GIRARD


 

 

Renè Girard nasce ad Avignone nel 1923; nel 1941 ottiene il baccalaureato di filosofia, nel 1947 si diploma in archivistica e si reca negli Stati Uniti d’America, dove diventa docente. Nato come critico letterario di stampo strutturalistico, nel 1961 scrive Menzogna romantica e verità romanzesca, a cui fa seguito, nel 1972, La violenza e il sacro: i due testi sono legati tra loro in un nesso inscindibile e costituiscono i capisaldi del pensiero girardiano. Nel secondo di essi, il pensatore francese si concentra con particolare insistenza sull’antropologia. Nel 1978 esce Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, composto in forma di dialogo. Nel 1982 vede la luce Il capro espiatorio e nel 1985 L’antica via degli empi, dedicato al confronto col libro di Giobbe. Nel 1990 esce Il teatro dell’invidia. All’interno del pensiero di Girard, è possibile rintracciare tre aspetti fondamentali, che si intrecciano e che ritornano con costanza in tutti i suoi scritti: 1) il principio mimetico; 2) il meccanismo vittimario; 3) l’analisi dei testi sacri (in particolare il Vangelo).  Il principio mimetico è quel principio in forza del quale uomini e animali superiori condividono una capacità di imitazione che è veicolo di trasmissioni non genetiche di informazioni. Ne La violenza e il sacro, Girard scrive che, una volta soddisfatti tutti i bisogni elementari, l’uomo desidera ardentemente qualcosa di cui però non conosce la natura; in altri termini, brama l’essere di cui si sente sfornito e che crede che qualcuno possegga. In virtù di questa sensazione di mancanza d’essere, l’uomo si guarda intorno, convinto che altri abbiano ciò di cui egli è privo. Una metafora che esprime bene questo tipo di rapporto umano è il triangolo, ai vertici del quale stanno, rispettivamente il soggetto, il modello, l’oggetto desiderato: ogni comportamento soggettivo passa attraverso un modello, e non esistono comportamenti puramente spontanei. Ciascun soggetto ha uno o più modelli e desidera in base a quelli che ritiene essere i desideri del modello. Se desideriamo un oggetto, è perché stiamo imitando un modello: poniamo il caso che io desideri essere come ciò che ho assunto come modello; dovrò possedere ciò che esso ha, ma questo non è sufficiente. Dopo qualche tempo, infatti, non mi limito a desiderare ciò che il modello ha, ma desidero ciò che il modello desidera: comincio cioè a giocare d’anticipo. E in realtà, più che desiderare l’oggetto, desidero l’essere che esso conferisce al modello facendolo essere qualcosa in più rispetto a ciò che sono io. Significativamente, a tal proposito Girard parla di “doppio vincolo”, riferendosi innanzitutto al bambino: il padre si impone consapevolmente come modello per il bambino, il quale arriva a desiderare ciò che il padre ha, ossia, come ha insegnato Sigmund Freud, la madre. Ma ciò costituisce un problema non già per il bambino, bensì per il padre, giacché nella sua comunità vige il tabù dell’incesto. Sicché, sapendo inconsciamente che il bambino desidera la madre, il padre, che prima l’aveva invitato a imitarlo, ora gli dice “non imitarmi!”. Ritorniamo per un istante al paradigma dell’imitazione: il padre è l’essere di cui il bambino si sente privo e pertanto lo imita; ma il padre, che prima si era consapevolmente imposto come modello lasciandosi imitare, precisa che può essere imitato in tutto fuorché nel rapporto con la madre. Che cosa pensa il bambino? Pensa che è nella madre il vero essere, cosicché la desidera con ancora maggiore intensità, nella misura in cui l’oggetto che non si può avere è il più desiderato (quod licet, ingratum est; quod non licet acrius urit, scriveva Ovidio). Sembra che Freud e Girard, in fondo, dicano esattamente le stesse cose: in realtà, per l’ideatore della psicanalisi il complesso edipico era provocato dalla libido rivolta alla madre, per Girard è invece causato dal desiderio di imitare il padre. Che cosa succede se si riesce a ottenere l’oggetto desiderato? Girard dice che non capita nulla, poiché l’oggetto non è l’essere. In questo modo, una volta che lo si è ottenuto, l’oggetto passa in secondo piano e possono seguirne due conseguenze: o si cambia modello, o ci si sente in colpa, pensando di non essere riusciti ad imitare bene il modello. In questo secondo caso, il desiderio dell’oggetto si trasforma in “desiderio metafisico”: in realtà, dice Girard, il desiderio è sempre metafisico, ma ciò diventa evidente solo quando l’oggetto desiderato svanisce. In una relazione triangolare di questo tipo, giunge sempre il momento in cui il soggetto desidera le stesse cose del modello e il modello (che in principio si sentiva lusingato) si oppone al soggetto: da modello, si trasforma in rivale. Prendiamo banalmente il caso di un amministratore delegato e di un soggetto che, assumendolo come modello, desidera anch’egli diventare amministratore delegato: tra i due, se il posto disponibile è uno solo, nasceranno immediatamente rivalità e competizione. Bisogna però tenere presente che sono possibili due diversi tipi di modello, e solo con uno si entra in conflitto: c’è infatti un “modello lontano”, col quale non entrerò in rivalità per via di una “mediazione esterna” (è il caso del divo del cinema); e c’è un “modello vicino” col quale entrerò in competizione in forza di una “mediazione interna” (è il caso del vicino di casa). Quando io stesso sono il modello o il discepolo, non mi accorgo del processo imitativo in corso: in questo caso si ha quella che Girard chiama “ciclotimia”. Se estendiamo il modello imitativo all’intera comunità, accade che ciascuno di noi si trova ad essere modello e discepolo allo stesso tempo: detto altrimenti, tutti sono rivali di tutti e tutti vogliono le stesse cose. Si verifica allora un processo di indifferenziazione, una sorta di hobbesiana guerra di tutti contro tutti nella quale ciascuno, dal proprio punto di vista, ha soltanto legittime pretese. In una tale situazione, che cosa accade? O tutti si massacrano, o scatta il meccanismo che preserva le forme umane differite della cultura. Ogni membro della comunità potrebbe paradossalmente diventare l’individuo odiato da tutti: in questo modo, si esce dalla guerra generalizzata di tutti contro tutti e si ricrea un’unità, nella misura in cui tutti avvertono come nemico un solo individuo. E secondo Girard, nel corso storico, tutte le unità che si sono venute a creare sono sempre state unità di tutti contro uno: ed è questa l’espulsione, il sacrificio originario. È qui che sorge il processo di umanizzazione: proprio perché si impara a canalizzare la violenza, si diventa umani. Quando una comunità è quasi giunta all’autodistruzione e si è salvata in extremis, trasformando l’odio di tutti contro tutti in odio contro uno solo, deve capire che cosa è successo, per poter così evitare di ripetere l’esperienza della distruzione totale: nasce così il pensiero concettuale. Dovendosi mettere d’accordo per evitare l’atto che ha loro permesso di evitare il massacro, gli uomini inventano il linguaggio e, accanto ad esso, il rito. Quest’ultimo altro non è se non un modo per riprodurre in modo controllato ciò che è successo per caso la prima volta. Da qui nasce il rito sacrificale, che si fonda su due sostituzioni: a) si sostituisce alla vittima espiatoria una vittima sacrificale, scelta a tavolino; b) si sostituisce una sola vittima a tutti i membri della comunità. Se ci poniamo nella prospettiva girardiana, diventa interessante chiedersi se il tabù dell’incesto sia naturale oppure no: gli uomini sono i soli animali che si proibiscono rapporti incestuosi, e ciò accade in quasi tutte le civiltà. Questo tabù, che per Freud nasceva per via della libido originaria, per Girard nasce dal fatto che i familiari sono le persone più vicine che si hanno e dunque quelle che più facilmente possono scatenare la violenza mimetica. Prova ne è che, in molte civiltà, il tabù dell’incesto sia stato esteso a tutte le donne della tribù: si hanno in questo caso “tribù esogamiche”, ossia tribù in cui ci si sposa con donne di tribù esterne. Con la nascita del rito si ha anche la nascita del sacro, perché la vittima originaria, nella misura in cui con la sua uccisione si è evitata la distruzione totale, è autrice della pace: la vittima viene così ad essere identificata col sacro. Da qui nascono i miti, che sono una narrazione retrospettiva del massacro fondatore. E il rito, secondo Girard, è una tecnica della catarsi, nella misura in cui previene più che curare: dato che vi è sempre il rischio di una ricaduta nella violenza indifferenziata, per evitarla si canalizza la violenza facendo sacrifici. Il problema è trovare la giusta vittima sostitutiva: è infatti un’operazione pericolosa la scelta della vittima, poiché, scegliendo un dato individuo, si può scatenare la collera e la vendetta dei suoi parenti. Si tratta allora di scegliere una vittima che sia sufficientemente interna alla comunità perché il meccanismo sostitutivo possa funzionare, ma che sia anche sufficientemente esterna per non essere protetta da altri. In questo senso, essa deve essere il simile-diverso: stranieri, bambini, handicappati. Col linciaggio originario nasce la cultura: in particolare, essa sorge dalle regole che la comunità si dà per evitare di ricadere in quell’errore. È appunto in questo modo che nasce, ad esempio, il tabù dell’incesto. Se è vero che per Girard “il religioso non è altro che questo immenso sforzo per conservare la pace”, è anche vero che i mezzi per raggiungere tale scopo non sono mai pacifici. Ma man mano che la storia avanza, la memoria dei miti e dei riti si fa sempre più sbiadita e il senso del terribile linciaggio originario tende a venir meno: i riti e i miti diventano meno sanguinari, il che vuol dire, ad avviso di Girard, che ci si sta sempre più allontanando dalla catarsi per riavvicinarsi a una nuova terribile crisi sacrificale, a una nuova caduta nella violenza incontrollata. La violenza, che nei riti è canalizzata e tenuta sotto controllo, prende il sopravvento e domina incontrastata. L’ordine culturale è, in tutti i suoi molteplici aspetti, un ordine sacrificale, che funziona fintantoché il fondamento del processo resta ignoto agli individui: se essi lo scoprono, si ricade nella violenza, come accade nelle tragedie greche. Nell’ottica girardiana, la Rivelazione cristiana rappresenta un’interruzione della violenza e, a livello biografico, rappresenta per Girard il momento della conversione al cristianesimo (prima egli era agnostico). Il filosofo francese nota che, a un certo punto, si hanno non più miti, ma “testi di persecuzione”, nei quali noi lettori riconosciamo chiaramente la presenza di un meccanismo sacrificale: così avviene nei testi sulla caccia alle streghe, o in quelli in cui si parla degli untori. Di fronte a questi episodi, non abbiamo alcun dubbio che si tratta di vittime innocenti: i “testi di persecuzione”, nota Girard, sono identici ai miti (i quali sono narrazioni sacrificali in cui però non si riconosce la vittima), ma a differenza di questi ultimi non sacralizzano le vittime: del resto, nelle stesse società “primitive” la nozione di persecuzione è assente, e la violenza è aureolata di sacro. Il filosofo francese contrappone l’omicidio che Caino perpetra ai danni del fratello Abele, che era innocente, e quello che Romolo perpetra ai danni del fratello Remo, colpevole di aver varcato il confine (anche se in realtà Tito Livio dà anche un’altra versione della vicenda, scrivendo che Romolo uccise il fratello senza motivo).  La singolarità dei testi biblici è, per Girard, innegabile: benché tutte le religioni siano vittimarie, è soltanto nel testo biblico che viene presentata la tendenza a demistificare e a decostruire il mito, giacché fin da principio viene proclamata a gran voce l’innocenza della vittima. Esemplare, a tal proposito, è l’episodio (particolarmente caro a Girard) di Giobbe: a tutta prima, sembrerebbe il classico mito del linciaggio originario, nella misura in cui tutti i segni vittimari (le piaghe, la morte dei figli, ecc) si abbattono sul protagonista e i suoi amici cercano la sua ammissione di colpevolezza. Ma nella misura in cui Giobbe non sta al gioco, si oppone e proclama la propria innocenza, sta già segnalando che si tratta non di un mito, ma di un testo di persecuzione. È nei Vangeli che la demistificazione, già presente nella Bibbia, giunge all’apice: in particolare quando Caifa dice “non vedete dunque come sia meglio che muoia solo un uomo per il popolo anziché la nazione intera?”; a tal proposito, Girard rileva che “Caifa è il sacrificatore per eccellenza”. I Vangeli orbitano intorno alla passione di Cristo, ossia al sacrificio di un capro espiatorio: tale decostruzione lascia gli uomini senza protezione sacrificale, cosicché ciascuno cerca di far cadere sul proprio vicino la responsabilità di colpe di cui inizia a scorgere la responsabilità universale ma di cui esita a riconoscere la propria parte. E se anche i Vangeli non parlano espressamente di “capro espiatorio”, non di meno essi parlano di “agnello di Dio”, dove l’agnello è l’elemento sacrificale per eccellenza. Ed è da qui che Girard desume la divinità di Cristo: infatti, per poter denunciare il meccanismo mimetico/sacrificale bisognerebbe esserne fuori, ovvero ci vorrebbe un uomo che fosse estraneo a tale colpa. Ma dato che si tratta di una colpa che investe l’umanità nel suo complesso, Cristo non può essere un uomo: egli è il figlio di Dio. In senso stretto, quello di Cristo per Girard non è un sacrificio: dire, come si fa nella Lettera agli Ebrei, che Dio sacrifica il proprio figlio per redimere i peccati dell’umanità equivale a dire che si tratta di un sacrificio necessario; ma questo è per Girard “il più colossale fraintendimento della storia”. Per Girard, Cristo è venuto sulla terra per dire la verità del sacrificio e per riappacificare l’umanità. Col passare degli anni, il filosofo francese è tornato sulle proprie posizioni e ha sostenuto che quello di Cristo è un sacrificio (ma un sacrificio volontario). L’umanità avrebbe potuto accettare la verità rivelata da Cristo, il suo messaggio salvifico (che avrebbe portato immediatamente al Paradiso): ma non li ha accettati. È curioso come per Girard il messaggio cristiano sia intrinsecamente secolarizzante, a tal punto che, senza il cristianesimo, non avremmo mai avuto l’illuminismo: infatti, come abbiamo visto, il sacro si identifica con la violenza, la quale è esattamente ciò che viene annientato dal cristianesimo. Ma esso, annientando la violenza, annienta anche il sacro, stante l’identità tra violenza e sacro. Anche per Girard, come per Nietzsche, esiste un “masochismo” del sacrificarsi che non corrisponde affatto allo spirito autentico del testo scritturale: è, in particolare, il desiderio egoistico di sacrificarsi proprio di chi vuole divinizzarsi. Detto altrimenti, il masochista è colui che prende così sul serio il meccanismo sacrificale da ritenere che la sconfitta sia un segnale del proprio essere sulla retta via: il conseguente paradosso è che egli cercherà volontariamente la sconfitta, cercando la propria autodivinizzazione; esattamente come fa “l’uomo del sottosuolo” di cui dice Dostoevskij. Assai interessante è anche la lettura che Girard dà di Nietzsche: “possiamo rileggere Nietzsche alla luce della concezione mimetica del desiderio”, egli scrive; possiamo cioè applicare il meccanismo sacrificale alla sua vita: in questo senso, il suo rapporto con Wagner non è forse il rapporto col modello, adorato e insieme odiato? Nel pensiero di Nietzsche si nascondono quelle pulsioni sacrificali che traspaiono poi nella sua vita: nella misura in cui per lui si deve divinizzare non l’altro, ma se stessi, la sua è una “trascendenza deviata”. Il suo concetto di “risentimento” non contagia solo i deboli (come egli crede), e non deve essere identificato col messaggio cristiano, di cui anzi è “figlio illegittimo”. E poi, che cosa accade se analizziamo Nietzsche coi suoi stessi concetti? La sua vita non fu forse una clamorosa sconfitta? Si potrebbe pensare che, applicando a Nietzsche il nietzscheanesimo, ne nasca un cortocircuito, ma così non è: Girard scrive espressamente che “è ingiusto e troppo crudele far notare che non fu Pascal a impazzire, ma Nietzsche?”; e ancora: “Nietzsche è davvero pazzo, ma nessuno se ne accorge in un mondo che fa di tutto per recuperare la sua pazzia”. Nietzsche cerca il rimedio al risentimento e alla vendetta interiore, ma lo fa in maniera folle: e la nostra cultura non fa altro che proseguire in quella pazzia, nella quale ogni persecutore si finge vittima per poter meglio fare il persecutore. In altri termini, nella nostra cultura non si è più in grado di accettare il persecutore come tale: in forza di questa ragione, i nazisti non si spacciarono per persecutori, ma additarono gli ebrei come fautori di un complotto ai danni della Germania; e così lo stesso Bin Laden si proclama a gran voce vittima; è, se vogliamo, la sindrome del bambino che addossa la colpa al suo amico dicendo “ha cominciato lui!”. Nell’attuale società, il lupo è travestito da agnello: e Girard arriva a scrivere che Martin Heidegger stesso gli fa venire in mente il lupo travestito da agnello, sotto il cui manto bianco spunta la coda nera. Nietzsche non si è accorto di quel che la Bibbia ha fatto nel mondo e, in forza di ciò, auspica il ritorno alla violenza sacrificale originaria. Sul piano del sapere, la decostruzione del senso è inseparabile dall’esibizione di alcune vittime anziché tutte: si tratta di evitare una lettura troppo schematica di Girard, come se ai suoi occhi potessero esserci “vittime innocenti”. La vittima è sì innocente rispetto ai crimini che le sono imputati (in particolare, rispetto a tutta la violenza dispiegata nella comunità), ma non è affatto esente da quella violenza generalizzata: del resto, non di rado la vittima diventa persecutore del proprio persecutore, qualora quest’ultimo venga smascherato nel suo ruolo. Scrive Girard: “non ci troviamo all’alba di una nuova cultura sacrificale: siamo in piena decadenza dell’antica”; il che significa, se vogliamo, che ci troviamo a metà strada tra il Vangelo e Nietzsche. Mai come oggi, in un’epoca che ci pare secolarizzata, il fermento evangelico si fa sentire: e tuttavia ci troviamo in un momento storico tale per cui, se sbagliamo, si precipita in un abisso da cui non è più possibile risalire. Girard si chiede esplicitamente che cosa sarebbe accaduto qualora gli uomini avessero accettato il messaggio cristico invece di respingerlo: Cristo non sarebbe morto e si sarebbe realizzato il Regno dei Cieli in terra; ma il sacrificio cristico segnala l’abbandono di questa “via facile” e la scelta di quella indiretta che passa per l’Apocalisse. Nasce di qui una nuova serie di problemi di difficile soluzione: abbiamo visto che la ragione nasce come strumento sacrificale, allorché dopo il primo linciaggio l’uomo pensa all’accaduto per riproporlo e per evitare l’autodistruzione; ma se essa è strumento sacrificale, noi che la utilizziamo per demistificare la violenza sacrificale, possiamo riuscire in tale impresa? Girard si pone con insistenza il problema e dice che il sacrificio propriamente detto esiste solo nella mente dell’uomo vittima delle Idee di Platone: il sacrificio di cui parliamo è una categoria che pertiene all’orizzonte di quella stessa ragione sacrificale. E l’uscita completa dalla logica sacrificale coinciderebbe con l’avvento del Paradiso. Sicchè alla hegeliana “astuzia della ragione” è possibile contrapporre quella evangelica, che non chiede all’uomo di svincolarsi dalla mimesi e che anzi gli indica l’unico modello che non potrà mai tramutarsi in rivale: Cristo. Egli ricambia l’imitazione, la rivalità e l’odio con l’amore. L’unica cosa che ci è richiesta è la prassi evangelica, che non è se non un’imitazione di Cristo. In questa prospettiva, che senso può avere continuare a utilizzare la ragione e a scrivere libri che svelano la teoria vittimaria, come fa Girard? Può avere un senso se teniamo a mente che ogni mistificazione attuata non potrà più attuarsi dopo lo spartiacque della Rivelazione evangelica; e nella nostra quotidianità continueranno a sussistere fenomeni sacrificali, ma erodendosi sempre più. Nella misura in cui ogni tentativo della ragione di occultare il meccanismo vittimario è immancabilmente destinato allo scacco, Girard non esita a parlare di “morte della filosofia”, intendendo con ciò una sospensione della comprensione linguistica: uscita di scena la filosofia, le subentrano la scienza e, inaspettatamente, il religioso.

 

 

 


INDIETRO