DE MAISTRE


 

 

Se si affronta il problema del sacrificio, non si può che partire dal pensiero di Joseph-Marie de Maistre (1753-1821), per via del suo carattere profondamente reattivo rispetto al razionalismo e all’Illuminismo. La sua riflessione (senza la quale Renè Girard non avrebbe mai potuto sviluppare il suo pensiero) matura a ridosso della constatazione fattuale della traduzione storica del pensiero illuministico, che, cacciatosi in un autismo tragico che esclude tutto ciò che non si lascia inglobare, ha generato mostri, sfociando nel Terrore giacobino. E la polemica di de Maistre non è tanto indirizzata contro le teorie degli Illuministi, quanto piuttosto contro la mostruosa realizzazione a cui esse hanno dato vita: la Rivoluzione francese. A portare de Maistre su queste posizioni reattive e profondamente ostili all’Illuminismo è la constatazione che ormai la Rivoluzione “va avanti per conto suo”, travolgendo e divorando anche i suoi figli, senza rispettare alcun limite e senza poter essere disciplinata. Significativamente, de Maistre paragona la Rivoluzione a un cancro che devasta il corpo che lo ospita e che “si sgozza da sé”, autoeliminandosi; altrove la definisce, con un’espressione particolarmente forte, “scisma dell’essere”, a segnalarne la dinamica distruttrice e ontologica. L’idea di de Maistre è che sia la stessa Provvidenza divina a impiegare la Rivoluzione per ripulire il mondo: in una siffatta prospettiva, essa è al contempo satanica e divina, e nelle Considerazioni sulla Francia (1796) la definisce “sacrilegio” e insieme “miracolo”. Essa è una forma di tracotanza umana finalizzata a spezzare la “dolce catena” che ci lega all’essere supremo (catena che ci trattiene senza però asservirci): e dalle pagine di de Maistre affiora l’idea che la Rivoluzione altro non sia se non un’immensa crisi sacrificale, a cui dev’essere contrapposta una controrivoluzione che si presenti come un pacifico ritorno a quel che c’era prima. La crisi sacrificale prodotta da questo torrente che, nel suo scorrere vorticoso, tutto inghiotte e tutto distrugge, produce vittime: esse, se anche possono essere intese come innocenti sul piano soggettivo, ciò non di meno devono essere tutte considerate colpevoli su quello oggettivo, per via del peccato originale di cui l’uomo s’è macchiato con Adamo. La posizione di de Maistre risulta qui fortemente imbevuta di pascalismo (ancorché egli critichi Pascal in più luoghi) nella misura in cui assume il peccato originale come l’inesplicabile che spiega tutto. La Rivoluzione francese non è un travisamento dell’Illuminismo, ma il suo naturale esito: la filosofia razionalista, infatti, si pone dei limiti soltanto perché teme la Verità, è teofobica, non ha altro scopo se non quello di slegare l’uomo da Dio, recidendo la dolce catena che li unisce; la conseguenza è che “non si poteva nominare Dio a questa filosofia senza farla entrare in convulsione”. La polemica anti-illuminista di de Maistre procede nel Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche (1814): gli uomini, nella loro arroganza, hanno deciso di fare a meno di Dio, che ha loro risposto “Fate pure!”, con la drammatica conseguenza che “il mondo andò in pezzi”. Questa dialettica di sangue e di guerra caratterizza non solo l’Età dei Lumi, ma la storia in quanto tale, che nel suo procedere penoso miete sempre nuove vittime; esse, nota de Maistre, sono insieme colpevoli e divine, giacché sono la perenne purificazione di un’umanità colpevole. In questo senso, la storia si configura come un immenso altare su cui si sacrifica senza sosta, cosicché la guerra “è divina nei suoi risultati”, nella misura in cui è sacrificio volto a redimere le colpe dell’umanità. Nelle Serate di San Pietroburgo (1821) compaiono interessantissime pagine dedicate a queste tematiche, in particolare alla psicologia del soldato che uccide i suoi nemici: la guerra, ad avviso di de Maistre, non può essere capita se non in riferimento ad una prospettiva sacrificale, cosicché il soldato “dà e riceve la morte” in preda ad un “furore divino”, governato da una forza che lo trascende, da una “legge terribile e occulta che ha bisogno del sangue umano”. Così si spiega perché il soldato, che ha appena sterminato i suoi simili, provi poi pietà per l’uccellino che soffre e, per salvarlo, calpesta cumuli di soldati appena uccisi. Per spiegare questa legge imperscrutabile che chiede sacrifici, de Maistre ricorre ad un’immagine piuttosto efficace, accostando il genere umano ad un albero che viene di continuo potato da una mano invisibile: in forza del peccato originale, sempre nuovo sangue dev’essere versato; detto altrimenti, per il fatto stesso che siamo, siamo colpevoli. La trattazione di questa legge immutabile e insondabile avviene soprattutto nella Chiarificazione del concetto di sacrificio (1821), in cui de Maistre si sofferma ad esaminare la realtà storica del sacrificio, notando come si tratti di una prassi ricorrente in tutte le religioni. L’uomo ebbe una Rivelazione originaria, con la conseguenza che l’evoluzione dell’umanità si risolve in un ritorno al sapere dopo la caduta più che in un progresso in avanti; in quest’ottica, il cristianesimo è la “seconda Rivelazione”, che ripropone la Verità da sempre posseduta e però occultata dalla caduta. Dio, nella sua perfezione, non può accontentarsi se non del sacrificio perfetto: questo, nota de Maistre, è quello di Cristo, che è al contempo sacrificato, sacrificatore e altare; ed è il sacrificio perfetto anche alla luce del fatto che Cristo è la vittima innocente per eccellenza. Ma che cos’è l’uomo per de Maistre? Occorre comprendere la sua antropologia per misurarne la distanza da quella illuministica; il che ci aiuta anche a capire come per de Maistre il sacrificio sia intrinsecamente incardinato nella natura umana ab origine. Il sacrificio della Croce, lungi dall’essere una rottura della storia, è il centro di essa, un centro presagito e presaputo: e la storia della religione è la storia dell’uomo, con la conseguenza che le altre manifestazioni storiche hanno senso soltanto se riferite alla religione. In nome di un perfettismo astratto, i philosophes non solo prescindono dalla vera natura dell’uomo, ma se ne inventano una nuova, che sia funzionale alla loro idea di progresso. Ma, agli occhi di de Maistre, è assurdo pensare alla natura umana come a una condizione irenica di pacifica felicità armoniosa (il mito del buon selvaggio), illudendosi che l’uomo sia un animale. Al contrario, in ogni sua fase storica, l’uomo è sempre diverso dall’animale, cosicché per natura umana si deve pensare a tutt’altro che all’armoniosa fusione illuministica tra uomo e natura; anche la narrazione biblica non presenta l’uomo originario come un bruto felice, ma come colui che deve custodire il giardino del mondo. Il grande equivoco consiste nel parlare di natura originaria e primitiva intendendola come natura perfetta e selvaggia: ma, obietta de Maistre, l’uomo è originario e perfettibile, e proprio la perfettibilità è ciò che ne contraddistingue la natura. Di qui la polemica che de Maistre conduce contro Rousseau e la sua concezione dello stato di natura e, ad essa connessa, quella del progresso che dovrebbe portare l’uomo ad uno stato superiore. La nozione illuministica di progresso, nota de Maistre, poggia sul funesto presupposto secondo cui, per poter progredire e costruire, si debba preventivamente distruggere e far tabula rasa della tradizione. Per questo motivo, uno dei motti preferiti da de Maistre è “il meglio è nemico del bene”, motto da cui traspare chiaramente come la pretesa di portare l’uomo più in alto distruggendo quel che c’è equivalga a ricadere sempre di nuovo nel peccato originale. Così facendo si dà alimento al male, banalizzandolo per non vederlo nella sua accresciuta potenza: è questo, per l’appunto, il dramma della ragione moderna.Banalizzare il male è già dargli forza: e, nel fare ciò, la ragione si autoinganna, e premessa ne è la negazione del peccato originale compiuta dall’Illuminismo e messa in luce come prerogativa dell’Età dei Lumi da Cassirer nella sua Filosofia dell’Illuminismo (1932). L’Illuminismo ha rigettato il peccato originale sostenendo che non avesse senso proiettare sull’intera umanità un mito riguardante un solo popolo: ma in realtà, l’idea del peccato originale non è forse un tòpos che, seppur variamente declinato, ritorna in tutte le civiltà e le culture? L’altra motivazione addotta dagli Illuministi per rimuovere il peccato originale è che, ai quattro angoli del mondo, vi sono ancora popoli selvaggi che smentiscono quel dogma: ma questo, per de Maistre, è una prova a favore del peccato originale, giacché segnala come l’uomo primitivo sia integro (perché illuminato dalla Rivelazione originaria), mentre il selvaggio è un decaduto, un degradato (e, ancora, il barbaro è un selvaggio che sta tornando all’origine). Del primitivo, nella sua integrità, non abbiamo esperienza: e del selvaggio si può dire tutto l’opposto di quel che diceva Rousseau (non è né felice, né buono, né in armonia con la natura); e se sapessimo perché ci sono i selvaggi, con ciò stesso avremmo scoperto tutti i perché della natura umana. Il barbaro, dal canto suo, è una via di mezzo tra il selvaggio e il civile: sta risalendo la corrente verso la perfezione, è in cammino verso lo sviluppo (barbari sono, ad esempio, gli eroi dei poemi omerici). Tutti questi equivoci in cui è scivolato l’Illuminismo nascono allorché si pretenda di parlare dell’uomo in astratto, abbandonando il piano della concretezza: ma noi, nota de Maistre, non incontriamo mai “l’uomo”; incontriamo sempre e solo francesi, italiani, inglesi e – come ci ha insegnato Montesquieu – Persiani. Durante il suo esilio in Russia per via dell’invasione della Savoia da parte delle forze rivoluzionarie, de Maistre scrive le famose Serate di San Pietroburgo e intrattiene una fitta corrispondenza epistolare, nella quale ribadisce la critica all’astrattismo illuministico, che ha spezzato la “dolce catena” finendo per distruggere anche se stesso tramite la negazione della creaturalità dell’uomo. E de Maistre nota che l’unica verità ammessa unanimemente da tutti in popoli (e rigettata dalla ragione astratta) è quella della decadenza dell’uomo: ma come e perché la decadenza, si chiedono i filosofi? Essa è un abisso di fronte al quale si può o negarne l’esistenza (precipitando nell’abisso) o rinunciare a spiegarla razionalmente, senza però ripudiarla; tale decadenza, che procede con lo stesso impeto di un fiume che tutto travolge, non è altro che una ripetizione continua del peccato originale. E nella discendenza umana il vizio si trasmette di padre in figlio, come le malattie: la decadenza è separazione, che è estenuazione delle capacità della natura umana, è negazione, divisione, rottura dell’ordine e della quale nulla possiamo sapere perché ci siamo dentro. Ma nel seno di questa decadenza si fa anche sentire la reminescenza dell’origine, che è incancellabile e che, con la sua voce, rende drammatica l’esistenza dell’uomo. Fin dall’inizio, separazione e colpa sono la stessa cosa: dopo la caduta, la perfezione non appartiene più all’umanità, che si trova a precipitare in una dissonanza universale. Si tratta allora di accettare il limite e la colpa: negarla, esorcizzarla razionalisticamente, significa rigenerarla sempre di nuovo. In origine l’uomo doveva essere uno, e il successivo dualismo è il frutto della degradazione che, se avvertita, permette all’uomo di gravitare verso la luce. Sin dall’antichità tutti i popoli rimpiangono la perduta “età dell’oro”, sicché la dottrina del peccato originale è, a dispetto delle convinzioni illuministiche, universale; e lo stato originario dell’uomo non è uno stato di ignoranza, bensì di sapere (un sapere ricevuto tramite la Rivelazione originaria). De Maistre arriva a dire che la lotta contro il male procede, paradossalmente, assumendolo affinché non distrugga ogni cosa. Dio punisce ritirandosi e sottraendosi a quel pensiero che ha creduto di poterne fare a meno: e così abbandona l’uomo all’ignoranza del male. La coscienza della reità umana si presenta in tutta la tradizione ed esibisce la lacerazione dell’uomo: “il sacrificio è una realtà che il sentimento respinge e la ragione non comprende”, con la conseguenza che esso non può essere un’invenzione dell’uomo (che senso avrebbe creare qualcosa di così scomodo?). E l’intera storia è un immenso sacrificio in cerca del ritorno al bene: e non è la divinità che vuole questo, ma è piuttosto la condizione dell’uomo che non sa trovare altra via per riscattarsi. Nel sacrificio fatto con gli animali, si cercano quegli animali “più umani”, scrive de Maistre, ossia quelli che sono più preziosi e insieme più innocenti, proprio perché nel sacrificio essi sono sostituti dell’uomo. Nessuna religione che abbia intuito la fecondità del sacrificio è stata interamente falsa, giacché ha presentito, anche se vagamente, il Calvario. In questa prospettiva, appare evidente come nel Cristo-centrismo di de Maistre vi sia apertura alle altre religioni, nella convinzione che il Cristianesimo sia la punta emergente della religione universale (il che implica, di necessità, che tutte le religioni siano vere). Il sacrificio cristico è quella traccia che l’umanità porta entro sé nel suo tentativo di ritornare al bene: ed è su questi presupposti che poggia l’escatologia di de Maistre, incentrata sul dogma della reversibilità. L’uomo oppresso dalla coscienza della colpa presagisce che la sofferenza che veramente redime è quella accettata dall’innocente, che accetta la colpa e la sofferenza a profitto dei colpevoli: e, secondo de Maistre, è esattamente quello che è accaduto con la Rivoluzione e, in particolare, con il sacrificio di Luigi XVI e di Maria Antonietta. “Ogni colpevole può essere innocente e perfino santo nel giorno del supplizio”: ed è per questa ragione che de Maistre tesse le lodi del boia, che è un “essere sublime” perché esecutore di quell’ordine che viene da Dio. Il boia è un sacerdote e, nel sangue che fa zampillare, è “casto” come la sposa nei trasporti amorosi. 

 

 

 


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