LA LOTTA TRA LE PASSIONI E LA RAGIONE



ANTICHITA’

I problemi di filosofia morale, dall’antichità ad oggi, sono andati incontro a notevoli sviluppi ed evoluzioni: morale deriva dal latino mos, che significa "costume", sicchè la filosofia morale avrà a che fare con la domanda "come devo comportarmi?", a sua volta connessa ad un’altra questione: "che cosa è il bene? Per me? E per gli altri? E la relazione tra il bene per me e quello per gli altri?" Risulta fin da ora evidente come, per poter capire che cosa sia il bene per me, io debba preliminarmente capire chi sono io e, di conseguenza, che cosa sono gli uomini. Ne consegue che non possiamo interrogarci sulla morale se non partendo dalla filosofia in generale, soprattutto quella greca, che ha lucidamente formulato tutte le domande possibili. Ci imbattiamo subito in una radicale differenza tra la storia come magistra vitae (maestra di vita) e la filosofia come meditatio mortis, secondo l’interpretazione che dà Platone nel Fedone (60 d, e seguenti): prendendo alla lettera queste due massime, sembrerebbe che alla storia spetti il compito indubbiamente più gratificante di guida nella vita, di narrazione di ciò che è avvenuto, mentre alla filosofia toccherebbe l’ufficio più opprimente di riflettere sulla morte. Tutto ciò può essere facilmente smentito se teniamo presente la scarsa attenzione e la poca importanza riservata dagli antichi alla storia: già Aristotele - nella "Poetica" – opera una distinzione tra storici e poeti, mettendo in luce come i primi si limitino alla cronaca degli accadimenti, registrati nel loro singolare e contingente succedersi, mentre i secondi (alla pari dei filosofi) si occupano dell’universale, non di cosa accadde ad Alcibiade, ma di cosa potrebbe accadere ad uno come Alcibiade, cogliendo in tal modo i tratti eterni dell’universale umanità dell’uomo : narrano cioè le cose oia an genoito, "quali potrebbero avvenire". Anche il filosofo si occupa dell’universale, in quanto si sforza di conoscere ciò che accomuna determinate cose, costituendone – al di là delle loro accidentali differenze individuali – il vero essere che le identifica per quelle che sono. In questa prospettiva, l’arte e la filosofia si pongono al di sopra del sapere proprio dello storico, confinato al particolare e alla banale catalogazione degli aventi. Un’analoga svalutazione della storia – forse anche più accentuata che in Aristotele – troviamo in Schopenhauer, il quale dice che gli oggetti della storia sono gli uomini e le loro imprese nel loro contesto storico, ricostruito dalla storia su un piano illustrativo; secondo il filosofo tedesco – in sintonia con Aristotele – se poesia e filosofia conoscono l’uomo in quanto tale, il filosofo coglie l’in sé di quelle cose che lo storico si limita ad elencare. Tutte queste considerazioni ci inducono a rivedere le due massime da cui siamo partiti: la storia è maestra di vita nel senso che, esibendoci il comportamento degli uomini, ci introduce alle innumerevoli difficoltà del vivere nel tempo, ma non è in grado di fornirci spiegazioni di più vasta portata. E’, in altri termini, maestra di vita nella misura in cui illustra il disagio esistenziale: dal canto suo, la filosofia è meditazione sulla morte nel senso che ha a che fare con questioni ultime e di ordine generale, tanto più che il filosofo stesso implica una morte. Infatti, questa superiorità della filosofia sulla storia e, più in generale, sul punto di vista comune è segnalata dalle grandi difficoltà che l’accesso al punto di vista filosofico implica. Questo passaggio – dal punto di vista comune a quello filosofico – comporta un autentico trauma, paragonabile a quello della conversione religiosa o del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, sicchè non è sbagliato dire che si tratta di una morte e di una rinascita: muore il vecchio (il punto di vista comune, o – per restare alla metafora della religione – il profano) e nasce il nuovo (il punto di vista filosofico, o il religioso). Il processo è pertanto accompagnato sia dai dolori della morte del vecchio sia da quelli del parto con cui viene al mondo il nuovo: questo passaggio lo troviamo per la prima volta esposto nei dialoghi platonici, il cui protagonista – Socrate – è l’ostetrico del filosofare, colui che ha assistito e coadiuvato la nascita del punto di vista filosofico, e ciò implica che egli inevitabilmente sia il becchino del punto di vista comune. Seguendo Platone, assistiamo al nascere e al crescere del filosofare, all’individuarsi e al distinguersi dei diversi punti di vista in virtù di una curiosità radicale e insoddisfatta di ciò che via via si trova a sapere. Viene in tal modo a delinearsi una netta separazione tra le opinioni (doxai) – proprie del punto di vista comune - e la scienza (episthmh) – propria del sapere filosofico: le prime sono suscettibili di essere vere o false, mentre la seconda è solidamente radicata nel vero. Nel Teeteto (180 e) Socrate si domanda: "chiami tu pensare quel che chiamo io? Un discorso che fra sé e sé l’anima tiene su ciò che esamina […]. Altro non è l’anima se non un discorrere". Ciascuno di noi, secondo Platone, quando pensa è come se dialogasse tra sé e sé: ed è per questa ragione che il filosofo ateniese ravvisa nel dialogo la forma più adatta per fare filosofia, preferendola di gran lunga alla trattatistica. Le opinioni, ad avviso di Platone, sono acritiche, infondate e passivamente subite, mentre la scienza è costantemente critica e frutto della ragione, giudica e mette in krisiV un’opinione, mette in crisi ogni sapere dubbio, ogni pregiudizio ("si dice", "si crede", ecc): così si spiega come, se la filosofia è dialogo, l’opinione è invece monologo, assolutamente priva di confronti e aperture. In questo senso, l’Oriente non greco monologa, e infatti non scrive dialoghi ma libri sapienziali, mentre sono i Greci a scoprire la filosofia, intesa come messa in discussione di tutto, smascherando le opinioni, qualunque sia l’autorità di cui esse si ammantano. Si tratta, naturalmente, di un passaggio doloroso, giacchè si abbandona il certo per l’incerto, il noto per l’ignoto: e non è un caso che la filosofia nasca con l’assassinio del suo ostetrico Socrate; mentre l’innocenza è immediata e, perciò, più fragile, la virtù non è immediata e dunque è meno fragile, poiché è stata messa alla prova. Il sapere filosofico, dai Greci ad oggi, è andato sviluppandosi lungo due direttrici: da un lato, dopo aver attraversato il fondamentale momento della critica delle opinioni, si articola in una visione onnicomprensiva e metafisica del mondo (Leibniz, Kant, Hegel, Marx); dall’altro, si è sviluppato un sapere in cui la riflessione critica della ragione non costituisce solo un momento imprescindibile, bensì costituisce essa stessa l’aspetto fondamentale di un filosofare in cui permangono dubbi e difficoltà di conoscenza: si tratta di un sapere lontano dalle pretese onnicomprensive e metafisiche, un sapere che procede con circospezione, che formula congetture più che teoremi. Tra i suoi esponenti - antichi, moderni e contemporanei (giacchè questa forma di pensiero è tipica dell’età moderna e contemporanea) - possiamo ricordare i Sofisti, gli Scettici, i Cinici, i Cirenaici, i Megarici, Machiavelli, Hobbes, Montaigne, Erasmo, Vattimo. Assodata la diversità tra punto di vista comune e punto di vista filosofico, si può anche vivere senza filosofare, cosicchè la filosofia sarebbe qualcosa di accessorio e di cui si potrebbe benissimo fare a meno (anche se contro questa tesi si schiera apertamente Aristotele nel Protreptico). Del resto, che la filosofia sia un lusso pare tramandato dalla massima primum vivere, deinde philosophari, con la quale si mette in luce come la vita venga prima della filosofia e come quest’ultima sia ad essa subordinata: ma – chiediamoci – se è vero che si può vivere senza fare filosofia, è anche vero che si può vivere bene senza fare filosofia? In particolare, sia Aristotele sia Bergosn distinguono tra "vivere" e "vivere bene", domandandosi entrambi se il vivere non-bene possa dirsi vivere. Anche il filosofo deve soddisfare i suoi bisogni primari (la sete, la fame, ecc), altrimenti non sarebbe un essere umano ma un Dio: ciò non toglie, però, che nella misura in cui filosofa, egli si dedica ad un’attività divina, ingrediente della vita felice. Tuttavia, se considerati separatamente, sia il sapere critico sia quello metafisico sono insufficienti: anche se, a prima vista, sembrerebbe che i risultati del primo siano evidenti (quelli del secondo appaiono infinitamente meno soddisfacenti). In quanto conoscenza del vero bene, la ragione è confutazione delle passioni, sicchè queste nulla più possono contro di essa: la ragione sa anche che cosa ogni cosa deve essere, che cosa è giusto che ogni cosa sia. Attribuendo a ciascuno il suo, la ragione fa il giusto. Ma nel corso della storia è anche andato spostandosi il punto di vista verso Dio: se Tommaso è convinto che il teologo possa anticipare la scienza di Dio, la filosofia è per Hegel "la domenica della vita", nel senso che è il compimento più alto e l’ornamento più squisito della vita umana. Tutt’altra concezione della ragione (e di Dio) è quella propria dei filosofi "critici", per i quali – date le interminabili dispute che contrappongono tra loro i vari pensatori – è impossibile raggiungere una verità ultima; addirittura, agli occhi di costoro la metafisica , oltrechè inutile, appare nociva, poiché distrae dal sapere coerente dei propri limiti intrinseci di essere umano che procede per congetture e ipotesi, non per verità assolute. Questi pensatori tendono a concepire il bene come l’utile collettivo che la ragione di volta in volta individua e calcola: già Montaigne nota come basti spostarsi sull’altra sponda del fiume per accorgersi che tutte le leggi e le usanze cambiano, cosicchè ciò che di qua era lecito, di là non lo è. Emerge chiaramente, allora, come la giustizia altro non sia se non il frutto di un accordo mirante al bene della collettività, senza voler per questo arrivare alle note conclusioni di Trasimaco (nella Repubblica di Platone) secondo cui "il giusto altro non è che l'utile del più forte". E’ una ragione rinunciataria, che rinuncia alla verità assoluta e si accontenta di piccole certezze acquisite un po’ alla volta. Una prospettiva rinunciataria, sì, ma con funzione strumentale, non ornamentale: mira infatti a promuovere un miglioramento della vita umana sulla terra anche attraverso lo sviluppo di quella scienza sempre troppo poco considerata dalla metafisica. Ecco perché la filosofia trasforma la vita vegetale in esercizio critico e mosso da sincera curiosità, contraddistinguendoci da tutti gli altri animali: per i metafisici, però, si tratta sempre della contemplazione della verità assoluta, ma, sotto questo profilo, è la prospettiva critica (sofistica e scettica) - tendente ad organizzare il nostro sapere terreno - a poter effettivamente migliorare le nostre condizioni di vita terrene, ed è per questo che oggigiorno tende a prevalere tale posizione. Ma dove va a finire la metafisica? Possono gli uomini eticamente fare a meno dell’ornamento? Non è un caso che nel Novecento l’architettura sia stata caratterizzata dall’abolizione di ogni abbellimento, promuovendo esclusivamente il funzionalismo e la completa oggettività. C’è anche stato chi ha detto che "l’ornamento è un delitto", una sorta di reazione al culto del bello nella architettura liberty di inizio ‘900. Ma possiamo abbandonare il superfluo? Può il sapere rimanere chiuso e fare a meno di ogni forma di trascendenza? Forse la questione può essere, se non risolta, almeno chiarita in analogia con il ruolo che Kant assegna alla metafisica, da lui smascherata come un errore della mente umana, incline a spingersi erroneamente al di là del sensibile e del finito: secondo Kant, la metafisica è sì un errore, ma non per questo può essere debellata; così come quando in riva al mare vediamo l’orizzonte più in alto e, pur sapendo che si tratta di un’illusione, non per questo riusciamo a vederlo allo stesso livello del mare. Così come la metafisica viene da Kant, in qualche maniera, relegata all’ambito dell’ornamentale, impossibilitata ad una completa assolutizzazione, similmente possiamo capire come, da una parte, il superfluo non vada mai abbandonato e, dall’altra, come la metafisica rientri in tale superfluo/ornamentale. Dicevamo che è con Platone e con i suoi dialoghi che vede la luce la filosofia: ma il vero ostetrico del sapere filosofico è la figura di Socrate, colui che distingue la scienza dalle opinioni, cerca spiegazioni razionali, cerca di darsi ragione delle norme della propria condotta e del proprio sapere vagliando criticamente le opinioni e distruggendole quando – come spesso accade – si rivelano fasulle. Egli è armato dell’ironia e della maieutica: la prima è la figura retorica con la quale si farebbe intendere il contrario di ciò che si dice (cfr. Encyclopedie di Diderot; De oratore, III, di Cicerone; Quintiliano). Ma il tono della voce segnala una discrepanza tra il detto e il significato: se prendiamo il verbo greco eironeuomai notiamo come esso significhi "dissimulare", "nascondersi parlando", ma anche "canzonare", "prendere in giro"; o eirwn , poi, vuol dire "colui che si spaccia per". L’ironia può essere dunque definita come un espediente tecnico impiegato da avvocati e da oratori: Quintiliano la tratteggia come un modo di relazionarsi con gli altri improntato sulla comunicazione, un modo non soltanto indiretto, ma addirittura complicato e articolato. Non sorprende, pertanto, che l’ "ironista" sia più preparato rispetto al suo uditorio: il che si verifica soprattutto in due casi, quando cioè l’interlocutore è ignorante (ma si crede colto), o anche quando è intellettualmente debole, cosicchè gli si può dar ragione fino a che non vengano alla luce tutte le contraddizioni derivanti dall’ammissione delle sue tesi. Chi si avvale dell’ironia ne fa, in certo senso, un uso narcisistico, quasi umiliante nei riguardi del proprio interlocutore, cosicchè non è sbagliato dire che l’ironista esercita una forma di crudeltà verso gli altri, una sorta di sadismo, un irresistibile gusto che si prova ad essere superiori. Così il commediografo Aristofane fa del termine "ironista" un vero e proprio insulto con cui zittire chi asseconda falsamente i propri interlocutori, fingendo furbescamente di approvare le loro tesi; lo stesso Platone (Repubblica, I) mette in bocca agli interlocutori di Socrate parole piuttosto aspre verso la sua ironia canagliesca. Così, con Trasimaco finge di ignorare che cosa sia la giustizia, sfugge alle domande che gli vengon poste appellandosi alla propria ignoranza e spazientendo i propri interlocutori: si può allora dire che la difficoltà della ricerca sia ironia? Platone libera il maestro Socrate dal luogo comune mettendo in evidenza come l’ironia, propriamente, sia una relazione – indiretta – con la verità e per questo motivo dotata di valenze pedagogiche, poiché innalza l’interlocutore ad un sapere certo; così si ha l’impressione che Socrate si faccia beffe di Trasimaco e degli altri protagonisti della Repubblica, ma in realtà li incalza, li sprona come fa la mosca coi cavalli e li fa uscire dal vicolo cieco dell’opinione verso la retta via della scienza. In questo caso, la dissimulazione si configura quasi come una benevola conquista, non come un gesto di mera superiorità dettata da uno sprezzante orgoglio, poiché è finalizzata a portar fuori dal circolo della limitatezza: l’interlocutore non è più schernito e deriso, ma soccorso, l’ironia sacrifica il proprio sapere per redimere gli altri dall’ignoranza, è un abbassamento (khnosiV), un farsi piccoli per salvare gli altri. Ma – attenzione – ad abbassarsi è Socrate, non il sapere in quanto tale, altrimenti l’ironia si trasformerebbe in divulgazione. Il concetto greco di khnosiV come "svuotamento" (in greco kenon significa "vuoto") lo ritroviamo nella teologia cristiana quando si parla dell’incarnazione di Dio e della sua liberazione dal peccato: e, in parallelo, c’è stato chi ha guardato in analogia alla figura di Socrate e di Cristo (Hegel stesso lo fa), poiché sia con l’uno sia con l’altro si ha un’autentica liberazione, ci si maschera per smascherare, si mistifica per demistificare ciò che pare certo ma che, in realtà, non lo è affatto. In questo senso, l’ironistica porta la guerra laddove c’è una pace illusoria, getta scompiglio, spiazza, è – in altri termini – pars destruens ma, in certo senso, anche pars costruens. Infatti, distrugge, sì, le opinioni, ma per partire da zero e fondare un sapere certo, che oltrepassi il limite e lo riconosca come ormai sorpassato, per rendere partecipi di ciò anche gli altri uomini: per far riferimento al celebre "mito della caverna" di Platone, è l’uomo che, liberatosi dalle catene che lo tenevano prigioniero sul fondo della caverna, sale in superficie, scopre la verità e ritorna dai suoi compagni per trasmetterla anche a loro. L’ironia socratica può allora essere definita come impegno totale per il Bene, uno slancio verso l'esistenza autentica e contro il lasciarsi vivere passivamente in cui molti incappano. Un tale sapere dovrà necessariamente essere di tipo concettuale, e del concetto Socrate stesso può dirsi inventore: esso è una definizione della cosa in questione (il bene, il bello, il giusto, ecc), una definizione che prende le mosse dalla domanda "che cosa è (ti esti) quella cosa?" e a cui si dà una risposta scientifica, esulante dall’opinione. In questo modo, tale aspirazione a spingersi al di là del dato si traduce in scienza dell’essere, come la metafisica (che è scienza dell’essere in quanto tale): e così la figura di Socrate va incontro ad un enigmatico sdoppiamento, per cui ci troviamo di fronte ad un Socrate platonico/metafisico e ad un Socrate empirico/cirenaico, uno speculativo, l’altro esistenziale (basato sull’ammissione della propria ignoranza e nella massima delfica del "conosci te stesso"). Ma il gnwqi sauton può dare adito a due diverse interpretazioni, una metafisica, l’altra esistenziale: al "conosci che cosa sei in quanto essere umano", ossia "conosci che cosa è l’uomo" (scienza di sé), si contrappone il "conosci te stesso come singolo" (coscienza di sé), cercando di vivere la tensione al bene come tua propria esclusiva. Così Platone interpreta l’ignoranza come iniziale critica dell’opinione, mentre le scuole socratiche la concepiscono diversamente, come direttiva di vita più che di sapere, con la conseguenza che il vivere da filosofo vorrà dire comportarsi contro convenzioni e vivendo in pura naturalezza. Non si tratta pertanto – secondo le scuole socratiche – di cercare che cosa sia l’uomo, ma, piuttosto, di cercare degli autentici uomini, ossia coscienze adatte a ricercare il vero bene, coscienze che siano realmente se stesse senza cadere in convenzioni culturali, sistematiche e, in definitiva, conformistiche. Da questo atteggiamento (congiunto ad una valenza fortemente critica della ragione) deriva una forte autarchia (autarkeia), un esistere autonomamente senza farsi toccare dagli accadimenti esterni. Il problema dell’ignoranza era posto sul tappeto da Platone a proposito dell’immortalità dell’anima: nell’Apologia, invece, era lasciato aperto uno spiraglio di scetticismo, anche se poi – con la voce della metafisica – il filosofo ateniese avrebbe debellato del tutto l’ignoranza, arrivando ad ammettere la certezza di una vita ultraterrena e dell’immortalità dell’anima. L’ignoranza viene dunque bandita? Con Platone, Socrate arriva a verità iperuraniche e assolute, mentre con le scuole socratiche egli resta avvolto da un alone di ignoranza, di una "dotta ignoranza" (per usare le parole di Cusano), consapevole dei propri limiti intrinseci ma, non per questo, disposta a rinunciare al sapere. Se in Socrate sussiste un perfetto equilibrio tra i due atteggiamenti, in Aristotele e in Platone prevale decisamente l’indirizzo metafisico, mentre nella successiva età ellenistica trionfa quello scettico/critico: dal VI al XII secolo c’è poi una parentesi non filosofica ma teologica, dove l’attenzione per Dio e i problemi di fede prendono il posto in precedenza occupato dall’indagine filosofica, ora detronizzata. Dal XIII al XVI secolo torna invece a dominare l’indirizzo metafisico, ma da Machiavelli fino all’età illuministica (e così sarà anche nel Novecento post-marxista) trionfa l’atteggiamento critico/scettico. All’atteggiamento metafisico corrisponde un’etica saldamente basata sulla virtù, mentre a quello critico/scettico un’etica che fa dell’utile il suo parametro: ad esse sono sottese due differenti concezioni della ragione e del suo rapporto con l’etica. I pensatori dell’uno e dell’altro indirizzo si trovano d’accordo nell’individuare nell’uomo un’entità dotata di ragione e di passioni, ma quando si tratta di dire che cosa sia la ragione già nascono le prime divergenze di prospettiva. Per individuare i due tipi di etica, dovremo pertanto capire che cosa effettivamente siano le passioni e poi la ragione metafisicamente e critico/scetticamente concepita. Il termine greco che traduce "passioni" è paqoV, che letteralmente significa "quel che si prova", dal verbo pascw; significa anche subire la presenza di qualcuno o di qualcosa, sicchè passione è il contrario di azione e il termine coincide con "affezione", che vuol dire subire un’azione essendone influenzato e modificato: passione è dunque, in primo luogo, qualsiasi modificazione dell’anima. Tali sono anzitutto le sensazioni che ci giungono dal mondo esterno e dalle quali l’anima è affetta, ma tali sono anche le passioni in senso stretto, ossia le modificazioni di natura affettiva, dalle quali l’anima è mossa. L’anima (sia che sia sconvolta da passioni interne sia che lo sia da esterne) è mossa, è paziente, subisce un’azione, patisce sia le sensazioni provenienti dall’esterno sia le passioni producentesi all’interno (stati d’animo, emozioni, pulsioni: l’ira, l’odio, la paura, ecc), proprio come il paziente patisce la malattia e la cura somministratagli dal medico. L’anima è passione perché si ritrova ad essere preda di tali passioni, stati e pulsioni di volta in volta occasionate da certe circostanze, inerenti all’anima in quanto tale, latenti in essa e risvegliate dalle circostanze: le passioni sono – secondo Platone e Aristotele – una sfera dell’anima, l’anima sensitiva, che sta a monte della ragione. Esse invadono e tendono a dominare l’anima determinando il comportamento dell’individuo che ne è preda; un tale individuo è tutt’uno con la passione, è mero patire: esse sono necessarie, nel senso che si trovano naturalmente ad essere quel che sono, sicchè l’operare delle passioni è, a ben vedere, un operare subìto e patito, il passionale non sa perché opera a quel modo né ha deliberato di operare così, ma subisce passivamente quell’operare delle passioni in lui (come si dice: la passione è cieca). Sorprendono e catturano l’individuo che ne è vittima ignara: se l’uomo fosse solo passioni, ignorerebbe di esserlo. Ma finchè sono passioni, il mio agire resta un patire, un essere necessitato. Il linguaggio comune dice giustamente che si è spinti dalla passione, dall’odio, dalla paura, ecc; si è cioè spinti ad operare alla cieca, non discernendo e perciò non deliberando. Ma l’anima non è solo passioni: c’è anche, al suo interno, la ragione, la facoltà del pensiero discorsivo che guida l’uomo. Il problema della morale resta, in questo senso, il rapporto tra ragione e passioni: quale è il rapporto? Quale concetto di ragione fanno valere i diversi orientamenti filosofici? La ragione è dialogo (nell’accezione greca di dia + logoV), ossia un trascorrere da un concetto all’altro organizzandoli ed articolandoli in un sapere che risulti organico. Il concetto è così il risultato della definizione, dice che cosa una cosa è, ne coglie cioè l’essenza, costituendone l’essere che la identifica per quella che è, individuando ciò in forza di cui essa è se stessa, ciò che essa deve essere per essere se stessa. In altri termini, il concetto individua e coglie ciò che ritroviamo permanente e accomunante in tutte le cose che in virtù di quel qualcosa di permanente e accomunante formano una specie. Ma tale essere permanente e accomunante è per i metafisici l’essenza universale e comune, colta dalla definizione e fissata nel concetto. La domanda "che cosa sono Tizio, Caio e Sempronio?" rimanda a quella "quale è l’essenza universale che li costituisce?" Essi sono corpo e discorso, ovvero sono animali razionali: questo è il concetto che li identifica nella loro essenza, cogliendo il genere prossimo (sono animali, come molti altri esseri) e la differenza specifica (sono uomini); alla base di ciò stanno il principio di identità (A è A e deve essere A) e quello di non contraddizione (A è non uguale a non-A). Il termine "essere", che abbiamo più volte trovato dispiegato nelle definizione, è però fortemente ambiguo: servendoci del linguaggio degli Scolastici, possiamo dire che si tratta di un termine non univoco, ma equivoco, ossia dotato di più significati. Soprattutto due: ha un significato essenzialistico e un significato esistenzialistico. Di un soggetto, infatti, possiamo predicare il verbo "essere" in due modi diversi, a seconda che si risponda a due diverse domande: "quid est?" e "an est?". Nel primo caso, mi chiedo che cosa una cosa è, mentre nel secondo mi interrogo se essa c’è, ossia se esiste: così domandarsi "che cosa è " Socrate è differente da chiedersi "c’è Socrate?". Nel primo caso, voglio sapere in che cosa consista il suo essere, nel secondo caso, invece, mi interrogo intorno alla sua anitas, mi domando cioè se esiste oppure no. A questa seconda domanda, rispondo di volta in volta con una constatazione: se Socrate c’è, risponderò con "c’è"; se invece non c’è dirò "non c’è". Alla prima, invece, rispondo allorchè vengo alla definizione della cosa, "Socrate è animale razionale"; posso rispondere solo se conosco la definizione. Se poi esperisco anche l’esistenza, potrò dire che effettivamente esiste un uomo di nome Socrate. Definendolo, siamo venuti a determinare il suo essere, ne abbiamo definito l’essenza, ossia ciò che ne costituisce la permanente ed irrinunciabile peculiarità del suo essere, tolta la quale cesserebbe di essere quel che è. Quando i metafisici parlano di essere, usano sempre l’accezione essenzialistica: l’ultimo grande metafisico – Plotino – dice che l’essere deve essere un questo (todh ti) e quindi alcunchè di delimitato, tant’è che l’ ousia stessa è un todh ti. All’essere non compete, secondo Plotino, il librarsi qua e là nell’indeterminatezza, bensì di essere consolidato da determinazioni e da forma, da delimitazioni, da stabilità e la stabilità è delimitazione e forma: l’essere è, anzi, sempre forma, un qualcosa di determinato, un essere conformato, il determinato esser qualcosa proprio di un certo ente, coglibile dal pensiero che lo coglie definendolo. Si scopre un’intenzionalità tra pensiero ed essere: il pensiero è fatto per l’essere che è forma, e l’essere in quanto è forma è definibile dall’esser ridotto al pensiero intelligibile, fatto per il pensiero stesso. E’ questo l’ottimismo razionalistico greco, che vede nella ragione l’arma appositamente data per conoscere il mondo. Sempre Plotino dice che occorre che il pensante afferri qualcosa di in sé distinto e il pensato, colto dal pensiero, deve essere alcunchè di indifferenziato, altrimenti non se ne dà pensiero, ma solo uno sfiorare - senza toccarlo – il concetto. In questo senso, Plotino sta introducendo la teologia: tutto ciò che è informe non può essere conosciuto, al massimo può essere alluso: tale è l’Uno, che è situato al di là dell’essere, è ineffabile, è nome al di sopra di ogni altro nome. Per il greco, l’informe è perciò stesso impensabile. La domanda "che cosa è?" prende di mira un esser qualcosa che ritorna in molti enti diversi, ma nei molti in cui lo riconosciamo appare sì diverso, ma è sempre lo stesso. Socrate è, in questo modo, identico e diverso dagli altri uomini: sono tutti ugualmente uomini, ma ciascuno lo è in maniera diversa. I tanti uomini si trovano accomunati da una stessa quidditas (l’esser uomo) che tutti sono, ma ciascuno a suo modo. L’esser qualcosa che li identifica e li accomuna è l’universale che li mostra come membri di una stessa specie. Oggetto del sapere filosofico è la quidditas delle cose esistenti nello spazio e nel tempo e che in quanto permanente e comune è coglibile dal pensiero e fissabile nel concetto: la scienza del sapere filosofico per oggetto ha l’universale e il necessario, mentre il mutevole e l’accidentale può essere raccontato ma non saputo nel senso più forte del termine. Così il sapere storico – ritornando al punto di partenza – è inferiore rispetto a quello filosofico. Non c’è infatti sapere stabile di Tizio o di Caio, ma dell’uomo che Tizio e Caio sempre e comunque sono: alla ragione filosofica compete pertanto un punto di vista peculiare, che non solo ha per oggetto l’universale, ma che proprio perché ha un tale oggetto deve esso stesso essere universale, vale a dire un punto di vista che trascende quello dei singoli individui empirici, variamente determinato dalle diverse impressioni sensibili, dalla mutevolezza della facoltà immaginativa, dall’influsso delle passioni. E’ il punto di vista della ragione stessa presente in tutti gli uomini. E il filosofo è colui che, riflettendo e ragionando, si converte dal punto di vista empirico (dove la ragione latita o dorme, e l’anima è ridotta a sensitiva) in cui trionfano le opinioni a quello superiore, in cui si è solo ragione, l’identica e oggettiva ragione presente in ogni uomo a prescindere da pulsioni, impulsi, fantasie: si tratta di un punto di vista super partes, in cui vige la pura e disinteressata conoscenza contemplativa del che cosa le cose sono, al di là degli accidenti, una pura e disinteressata contemplazione dell’essere, di cui la metafisica è scienza (secondo la definizione di Aristotele). Sia Platone sia Aristotele sono concordi nel concepire la filosofia come conoscenza degli universali, ma differiscono nell’intendere gli universali stessi, da Platone chiamati "idee" e intesi come ante rem, in re e post rem; da Aristotele (che li chiama "forme") intesi solo in re e post rem. Dal diverso modo di intenderli, il differente tipo di conoscenza prospettato dai due filosofi: per Platone si tratta di anamnesi, per Aristotele di astrazione. Ma che cosa è l’idea (eidoV) per Platone? A partire da Cartesio, "idea" designa cumulativamente ogni genere di nostra percezione, è una rappresentazione mentale (l’immagine mentale che ho del rosso, del cane o di Dio). Ma per Platone non è così: essa coincide con la morfh, ossia con la forma, e allude ad un contorno racchiudente qualcosa, altro non è se non un essere qualcosa. L’esser uomo è una modificazione nel tempo e nello spazio dello stesso essere uomo che sussiste nell’eternità, immutabile, come pienezza di quel certo essere qualcosa, sussiste come complicazione di tutti i possibili modi di essere quella certa cosa. L’eterna, infinita pienezza dell’essere un certo qualcosa altro non è se non il mondo delle idee presupposto e principio di questo temporale mondo di singoli enti empirici, ciascuno dei quali è una modificazione delle idee a cui fa capo. E’ un particolar modo di essere quella o quelle infinite idee. Tizio e Caio sono diversi modi di essere dell’idea uomo e animale. A produrre queste modificazioni che sono le cose empiriche sono le idee stesse, che non cessano di essere quelle che sono (eterna pienezza d’essere) ma si modificano divenendo nel tempo e nello spazio i singoli enti che ad esse fanno capo, ai quali partecipano. Conoscere il vero essere delle cose sarà conoscere le idee. La ragione ridestata dalle sensazioni risale dal mondo sensibile (che sulle prime le appare come l’unica realtà) a quello iperuranico, di cui il nostro è copia sbiadita: la ragione si è destata e ad essa sola il filosofo si è ridotto, avendo trasceso i sensi da cui aveva preso le mosse. Che cosa sono gli enti? Esistono in virtù di se stessi o di un’altra realtà? Secondo Platone, essi esistono in virtù dell’esistenza di un’altra realtà, le idee, che ne sono il presupposto e il principio; le idee sono siffatte che esistono necessariamente come tali, la loro perfezione ontologica non può mancare di esistenza (prova ontologica). Universali sono per Platone le idee, perfette perché costituenti l’infinita pienezza d’essere: l’idea di cavallo, cioè, è la perfetta attuazione di tutti i possibili cavalli. Il che significa che l’idea di cavallo non è un enorme cavallo in cui stanno tutti i cavalli sensibili: l’idea è secondo Platone qualcosa di immateriale, fuori dal tempo e dallo spazio (altrimenti sarebbe finita e non infinita). La conoscenze delle idee sarà razionale, mera intuizione intellettiva, il che segnala che la ragione è tutt’altra dalla sensazione e dalle passioni, è completamente autonoma. Il motivo per cui Platone ipotizza il mondo delle idee può almeno in parte essere compreso se facciamo riferimento al nostro mondo: come può esso spiegarsi se non facendo riferimento ad un altro mondo di cui il nostro sarebbe copia? Che cosa può spiegarmi l’essere identico e diverso che accomuna le differenti famiglie di enti empirici, per cui vedo gli uomini uguali e diversi fra loro? Si tratta, naturalmente, di fare riferimento al mondo delle idee, per capire come l’esser cavallo (o, se preferiamo, l’idea di cavallo) sia presente nei diversi cavalli sensibili, che di essa partecipano. Gli enti sono appunto classificabili in forza di un’identità che li accomuna, ma un tale principio in grado di render conto del mondo quale a noi appare non è rintracciabile nel mondo sensibile, poiché tutti gli enti che in esso ci appaiono di volta in volta sono se stessi, determinati, e perciò non possono fungere da princìpi dell’esser uomo di Caio e di Tizio. Ciascun ente empirico, cioè, non può render conto della sterminata molteplicità di enti finiti, cosicchè essi si spiegano a partire da altro: proprio qui sta la differenza riconosciuta dagli Scolastici tra l’ "ens a se" (l’ente che sussiste di per sé) e l’ "ens ab alio" (l’ente che esiste nella misura in cui dipende da qualcos’altro). Il nostro mondo empirico non è "a se", secondo Platone, ma "ab alio", dipende cioè da qualcos’altro, e quel qualcos’altro è appunto il mondo eterno delle idee: l’essere quel che sono gli enti lo devono per l’appunto alle idee di tale mondo intelligibile, che, diventandoli, li fanno essere quel che effettivamente sono. E così il mondo esiste in virtù del parteciparsi delle idee, le quali continuano ad essere quel che sono e diventano la molteplicità degli enti finiti che ad esse fanno capo. Tuttavia né Platone né nessun altro neoplatonico ha mai azzardato a spiegare come ciò possa avvenire, come le idee si modifichino, poiché tale processo si sottrae al nostro sapere, il quale abbraccia solo la conoscenza del fatto che tale partecipazione è la sola cosa in grado di render conto dell’esistenza del mondo empirico (e che la ragione può conoscere le idee). Un’altra questione non irrilevante lasciata in sospeso da Platone è perché il mondo delle idee "crei" questo mondo: ricorrendo ad un’immagine che sarà propria dei Neoplatonici, potremmo dire che è come se Dio, nella sua esuberanza di essere, traboccasse perché "diffuisivus sui", dandosi in maniera discendente, per cui il mondo è assolutamente inferiore rispetto alle idee. Nel mondo, dunque, non c’è nulla di veramente nuovo, l’unica relativa novità è che si tratta di un mondo deficiente rispetto a quello delle idee, che ne è modello. La conseguenza che ne deriva per quel che concerne la concezione della ragione è che conoscere empiricamente l’idea di cavallo significherebbe conoscere concretamente tutti i singoli cavalli esistiti nel presente, nel passato e nel futuro, senza trascurare alcun esemplare; e, del resto, noi possiamo predicare la cavallinità di questo o di quel cavallo empirico perché abbiamo già insita nella nostra testa, in qualche modo, l’idea di cavallo, alla quale raffrontiamo i cavalli sensibili quando diciamo che sono cavalli (riconoscendo in essi la cavallinità in noi presente a livello concettuale). Ciò significa che abbiamo già dentro la nostra mente, fin dalla nascita, l’idea di cavallo ed è in virtù di essa che possiamo riconoscere i singoli cavalli empirici dinanzi a cui ci troviamo: sono anzi tali cavalli sensibili a risvegliare in noi l’idea latente di cavallo. Si deve pertanto trattare, è evidente, di un’intuizione sovrasensibile, non ottenibile a posteriori, ma a priori, ossia è già sempre presente in noi, fin dalla nascita: come potremo allora dire che Tizio è più perfettamente uomo rispetto a Caio? Ciò avviene – risponde Platone – perché conosciamo il criterio, il modello, l’idea di uomo, con la quale confrontiamo Tizio e Caio, analizzando quale dei due meglio la imiti: in tale confronto si ha l’anamnesi, ovvero il ricordo di quell’idea di uomo già conosciuta (perché da sempre insita in noi) che ora, stimolata dall’esperienza sensibile (vedo Tizio e Caio) riaffiora alla memoria. Sicchè possiamo dire che la conoscenza sensibile è occasione perché nella ragione si sviluppi un’anamnesi che permetta di contemplare le idee: conoscere l’essere non sarà, quindi, un apprendere ex novo. Aristotele, dal canto suo, rifiuta la dottrina platonica delle idee, giudicandola una superflua complicazione il cui risultato è, tra l’altro, una ingenua svalutazione di questo mondo, che è secondo lo Stagirita l’unico e che per Platone era invece una pallida copia di quello iperuranico. Platone si avvaleva della dottrina delle idee, da lui elaborata, per una congerie di motivi, tra i quali merita di essere ricordato quello di sapore religioso: la dottrina delle idee permetteva al pensatore ateniese quell’anelito infinito verso l’assoluto che tanto gli stava a cuore, e l’intero suo sistema era pervaso da una profonda nostalgia per l’assoluto stesso, una nostalgia sconosciuta ad Aristotele; proprio tale nostalgia l’aveva indotto ad immaginare quello che Nietzsche definisce come il "retromondo" platonico, ossia quel mondo dietro il mondo che è l’Iperuranio. Questo mondo – dice Aristotele – si spiega benissimo da se stesso, senza far ricorso alle idee: le "forme", infatti, sono atti d’essere un certo qualcosa, è un certo esser qualcosa in atto che ha in se stesso, nel suo esser atto, il proprio principio e la propria ragion d’essere. Naturalmente, nessuno di questi atti sussiste, in questo mondo, perfettamente attuato: mentre Platone parla di perfezione come infinita pienezza d’essere qualcosa (le idee), Aristotele la intende invece come piena attuazione d’un finito atto d’esser qualcosa. Nessuno degli atti d’esser qualcosa è perfettamente attuato, però, e ciò avviene perché ciascuno è legato a una parziale porzione di materia; così ogni anima razionale e sensitiva è sempre congiunta ad un corpo che limita quell’anima facendone l’umanità relativamente attuata di Tizio, di Caio e di Sempronio; similmente, l’anima vegetativa è sempre unita ad una porzione di materia che ne fa quella certa pianta. La visione del mondo che ha Aristotele è quella di un mondo eterno che sussiste in forza dei suoi princìpi costitutivi - le forme e la materia (sempre unite): l’essenza di una cosa, allora, è l’atto di quel certo esser quella cosa che la fa essere quella che è, ma è più o meno attuata a seconda del corpo che la natura le ha assegnato. In Aristotele, dunque, le forme sono causa e fine di se stesse: causa in quanto sono ciò in virtù di cui gli enti esistono; fine nel senso che sono ciò a cui essi tendono, sono la tensione verso la propria attuazione, una tensione ostacolata dalla materia e che riesce nella misura in cui la resistenza da essa opposta viene superata. Così l’uomo è tanto più uomo quanto più è filosofo, ovvero quanto maggiormente esercita lo strumento di cui egli solo è equipaggiato: la ragione. Come è facile capire, nella prospettiva aristotelica non c’è alcun bisogno di rimandare ad un mondo ulteriore ed ultraterreno: basta e avanza il mondo terreno, un mondo increato, eterno, in cui Dio – pensiero che pensa se stesso – è una sorta di magnete che mette in moto ogni singolo ente che tenta di emularlo nella sua immobile perfezione. In quest’accezione, il senso della vita risiederà in questo, nella realizzazione – meglio o peggio riuscita – del proprio essere. Anche Aristotele ritiene di poter spiegare l’identità/differenza aggirata da Platone grazie al ricorso al fantomatico mondo delle idee: gli enti empirici sono le sostanze, unioni di forma e di materia, e a spiegare l’identità/differenza sarà il fatto che in ciascuna sostanza di una specie è presente virtualmente lo stesso identico atto d’esser uomo, virtualmente identico ma variamente attuato nella materia. Così tutti gli uomini sono identici perché dotati dell’anima razionale, ma sono diversi per via della materia, che li distingue gli uni dagli altri. L’universale sarà allora conoscibile per astrazione, ovvero astraendo dall’oggetto sensibile la forma, pervenendo, attraverso il particolare, all’universale (per induzione): così da una miriade di singoli uomini, operando un’astrazione, ricaverò la forma uomo, come forma presente "in re" in tutti gli uomini singoli. Ma l’induzione non è il solo ragionamento, altrimenti avrebbe ragione Platone ad ammettere il mondo delle idee quale modello da cui il nostro enigmaticamente deriva: secondo Aristotele, l’induzione comincia, sì, come ragionamento, che paragona e raffronta, ma poi cessa di essere tale e culmina in un’intuizione dell’essenza, un’intuizione che giunge alla definizione dell’essenza stessa attraverso un salto in qualche misura extra-razionale. La ragione, in questo senso, approda intuitivamente a due diversi ordini di verità: le definizioni (ossia la conoscenza degli universali) a cui si giunge per induzione, e i princìpi primi (principio di non contraddizione e derivati) a cui si perviene invece per intuizione, poiché essi appaiono immediatamente evidenti alla ragione in quanto tali. A questo punto, il sapere è puramente razionale e da induttivo diventa deduttivo, cioè trae le conseguenze dalle definizioni e dai princìpi deducendo sillogisticamente. Sicchè definire l’uomo come animale razionale comporterà conseguenze morali e politiche che la ragione coglie per deduzione: il punto di vista della ragione è altro rispetto a quello delle passioni, questo è il nucleo centrale cui pervengono – per vie diverse – Platone e Aristotele (nonché tutti gli altri pensatori); l’etica della metafisica classica greca può essere condensata, a tal proposito, in tre punti fondamentali: 1) l’alterità della ragione rispetto alle passioni; 2) la superiorità della ragione sulle passioni; 3) l’immancabile vittoria della ragione sulle passioni. La superiorità della ragione risiede nel fatto che, conoscendo essa l’essere e quindi il bene e, di conseguenza, il vero e il giusto, è in grado di confutare le passioni e gli pseudo-beni che esse propongono all’uomo. Conoscere l’essere di una cosa significa conoscerne la verità, ma anche conoscerne il bene, giacchè esso è l’affezione del suo essere, e il bene è anche la giustezza della cosa (infatti una cosa è giusta quando effettivamente è se stessa): giusto, per un ente, sarà tutto ciò che inerisce al suo essere, anzitutto il diritto di essere se stesso. E’ giusto che l’uomo, dotato di ragione (la quale è attitudine al comando), sia libero, ed è giusto che chi della ragione è privo non sia libero: è un buon esempio (anche se rischioso, per le conseguenze a cui può portare) di deduzione. La ragione ci indirizza al bene confutando le passioni e in ciò possiamo già leggere la sua immancabile vittoria su di esse; dove si attua la vittoria, là primeggia ciò che è superiore, al quale l’inferiore non può in alcun modo resistere. La ragione è il superiore e si sa come tale e, in virtù di ciò, sconfigge le passioni, che non possono distoglierla dalla sua strada allettandola coi loro pseudo-beni effimeri; essa è inattaccabile dalle passioni, poiché rivela come quelli da esse proposti non sono veri beni; in questo senso, la ragione è eterna confutazione delle passioni: chi ne è preda lo è o perché in lui la ragione dorme o perché del tutto privo di essa. Le passioni magari non saranno cieche, ma senz’altro sono assai miopi, soprattutto se confrontate con l’occhiuta ragione: esse non si accompagnano, in realtà, ad un’assenza assoluta di pensiero; pullulano quando però manca la retta ragione e dominano la fantasia e l’immaginazione, producenti immagini mentali (i fantasmata di Aristotele), ossia immagini a metà strada tra il pensiero e il sensibile. Infatti, una cosa è il concetto di uomo, altra cosa è l’immagine di uomo: nel secondo caso, ce lo si rappresenta in quel determinato modo perché lo si è effettivamente visto in carne ed ossa: le conclusioni che poggiano su tali immagini, nate dal sensibile, non possono che essere (al pari del sensibile) fluttuanti, ondeggianti, instabili: così dirò, padroneggiato dalle passioni, che "mi piace, lo voglio" o "non mi piace, lo fuggo". Si tratta, evidentemente, di un pensiero frutto delle inclinazioni sensibili, un pensiero configurantesi come elementare calcolo (cosa è che mi diletta di più?), dominato dalle passioni, strumento dell’appetito sensibile, gratificazioni empiriche mal fondate. Si tratta di pseudo-beni proposti come fini dell’ambizione, della volontà, del piacere: insomma, è un pensiero che finisce per opinare che il benessere fisico sia il bene supremo. Come possono, tuttavia, le passioni controbattere alle argomentazioni dispiegate dalla ragione scatenatasi contro di esse? Questa è appunto la loro insopperibile impotenza: non sanno argomentare. In secondo luogo, poi, l’intellettualismo greco (che abbiamo già visto in atto nella concezione dell’essere e del pensiero come fatti l’uno per l’altro) dà una clamorosa smentita delle passioni: la volontà è, per i Greci, una funzione della ragione, cosicchè è la stessa ragione che, conosciuto il vero e il bene, lo vuole a tutti i costi, senza soluzione di continuità. L’anima sensibile è, sotto questo profilo, conoscenza (perché sensazione e fantasia) e volontà (in quanto appetente), mentre l’anima razionale è conoscenza razionale e volizione razionale (cioè deliberativa): la ragione è sempre le due cose – pensiero e volontà – giacchè conosce il bene e, dopo di che, lo vuole adempiere a tutti i costi; si può a ragion veduta affermare che dove c’è la ragione c’è anche la volontà di raggiungere il bene conosciuto. Marsilio Ficino, in età umanistica, ha perfettamente colto quest’aspetto dell’intellettualismo greco: "come l’appetito irrazionale segue i sensi, così la volontà, che è avidità della ragione, segue ciò che l’intelletto conosce", altro non essendo la volontà se non "un’inclinazione della mente al bene". Del resto, la ragione è da sempre anche desiderio, desiderio di conoscere e di conseguire il bene che conosce, il che vuol dire che la volontà non è una dimensione ulteriore rispetto alla ragione: così Kierkegaard dirà che una cosa è sapere cosa sia il bene, un’altra volerlo. La ragione è, in questo senso, un Giano bifronte: nell’atto in cui conosce il bene, lo vuole; ed è per questo motivo che trionfa sulle passioni. Per il mondo greco, dunque, la volontà è, in certo senso, la ragione stessa in un’altra sua veste: ma, in età moderna, si opporranno a tale prospettiva Kant e molti altri, ad avviso dei quali la volontà è cosa diversa, e anzi opposta, alla ragione. Dove la ragione vige, essa è già sempre essa stessa oltre gli appetiti sensibili, risulta l’imprendibile per essi, il che è stato formulato brillantemente dal detto scolastico "voluntati naturale est quae bona iudicata sunt velle" ("per la volontà è naturale volere ciò ch’è stato giudicato buono"): ciò vuol dire che la volizione è il frutto necessario di una conclusione logica (con cui si individuano il bene e il giusto), sicchè nell’atto con cui conosce delibera coerentemente. La vittoria della ragione sulle passioni si configura in modi diversi in Platone e in Aristotele: in Platone, la ragione si separa dai sensi e dal sensibile diventando pura contemplatrice del mondo delle idee, a tal punto che l’anamnesi platonica è appunto quest’ascesa dell’io empirico spazio/temporale del filosofo al vero io che è la ragione eterna contemplatrice delle idee, di una dimensione divina (tema, questo, che verrà approfondito da Plotino e dai suoi seguaci, per i quali la ragione ridestata corre dall’empirico all’intelligibile). L’anima si fa secondo Platone mera anima razionale, e se la reminiscenza è recupero dell’io autentico, è allora evidente che l’anamnesi platonica ha una dimensione specificamente ontologica, cioè implica una trasmutazione ontologica del soggetto e non ha nulla a che fare con una presunta reminiscenza psicologica (come è invece quella ammessa da Proust). Tale ascesa platonica comporta, sul versante etico, una fuga (fugh dice Plotino) dai vizi dell’individualità empirica e sensibile, giacchè è un’evasione dal sensibile (pensiamo al mito platonico della caverna), è un andare oltre le deficienze dell’io empirico, che invece tenderebbe ad assolutizzare il livello sensibile. La virtù platonica per eccellenza sarà, in quest’ottica, la sapienza, poiché è conseguendo questa che l’io raggiunge la propria autenticità, rirecupera la "plenitudo essendi" della ragione contemplante e tale sapienza implica la giustizia e la capacità di esercitarla. Per Platone, dunque, la dimensione etica si configura nei termini di una vera conversione radicale (di metabolh si parla nella Repubblica) che presenta le caratteristiche di una fuga da questo mondo. Diversa è, invece, la posizione sostenuta da Aristotele, il quale – come sappiamo – tiene ben saldi i piedi per terra: anche quando è filosofo, l’uomo resta, secondo lo Stagirita, indissolubilmente legato al corpo e il conoscere stesso muove pur sempre dalla conoscenza sensibile (la quale non è pertanto un mero trampolino di lancio, come in Platone); ma anche per Aristotele la ragione, in ultima analisi, si colloca su un punto extra-razionale, puro e disinteressato, un livello di mera contemplazione delle forme che costituiscono l’in sé delle cose e, di conseguenza, l’ordine del cosmo, astraendo del tutto dal sensibile, ma non per questo distaccandosi dal corpo e dalle sue esigenze. Non potersi completamente distaccare dal corpo equivale a dire che si può filosofare solo ad intermittenza, ossia solo dopo aver soddisfatto i propri bisogni fisici, di fronte al cui ritornare bisognerà nuovamente sospendere l’attività filosofica per poterli soddisfare. E’ nell’ Etica nicomachea di Aristotele che troviamo, in nuce, l’etica del mondo classico: al cuore di questo scritto sta la distinzione tra "virtù etiche" (cioè pratiche) e "virtù dianoetiche" (cioè proprie della speculazione). Le virtù etiche sono degli atti della ragione, delle volizioni secondo ragione e questi atti - a furia di ripetersi - si consolidano, ma non in abitudini (ovvero in azioni di natura meccanica), bensì in abiti, che sono il frutto di successive e sempre rinnovantesi deliberazioni: il ripetersi di una deliberazione consolida la tendenza della ragione a comportarsi in un dato modo. La virtù, quindi, è quell’atto della ragione consolidatosi in abito, cioè nella disposizione ad agire secondo ragione: così la ragione subordina e limita le inclinazioni passionali che le si parano dinanzi. Temerità e viltà – dice Aristotele – sono due passioni contro ragione, mentre il coraggio è una forma di virtù razionale: ma chi è coraggioso? Colui che è permanentemente disposto ad osare o a temere secondo ragione, e questo può essere acquisito solo con la ripetizione dei singoli atti di coraggio che instaurano l’abito stesso del coraggio, atti che sono sempre consapevoli e razionalmente deliberati. La ragione, allora, modifica le passioni subordinandole a sé: gli impulsi a osare o a temere, se abbandonati a sé, si trasformano nelle mostruose passioni della temerità e della viltà, ma è la ragione a trasformarle in coraggio: non le elimina, ma le modifica, deliberando di avvalersene come essa stabilisce. In questa maniera, compio un atto coraggioso quando, di volta in volta, temo e oso secondo ragione: in presenza delle inclinazioni a osare o a temere, la ragione delibera di osare e di temere quando e quanto sente che è giusto e, così facendo, si esercita nel coraggio, trasformando le disposizioni passionali nel coraggio (che è appunto una virtù etica). In questo senso, da passioni subite diventano azioni deliberate, novità prodotte dalla ragione che doma e soggioga le aberranti passioni, impedendo che nasca la viltà e la temerità. Ben si capisce come per Aristotele (e in ciò concorda l’etica greca tutta) non sia la ragione ad essere al servizio delle passioni, ma viceversa: è essa a deliberare autonomamente il comportamento virtuoso a cui uniformarsi. Aristotele dice apertamente che la superiorità della ragione si manifesta nella suprema virtù etica: la giustizia. Essa è la virtù suprema perché ad essa sono subordinate le altre, che essa comprende ed organizza; è infatti solamente grazie alla giustizia che le altre virtù sono quello che sono. Esse, infatti, sono il giusto mezzo tra due inclinazioni opposte: così il coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la temerità, la liberalità è il giusto mezzo tra la prodigalità e l’avarizia. Ma Aristotele intende qui la giustizia sensu lato: ha infatti in mente la "giustizia politica" (o "universale"), quella cioè che ha per oggetto ciò che è giusto per natura e che costituisce il bene comune. La giustizia politica concerne l’universalmente e il naturalmente giusto, che altro non è se non l’universale ordine dell’essere, ovvero l’ordine del mondo e umano. E la giustizia è, appunto, quella virtù che è disposizione permanente a riconoscere, conservare, promuovere ed eventualmente restaurare tale ordine; ciò significa che un uomo è giusto nella misura in cui riconosce l’ordine, nel duplice senso che lo conosce (ragione speculativa) e lo promuove (ragione pratica), affinchè esso si preservi e prosperi e nel tutto sopravviva la parte, intesa come parte contestualizzata nel posto che le compete nell’economia del tutto. E l’uomo giusto si deve adoperare anche attraverso giuste limitazioni e rinunce, anche attraverso la rinuncia a volere tutto e immediatamente. Allora potremo dire che giustizia è favorire e promuovere il tutto, il giusto ordine delle cose: ma tale ordine va anzitutto conosciuto ed è conoscibile solo da una ragione che prescinda dai punti di vista particolari e che sia collocata da un punto di vista universale, come disinteressata contemplatrice della verità delle cose, verità che coincide con la giustezza stessa delle cose (esse sono giuste nella misura in cui sono se stesse). Ma questo è il sapere metafisico, possibile solamente in quanto sviluppantesi da un punto di vista universale e disinteressato: tale giustizia coincide col bene comune, dove ciascuna cosa attua coerentemente il proprio essere. E questo bene comune è naturale, tutt’uno con la natura delle cose, altro non essendo questa se non la loro essenzialità. Si tratta, dunque, di un bene colto da una ragione attenta, giacchè in grado di trascendere quello che Machiavelli chiama "il particulare". Soltanto chi ha una simile visione del giusto ordine potrà sempre sapere come agire giustamente, sarà ad esempio in grado di agire quando è giusto e con il giusto coraggio, evitando oculatamente sia la viltà sia la temerarietà. Solo chi ha una simile visione e agisce sempre di nuovo deliberando acquista l’abito della giustizia, virtù delle virtù. Egli sarà giusto in tutto ciò che fa, e sarà colui che realizza pienamente se stesso, attuando in pieno la propria razionalità di uomo, ossia la propria struttura metafisico-etico-politica; sa, conosce e agisce di conseguenza all’interno della poliV, in cui si trova a posto con se stesso perché è al suo giusto posto. Vive interamente secondo ragione, conosce la giustizia ed è ad essa che mira (nella duplice accezione che la contempla e ad essa aspira), esercita la "giustizia distributiva", consistente nel dare a ciascuno il suo ("dare cuique suum"), ossia recapitandogli ciò che naturalmente gli spetta. Ma il vero filosofo – oltrechè col dare a ciascuno il suo - esercita la giustizia anche correggendo le disuguaglianze, ripristinando la giustizia venuta meno: in questo modo, egli esercita la "giustizia correttiva" (o "commutativa"). E’ facile capire come, nella prospettiva aristotelica, sapienza e giustizia siano le due facce della stessa medaglia, poiché il sapiente è il giusto e il giusto è il sapiente, in cui la retta ragione non incontra ostacoli nel suo dispiegarsi. In questo senso, si può dire che le virtù sono attitudini prodotte dalla ragione e, perciò, inesistenti prima di essa: se le passioni sono subite, le virtù sono attivamente agite (in quanto deliberate). Questo vale per quel che riguarda le virtù: ma Aristotele si riferisce spesso anche alla virtù in senso lato, come atto della mente umana; egli dice che la ragione conoscente e agente, se funziona correttamente, realizza le sue possibilità ed è in ciò che consiste l’areth, il perfetto compimento della natura umana, compimento che corrisponde del resto alla felicità. Sicchè l’uomo potrà dirsi felice quando e nella misura in cui si sente realizzato, e per realizzarsi dovrà attuare metafisicamente la propria natura, esercitando quell’elemento che più di ogni altro lo rende uomo: la ragione. Non è, dunque, il lavoro a realizzare l’uomo, come credeva Anassagora e come crederà Marx, bensì il pensiero. Tale areth è realizzabile entro i confini della poliV (perciò è politica), è la condizione del sussistere del soggetto umano, il quale – se vivesse al di fuori della città e, quindi, isolato – non sarebbe altro che una bestia. Anche l’esercizio della ragione si realizza al meglio nella vita di relazione, solo in tale contesto è dato praticare le virtù etiche: è solo nella poliV, infatti, che si realizza la vera filosofia platonicamente intesa in forma dialogica, come scambio reciproco di idee che si attua nella relazione interpersonale. Ed è solo nella poliV che può svilupparsi l’amicizia, da Aristotele distinta in amicizia fondata sui bisogni (un’amicizia di mutuo soccorso, che nasce dalla necessità di soddisfare reciproche esigenze) ed amicizia disinteressata (solo questa autentica e duratura, poggiante sulla reciproca attuazione della propria razionalità). L’animale razionale è, secondo lo Stagirita, tale in quanto è animale politico, cosicchè la poliV può essere etichettata come naturale approdo della ragione umana. Questo significa che il consenso politico è quello naturale e implicito di tutti gli uomini, dei veri uomini liberi, ossia di tutte le rette ragioni, è – in altri termini – il consenso a cui naturalmente la ragione perviene. Allora alla base dello Stato non vi è il patto sociale, cioè l’opzione soggettiva di una molteplicità di individui che si accordano a tavolino e convengono su cosa è il bene comune, ma, al contrario, c’è l’esigenza oggettiva dell’universale natura umana, ossia dell’uomo concepito come animale razionale/politico. Dove c’è una molteplicità di individui dotati di retta ragione, lì si produce lo Stato, come insieme spontaneo di individui governati dalla loro ragione. Naturalmente, in una concezione del genere pare serpeggiare un esasperato ottimismo antropologico, che sarà deriso dagli uomini rinascimentali. Tuttavia, onde evitare di scivolare in facili fraintendimenti, è bene domandarsi cosa dobbiamo intendere per "uomo" quando sentiamo Platone e Aristotele parlarne: chi è uomo? Chi ha la ragione e la esercita rettamente, cosicchè uomini in senso pieno sono i soli filosofi, ossia una esigua minoranza. L’ottimismo di partenza già scricchiola. La posizione stoica, poi, pare sotto questo profilo significativa: gli Stoici, infatti, dicono che il vero saggio (l’unico essere degno di essere detto "uomo") non è mai esistito né mai esisterà, sicchè di uomo non ce n’è mai stato (né mai ce ne sarà) neanche uno. Senza arrivare agli estremismi stoici, ma restando a Platone e ad Aristotele, all’ambito dell’umano vengono da loro sottratti molti individui che noi, abitualmente, riteniamo uomini in senso pieno: così già Platone – nella Repubblica – nota come gli esseri umani siano stati plasmati con tre diversi metalli, con la conseguenza che ci sono uomini superiori e uomini inferiori dalla nascita, senza possibilità di cambiare status; l’educazione stessa, più che trasformare l’essenza di ciascuno, porta a svilupparsi ciò che ciascuno è potenzialmente fin dalla nascita. La posizione di Aristotele è più drastica: a suo avviso, non sono propriamente esseri umani tutti coloro che non possono esercitare rettamente la ragione: restano così esclusi dalla cittadinanza umana schiavi, ragazzi e donne. Solo i Sofisti - gli illuministi del mondo greco – avevano affermato a gran voce che la schiavitù esiste solo convenzionalmente e che, alla nascita, gli uomini sono tutti uguali: tesi, questa, abbracciata, seppur con sfumature diverse e piuttosto variegate, da Ippia, Antifonte e Alcidamante. Già Platone, invece, sosteneva che solo i Barbari potevano essere fatti schiavi, mentre ciò era impossibile con individui di origine greca. Ma è legittimo domandarsi quale sia la differenza (ammesso che ci sia) tra uomini liberi e schiavi: Platone la individua nel fatto che gli schiavi sono sprovvisti di logoV e dotati esclusivamente della doxa, possono cioè opinare senza però formulare ragionamenti, con la conseguenza che lo schiavo è un mero esecutore incapace di autodeterminarsi e in tutto e per tutto dipendente dal padrone. Questa distinzione la troviamo in Aristotele (Politica, I 13), il quale opera una diversificazione tra individui dotati di ragione (e perciò capaci di pensare e di prevedere) ed individui sprovvisti di essa e tenuti solo a faticare col proprio corpo; questi ultimi sono puri e semplici strumenti nelle mani del padrone, alla pari del bue e dell’aratro. "Differiscono quanto alle capacità di deliberare derivata dalla riflessione razionale: tutti hanno le parti dell’anima, ma in maniera diversa. Lo schiavo non possiede in tutta la sua pienezza la parte deliberativa; la donna la possiede ma senza autorità; il ragazzo la possiede ma non ancora sviluppata". E – aggiunge Aristotele – si è degni di stare dentro o fuori le mura della poliV a seconda che si possegga o meno il boulhtikon, la capacità di deliberare. Lo schiavo può apprendere la ragione dal padrone, poiché la sua è una razionalità riflessa, che imita ed emula quella del padrone appunto. La donna, invece, la possiede ma senza autorità: ella ragiona poco, non al punto da persuadere, cosicchè, quando si trova a discutere col filosofo, ella si trova costantemente in uno stato di minoranza. Solo il maschio adulto (e per questo il ragazzo risulta escluso) ha piene facoltà razionali: esso solo è uomo nel vero senso della parola (animale razionale e politico). E non è un caso che lo Stagirita distingua l’adrapodon (l’essere dai piedi umani) dal tetrapodon (l’essere a quattro zampe, ovvero la fiera), identificando il primo con l’uomo, il secondo con lo schiavo. Secondo Aristotele, la schiavitù è giusnaturalisticamente costituita, giacchè esistono esseri dotati di ragione e per questo destinati al comando, ed esseri che sembrano essere uomini ma che in realtà non lo sono e, in virtù di ciò, mancano degli stessi diritti del cittadino, il quale è secondo lo Stagirita un greco, maschio, adulto, ozioso, urbano e libero, cosicchè – contrariamente alle tesi sofistiche – la schiavitù è naturale e legittima. Altra cosa, invece, sono gli schiavi per legge, ossia quegli uomini che perdono in guerra, poiché vinti, la loro libertà: una schiavitù di questo tipo è giusta solamente se i vinti fatti schiavi sono tali già per natura, altrimenti, se ci troviamo dinanzi a uomini un tempo liberi e ora privati della loro libertà e ridotti in catene, trattasi di una schiavitù illegittima. A corollario di quanto detto, ricordiamo la dottrina aristotelica del dispotismo e la distinzione ch’egli opera con la tirannia: il despota è per natura il padrone della casa (oikoV), e il dispotismo da lui esercitato è il potere arbitrario del padrone sugli schiavi e su quanti (donne e bambini) non sono propriamente uomini, sebbene Aristotele si renda perfettamente conto che la relazione intrattenuta dal "pater familias"/despota con la moglie non si configuri come un dispotismo, ed è per questo che lo Stagirita tende a parlare di un’aristocrazia all’interno della casa, dove a governare sono il marito e la moglie congiuntamente; in questo modo, viene reintrodotto il potere femminile, precedente negato. In sostanza, il dispotismo è il legittimo rapporto di potere che si instaura tra chi possiede il bouleutikon e chi ne è sprovvisto, un rapporto che è esercitato non nei confronti di cittadini, ma verso strumenti quali sono per Aristotele lo schiavo e il bambino. Al contrario, la tirannia è un sopruso esercitato nei confronti dei cittadini e per questo motivo è del tutto illegittimo, e reso ulteriormente illegittimo dal fatto che se il despota è il cittadino razionale e virtuoso per eccellenza, il tiranno invece è colui che meno possiede la ragione, e che anzi è preda delle proprie passioni, sicchè l’illegittimità del suo potere è fondata dal suo padroneggiare sui cittadini e sulla tipica incapacità di comandare propria di chi è in balia delle nocive passioni. In questi termini, il dispiegato ottimismo del popolo greco trova una sua clamorosa smentita: l’uomo, che così spesso troviamo tratteggiato nelle pagine dei filosofi, è in realtà un personaggio meno frequente del previsto, anche se non è mai possibile fugare completamente l’ambiguità di fondo, quell’ambiguità che ci assale puntualmente ogni qual volta ci imbattiamo nel termine "uomo", così ricorrente negli scritti di Platone e di Aristotele. Alla diffusione di tale ambiguità ha contribuito il massimo divulgatore del pensiero greco, Marco Tullio Cicerone, troppo spesso presentato semplicemente come un avvocato capzioso e verboso, e non come una delle più lucide menti filosofiche dell’antichità, quale effettivamente fu. Il suo De officiis è la quint’essenza dell’etica antica: vi troviamo un costante elogio reiterato dell’uomo raziocinante, virtuoso, instancabile cultore del bene, interamente dedito all’esercizio della ragione, e, presi dal magnifico periodare ciceroniano, finiamo per dimenticare che quello da lui descritto è un animale rarissimo, quasi inesistente.

IL MEDIOEVO

Tentata un’ardita sintesi, proveremo ora a delineare succintamente il mutamento intervenuto in ambito filosofico grazie al cristianesimo, tra il VI e il XII secolo d.C. La grande e fondamentale novità che l’avvento del cristianesimo ha introdotto è il ridimensionamento netto della ragione antica, la cui celebrazione greca deve fare ora i conti con l’instaurarsi del principio di autorità e con il dogma della destinazione divina dell’uomo, nonché della beatitudine eterna e, ad essa correlato, il peccato originale. Nel mondo antico, la ragione era la sola, suprema autorità, a tal punto che si potrebbe parlare di sovranità della ragione: nessuna autorità le contendeva il primato di autorevolezza teorica ed etica, il saper dire "che cosa fare" e "come agire". Un tale agonismo tra la ragione e un’autorità da essa distinta interviene con il cristianesimo, che ha caratteristiche diversissime dalla religione degli antichi Greci e che lo conducono inevitabilmente ad un conflitto con la ragione, una belligeranza lunghissima e dapprima risolta (in età medioevale) con la subordinazione totale della ragione alla Rivelazione; tale subordinazione si attua in due momenti distinti: in un primo momento, nella fase patristica; in un secondo, in quella scolastica. Il momento patristico (che si protrae fino al XII secolo) ha la sua sistemazione in Agostino di Ippona e informa di sé la cultura teologica e monastica che domina fino al XII secolo a.C, quando subentreranno novità che porteranno ad una riformulazione – la "scolastica" – del rapporto intercorrente tra rivelazione e ragione, soprattutto grazie all’opera di Tommaso d’Aquino. Grazie all’Aquinate, verrà restituito, almeno parzialmente, alla ragione qualcuno dei diritti di cui era stata spogliata dalla patristica. Ma – chiediamoci – perché la religione antica non si era opposta alla ragione (come invece accade in età cristiana)? Le fonti su cui poggiava la religione antica, in special modo quella greca, erano due: la mitologia e gli oracoli, e, per di più, la mitologia di marca greco/romana non si configura come una rivelazione divina, ma come un’affabulazione umana, come interpretazione del mondo, e ne sono portavoce i poeti (Omero ed Esiodo), i quali scoprono, immaginano e inventano gli dei, le loro reciproche relazioni e quelle con gli uomini; si tratta, dunque, di un’affabulazione anteriore e parallela rispetto alla riflessione razionale, ma – al pari di questa – è pur sempre umana e, perciò, risolvibile nella speculazione filosofica, secondo un passaggio dal muqoV al logoV, passaggio che si concretizza nella cultura antica, quando cioè i filosofi hanno fatto propri i miti e ne hanno dato formulazioni razionali. Così hanno agito Platone, gli Stoici e i Neoplatonici, rielaborando in chiave razionale i miti; anche Epicurei e Scettici si sono mossi in un contesto non del tutto differente, demistificando la mitologia come cumulo immane di fandonie liquidate dalla ragione: da tutto ciò si evince come, nel mondo antico, ragione e mitologia non siano mai, propriamente, entrati in conflitto. Sull’altro versante, l’oracolo è parola divina comunicata agli uomini in luoghi precisi (i templi) attraverso una persona consacrata alla divinità venerata in quel determinato luogo: un tale verbo divino ha, tendenzialmente, contenuto di pronostici, di oroscopi, di divinazioni, ed è rivolto ai singoli che di volta in volta interrogano l’oracolo. Ciò segnala che alla religione antica ineriva una funzione eminentemente profetica, e il profetismo era risolto in una precisa casistica, il Dio si esprimeva attraverso il medium umano (la Pizia, la Sibilla, ecc), che rispondeva di volta in volta a puntuali e circoscritte domande, quali "che cosa fare nei momenti di ansia e di paura?" Le risposte, quindi, erano altrettanto puntuali rispetto alle domande, cosicchè la parola oracolare del Dio non si organizza mai in un configurarsi di rivelazioni, ossia in una visione complessiva, totalizzante e veritiera del reale; al contrario, il verbo divino non concerne la verità, e d’altro canto quando tende ad articolarsi in verità si presenta sempre come affabulazione poetica, che può essere rielaborata dai filosofi. Non è un caso che, in tale prospettiva, agli antichi greci fosse sconosciuta una Bibbia rivelante la verità, una Chiesa intorno alla quale raccogliersi, poiché questa si costituisce solamente in seguito ad una rivelazione, di cui è l’unica autentica interprete. Non sussiste nel mondo antico alcun problema di fede e ragione come due possibili e diversi accessi alla verità: il problema, invece, si pone con le "religioni del libro", con il cristianesimo, l’ebraismo e l’islamismo, dove ci si imbatte in una rivelazione divina che si scontra con la ragione, ai cui occhi tale rivelazione appare come una folle stranezza, in quanto non solo predica cose nuove e non pronunciate dalla ragione, ma addirittura incomprensibili e opposte alla ragione stessa e ai suoi dettami (tale è il caso della Trinità, che si oppone al principio di identità). E per di più tali stranezza vengono dalla Rivelazione sentenziate con una veste di autorità sovrannaturale, come verbo divino. Con il mondo cristiano, ci si trova dinanzi a due distinti fonti della Verità immediatamente contrastanti e guerreggianti, cosicchè diventa inevitabile interrogarsi sul loro rapporto: per i non cristiani, la Rivelazione è mera invenzione umana e, come tale, viene prontamente liquidata. Ma, con l’erezione del cristianesimo a religione dell’impero avvenuta sotto Costantino, si ha l’insediamento del principio di autorità, e questo perché la natura divina della Rivelazione del libro è imposta e riconosciuta dal potere politico, spesso – se necessario – con la forza. In quanto parola divina, essa è l’assoluta verità cui la ragione umana è chiamata a sottomettersi, con la conseguenza che la "pagina sacra" e la dottrina che i suoi legittimati interpreti ne traggono è la Verità stessa, cui deve piegarsi ogni pretesa verità puramente umana. Ne sorge una società in cui la cultura non potrà essere se non cultura del "Libro sacro", cultura cioè di un solo libro, e configurantesi precipuamente come sua lettura e, rispetto a ciò che il testo detta, l’atteggiamento della ragione non potrà che essere ricettivo e strumentale, un passivo ascolto e una mera fornitura dei mezzi volti alla comprensione quel dettato dell'auctoritas: ed è appunto questo che si compie nei monasteri fino al secolo XI (lectio divina). Ma, accanto alla novità dell’autorità, è introdotta l’innovazione della mutata immagine dell’uomo: creato da Dio e destinato a godere di beatitudine eterna, anche se parzialmente compromessa dal peccato originale, ma recuperabile col soccorso della grazia divina, l’uomo non può contare soltanto sulla propria ragione. L’obiettivo centrale e imprescindibile della vita umana diviene lo sforzo di meritarsi la beatitudine eterna e, dunque, il tentativo di conseguire con le buone opere la giustizia divina occorrente per acquisire tale beatitudine, una giustizia che è però radicalmente diversa da ogni altra. Si tratta tuttavia di un obiettivo irraggiungibile in questa vita, stante quel peccato originale che ha corrotto la ragione e ha tarpato le ali alla volontà di ottenere la beatitudine; è però in virtù della Grazia che tale impegno viene finalmente premiato, e la vita acquista senso in riferimento al suo tendere alla santità. L’uomo che si sforzi di vivere rettamente (secondo la legge divina, non quella umana) è destinato allo scacco qualora pretenda di raggiungere tale fine esclusivamente con le sue forze, poiché – come nota Agostino – si trova ineluttabilmente vinto dal peccato se non fa riferimento alla Grazia divina liberatrice. In quest’ottica, le morali elaborate dagli antichi sbagliano nel proporre fini puramente umani e terreni, che alla luce della Grazia si rivelano come illusori ed effimeri, lungi dall’autentico Bene. E il raggiungimento di quel bene terreno e umano – vuoi l’areth aristotelica, vuoi l’ascesa razionale platonica – richiede l’esercizio di virtù che sono tali solo per chi ignora la natura di Dio e dell’Amore (agaph) che Egli pretende dalle sue creature, quell’amore disinteressato per il prossimo che è sconosciuto all’etica antica; il falso eudaimonismo dei Greci poggia, secondo i cristiani, sull’ignoranza di quale sia la natura divina, giacchè tutto ciò che concerne la relazione intercorrente tra uomo e Dio (e dunque la Grazia, il peccato originale, la perfezione dell’Amore, ecc) esula dalle capacità conoscitive della ragione resa incapace dal peccato originale. Allora la relazione con questo Dio rivelatosi diventa l’essenziale, e così l’uomo in quanto ragione mira a conoscerLo e in quanto volontà tesa a compiere quella divina è rimandato continuamente a tale Rivelazione, alla quale deve in tutto e per tutto sottomettersi, piegandosi anche alla Grazia che si sviluppa in un nuovo agire reso possibile dal concorrere della Rivelazione e dalla Grazia: è, questo, l’unico vero sapere e l’unico vero agire, l’unico a contare davvero per la salvezza, frutto della Grazia agente sulla ragione e sulla volontà, secondo quanto stabilito da Dio. Con la "patristica" assistiamo ad una radicale delegittimazione di ogni punto di vista che non sia quello imposto dalla fede, e pertanto il sapere viene concepito e praticato unicamente come teologia, ovvero come LogoV intorno a QeoV, come scienza di Dio: si tratta di un genitivo sia soggettivo sia oggettivo, in quanto Dio è l’oggetto di tale scienza, ma è al contempo Dio stesso il soggetto che sa, è la Grazia divina che con la Rivelazione informa il fedele circa Dio. La delegittimazione di ogni altro sapere finisce per investire anche la filosofia e viene scandita secondo due modalità: in primo luogo, il filosofare umano è congedato come errore frutto dell’ignoranza di che cosa sia la natura divina; in secondo luogo, qualora non venga così brutalmente messo alla porta, viene etichettato come una vana curiosità intorno a cose di poco conto se raffrontate all’unica cosa che davvero conta: la salvezza umana; tutto ciò che non ha ad essa attinenza è vana curiositas e, come tale, va rigettato, si abbandona il sapere umano e si abbraccia la fede, viatico alla beatitudine eterna, una fede che è un assenso e una fiducia in ciò che viene rivelato, ma è altresì notizia di ciò che è rivelato, ossia è nozione di ciò in cui si ripone la fiducia. La fede, pertanto, incrementando questa sua spinta conoscitiva, si sviluppa in intelligenza di sé e dà così vita ad un sapere in cui è al contempo oggetto e soggetto; tale sapere è intellectus fidei, l’intellezione della fede, l’intellezione che ha ciò in cui crede. Agostino dice che vi è un primo momento di "fede semplice", e un secondo in cui si è fatta intellectus fidei. Nello stato di fede semplice, la ragione aderisce strettamente alla parola scritturale, la tiene per vera e si riduce ad essa, si ha cioè una ragione come mera ricezione del Verbo. In un secondo momento, in forza dell’illuminazione proveniente da quella parola, l’intelletto muove dalla parola mirando ad una più ampia comprensione della parola stessa e, quindi, dirigendosi ad essa: la parola è principio della fede, e la fede illuminata tende ad una più profonda comprensione della parola. Sempre muovendosi entro l’orizzonte della parola, la fede da semplice diventa teologia, anche se tale passaggio non si verifica in tutti i fedeli (nella stragrande maggioranza resta fede semplice), ma solo in pochi eletti. Agostino nota come nello sforzo di articolazione della fede da semplice a complessa, accada al teologo di ricorrere alle dottrine di alcuni filosofi che lo hanno preceduto e che lo sorprendono per la loro straordinaria somiglianza con quel che la Rivelazione dice: tali sono, secondo Agostino, i Platonici e i Neoplatonici. Ma non per questo il teologo abbandona i suoi panni per indossare il mantello del filosofo: non si rinuncia al proprio punto di vista, poiché le dottrine filosofiche accostabili a quelle dettate dalla Rivelazione altro non sono se non un plagio o il frutto di una Rivelazione parallela; Platone stesso non è altro che un "Mosè atticizzato". Come Mosè ha ricondotto il popolo dall’Egitto alla terra promessa, così Platone ha fatto il suo viaggio in Egitto e ha trovato le tracce della Rivelazione ebraica e se ne è impadronito per riformularle come propria filosofia. Ne deriva che il platonismo è un plagio. La seconda teoria (formulata da Clemente Alessandrino) è quella della "Rivelazione parallela": stando ad essa, bisogna riconoscere che se ci sono (e, di fatto, ci sono) analogie tra alcune ragioni cristiane e alcune filosofiche, ciò dipende dal fatto che, accanto alla Rivelazione vera e propria, Dio ne ha prodotta un’altra - in senso lato -, ed essa corrisponde ad un certo filone della filosofia greca; e del resto la ragione di cui si son serviti nel loro incedere i filosofi antichi non è forse anch’essa il frutto della creazione divina? Sicchè il teologo che si impadronisce di certe dottrine filosofiche non fa altro che recuperare ciò che per natura è suo, formula cioè la stessa verità nello stesso modo in cui l’avrebbe prima o poi formulata, anche senza incontrare quelle dottrine filosofiche, poiché si tratta della medesima fonte di Verità. Fino a Bonaventura (XIII secolo d.C.), passando per Bernardo di Chiaravalle, domina questa prospettiva teologica che vuole la ragione interamente guidata dalla fede, e ciò non solo in sede teoretica, ma anche in campo etico, dove le improbabili virtù della sola ragione vengono surclassate dallo sforzo verso la santità supportato dalla Grazia, con la conseguenza che il vero comportamento è quello del monaco asceta e della sua assidua lotta contro il peccato, ch’egli conduce vivendo fino in fondo, nel suo cuore, la distinzione – soprattutto agostiniana - tra città divina e città terrena. Quando alla sovranità della ragione socraticamente intesa come curiosa di tutto si sostituisce l’autorità di un solo punto di vista imposto dalla fede, sovrarazionale e perciò inattaccabile dalla ragione, il dialogo cede il passo al monologo, la cultura da vivace che era diventa statica e stagnante, con un unico orizzonte entro il quale la ragione è mero strumento passivo, illuminato dalla Grazia: non vi è altro da sapere se non la vita eterna che si vivrà, e il nostro mondo perde in tal modo di rilevanza, quasi diventa favola, il monaco il monastero assurgono a simboli di una fuga dal mondo e dalla vita terrena, con l’apparentemente irrisolvibile paradosso che in quei monasteri in cui ci si vuole sottrarre dal mondo e dall’esercizio della ragione abbondano i copisti, che – attraverso il loro strenuo lavoro di copiaggio – trasmettono ai posteri un sapere puramente umano. In realtà, è un paradosso solo apparente, giacchè tali copisti, che ricopiavano per intero le opere dei grandi filosofi dell’antichità, facevano ciò solo per penitenza, per guadagnarsi il paradiso, senza nemmeno leggere quel che copiavano (sarà poi il mondo umanista che tornerà a leggere con rinnovato interesse i testi tramandatici dall’antichità). In tutte queste componenti del mondo medievale troviamo conferma della tremenda depressione culturale in cui è immersa quest’epoca: ma, a partire dalla metà del XII secolo d.C., si assiste al ritorno di Aristotele e del suo bagaglio di scritti, che irrompono portati dagli Arabi (soprattutto Avicenna e Averroè), e l’ingresso dello Stagirita in Occidente è uno shock culturale, in quanto ci si ritrova dinanzi ad una sistematica visione del mondo (precisamente: di questo mondo) che è così articolata, complessa e diffusamente argomentata – e perciò istruttiva – che non sembra più possibile sbarazzarsene come di un blocco fatto passare per menzogna o vana curiosità. E’ un sapere così autonomo che non sembra neppure possibile farlo rientrare in qualche modo nell’alveo della Rivelazione, poiché si tratta di un sapere improntato sull’esercizio non della fede, ma della ragione: con Aristotele, torna in Occidente – con rinnovato vigore - il sapere filosofico, dopo un esilio durato qualche secolo, con un effetto assolutamente dirompente, dal momento che costringe i teologi ad ammettere una forma di sapere altrettanto legittima rispetto alla loro, e li induce ad elaborare una nuova teologia che tenga conto di questa realtà poggiante su di un positivo sapere umano impostosi inconfutabilmente. Così, Bonaventura avrebbe preferito che Aristotele non fosse mai "risorto", ma, di fronte al monumentale corpus aristotelico, non può non riconoscergli lo statuto di un sapere razionale valido, diverso sì da quello del teologo, ma non per questo da rigettarsi. Per questa via, la filosofia (opus rationis) e la teologia (intellectus fidei) si configurano come due ordini distinti, caratterizzati ciascuno da un proprio statuto, cosicchè alla teologia si impone di trasformarsi per poter intrattenere con la risorta filosofia un rapporto che le consenta di esserle superiore: prima che Aristotele facesse irruzione nell’Occidente medievale, la superiorità della teologia era scontata e aproblematica; ora, invece, la si deve riformare per far sì ch’essa sia in contatto con la ragione filosofica, ma restando ad essa superiore. Ed è in questa prospettiva che si orienta Tommaso, il quale fa nascere la teologia scolastica, ribadendo l’egemonia della teologia, pur non respingendo la ragione. Compie questo in due mosse congiunte: fa all’interno dell’economia della salvezza maggior spazio al puramente umano di quanto non venisse ad esso riservato dalla tradizione agostiniana. Prima del ritorno in Occidente di Aristotele, la ragione era del tutto appiattita sulla fede ("intellectus fidei") e il sapere era meramente teologico: la ragione poteva sì conoscere qualcosa, ma unicamente in forza dell’illuminazione della Rivelazione. Con l’irruzione di Aristotele, anche i teologi più renitenti (quale fu Bonaventura) sono ora costretti a riconoscere, accanto a quello teologico, un sapere filosofico non scevro di una sua dignità, e il teologo deve quindi riaffermare la supremazia della teologia sulla filosofia, senza potersi sbarazzare tout court di quest’ultima: Tommaso non si esime da questo compito strategico con – come abbiamo già detto – una duplice mossa. Viene dall’Aquinate aperto maggior spazio di quanto non ne venisse lasciato da Agostino alla capacità razionale e alla volontà dell’uomo, poiché, se per Agostino il peccato originale ha fatto tabula rasa demandando l’uomo all’intervento salvifico della Grazia, secondo Tommaso tale peccato ha solo tangenzialmente ferito la natura umana, l’ha vulnerata di ferite non tali da impedire all’uomo l’esercizio delle sue naturali facoltà, ed è così (equipaggiato di efficaci doti conoscitive) che lo descrive Aristotele e, sulle sue orme, Tommaso. La ragione crea proficui processi argomentativi, ma risulta altresì in grado di innalzarsi, elaborando una teologia naturale (meramente razionale), ossia una vera – seppur parziale – conoscenza di Dio, razionalmente inteso come principio del mondo. Ed è a questo punto che subentra la seconda mossa di Tommaso: non solo il retto uso della ragione è possibile e dà buoni risultati, ma è il solo che, producendo una veritiera conoscenza del mondo e di Dio, non solo non è contrario alla fede, ma anzi prelude e introduce ad essa. Sicchè il percorso razionale è meritorio e degno d’esser praticato, e questo perché i due ordini (della ragione e della fede) provengono dallo stesso ed unico Dio, cosicchè la retta ragione non può contraddire la fede: la verità della fede e quella della ragione non si elidono vicendevolmente. Ciò vuol dire che una filosofia contraria alla fede è un errore della ragione che la ragione stessa è in grado di individuare e di correggere: la filosofia corretta è l’aristotelismo che culmina nella teologia razionale tomistica, quel tale aristotelismo sviluppato appunto da Tommaso nei suoi scritti; devono invece essere rigettate come errate tutte quelle interpretazioni dell’aristotelismo che hanno esiti diversi, prima fra tutte quella espressa da Averroè (contro i cui seguaci l’Aquinate si schiera soprattutto nel De unitate intellectus contra Averroistas), la cui rielaborazione dell’aristotelismo finiva per predicare l’eternità del mondo. La sola ragione può qualcosa da sé, se correttamente esercitata, e configura il filosofare come introduzione alla fede, giacchè un tal corretto filosofeggiare culmina naturalmente nella conoscenza di Dio. Ma la filosofia non si riduce a questo: il suo esercizio prosegue dopo l’incontro della ragione con la Rivelazione, la quale non fa altro che potenziarla; illuminata, la ragione è ora in grado di dare alla fede l’intelligenza di sé e la propria comprensione, cui è la fede stessa ad aspirare. Ne nasce il sapere teologico propriamente detto, sicchè il teologo è colui che anticipa la beatitudine conoscitiva propria degli eletti. In questo modo Tommaso, nell’atto stesso in cui riconosce la bontà e la legittimità del filosofare (se direzionato dalla fede), pone la filosofia sotto la tutela della teologia, ribadendo così l’incontrastata preminenza di quest’ultima. E’ sì legittimo filosofeggiare, ma tale attività – se corretta – è preludio alla fede: la filosofia è in tal modo ridotta al rango di ancilla theologiae. Non vi è contraddizione e neanche soluzione di continuità, giacchè il sapere filosofico si prolunga nella teologia positiva, cosicchè si tratta di un unico sapere frutto dapprima della sola ragione, poi anche della fede, il tutto sotto l’egida della Rivelazione e della fede stessa, il cui primato è costantemente messo in evidenza. Da una parte c’è la ragione senza fede ed è preambolo alla fede, ossia le cammina davanti; e, successivamente, abbiamo il sapere ottenuto dalla ragione congiunta alla fede, ci troviamo cioè di fronte all’inveramento di quel preambolo costituito dal solo procedere della ragione. Tra le due – ragione e fede – vige una nuova relazione anche sul versante etico/pratico: la stessa continuità che sussiste sul piano teoretico (culminante in teologia rivelata) regna anche sul piano pratico tra etica filosofica ed etica rivelata. A tal proposito, Tommaso parla di lex divina, di lex naturalis e di lex humana: quella divina è rivelata da Dio nella Scrittura, quella naturale è scoperta dall’investigare della ragione ed è anch’essa di natura divina, poiché insita nelle cose prodotte dal Creatore; infine, quella umana è deliberata e messa in atto dall’uomo, legittima solo in quanto derivata da quella naturale. In quanto dotato di ragione, l’uomo conosce la legge naturale, il cui nocciolo – apparentemente tautologico - è così esprimibile: fai il bene ed evita il male. Ora, il bene a cui fa qui riferimento Tommaso è il bene a noi noto nel significato aristotelico e colto, appunto, dalla ragione: si tratta, cioè, del bene come piena attuazione dell’essere proprio di ogni ente; tale processo si scandisce in fasi diverse: la conservazione di sé, la procreazione, la crescita della prole, la vita in società, la conoscenza della verità, l’agire secondo ragione. Ed è in ciò che consiste anche il raggiungimento della perfezione umana e della felicità terrena: ma questa, che per Aristotele era la massima felicità, per il cristiano Tommaso risulta invece una felicità imperfetta e depotenziata, terrena e perciò mutila. Occorre notare, a tal proposito, che in questo discorso di etica filosofica ritroviamo invariate tutte le caratteristiche del filosofare etico/aristotelico, ivi compreso l’intellettualismo, in particolare là dove esso asserisce che la volontà è funzione della ragione: non a caso Tommaso dice che "si ratio recta, et voluntas recta", ad indicare che dove la ragione procede bene, lì anche la volontà – che ad essa è indisgiungibilmente connessa – funziona bene. Ma tutto ciò vale esclusivamente nell’ambito dell’etica naturale, cioè nell’adempimento della legge di natura: c’è però – come sappiamo – anche una legge divina, che la ragione non può conoscere né la volontà può adempiere, bensì necessita della Rivelazione per essere conosciuta e della Grazia per essere osservata. Essa prescrive all’uomo la iustitia divina, ossia il puro e disinteressato Amore divino, conosciuto con la Rivelazione e praticato con la Grazia: è solo tale morale a fornire la vera felicità, mentre l’etica naturale funge da preambolo ad essa proprio come la filosofia è preambolo al sapere teologico, nel senso che predispone l’uomo – distogliendolo dagli istinti passionali – ad ascoltare la volontà divina. Ugualmente, l’etica filosofica prepara l’uomo all’etica cristiana, è una prima tappa di raccoglimento in vista del conseguimento dell’eterna beatitudine. Siamo tuttavia in presenza di un evidente duplice ottimismo: da un lato, la ragione conosce le virtù (il che le era dalla patristica precluso) e, dall’altro, pur non soddisfando l’esigenza divina di giustizia, prepara ad essa, ottenibile solo in virtù del soccorso della Grazia; così la ragione, rinforzata dalla Grazia stessa, riesce per un po’ a perseguire la santità. Infine, la legge umana è quella stabilita dal potere politico amministrato dagli uomini: essa è legittima nella misura in cui è trasposizione fedele della legge naturale, e se la contraddice non è legge, così come quando la filosofia contravviene alla fede non è filosofia, ma erramento. Sicchè è lecito affermare che la legge è tale solo e nella misura in cui è giusta, altrimenti va respinta: ed è per questo che Tommaso riconosce la liceità politica della ribellione e della lotta contro il tiranno (con il conseguente abbattimento del medesimo). E tuttavia, nella legge umana, traduzione di quella naturale e divina, tale legge esprime parallelamente all’etica la medesima funzione propedeutica, poiché, costringendo a non fare il male e a non delinquere – anche solo per il timore di essere puniti – indirizza verso il bene, cosicchè c’è da aspettarsi che quanti costretti dalla legge non fanno il male solo per paura delle pene derivanti (ed è questa la tesi proposta nella Repubblica platonica attraverso il mito di Gige) si abituino a non farlo e a fare volontariamente ciò che prima facevano sotto costrizione. Da tutto questo discorso si evince come le novità apportate da Tommaso non siano poche e di scarso valore: prima fra tutte, la legittimazione del filosofare in quanto tale, seppur subordinato alla teologia e nonostante il persistere della subordinazione del terreno al divino; similmente, beatitudine eterna e santità restano lo scopo ultimo a cui tendere e per cui impegnare le proprie energie. Il tomismo restituisce alla sfera umana un respiro che per secoli era stato abolito: legittimare il sapere filosofico significa rilegittimare la conoscenza di questo mondo, e nelle università urbane fiorite ai tempi di Tommaso nel loro massimo splendore si insegna e si studia la filosofia come una conoscenza squisitamente razionale, soffermandosi sull’aristotelismo presentato in tutte le sue molteplici forme, anche le più radicali (l’averroismo). Anche se nella metà del 1200 si terrà a Parigi il processo intentato a Sigieri di Brabante e agli altri pensatori che, sulla sua scorta, ponevano la filosofia in antitesi con la fede, ciononostante la filosofia continuerà ad essere costantemente insegnata, godendo di grande fortuna. Ciò non toglie, però, che nella cultura dell’età medievale la relativizzazione della vita terrena e mondana resti dominante e sancita, e l’esigenza della santità rimanga discriminante; l’uomo deve sì raggiungere le virtù, ma non fermarsi ad esse, giacchè al di là vi è la santità. In questo panorama, la figura del monaco, ovvero di colui che impegna tutto se stesso nel raggiungimento di suddetta santità, resta un modello imprescindibile per tutti, di contro a cui la vita civile e mondana si rivela periferica e imperfetta. Del resto, non è un caso che ancora il Concilio di Trento minaccerà l’anatema a chi azzardi sostenere la superiorità del matrimonio sulla castità monacale: ciò testimonia come la vita nel mondo terreno resti per lungo tempo soggetta al sospetto e alla diffidenza, e come, nonostante le innovazioni e le aperture apportate da Tommaso e da altri pensatori illuminati, la modernità resti ancora all’orizzonte. La riscoperta di Aristotele impressiona fortemente l’Aquinate, ma viene spontaneo domandarsi perché non sortisca effetti altrettanto profondi su Agostino e sulla cultura del suo tempo, che aveva liquiditato lo Stagirita (inserito nel tutto della cultura antica) come errore e vana curiositas. Come è possibile che Tommaso resti affascinato dal pensiero greco espresso da Aristotele, mentre Agostino lo congeda come se fosse una bagatella? Una possibile risposta a tale interrogativo potrebbe essere quella che invoca la categoria hegeliana di "Spirito del tempo", ossia la tendenza peculiare e irresistibile di una certa epoca storica e della sua cultura: la tendenza trionfante in una determinata epoca è, in definitiva, una manifestazione dello "Spirito del tempo", e in effetti la categoria hegeliana è più complessa di quanto si possa pensare sulle prime, giacchè lo "Spirito del tempo" risulta composto da innumerevoli e imperscrutabili fattori che, variamente combinandosi, determinano i mutamenti epocali (ad esempio la fine del mondo antico e l’avvio di quello medievale). Tali fattori sono così numerosi (pressochè infiniti) da richiedere un’analisi quasi interminabile: ci troviamo pertanto di fronte ad una categoria vaga, perché in ultima istanza lo "Spirito del tempo" hegeliano sfugge alla presa della ragione discorsiva, è un certo nonsochè di sfumato, che non può essere colto dal pascaliano "esprit de geometrie", ma dall’opposto "esprit de finesse". Ed è in quest’ottica che dinanzi ad Aristotele si reagisce in maniere diverse, per svariati e non precisi motivi legati allo "Spirito del tempo", forse perché ai tempi di Agostino la ragione era in declino e la fede rappresentava una novità sollecitante, mentre ai tempi di Tommaso, viceversa, si cominciava a nutrire un rinato interesse per le facoltà razionali così a lungo sepolte. In maniera del tutto analoga alla reazione di fronte ad Aristotele, capita che una stessa città, se vista nel cuore della notte, quando vi si giunge stanchi, appaia orribile; ma, al contrario, se osservata alla luce del sole, da riposati, risulti meravigliosa, pur essendo sempre la stessa.

LA MODERNITA’

A partire dal XIII secolo d.C. si instaura un processo di progressiva rivendicazione di affermazione di sé da parte della ragione umana, e questo ridestarsi della ragione dopo il lungo letargo medievale sfocia nell’Umanesimo, da alcuni concepito come l’alba della modernità. Cronologicamente, per modernità si è propensi ad intendere il periodo che va dalla seconda metà del XV secolo fino ai giorni nostri; in termini generalissimi, stando alla definizione che ne dà Hegel, tale modernità è la "conversione dal cielo alla terra": non più l’al di là, bensì l’al di qua, non la beatitudine eterna, ma la felicità mondana, non la vita futura ma la presente, costituiscono il centro dell’interesse dell’uomo umanistico, per il quale tanto il cielo religioso quanto quello metafisico delle immutabili idee platoniche e delle forme aristoteliche si scostano per cedere il posto alla finita vita terrena. In realtà, questo processo prende le mosse in pieno XIII secolo e dura per parecchio tempo, raggiungendo l’apice nel XVIII secolo con l’illuminismo, e passando per due grandi momenti emancipativi: emancipazione dal principio di autorità e la rinascita della curiosità. Sgombrare il campo dal principio di autorità significa far rinascere l’autonomia della ragione, incensurata e non sottoposta al comando di alcuna entità; la modernità risiede anzi soprattutto nel libero esercizio della ragione, il che vuol dire che essa ridiventa socraticamente curiosa, e – per dirla con Kant – cessa di essere impigrita dal dominio del Libro. I "moderni" hanno legittimato la rinata curiosità in tre fondamentali momenti: il primo di essi è segnato dall’Ulisse nell’Inferno di Dante, che col suo ardore "a divenir del mondo esperto" si spinge fin oltre le Colonne d’Ercole, imbattendosi infine nella morte; il secondo trova invece espressione in un passo di Giordano Bruno (De gli eroici furori, dialogo 5), in cui il Nolano scrive: "O curiosi ingegni, / […] Per largo e per profondo / Peregrinate il mondo, / Cercate tutti i numerosi regni", con una chiara allusione alle grandi scoperte geografiche di quei tempi. Infine, il terzo e ultimo momento è scandito da una lettera di Cartesio inviata il 9 febbraio 1639 a padre Mercenne: "io studio per la mia utilità e per la mia curiosità"; particolarmente interessante è il riferimento cartesiano alla categoria dell’utile, che da quel momento in poi assumerà un ruolo fondamentale in sede filosofica. Da queste tre tappe appare evidente come siamo incommensurabilmente distanti dalla dannazione monastica della curiosità (quale era stata sancita da Pier Damiani e da Bernardo), la quale è conditio sine qua non per sbarazzarsi del principio di autorità: è sì una condizione necessaria, ma ciononostante non sufficiente, poiché – affinchè il principio di autorità venga scalzato – è altresì necessario che la ragione diventi anche critica, quale era presso gli antichi. Essa torna appunto tale nell’Umanesimo, un termine, questo, che troviamo solo a fine Settecento e inizio Ottocento: l’Umanista è chi ha accesso a una cultura superiore, è chi si umanizza studiando i testi tramandati dagli antichi, presi a modello di umanità in quanto paradigmi del libero esercizio della ragione, non più ancella della teologia, ma libera e disincantata padrona del mondo. Questo era già, sostanzialmente, il significato della humanitas presso gli antichi, e tale viene compendiato da Aulo Gellio nelle sue Notti attiche (libro XIII, cap. 17): "chi parlava una volta bene latino, designava col termine humanitas quello che i Greci denominavano paideia […]. Sono dotati di humanitas quanti mostrano per le arti una passione sincera e perciò meritano di esser detti i più umani tra gli uomini". Nell’età umanistica, in sintonia con la nozione antica di humanitas, si diffondono con incredibile rapidità espressioni del tipo humanae litterae, humanitas o studia humanitatis, che ben rispecchiano il clima di profonda attenzione per la produzione degli antichi (che in età medioevale era stata letta in maniera strumentale alla fede) che si respirava in quel periodo. Scriverà Giambattista Vico: "gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura"; con questa celebre riflessione, egli mette in luce come gli uomini in un primo momento siano ancora dei bruti, mera sensazione inconsapevole; poi accedono ad una consapevolezza perturbata dall’emozione e, infine, pervengono alla pura ragione discorrente e ragionante (il che corrisponde appunto all’età antica di Aristotele e Platone e al ritorno di quell’epoca nel mondo umanistico), impadronendosi della "bilancia dello spirito critico", che – aristotelicamente – non può essere posseduta né dai primitivi né dai fanciulli e che nasce con l’Umanesimo. Non è casuale che in età umanistica torni in auge il dialogo, che soppianta il monologare del principio di autorità dell’età medievale: si attua in tal maniera una straordinaria moltiplicazione dei punti di vista e delle prospettive, perché le più disparate concezioni vengono riscoperte e riproposte. Non domina più quel tutt’uno onnisciente che è la dottrina cristiana, ma pullulano tantissime filosofie nella loro individualità, anche scuole di pensiero espunte o tralasciate dai Medievali (l’epicureismo, lo scetticismo e lo stoicismo). Sicchè la tradizione, a partire dall’età umanistica, è messa in krisiV, cioè sottoposta a giudizio e ricomposta nelle sue differenti componenti – spesso inconciliabili – e questa è la condizione imprescindibile affinchè possa farsi strada la tolleranza, ovvero la pacifica convivenza di punti di vista diversi e, spesso, contrari. Il primo importante manifestarsi della rinascente coscienza critica è la filologia umanista, che non può essere ridotta ad un arido grammaticalismo, ma va piuttosto intesa come tensione a reinterpretare nella sua complessità la cultura antica quale ci è pervenuta. Insomma, non si tratta di una mera restaurazione linguistica (non è, cioè, un banale ritorno al latino di Cicerone, come lo intenderà certo umanismo, quale quello di Ermolao Barbaro), ma è piuttosto l’esercizio critico della ragione; tale è, per l’appunto, la critica filologica condotta da Lorenzo Valla contro la "Donazione di Costantino", da lui smascherata – col solo utilizzo di mezzi filologici – come un falso posteriore, redatto da un monaco ignorante. Siamo in altri termini di fronte ad una riappropriazione critica della tradizione antica, considerata in sé come un valore smarrito nella buia età medievale. Risulta a questo punto opportuno indagare – seppur sinteticamente – su che cosa sia accaduto alla ragione nei cosiddetti "secoli bui" dell’età medievale: dal prevalere egemonico della consuetudine sulla ragione, nasce una cultura nella quale si assiste al sopravvento di un unico punto di vista (quello cristiano), spesso imposto con la violenza, un punto di vista che non è il frutto del libero investigare del raziocinio, ma, piuttosto, è un qualcosa che viene tramandato consuetudinariamente di padre in figlio, ed è in tale condizione che si palesano gli effetti deleteri giocati dal cristianesimo sulla ragione umana. Quanto più la consuetudine prende il sopravvento, tanto più viene stimolata la pigrizia del filosofare, imponendo la comoda facilità del risaputo, con l’inevitabile conseguenza che la capacità di giudizio propria della ragione si ottunde ed essa subisce un precoce ed artificioso invecchiamento che ne atrofizza le funzioni riducendola a mero portavoce e a pura cassa di risonanza della prospettiva cristiana. Un simile esempio di sclerotizzazione di un’intera civiltà – quale si è avuto nel Medioevo – ci è fornito anche dalla Cina, così come essa si è sviluppata fino al XIX secolo d.C., in un incredibile immobilismo che Hegel ha rintracciato nella produzione artistica, tristemente rimasta invariata nelle sue forme, a tal punto da essere nel XVIII secolo ancora ridotta a riprodurre prototipi del tutto uguali a quelli dei secoli precedenti, in una repititività assoluta, peraltro presente anche nelle istituzioni politiche di quell’immenso Paese. Ora, qualcosa di affine al caso cinese avviene in Occidente nell’età medievale: prova ne è che se ci chiediamo in che cosa si differenzi l’Ottocento dal Novecento o dal Mille, ci troviamo alquanto in imbarazzo nel fornire risposte soddisfacenti, proprio come non riusciamo a rispondere se interrogati su quali siano le distinzioni tra la Cina del XIX secolo e quella del XII. Lo shock culturale prodotto dal rientro in Europa di Aristotele ha, in tal prospettiva, l’effetto di una vera e propria scarica di adrenalina; e, del resto, l’intellettualismo greco, così profondamente venato di ottimismo, da cos’altro trae origine se non dallo stupore continuo che sorprende la ragione che scopre se stessa? I dialoghi platonici non sono forse un incessante stupore della ragione che disvela le sue virtù? Ora, la modernità non esita a condannare il Medioevo e il suo rifiuto della ragione come faro della vita umana: e, bandito il principio di autorità e ripristinata la curiosità di marca socratica, i moderni procedono con una terza importantissima via emancipativa con la quale convertirsi dal cielo alla terra, e quella via è una diretta conseguenza del ripudio del principio d’autorità. Scrive Hegel in merito all’età medievale, epoca della "coscienza infelice" che vede in Dio tutto e nell’uomo nulla – e al suo trapasso in modernità: "gli uomini avevano un cielo ornato con ricca abbondanza di pensieri e di immagini […]. Anziché sostare in questo pensiero, che invece sorvolava, lo sguardo si innalzava al cielo, ad un essere divino, ad un presente – se così si può dire – al di là. Si rese così necessario, in età moderna, costringere l’occhio dello Spirito sulle cose di questa terra e trattenerlo". Il cielo della religione cristiana, delle idee platoniche e delle essenze aristoteliche viene dai moderni abbandonato: anche le essenze aristoteliche – è bene notarlo – fanno parte del cielo e non della terra, poiché esse sono contemplabili da parte della ragione solo attraverso un’astrazione che le svincoli dall’empirico e, di conseguenza, dalla vita. In età moderna, è la ragione, ridestatasi dal lungo letargo medievale, che – critica e polemica ad un tempo – costringe l’occhio alla terra, svuotando i cieli allestiti dalla religione e dalla metafisica, le quali appaiono alla ragione stessa come vane fantasticherie o fumose congetture, ossia come mondi fantasmagorici o, quanto meno, incerti, privi cioè di salde prove e perciò immeritevoli di convogliare su di sé tutta l’attenzione e la sollecitudine dell’uomo. La pretesa di fare di questi cieli il fine ultimo dell’uomo appare agli occhi vigili della ragione critica non solo infondata, ma anche nociva, giacchè distoglie l’uomo stesso dall’occuparsi di quegli obiettivi in larga misura certi e tangibili: le cose ch’egli potrebbe compiere quaggiù, finirà per trascurarle completamente se si ostina a perder tempo in questi fantomatici e sedicenti cieli; la ragione nella sua veste critica, dunque, distoglie da essi, mentre quella nella sua veste critica e operatrice trattiene a terra lo sguardo, mettendo mano ad una ben calcolata (cioè scientifica) trasformazione della terra, volta a trarre la massima utilità e il massimo profitto possibili per l’uomo. Ecco allora che l’emancipazione dal cielo si articola in una prima riappropriazione della terra grazie alla ragione calcolatrice che sfocia in una prospettiva eudemonistica e utilitaristica tipica della modernità, sfocia in un filantropismo che culminerà nell’illuminismo. E allora ciò che la risvegliata ragione sortisce è un allontanamento dal miraggio d’una lontana e dubbia beatitudine celeste (distacco anche dalle forme aristoteliche e dalle idee platoniche), avviandosi all’indubbia e prossima felicità terrena, frutto di un corretto impiego della ragione, il quale è sì un impiego critico e polemico, ma non più metafisico (come quello antico), la ragione non si interessa cioè più di speculare, ma concentra la sua attenzione sul calcolare e sull’operare. In piena età illuministica, Voltaire e Diderot affermano concordi che "la felicità è l’unico dovere dell’uomo", ma non si tratta della felicità platonicamente ed aristotelicamente intesa, culminante nella sapienza speculativa; al contrario, è la felicità di chi riesce a rendere questo mondo più comodo e agevole, in un significato piuttosto vicino a quello che odiernamente attribuiamo al "benessere". Ne segue che l’emancipazione dal cielo comporta la riappropriazione della terra, ma anche una seconda riacquisizione: affinchè l’uomo si riappropri della terra trasformandola a proprio vantaggio, è necessario che egli sia presente hic et nunc a se stesso, edotto e consapevole delle proprie caratteristiche e qualità, fiducioso nei propri mezzi e padrone di far di essi l’uso più consono. Occorre cioè la riappropriazione di sé da parte dell’uomo, il che significa che i moderni elaborano una nuova e diversa immagine dell’uomo stesso, rispetto a quella affiorata in età medievale. Una lunga tradizione storiografica che parte da La civiltà del Rinascimento in Italia (1860) di Jacob Burckhardt e arriva fino a Giovanni Gentile scorge i prodromi di questa rinnovata immagine dell’uomo nei trattati umanistici sulla dignità e sull’eccellenza dell’uomo, nei quali si tesse un elogio del genere umano e se ne segnalano la superiorità e l’egemonia su tutti gli altri esseri. Ma sono veramente questi i testi in cui emerge l’immagine dell’uomo nuovo? Sono per davvero gli incunaboli di un genere umano dal volto rinnovato? O non sono piuttosto altri? Scendendo nello specifico, notiamo come i trattati umanistici a cui fan riferimento Burckhardt e Gentile siano suddivisibili in due diversi filoni – uno platonico e l’altro aristotelico - , nessuno dei quali tuttavia delinea veramente la nuova immagine dell’uomo moderno. Il più noto esponente del filone platonico è indubbiamente Pico della Mirandola e la sua Oratio de hominis dignitate, nella quale sostiene che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio e, perciò, come un microcosmo, in maniera tale da riprodurre entro di sé l’infinita pienezza di Dio (la pienezza delle idee platoniche si configura per Pico come pienezza dell’essere divino, infinito perché racchiude in sé l’infinita totalità delle idee). Il mondo stesso è, del resto, un’immagine (deficiente) di Dio e l’uomo rappresenta un mondo in miniatura, in quanto egli è virtualmente ogni forma possibile di vita: vegetale (poiché possiede l’anima vegetativa), animale (perché dotato di anima sensitiva e, quindi, di istinti e passioni), umana (in quanto equipaggiato di ragione e pensiero), angelica (nel caso raggiunga la pura intuizione intellettuale). Ben si capisce come l’uomo compendi entro di sé l’intero cosmo, perfino la vita divina. E tale microcosmicità fonda la libertà dell’uomo, chiamato a scegliere quali seguire tra queste vite virtualmente presenti in lui: con un libero slancio di volontà, può decidere se restare pianta, animale, uomo, o se innalzarsi alla natura angelica e magari anche a quella divina. Tale libertà è la prima ragione della particolare eccellenza e dignità da Pico riconosciuta al nostro genere, strettamente imparentato con Dio stesso: è solo l’uomo, infatti, a poter scegliere liberamente se rimanere pianta o innalzarsi a Dio, mentre tutti gli altri enti (le piante, gli animali, e gli angeli stessi) sono destinati a rimanere quali sono, fissati nella loro determinatezza. Certo, non si tratta di una libertà assoluta, ma relativa, in quanto non costituisce i valori tra i quali scegliere, ma li trova già costituiti: ma è comunque tale da consentirci una nostra dignità eccellente. E Pico – qui in sintonia con Ficino e con il suo De immortalitate animorum – sviluppa un’attenta riflessione sul "desiderio naturale", che è un desiderio congenito alla natura di un certo ente; ora, esso è presente in tutti gli enti e in tutti ha per oggetto un bene che è – aristotelicamente – il proprio bene, ossia la perfezione dell’essere di quel dato ente, sicchè ogni cosa appare come in cammino verso la propria piena realizzazione. Anche nell’uomo trova spazio tale desiderio naturale, ma con la prerogativa di non potersi appagare di un simile perfezione: al contrario, mira alla perfezione dell’essere in quanto tale, e perciò a quella dell’essere divino. Sotto le spoglie del desiderio naturale divino di cui parla Pico non è difficile riconoscere l’eros socratico/platonico, quell’anelito all’infinito che tornerà ancora nella cultura romantica: tale sforzo verso l’infinito alimenta la nostra anima per tutta la sua esistenza, poiché nessuno dei beni che conquista è in grado di estinguere la sua sete; da ciò deriva che l’esistenza dell’anima, tendente all’infinito e per questo motivo mai appagata pienamente, dovrà essere infinita, cosicchè essa sarà immortale. E’ una contraddizione solo apparente quella in cui ci imbattiamo quando Pico parla dell’uomo come ente finito e del suo desiderio naturale come mirante all’infinito: l’uomo, infatti, è atto al fine soprannaturale ed è in ciò soccorso dalla Grazia, secondo quel celebre motto medievale "Gratia perfecit naturam"; è pertanto concesso all’uomo di raggiungere l’infinito, grazie all’intervento della Grazia: ciò avviene nell’estasi mistica, il che vuol dire che in questa suprema possibilità di unirsi a Dio Pico ravvisa la superiorità umana su tutto il creato, giacchè solo l’uomo (e non l’angelo) può indiarsi. Gli è permesso di innalzarsi fino alle sfere celesti o di abbassarsi fino ai bruti: che l’uomo si trovi in qualche misura in una posizione privilegiata rispetto agli angeli è anche provato dalla tradizione biblica, che vuole che, caduti sia gli uomini sia gli angeli (Lucifero), Dio si prenda cura esclusivamente dei primi, concedendo loro la possibilità di redimersi. Questo discorso di Pico rileva la centralità dell’uomo nell’economia del cosmo, di cui l’uomo appunto è il massimo prodotto: "o somma liberalità di Dio Padre, somma e mirabile felicità dell'uomo! Al quale è dato avere ciò che desidera, essere ciò che vuole. […] I quali [uomini] cresceranno in colui che li avrà coltivati e in lui daranno i loro frutti. Se saranno vegetali, diventerà pianta; se sensibili abbrutirà. Se razionali, riuscirà animale celeste. Se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. E se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fattosi uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre, colui che è collocato sopra tutte le cose su tutte primeggerà" (Oratio de hominis dignitate). L’uomo così inteso è faber fortunae suae: eppure la prospettiva di Pico (condivisa in gran parte da Ficino e da Landino) può davvero dirsi moderna in senso pieno? Getta davvero le basi del nuovo uomo? Sia Pico sia Ficino mantengono il cielo come mèta ultima (platonica e cristiana), restando lontanissimi dall’affermazione hegeliana secondo cui il moderno sarebbe un passaggio dal cielo alla terra. Se ci spostiamo sul filone aristotelico, ci imbattiamo in tre grandi pensatori: Manetti (autore del De dignitate et excellentia hominis), Alberti (di indirizzo stoico) e Bracciolini. Essi si occupano della nobiltà dell’uomo, rinvenuta nell’esercizio delle virtù etiche e politiche (per questo motivo questi tr