INTRODUZIONE


 

 

Che cosa significa il sacrificio per la filosofia? Come e quando essa se n’è occupata? E, soprattutto, che cosa accade alla ragione quando va a sbattere nel concetto di sacrificio? Si tratta indubbiamente di uno dei temi più inquietanti che si possano immaginare, per diversi motivi: intanto perché il sacrificio implica una dialettica interna e immediata, nel senso che, se è tale, il sacrificio è irreversibile; e l’irreversibilità implica l’impossibilità da parte della ragione di recuperare e ridialettizzare. Detto altrimenti, l’irreversibile è ciò che la ragione più di ogni altra cosa rigetta, poiché da esso è posta in una situazione di scacco: e non è un caso che nei diversi contesti in cui essa si interroga sul sacrificio, si verifica puntualmente una rottura col razionalismo lineare e pacificante, a tal punto che gli autori che più si sono occupati del sacrificio sono stati dal primo all’ultimo tacciati di irrazionalismo, quasi come se in tale irreversibilità oscura si profilasse un’eclisse della ragione. Ma è più corretto parlare di eclisse o di mutamento della ragione, che guarda ad un “altrove” rispetto a sé, volgendo lo sguardo ad una ragione altra? In questo secondo caso, si ha a che fare con la “ragione del paradosso”, della lacerazione tenuta aperta (e non della sintesi hegeliana), e, se vogliamo, della Croce, che è il luogo in cui il sacrificio si rivela meglio come “oppressione e oblazione”. Infatti, si ha il sacrificio quando ci sono un sacrificatore e un sacrificato in rapporto dialettico tra loro; lo stesso termine, che deriva dal latino sacrum facere, segnala già un’alterità rispetto alla ragione e ai suoi canoni: e anche se al giorno d’oggi si è indebolito il significato originale (e sono invalse espressioni come “quanti sacrifici per i figli!”, e così via), ciò non di meno non è venuto a mancare l’imprescindibile riferimento alla soppressione di qualcuno (si sacrificano sempre persone, mai cose). Se lo intendiamo come soppressione, guardiamo al sacrificio dal punto di vista del sacrificatore: ma può darsi benissimo che la vittima stessa (il sacrificato) lo interpreti come soppressione, ponendosi in tal maniera come coautrice della soppressione, considerandosi colpevole o, in ogni caso, necessaria. Ma se la vittima si sa innocente e ciononostante si sacrifica, allora salta la dialettica del sacrificatore. Resta sempre e comunque l’ombra dell’irreversibilità, la quale pare mettere in crisi il momento oblativo: cosa resta se io, che sono la vittima, mi sacrifico e tale sacrificio è irreversibile? La dialettica hegeliana dell’Aufhebung salta per aria e l’irreversibilità scatena il paradosso. E del resto, se è reversibile, non è un sacrificio. Bisogna poi chiarire che salvezza sia quella che scaturisce dal sacrificio: è una salvezza degli altri? È collettiva? O che altro è? Il tema del sacrificio, come abbiamo visto, ci allontana dalla “ragione raziocinante”: e non è un caso che si tratti di un tema esorcizzato dall’Illuminismo, che ha preferito scansarlo senza occuparsene. Ma perché, se l’ha evitato, l’Illuminismo ha poi avuto esiti anti-religiosi? Lo stesso Terrore della Rivoluzione Francese non ha forse molti aspetti che lo accomunano al sacrificio? L’uomo occidentale moderno e, soprattutto, contemporaneo ha difficoltà nel comprendere il sacrificio: e, a tal proposito, può tornare utile un aneddoto. Quando il capitano Cook approdò nelle isole Hawaii fu scambiato dalla popolazione locale per un dio: infatti gli Hawaiani celebravano in quel mese la festa per il loro dio che, secondo la tradizione, dopo aver ucciso la moglie, se n’era andato promettendo di tornare; Cook approfittò della situazione a lui favorevole per fare incetta di beni e per godere degli onori che gli venivano tributati. Quando, dopo un po’ di tempo, si trovò di nuovo a navigare da quelle parti, pensò di ritornare da quella popolazione e di ricevere nuovi onori: ma in quel periodo gli Hawaiani sacrificavano ritualmente il loro dio, cosicché Cook, anziché essere onorato, venne sacrificato. Ma che cos’è il sacrificio? Ancorché sia difficile ingabbiarlo in concetti, proprio perché esso sfugge alla ragione, si può definirlo come la distruzione di un bene in onore di un dio o di un’altra persona divinizzata; si tratta di una delle prassi religiose più diffuse e più antiche, caratterizzata dalla volontà di mettersi in rapporto col divino tramite un’eliminazione, anche nella forma della manducazione (i cannibali che mangiano il nemico per assimilarne le forze). Gli scopi del sacrificio sono molteplici: i due principali sono la purificazione (ossia la liberazione da qualche colpa) e la consacrazione (ossia il tentativo di persuadere il dio a concedere la sua garanzia alla persona che si consacra: ad esempio, la prassi della circoncisione). Spesso il sacrificio ha valore simbolico, e bisogna distinguere tra sacrificio cruento e sacrificio incruento: dei due, il secondo è più antico, giacché il primo implica già la pratica dell’allevamento (infatti si sacrifica sempre l’animale allevato, mai quello cacciato). In base a questa considerazione, pare che la prassi del sacrificio risalga addirittura al Paleolitico Medio, per poi affermarsi presso i Greci e i Romani e, soprattutto, presso il cristianesimo e l’islamismo. Nella Bibbia, il sacrificio è regolato dalla legislazione sacerdotale: il Levitico parla espressamente dei sacrifici che scandiscono la storia degli ebrei; celeberrimi sono gli episodi di Caino e Abele, di Isacco, di Mosè, e così via. E su questa linea si colloca l’insegnamento di Gesù, che preferisce insistere sulla misericordia più che sul sacrificio; sicuramente l’agnello immolato di cui dice Paolo di Tarso è un’elaborazione successiva, e l’eucaristia non è se non una messa in rapporto alla Croce e al sacrificio di Cristo. Qual è il significato del sacrificio? Quattro sono le principali teorie in merito: a) sacrificio di primizia, con cui si offrono alla divinità beni legati alla vita (frutti, animali, ecc) di cui l’ente supremo stesso è il possessore; b) sacrificio animistico, secondo cui il sacrificio è un dono a un dio simile all’uomo (pensiamo ai Greci che sacrificano la carne a divinità in tutto e per tutto simili a loro); c) sacrificio totemistico, per cui un gruppo si ritiene discendente dal dio e uccide l’animale sacro per ristabilire il legame divino; anche Freud si rifà a questa teoria (Edipo uccide il padre, ma poi si sente in colpa: sicché il posto del padre è preso dal totem); d) sacrificio sociale (è la teoria elaborata da Durkheim), secondo cui è nel sacrificio che si fonda la comunità.

 

 

 


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