IL TEMPO

Realizzata da Filippo Lubrano

La concezione di tempo nietzschiana si scontra aspramente con quella tradizionale dell’Occidente. Infatti, nella società cristiana occidentale il tempo è lineare, così come lo d’altra parte lo vedono tendenzialmente le scienze. Friedrich Wilhelm Nietzsche scardina rivoluzionariamente questa visione, parlando di una circolarità del tempo, funzionale alla sua teoria del SuperUomo o, più letteralmente, OltreUomo (Übermensch), quella stessa teoria che nel corso della storia tanto si è prestata anche a distorcimenti da parte di chi ha frainteso, più o meno volontariamente, il messaggio del filosofo tedesco (prima tra questi fu la sorella stessa del filosofo, che diventerà non a caso una musa del nazismo). Perchè il SuperUomo nietzschiano possa esplicarsi pienamente, non è tollerabile che esso sostenga sulle spalle il peso della storia (vd. la "malattia della storia" contro cui polemizza l’autore): ogni istante deve essere svincolato dagli altri, deve essere a sé stante, istante come tale. Solo così si può esplicare la creatività. Ogni singolo uomo, per Nietzsche, è un Übermensch in potenza: per diventarlo in atto, deve solo volerlo. Il suo habitat naturale è dunque un tempo circolare, in cui ogni attimo può essere inizio e fine, la sintesi che raccoglie in sé l’eternità del passato e del futuro, in cui l’uomo possa esercitare finalmente un Nichilismo attivo, termini considerati ossimorici fino all’elaborazione del pensiero nietzschiano. Nel tempo dell’eterno ritorno (in cui l’idea del ritorno sarebbe solo opprimente se l’uomo non fosse creatore), quello che ha come termine di riferimento la "filosofia del mattino", l’uomo non deve opporsi al destino, ma volerlo ponendosi sulla sua scia, diventare uomo fatale, esercitare un "amor fati".

Il Tempo Lineare contro il quale polemizza il "distruttore par excellence", come lui si autodefinisce, è un tempo che prevede un inizio ed una fine, come nel Cristianesimo, che ha il suo punto d’approdo nel Giudizio Universale. Prima del Cristianesimo, invece, per gli antichi greci il tempo era tendenzialmente privo di direzione a causa della sua circolarità. Una teoria che si basa complessivamente sul concetto di fine del tempo e perciò direzionalità di esso è quella storicista. Al suo vasto alveo sono riconducibili, sebbene con posizioni fra loro anche molto differenti, G.B. Vico e, dopo di lui, l’Illuminismo (Voltaire, Turgot, Condorcet), il Romanticismo in generale e, specificamente, GWF Hegel, in cui la storia del mondo viene ricondotta al divenire dialettico della coscienza, K. Marx, che riprende e trasforma la dialettica hegeliana in un vero e proprio materialismo storico, e il Positivismo che con Augusto Comte enuncia la legge dei tre stadi.

Una visione molto più recente, anch’essa da collocare nell’ambito della storicismo, è quella dello studioso statunitense Francis Fukuyama, non a caso autore del libro "La Fine della Storia e l’Ultimo Uomo", secondo cui la storia è inevitabilmente destinata a finire, non nel senso che terminano gli eventi, ma nel senso che, oltre questo modello, non si andrà, e il modello è esattamente quello della liberaldemocrazia, che si è affermato grazie al progresso scientifico occidentale e al desiderio tipicamente umano di gareggiare gli uni con gli altri per essere riconosciuti (si pensi all’antecedente posto da Hegel nella Fenomenologia e nelle vicende del riconoscimento, ad esempio quella del servo-padrone). E’ chiaro quindi che per Fukuyama la Globalizzazione viene ad essere l’esito unico e migliore della storia stessa. Se è opinione diffusa tra i critici individuare le radici della globalizzazione addirittura nel '500, a seguito della scoperta dell'America, si converrà altrettanto che negli ultimi secoli la rivoluzione industriale prima, quella elettrica poi, e per finire quella informatica, hanno contribuito ad una progressiva accelerazione del processo. Proprio l'ultima, quella informatica, ha portato ad un'unificazione veramente "globale" dei mercati, trascinando con sé inevitabilmente, con il settore economico, quello sociale. Seppur una vera e propria cultura globale, come auspicherebbero le multinazionali, un mondo in cui tutti mangino hamburgers da Mc Donald's, indossino scarpe Nike, vestano capi Benetton lavorati ben lontano dalla sede centrale trevigiana in luoghi quali Indonesia, Taiwan, Hong-Kong, dove la manodopera costa pochissimo, sia ancora ben lontana dalla realtà, è altresì vero che in molti cominciano a temere la perdita delle identità nazionali, delle culture locali. Ma per adesso questo rimane un sogno nel cassetto di General Motors, Coca Cola & C., e di questo le multinazionali sono comunque coscienti, visto che pilastro della loro filosofia di mercato è "Think global", ma anche "act local". (Nell'omologazione mondiale un ruolo da protagonista lo giocherà certamente l'economia, in un mondo in cui, grazie anche ad Internet, vi è un'economia mondiale senza uno stato mondiale, e dove anzi proprio quest'ultimo è quasi privato di qualsiasi potere, incapace di controllare la grande rete, impotente davanti alla delocalizzazione del lavoro sviluppata dalle multinazionali. Ma) se la globalizzazione ha bisogno di un ammodernamento delle vie di comunicazione per potersi sviluppare pienamente, tra queste la "strada maestra" è sicuramente il Web, la ragnatela a cui tutti possono contribuire ad aggiungere fili, e in cui tutti possono sfruttare quelli già tessuti da altri. La rete, in cui facilmente si possono far perdere le proprie tracce, è, in un certo senso, parallela alle multinazionali: lo Stato non riesce ad esercitare un controllo su nessuna delle due, perdendo così il potere e l'autoreferenzialità che lo avevano caratterizzato precedentemente. In questi "giochi" apparentemente "senza frontiere", il contrasto tra paesi ricchi e poveri aumenta invece sempre più. Se è vero che quasi tutti I dati di cui disponiamo si prestano a diverse chiavi di lettura, è anche vero che nel ristretto novero dei dati che non danno adito ad interpretazione contrastanti, vi è però quello che le multinazionali non incrementano l'occupazione: il rapporto tra produzione e occupazione fornita da queste è 1 a 100: il 30% della produzione mondiale da loro garantita è mal compensata dallo 0,30 della forza-lavoro del globo che vi lavora (per non parlare poi delle condizioni in cui vi lavora). La globalizzazione è comunque, in definitiva, un processo molto complesso, in cui gli stessi dati, di per sé oggettivi, sono interpretabili. Un'analisi limpida ed esaustiva è perciò assai difficile da compiere, se non impossibile, dato che si tratta di un processo storico ancora in piena fase di sviluppo e, rispetto al quale, addirittura, alcuni autori come Wallerstein, studioso del "lungo periodo", avanzano perfino l’ipotesi che la categoria globalizzazione sia solo il nuovo nome di un vecchio fenomeno, quello capitalistico.

Nella storia della riflessione sul tempo, un capitolo fondamentale è sicuramente quello scritto da Sant’Agostino, la cui riflessione troverà insigni prosecutori anche in epoca moderna, basti pensare al tempo durata di Bergson. Agostino si può considerare tra I più grandi ed originali scrittori latini, ed opera nel IV° secolo d.C.. Tra gli oltre mille titoli di sua produzione giuntici particolarmente suggestiva è quella che in molti considerano la sua opera maggiore: le "Confessiones". Le Confessioni agostiniane sono tre cose in una: un’esaltazione della grandezza e della bontà di Dio, una biografia interiore che Agostino fa di se stesso ed una meditazione su entrambi, cioè su Dio e su se stesso. Nel libro XI delle "Confessiones" Agostino, partendo dall’analisi dei primi versetti della Genesi ("In principio Dio creò il cielo e la terra"), può riprendere e riesaminare dalle radici la tripartizione aristotelica e senecana del tempo. A differenza di Seneca, che si sofferma sul tempo per meditare sulla sua brevità e l’incombere della morte, Agostino tratta questo argomento per definirne ogni aspetto ad esaltazione di Dio. Il viaggio che l’autore intraprende non è, come in Seneca, mirato ad esorcizzare le paure sottese alla necessità di dominio, di controllo del tempo che ineluttabilmente, anche se noi non lo vogliamo, scorre "come un fiume", ma si sviluppa interamente nella mente, per prendere coscienza che è nella mente stessa che misuriamo il tempo, e che da questa condizione non ci è dato uscire in questa vita, ma solo alla fine della nostra esistenza terrena potremo sperare di uscire dai vincoli del tempo ed entrare nella felicità senza tempo dell’amore di Dio. In un dialogo diretto con Dio che non ha precedenti nella storia della letteratura, Agostino si rivolge al creatore spontaneamente: "Tu precedi tutto il passato dalle vette dell’eterno presente e sovrasti tutto il futuro, perché verrà nel futuro, e quando verrà, passerà; tu invece sei sempre lo stesso, e I tuoi anni non finiranno. I tuoi anni non vanno né vengono, son questi nostri che vanno e vengono, finché tutti non son venuti". Della visione ansiosa ed angosciata del tempo, del disperato bisogno di controllarlo che trovavamo in Seneca, qui non v’è traccia alcuna. Agostino non può, in sostanza, concepire il tempo come slegato da Dio: solo in funzione di Dio il tempo può assumere un significato. Ma quando poi si trova davanti alla domanda diretta che si autopone: "Cos’è dunque il tempo?", Agostino deve ammettere che "Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so". Tuttavia, poche righe dopo nel capitolo arriva uno dei passi più affascinanti della sua opera e forse della letteratura latina tutta. Agostino arriva a porre uno degli interrogativi più suggestivi mai posti, riflettendo sul tempo presente: "se dunque il presente, per essere tempo, deve diventare passato, come possiamo dire di lui che esiste, se l’unica ragione del suo esistere è che non esisterà, non potendo cioè realmente dire che il tempo esiste se non in quanto tende a non esistere?". Alla teorizzazione di una figura umana superiore il "saggio stoico", capace di farsi da dominato a dominatore del tempo, che avevamo in Seneca, si sostituisce qui invece il completo affidamento a Dio, sostenuto dalla fede cristiana che traspare in controluce in tutte le pagine delle Confessioni. Ancora, in Seneca, torna la concezione del "carpe diem" oraziano, seppur rivista in un "protinus vive" ("vivi subito") che alle venature epicuree del poeta di Venosa sostituisce quello di un platonismo di fondo, cosa inimmaginabile invece nell’esperienza cristiana di Sant’Agostino.

Ben diversa rispetto alla prospettiva tutta interiore del tempo in S.Agostino è quella offerta dalla Fisica, nel cui ambito, però, sono ritrovabili diverse accezioni di tempo. Basti pensare al rivoluzionamento della fisica classica operato da Albert Einstein, il più insigne e celebre fisico del Novecento.

Einstein’s critic attitude towards the simultaneity concept bases its roots on a supposed situation: if considering a railway dock and a train, we will observe an interesting fact in case two thunderbolts do strike simultaneously on the dock. In fact, as we can easily see in figure 1, when the thunderbolts hit the dock simultaneously, their rays of light, as a consequence, do meet each other in a middle point, called M. This point has its correspondance on the train in the point M’. But this point is continuously moving towards the point B, because of the speed v of the train. That’s why we can certainly state that the ray B reaches it before the ray emitted by the thunderbolt A. As a matter of fact, we have now proved that every reference body has its own particular time. Time is not absolute any longer, as we had thought since Galileo’s theories. The simultaneity relativity leads to very important conclusions: on a first moment, even the usual relationship between causes and effects had wobbled but therefore, fortunately, it has been affirmed that no metaphysic consequences will be brought by this, however, revolutionary experiment.

Per spiegare meglio perchè la relatività einsteniana non scardina l’usuale rapporto causa/effetto, è bene precisare il significato dei termini presente, passato e futuro. Un evento A si deve considerare nel futuro di un osservatore O quando O può fisicamente influire su A mediante una qualche forma di interazione o di segnale (ad esempio inviando un lampo di luce); un evento B si deve invece considerare nel passato di O quando esso può fisicamente influire su O mediante una qualche forma di interazione o di segnale; ogni altro evento C con il quale O non può stabilire alcuna interazione si dice che è nel presente di O. Secondo la relatività galileiana, dunque, nella quale non esiste alcune limite teorico per la velocità dei segnali, la rappresentazione in un piano cartesiano fa si che il presente sia rappresentato dall’asse delle ascisse, cioè dello spazio, in cui t=0, il futuro dal I° e IV° quadrante (infatti, un generico evento caratterizzato dalla coppia di valori (x;t) potrà sempre essere influenzato da O purchè questo invii un segnale alla necessaria velocità v=x/t), il passato dal II° e III°. Nella relatività einsteniana tutto ciò assume un carattere più complesso. Qui il luogo dei punti che può essere raggiunto da O, o che raggiungono O (situato anche in questo caso nell’origine del sistema) mediante un lampo di luce sono dati dalle due rette di equazione x=ct, x=-ct, per definizione bisettrici degli assi. Queste rette dividono il piano in 4 parti: 2 costituiscono il futuro e il passato di O, le altre due il presente. Per individuarle basta considerare che, affinché un lampo di luce possa collegare un generico punto P del piano con O, per le coordinate x, t di P deve essere soddisfatta la condizione: |x|<c|t|. Per t>0 si ha il futuro di O, per t>0 il passato. Le altre due parti costituiscono invece il presente di O, infatti, per un punto qualsiasi di esse: |x|>c|t|.

Per esemplificare, e semplificare questo concetto, è bene avvalersi di un esempio: come è noto, una tempesta magnetica che si sviluppa sul sole può influire sulle trasmissioni terrestri. Poiché però la radiazione elettromagnetica emessa dal sole impiega circa 8 minuti per raggiungere la terra, sono nel nostro attuale passato tutte le tempeste solari avvenute prima di 8 minuti fa, ma, ad esempio, una tempesta avvenuta 5 minuti fa non si può ragionevolmente inscrivere né nel nostro passato, né nel nostro futuro, in quanto non può avere alcuna influenza attuale sulla terra, né noi possiamo ovviamente averne su di essa. Fra questo evento e il punto O, dunque, non può esserci alcun rapporto di causa/effetto.

Da un punto di vista scientifico, ha senso iniziare a parlare propriamente di "tempo" solo a partire dalla nascita dell’Universo, ovverosia da ciò che è più largamente conosciuto come "Big Bang". La teoria del "Big Bang" nasce dalla constatazione che l’universo è in espansione. A sua volta questa constatazione è scaturita dal cosiddetto "Paradosso di Olbers". Quest’astronomo tedesco intuì che l’oscurità del cielo notturno non è affatto scontata e anzi porta ad una considerazione paradossale. Olbers partiva dall’ipotesi che l’universo fosse omogeneo, cioè che le stelle avessero ovunque la stessa luminosità media e fossero distribuite uniformemente nello spazio. Olbers affermò poi che, dato l’enorme numero di stelle presenti nell’universo, in qualsiasi direzione si fissi lo sguardo si finirebbe con l’intercettare la superficie di una stella. Dunque il cielo notturno dovrebbe apparirci luminoso e splendente. A questo punto, questo paradosso può essere superato in due modi: o l’universo è molto giovane, oppure l’universo si espande. Dato che sappiamo che l’universo non è molto giovane, ma la sua età è di svariati miliardi di anni, non resta che ritenere che l’universo sia in espansione. Nell’universo in espansione la distanza tra due galassie aumenta con velocità tanto maggiore quanto maggiore è la distanza che le separa. La galassie più lontane si allontanano dalla nostra con velocità così elevata che, per l’effetto Doppler, si ha aumento della lunghezza d’onda e spostamento della loro luce oltre il rosso. Si spiega così il buio del cielo notturno. Si può anche istituire così una relazione tra velocità di allontanamento (v) e distanza dall’osservatore (r). La relazione v=Hr prende il nome di Legge di Hubble, in cui H è una costante detta costante di Hubble. Una volta dimostrata l’espansione dell’universo, per risalire invece alle sue origini bisogna procedere in senso inverso: c’è stato dunque un momento in cui le galassie e tutto l’universo erano concentrate in uno spazio piccolissimo. Questo momento, secondo i calcoli degli astronomi, è compreso tra 15 e 20 miliardi di anni fa. La teoria del "Big Bang" afferma che tra 15 e 20 miliardi di anni fa si verificò l’esplosione di una sorta di atomo primordiale, nel quale erano contenute tutta la materia e tutta l’energia dell’universo. Questo atomo primordiale avrebbe avuto volume nullo, densità, temperatura e forza di gravità infinite. La situazione caotica e incerta dei primi istanti scomparve però rapidamente. La massa si suddivise sotto forma di nube di gas in espansione. Parte dell’enorme quantità di energia liberata si trasformò in materia. In tempi incredibilmente brevi si formarono le particelle subatomiche. La rapida espansione dell’universo determinò un forte abbassamento della temperatura. Circa 100.000 anni dopo il "Big Bang" la temperatura raggiunse i 3000 K. In quelle condizioni gli elettroni si poterono unire ai nuclei e si originarono gli atomi degli elementi più leggeri: idrogeno e elio. Aggregandosi per effetto dell’attrazione gravitazionale, la materia diede origine alle galassie e a tutti gli altri corpi celesti. Sulla spinta dell’esplosione iniziale, i corpi prodotti dal "Big Bang" stanno ancora allentandosi gli uni dagli altri. Secondo questa teoria, dunque, l’universo dovrebbe gradualmente diminuire la sua densità al passare del tempo.



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