un errore, e di dedurlo dal termine vittorioso, quindi resta la contraddizione di farlo uscire da questo termine, che negherebbe così illusoriamente la sua vittoria. No, non vi ha uscita: il finito e l'infinito si suppongono, si accusano, si escludono mutuamente, non v'ha scelta possibile, e dobbiamo accettate la contraddizione matematica dell'universo.

 

 

 

Capitolo XI

 

L'ESSERE E IL NON-ESSERE

 

Abbiamo già detto che, secondo la natura, devesi ammettere l'esistenza dei generi, l'essere è il genere supremo che abbraccia quanto esiste, l'universo intero.

Il non-essere esiste? questo problema, posto duemila anni sono, è il problema della logica che domanda ad ogni cosa di essere ciò che è. La risposta sarà sempre una contraddizione. Se il non-essere esiste, esso è non-essere e essere nel tempo stesso; se non esiste, non è, tutto è essere, tutto è pieno, non v'ha più vuoto, nessun intervallo tra le cose, non si può più distinguere una cosa dall'altra, tutto è uno. Così l'essere rende impossibile l'universo, rende impossibile l'esistenza.

Lungi dall'essere un sofisma, la contraddizione espressa accusa di sofisma quelli che vogliono sottrarvisi. Ecco i sotterfugi:

Platone dice: «Il non-essere non esiste, non è che il diverso; si riduce all'albero che non è uomo, alla pietra che non è albero; il non-essere ha solo una esistenza relativa.» Sia pure: dunque non ha un'esistenza assoluta, dunque, parlando schiettamente, non è; dunque l'intervallo tra le cose, la differenza sono impossibili, e siamo ridotti di nuovo all'ente unico di Parmenide. Esso sovrasta alla diversità, accusandola d'inconsistenza, d'illusione, di contraddizione.

Aristotele dice: «L'essere è un'astrazione: gli esseri soli esistono: l'essere è un non-nulla, è il non-essere: non esiste se non congiunto alle cose: prima di esse può esistere, ma non esiste: è la materia che si definisce: l'essere in potenza, il non-essere in atto.»

Accordisi la distinzione: ne risulta che il non-ssere esiste o che l'essere non esiste; ne risulta che la materia è un termine medio tra l'essere e il non essere; ne risulta che questi due termini la costituiscono, la formano contradditoria come l'alterazione; ne risalta da ultimo che l'essere e il non-essere si contraddicono.

Secondo i neoplatonici: «l'essere solo esiste; è infinito: il finito, il non-essere, il mondo sono limiti, ombre, vere negazioni al cospetto dell'essere.» Togliesi così l'essere alla natura confinata presso il non-essere: dove sarà l'essere? non è nella natura che esiste veramente; è in Dio che veramente non esiste; tanto sarebbe il dire: io non esisto, io sono il non-essere; solo il nulla esiste, ed è l'essere. La contraddizione è capovolta, ma sempre la stessa.

L'opposizione dell'essere e del non-essere si riproduce per tutta la natura. Dicesi che le cose sono contingenti: perchè? per la ragione che sono alterabili, che si alterano, che si contraddicono. E perchè sono esse contraddittorie? perchè miste col non-essere, notate di falso, passando esse dall'essere al non-essere, o viceversa dal non-essere all'essere. - Nel seno dell'alterazione sentiamo la contraddizione di questi due termini anche prima che si mostri. Domani pioverà o non pioverà; l'una delle due contraddittorie sarà necessariamente la vera; pure la pioggia è un'alterazione effimera, contingente, assolutamente opposta al carattere della necessità. Domani il mondo sarà o non sarà necessariamente; pure il suo sparire non è necessario più del suo durare. Simili affermazioni, ad un tempo necessarie e contingenti, non riproducono forse la contraddizione dell'essere e del non-essere? L'avvenire figlio dell'esistenza è infallibile, figlio del nulla è incerto, e il contrasto si scopre già nell'affermazione che lo precede.

Finalmente, l'essere è il principio dell'identità, la prima forma della logica: essa richiede che una cosa sia o non sia senza ammettere alcun mezzo. Qual'è la conseguenza dell'identità applicata alla natura? Noi l'abbiamo veduta distruggere la natura. Tutto cambia nel mondo, e il cambiamento viola l'identità delle cose, facendole essere e non essere ad un tempo. L'identità sopprime la fusione, l'attrazione, l'urto, ogni rapporto, perchè affermando la distinzione delle cose, rende impossibile la comunicazione delle cose tra loro. L'identità mette in conflitto le qualità primarie colle qualità secondarie della materia che si escludono vicendevolmente. Da ultimo, l'identità mette in opposizione le condizioni delle cose colle cose stesse e nega lo spazio per mezzo del corpo, il tempo per mezzo del moto, la sostanza per mezzo della qualità, la causa per mezzo dell'effetto. Perchè? per la ragione che le condizioni sono rapporti, materiali o immateriali poco importa: l'identità, dopo di aver separate le cose, vuole che rimangano isolate, le une fuori delle altre, cioè senza rapporti. Dunque l'essere e il non-essere si combattono in tutti i punti del creato.

 

 

 

Capitolo XII

 

I CONTRARI

 

La contraddizione tra l'essere e il non-essere si ripete in tutti i generi, in tutte le forme dell'alterazione, la quale emerge sempre dai contrari. La luce è alterata dalle tenebre, il calore dal freddo, la salute dalla malattia, la ricchezza dalla povertà. La logica richiede che là dove si manifesta la salute la malattia non si manifesti, che il calore respinga eternamente il freddo; eppure la natura si ribella contro questa logica necessità. La logica esclude ogni mezzo tra i contrari, e nella natura tutto si mesce: la logica è schietta nelle sue deduzioni, afferma o nega, e nella natura ogni esistenza è immersa nelle transizioni, in cui non v'ha affermazione nè negazione, nè sì nè no, nè bene nè male, nè essere nè non-essere. La logica richiede che ogni cosa venga almeno da una cosa omogenea, che la vita esca dalla vita, il moto dal moto; e la natura, operando sempre per reazione, deduce la vita dalla morte, il moto dall'inerzia, il bene dal male. Infine, la logica richiede che i contrari rimangano distinti, almeno nella nostra mente; eppure non sono intesi e compresi se non al momento del paragone, in guisa che restano correlativi, indivisibili nella nostra mente, la quale non concepisce la salute senza la malattia, nè la luce senza le tenebre, nè la ricchezza senza l'indigenza, nè l'essere senza il non-essere, nè l'infinito senza il finito.

In forza dei contrari il sì e il no escono dal fondo delle cose, eppure non possiamo nemmeno sapere quale dei contrari sia il sì, quale il no. Per l'uomo la negazione è la statura del fanciullo, per il fanciullo la negazione è la statura dell'uomo. La destra, la sinistra, l'alto, il basso variano; abbiamo solo a volgerci sulla persona per vedere la negazione e l'affermazione soppiantarsi a vicenda. La destra, la sinistra, l'alto, il basso sono astrazioni; ma la contraddizione passa nell'astratto perchè trovasi nel concreto. Dove sono il Nord e il Sud? In una convenzione. Come distinguere il polo positivo dal negativo? Arbitrariamente. Il positivo è desso nella luce o nelle tenebre, nel caldo o nel freddo, nel maschio o nella femmina, nella salute o nella malattia, nella vita o nella morte? Noi non sapremo mai se la gallina è un progresso sull'uovo, o l'uovo sulla gallina; se la natura si perfeziona o se declina, se l'uomo esprime un trionfo o una decadenza della natura. Tutto è relativo, mors tua vita mea; il positivo e il negativo, il bene e il male si scambiano di continuo, e trovansi indistintamente a destra, a sinistra, l'uno nell'altro.


SEZIONE SECONDA

 

IL PENSIERO

 

 

 

Capitolo I

 

LE CONTRADDIZIONI DELLA FISICA SI RIPRODUCONO

NELLA PSICOLOGIA

 

Vinta dalle contraddizioni della natura, un giorno la filosofia si rifugiò nell'intelligenza, sperando di scoprire la verità in noi stessi. Lasciati i corpi, la materia, il moto, la mistione, la fusione, e fissò l'attenzione sui fenomeni del pensiero. La fiilosofia non fu più felice nella sfera dell'intelligenza. Il pensiero si limita a seguire i fenomeni esteriori; materiale o immateriale, è solo l'immagine della natura, e quindi ritroviamo in noi tutta l'incoerenza del mondo esteriore.

Fuori di noi le cose si alterano, sono e non sono; in noi, il nostro io non è mai lo stesso, varia di continuo e si rivolta in ogni suo moto contro la triplice forma dell'identità, dell'equazione e del sillogismo.[1]

Fuori di noi i rapporti delle cose distruggono la distinzione delle cose: in noi i pensieri influiscono gli uni sugli altri, e la logica ci sforza ad ottare tra la distinzione che colloca i pensieri gli uni fuori degli altri, e il rapporto, che stabilisce una vera comunicazione fra di essi. Sono essi distinti? ogni pensiero si isola, nessuna idea dipende da quella che la precede, il discorso diventa impossibile. I pensieri collegansi tra loro? ecco il rapporto, cioè il moto, l'urto, l'azione, la reazione, la fusione nell'intelligenza, dove questi fenomeni, benchè spiritualizzati, non sono meno contraddittori che nella materia.

Fuori di noi la materia è una e multipla: in noi ogni pensiero è uno per sè, e multiplo per gli elementi del soggetto e dell'attributo che lo compongono. Nel pensiero, come nelle cose, il tutto è sempre più che le parti: la proposizione ha un senso, essa afferma, nega, vive; al contrario, il soggetto, l'attributo, la copula, isolati non hanno senso, non affermano, non negano, sono la materia inanimata del pensiero.

Fuori di noi i generi e gli individui si respingono: in noi sono le idee e le sensazioni che si escludono: le idee sono generali, le sensazioni particolari, e tutta l'opposizione tra i generi e gli individui si riproduce tra l'idea e la sensazione. Fuori di noi il mondo sembra dipendere dalle condizioni del tempo e dello spazio, gli effetti suppongono le cause, le qualità suppongono le sostanze; in noi i fenomeni restano sottomessi alle idee di tempo, di spazio, di causa, di sostanza, le quali sotto l'impero della logica distruggono e rendono impossibili tutti i nostri pensieri.

Nel mondo esteriore la contraddizione si presenta nuda nella lotta del finito e dell'infinito, dell'essere e del non-essere, e di tutti i contrari. La medesima contraddizione sta nel fondo stesso del nostro pensiero, il quale non ci è dato se non alla condizione de' contrari, non potendosi concepire un'idea senza l'idea opposta che la distrugge.

Infine, abbiamo veduto che nella natura le qualità primarie e le secondarie si respingevano a vicenda: in noi la stessa lotta si rinnova sì forte, che i psicologi sono quasi concordi nel negare all'anima l'estensione, la figura, nè potrebbero accordarle l'impenetrabilità e la mobilità senza trasformarla in un atomo, o senza sopprimere l'unità della sua energia. Da ciò nacque la nozione dello spirito, la chimera de' psicologi, i quali per ispiegare l'unità dell'anima dimenticano la pluralità della materia, per cui l'io restò fuori della materia senza relazione colle cose, senza poter agire, nè soffrire, nè sostenere alcuna influenza materiale. Berkeley e Leibniz credettero miglior partito negare il corpo che perdere l'anima: altri con egual ragione preferirono di perdere l'anima piuttosto che di vedersi espulsi dal mondo. Le due scuole hanno ragione, sendo noi costituiti dalla contraddizione.

In generale la psicologia si riduce a sostituire alle cose le percezioni, agli oggetti i giudizi, alle qualità le sensazioni, ai generi le idee, allo spazio l'idea dello spazio, al tempo l'idea del tempo, alla causa l'idea della causa, alla sostanza l'idea della sostanza. Che cosa guadagnamo noi con questo scambio? Si guadagna d'intervertire tutti i problemi. Platone suppone nel Politico che l'universo, dopo esaurite le sue evoluzioni, ritorni sopra di sè: vedonsi le stagioni succedersi a ritroso, gli esseri cominciano colla morte, poi svaniscono nella loro propria origine: l'uomo nasce decrepito, ingiovanisce, e cessa nell'infanzia; gli animali, gli alberi, la vegetazione cominciano sviluppati, impiccoliscono invecchiando, e scompaiono noi loro propri germi. Tutto procede a rovescio, finchè il moto delle sfere non è interamente esausto. La psicologia realizza letteralmente il mito di Platone; essa ci mostra il mondo in noi stessi, gli oggetti nei nostri pensieri, i generi nelle nostre idee. Per la fisica noi siamo nel mondo: per la psicologia il mondo è in noi; per la fisica il tempo e lo spazio ci dominano; per la psicologia sono le nostre idee di tempo e di spazio che reggono l'universo; per la fisica il mondo spiega l'uomo: per la psicologia l'uomo spiega il mondo. Come scegliere nell'alternativa? Quale sarà il titolo della nostra scelta? L'impossibilità di scegliere aggiunge nuovo dubbio ai dubbi che sovrastano alla natura.

 

 

 

Capitolo II

 

LA PSICOLOGIA PERFEZIONA LO SCETTICISMO

 

Quando osserviamo la natura, dimenticando noi stessi, scopriamo che la natura è incoerente, impossibile, pure riconosciamo che esiste: quando ci ripieghiamo sopra di noi, incontriamo un nuovo fenomeno: l'errore. In forze dell'errore affermiamo ciò che non è, neghiamo ciò che è, alteriamo la realtà che si sottrae ai nostri sforzi, e accade che possiamo dubitare dell'universo intero considerandolo come un errore del nostro pensiero. Come distinguere l'errore dalla verità? Se non sciogliamo questo problema, nessun problema sarà sciolto.

In presenza della logica il falso e il vero stanno come i due termini di un eterno dilemma. Impadronendosi del falso la logica non può giungere al vero; tra l'errore e la verità non vi ha identità, nè equazione, nè deduzione; la verità, diventa quindi impossibile. Viceversa, impadronendosi della verità la logica non può piùarrivare all'errore, ed è l'errore che diventa impossibile. La logica ci dichiara assolutamente fallibili o assolutamente infallibili, secondo che prende il suo punto di partenza nel falso o nel vero.

Prendiamo il dato dell'errore. La nostra fallibilità non avrà limiti. I sensi mettendoci in comunicazione colla natura, ci ingannano sulle distanze, sui colori, sulle figure, sui suoni, su tutto; ogni nostro organo è aperto all'illusione. I sentimenti falsificano le nostre opinioni, cogli interessi álterano il valore delle cose; l'età, il sesso, il temperamento, la razza, dispongono della nostra intelligenza, per cui le nostre opinioni dipendono dall'accidente della nascita, il clima governa i nostri pensieri, la latitudine governa i nostri dogmi. Dove trovare il clima, il temperamento, il sesso della verità? L'abitudine ci dà una seconda natura; qual'è questa natura? Essa è tutta meccanica, cieca, in balia al caso delle leggi, delle religioni, dell'educazione. L'analogia, quest'abitudine dell'intelligenza si impadronisce dell'universo per rifarlo a imagine e somiglianza del nostro paese, della nostra famiglia, di noi stessi; essa attribuisce a Dio le nostre forme, e lo adora come un re. Possiamo noi chiedere la verità all'abitudine o all'analogia? La chiederemo noi alle passioni? sarebbe pure lo stesso che chiederla al pregiudizio, all'amore, al furore, all'imaginazione, predestinata a mentire, alla follìa, la quale non è se non la malattia delle passioni e dell'imaginazione. L'errore si propaga colla potenza dello sguardo, della parola, col fascino dell'imitazione; nulla gli sfugge, nemmeno le percezioni; l'allucinazione usurpa la parte della natura, e simula cose che non esistono; il sogno usurpa le parti della nostra persona, ci fa vivere in un io falso e menzognero; qualche volta ci mostra il nostro io fuori di noi, e c'insegna così che noi stessi possiamo essere un errore. Dove sarà dunque l'asilo della verità? Nel giudizio? nel raziocinio? ma le sono facoltà vuote, serve de' nostri sensi, delle nostre abitudini, delle nostre passioni, di ogni nostro pregiudizio. Formalmente il Bramino, il Cattolico ragionano come noi: se la verità dipendesse dal raziocinio, essa regnerebbe sulla terra fin dall'origine del mondo. Abbandonati da tutte le nostre facoltà ad una fallibilità universale, non possiamo toccare la terra promessa della verità; posto il dato dell'errore, la logica ci vieta di uscirne.

Accordiamo invece alla logica il dato della verità. Evidentemente, se arriviamo alla verità, se le nostre facoltà, la nostra ragione, le nostre forze, se il giudizio, la memoria, l'imaginazione non c'ingannano, ne risulterà di primo tratto che siamo infallibili. L'errore riesce inesplicabile. Descartes cadde completamente in questo tranello filosofico. A forza di cercare l'assoluto si persuase di averlo trovato e scopriva un Dio così benevolo, così gentile, che non poteva supporre in lui la scortesia di volerci ingannare dotandoci di facoltà erronee. Prima della sua scoperta egli era tormentato dall'errore; ma dopo fu peggio, perchè fu tormentato della verità; egli non seppe più come spiegare le nostre illusioni, e le imputò alla volontà, che ne è innocente.

A parte Descartes e il suo Dio; se tutte le nostre facoltà sono infallibili, l'errore deve risultare da una combinazione delle nostre facoltà, che innocentemente si ingannerebbero a vicenda. Quest'ipotesi non è che un fatto, atteso che ci è facile di giustificare le nostre facoltà, e di mostrare che nessuna isolatamente può traviarci. La sensazione, l'analogia, gli interessi, le passioni non possono illuderci? Esse non giudicano, esse rinviano al giudizio la responsabilità dell'errore. Il giudizio poi non può errare: esso dipende dai dati che lo dominano; deve affermare i fenomeni che gli sono presentati dalle altre facoltà. Se le facoltà cospirano per dare una combinazione insidiosa, perchè accuseremo la ragione? Essa va dove è spinta dalle nostre facoltà; il giudizio è in balia de' fenomeni, l'induzione è serva dei fatti, le deduzione è schiava delle premesse; l'intelligenza dell'uomo è sempre infallibile, le altre facoltà sono innocenti, e l'errore è una disposizione di fenomeni, dove tutti gli elementi sono veri, mentre il risultato c'inganna. Questa, secondo me, è l'origine naturale dell'errore. Vogliasi ammetterla o rigettarla, qui poco importa; io la propongo come mera ipotesi per istabilire che, secondo la natura, il falso può essere un falso risultamento delle nostre facoltà, tutte infallibili. Ma la logica ci impedisce di imputare l'errore ad una combinazione di facoltà infallibili. Aggiungendo il vero al vero non ne può risultare che il vero, nè si potrebbe comprendere come due o più testimoni infallibili potrebbero deporre il falso. Ecco dunque l'impossibilità dell'errore dal momento che si ammette la verità.

Abbiamo supposto dapprima che tutte le nostre facoltà sono fallibili, in seguito, che tutte le nostre facoltà sono infallibili; ci resta a imaginare che alcune facoltà siano infallibili, mentre le altre c'ingannano. Così Epicuro, ci rende infallibili in forza del senso, e fallibili in forza del giudizio; Locke, Hume, Condillac, danno la verità all'osservazione, l'errore alla riflessione; i razionalisti intervertono la teoria, per cui, secondo essi, il senso inganna, mentre la ragione resta infallibile. Lo stesso cristianesimo costituì la dualità del vero e del falso, quando concesse alla fede il potere di salvarci, alla ragione quello di perderci; materializzandosi nel cattolicismo, la dualità cristiana largisce l'infallibilità ad un uomo che non ragiona, al papa; e accusa di ribellione gli uomini che sarebbero tentati di far uso della ragione. Descartes prende al rovescio la teoria cattolica; e, secondo lui, la ragione è infallibile; ma la fede, cioè la volontà e l'autorità, sono essenzialmente incerte e arbitrarie. L'ipotesi che spiega l'errore attribuendolo ad alcune facoltà è frequente sotto forme diverse e opposte nella storia della filosofia; pure non vale che a fare dell'uomo un essere mezzo infallibile, mezzo fallibile, mezzo Dio e mezzo demente. Coll'ammettere qualche facoltà erronea, si ammettono errori fatali, invincibili, ineluttabili; quindi la contraddizione si ristabilisce più forte di prima, dandosi il sì e il no a due parti della mente. Concediamo noi che la parte infallibile può correggere la parte fallibile? questa non sarà più che un vizio organico; conosciuta come erronea, non potrà più ingannarci, sarà un testimonio disprezzato, l'errore non è spiegato. L'infermo in un accesso di febbre previsto non s'inganna sul calore atmosferico; benchè ardente o assiderato, conosce la verità, almeno la sospetta. Ciò non può essere nell'errore, che quando è sospettato cessa di essere l'errore. Convien dunque che la parte infallibile della nostra mente non possa correggere la parte fallibile; ed in questo caso il falso non può essere distinto dal vero. Poichè ogni facoltà resta nella sua sfera d'azione, l'orecchio non può rettificare l'occhio, nè il tatto l'orecchio; ogni facoltà è incompetente fuori della sua sfera d'azione nè può essere consultata o ascoltata; quindi non verificandosi mutuamente, il testimonio delle une vale quanto il testimonio delle altre; quindi la volontà non può vincere la ragione, nè la ragione può trionfare della sensazione, nè la sensazione della riflessione. Dove sarà dunque l'errore? ingannati, noi non sapremo trovarlo; un demente avrà il diritto di resistere al consenso del genere umano.

 

 

 

Capitolo III

 

I PENSIERI E IL MONDO S'ESCLUDONO

 

Benchè deliberati a concentrarci in noi stessi, non possiamo dimenticare la natura; essa ci investe colle sue imagini; e noi dobbiamo supporla ad ogni istante. Le nostre idee si riferiscono al generi, le nostre percezioni alle cose, i nostri pensieri agli oggetti; ogni fenomeno interno corrisponde ad un fenomeno esterno. Possiamo noi passare logicamente dai fenomeni interni agli esterni? In altri termini, possiamo noi provare che il mondo esiste, che non è un sogno, che non siamo soli nell'universo? Le tre forme della logica ci proibiscono di uscire dal nostro io per dimostrare l'esistenza delle cose.

L'identità si oppone a questa dimostrazione. La distinzione tra noi e le cose è schietta, profonda; egli è impossibile di confondere il pensiero colle cose, la credenza coll'oggetto della credenza; e se il mondo è fuori di me, io non posso conoscerlo senza cessare di essere io. Per l'identità non si troverà il passaggio dall'io al non-io, se non quando i due termini saranno identificati, cioè quando sarà tolta la possibilità stessa di transire dall'uno all'altro. - La forma della equazione trovasi egualmente impotente. L'affermazione del giudizio non è uguale all'oggetto affermato; la percezione non è uguale alla cosa percetta. Se questa eguaglianza esistesse, il mondo sarebbe il mio proprio pensiero fuori di me. - La deduzione ci rifiuta alla sua volta il passaggio dall'io al non-io, non potendo noi trovargli nè la premessa, nè il termine medio.

La premessa manca, perchè noi non sappiamo se il punto di partenza della dimostrazione del non-io dev'essere preso in noi o fuori di noi. La psicologia esige che il punto di partenza sia in noi; essa mi ha isolato, dunque tocca a me ad uscire dalla mia solitudine; essa mi ha mostrato il mondo nelle mie credenze, ne' miei pensieri, dunque spetta alle mie credenze, a' miei pensieri il fornire la premessa alla dimostrazione della natura. Ma la fisica reclama anche essa il punto di partenza; è dessa che dispiega dinanzi a noi lo spettacolo dell'universo e che domina i nostri pensieri; i pensieri non sarebbero se la natura non fosse, e la natura vuole che il ragionamento passi dalle cose ai pensieri, dal non-io all'io. Ecco due punti di partenza opposti, il dilemma è esatto, la scelta impossibile. Secondo la psicologia il mondo è in me, sta a me il verificarlo; secondo la fisica io sono nel mondo, appartiene alla natura il dimostrare la mia esistenza. Da un lato le cose dipendono dall'intelletto, che le conosce, dall'altro la cognizione dipende dalle cose da conoscersi: l'io e il non-io si presentano vicendevolmente come la condizione l'uno dell'altro; la premessa di ogni dimostrazione cade in un circolo vizioso, diventa impossibile.

Il termine medio per dimostrare l'esistenza della natura ci manca, come ci mancano le premesse. Interroghiamo il senso comune. La fede di ogni uomo nelle cose esteriori si fonda sulla necessità di trovare fuori di noi la causa dei fenomeni che si oppongono a noi. Si dice: io non posso essere la causa degli ostacoli che incontro; io devo lottare, combattere contro la natura; io agisco, io soffro; son felice, infelice mercè le apparenze che mi circondano. Come potrei credermi solo? Isolato, sarei nel tempo stesso attivo e passivo, aggressore e difensore, amico e nemico di me stesso; ciò non è possibile; dunque io sono sottoposto all'azione di cause estranee al mio essere; dunque vi è qualche cosa fuori di me; dunque io non sono solo co' miei pensieri, non sono un solitario allucinato. Tale è il ragionamento adottato dal senso comune, ed è un ragionamento in cui l'io figura come un corpo in mezzo ai corpi, o se si vuole, come un essere in mezzo agli esseri. Il termine medio del ragionamento, o piuttosto l'unico appoggio della dimostrazione si fonda sull'idea di azione e di reazione, di causa e d'effetto; le quali idee sono già distrutte dalla logica, che le mostra contraddittorie, impossibili. Quindi il ragionamento del senso comune pecca nella base. - Alcuni gli danno un'altra forma e dicono: «I fenomeni della natura multipli e variati si oppongono all'unità dell'io; ne consegue che noi non siamo soli coi nostri pensieri, perchè scopriamo in noi la lotta, la discordia, la guerra.» La discordia implica essa veramente l'esistenza di due o più esseri? Io vedo la discordia nel fondo di ogni individuo, la vedo in ogni essere sempre uno e multiplo, la vedo in ogni atto sempre emergente dalla lotta dei contrari: se la discordia, se la guerra sono le sole ragioni per negare ch'io sia isolato, dichiarate che ogni oggetto è doppio in sè e fuori di sè, e che la natura si compone di due nature, l'una esteriore e opposta all'altra. Del resto, se si cerca una causa ai fenomeni dell'io, perchè la causa sarebbe piuttosto fuori di me che in me? La varietà e l'alterazione che si manifestano in me possono uscire egualmente dal mio proprio fondo o da un'azione degli oggetti esterni: nel primo caso, il vizio originale dell'alterazione si presenta una volta, e nel secondo si ripete due volte, si sviluppa col mistero de' rapporti tra l'io e il non-io, e la contraddizione si raddoppia. Che prova adunque la dimostrazione della natura adottata dal senso comune? Nulla, se non che vi hanno due grandi apparenze distinte, l'io e il non-io, il pensiero e la natura, la psicologia e la fisica; ma la logica non trova nè identità, nè equazione, nè deduzione tra questi due termini che si contrappongono.

Non potendo raggiungere il mondo esterno, la psic