GIOVANNI GENTILE

Teoria generale dello Spirito come atto puro

 

A cura di Edoardo Dallari

 

 

Nel 1916 Giovanni Gentile scrive la “Teoria generale dello Spirito come atto puro”, gettando le fondamenta del proprio pensiero, in cui confluiscono il pensiero hegeliano e il pensiero marxista riformati.

Il primo capitolo, intitolato la “Soggettività del reale”, si apre con un’analisi dell’idealismo di Berkeley, che già nel 1910 era stato fortemente criticato da Bertrand Russell, in “I problemi della filosofia”. Berkeley ha evidenziato come l’essere consista nel suo essere percepito (“esse est percipi”): i dati dei nostri sensi non possono esistere indipendentemente da noi e sono l’unicum di cui le nostre percezioni possono garantirci l’esistenza. Conoscere è percepire, e in quanto le uniche cose di cui possiamo avere conoscenza sono i dati sensibili che esistono solo nella misura in cui ne siamo coscienti, essere conosciuto significa essere nella mente, e venendo conosciuto il qualcosa è. “All’infuori delle menti e delle loro idee, dunque, nel mondo non esiste nulla e non è possibile conoscere nulla, poiché tutto ciò che si conosce è necessariamente un’idea”. In quanto le cose sono conosciute mentalmente esse sono anche di natura mentale. L’argomento principale adottato da Berkeley è che “non possiamo sapere se esiste qualcosa che non conosciamo”, “we cannot know that anything exists which we do not know”, e su questo si scatena la critica di Russell: bisogna distinguere i significati di due parole che sembrano sinonime, ma che in realtà non lo sono, che Berkeley mescola nell’utilizzo del verbo “to know”. Sapere è la conoscenza del vero, si riferisce alla conoscenza di verità dei giudizi, alla conoscenza per descrizione; conoscere “significa avere delle cose un’esperienza diretta”, con cui conosciamo i dati sensoriali. La conoscenza delle cose è la conoscenza per esperienza diretta (acquaintance). Secondo Russell è necessario distinguere tra “la cosa appresa e l’atto dell’apprendere”, momenti distinti e separati: la cosa non è mentale, è un oggetto concepito come mera presenza che il soggetto nell’atto apprensivo deve rispecchiare, adeguandosi ad essa. La conoscenza è una relazione fra la mente e ciò che è altro da essa.

Per Giovanni Gentile l’idealità del reale non è assolutamente da mettere in discussione. Il concetto di una sostanza materiale, corporea ed estesa è un concetto di per sé contraddittorio, siccome possiamo parlare solo di cose che percepiamo e che quindi sono oggetto di pensiero, idee. Berkeley ha il merito di avere mostrato “che la realtà non è pensabile se non in relazione  con l’attività pensante per cui è pensabile; e in relazione con la quale non è solamente oggetto possibile, ma oggetto reale e attuale di conoscenza”. La critica gentiliana si muove nella direzione di una contraddizione interna al pensiero di Berkeley, che giunge a negare la stessa idealità del reale quando arriva a sostenere che la realtà non è oggetto del pensiero umano, bensì è “l’insieme delle rappresentazioni che corrispondono a una Mente oggettiva, assoluta, presupposto della stessa mente umana”. Poiché pare evidente che il pensiero umano non pensi tutto il pensabile, limitato da spazio e tempo, che possa esistere qualcosa che non è mai stata pensata e che ciò che ora non  è oggetto del pensiero potrà esserlo in un altro momento, è lecito, dalla prospettiva di Berkeley, porre una distinzione tra il pensiero che pensa il mondo e un Pensiero assoluto, trascendente quello umano, che è Dio. “Dio pertanto è la condizione che rende possibile pensare il pensiero dell’uomo come esso stesso realtà, e la realtà come essa stessa pensiero”. Ma pensare il pensiero umano come condizionato dal pensiero divino significa affermare il Pensiero assoluto come presupposto del pensiero stesso, una realtà che non si sviluppa nel pensare: anche Dio deve essere oggetto del pensiero: affermarlo come presupposto significa escludere ciò che rende la realtà tale, cioè il pensiero, perché la realtà di Dio non è pensata ma presupposta. Il pensiero umano si trova in questo modo esautorato dalle sue competenze e trova davanti a sé un muro che egli non ha creato, che è reale indipendentemente dall’essere pensato. Secondo Gentile Berkeley ricade quindi in quel naturalismo che Russell sosteneva in opposizione all’idealismo, perché porrebbe una realtà esterna al pensiero, presupposta ad esso. In Berkeley il pensiero si annulla, “perché in tanto il pensiero pensa, in quanto quello che pensa è già pensato; in quanto il pensiero umano non è altro che un raggio del pensiero divino, e quindi niente di nuovo, niente di più del pensiero divino. (…) non solo non è realtà oggettiva, ma neppure realtà soggettiva. Se esso fosse qualche cosa di nuovo, il pensiero divino non sarebbe esso tutto il pensiero”. Il pensiero umano pensa ciò che è già stato pensato da Dio essendone una derivazione, da soggetto diventa oggetto: il suo idealismo è quindi un idealismo empirico.

Secondo Gentile bisogna abbandonare il punto di vista dell’io empirico e innalzarsi a quello della soggettività trascendentale, in cui il pensiero non si considera come atto compiuto, ma come atto in atto. “Atto che non si può assolutamente trascendere, poiché esso è la nostra stessa soggettività, cioè noi stessi; atto che non si può mai e in nessun modo oggettivare. Il nuovo punto di vista infatti a cui conviene collocarsi è questo dell’attualità dell’Io, per cui non è possibile mai che si concepisca l’Io come oggetto di se medesimo”. Gentile distingue tra pensiero astratto e pensiero concreto, che identifica con il pensare in atto: nulla esiste se non nell’atto che lo pensa, in cui viene pensato. “Lo spirito, si badi, non è mai propriamente quella pura attività teoretica che si immagina in opposizione all’attività pratica: non è mai θεορια, contemplazione della realtà, che non sia intanto azione, e però creazione di realtà." Bisogna qui fare un passo indietro per vedere quali sono le basi su cui il pensiero di gentile si sviluppa: Hegel e Marx.

Nell’idealismo tedesco, in particolare quello hegeliano, l’oggetto è nella misura in cui è pensato dal soggetto. L’ente è nella misura in cui è un το λεγομενον, è posto in quanto mediato dall’attività del soggetto. La coscienza soggettiva media la realtà e la pone come tale. La realtà è sempre il nostro sapere della realtà: la coscienza nella certezza sensibile percepisce il mondo, l’oggetto, come qualcosa di indipendente dal soggetto pensante. Soggetto e oggetto sono percepiti come autonomi e irrelati e il soggetto si limita a render ragione dell’oggetto rispecchiandolo. Questo costrutto è destinato tuttavia a non durare perchè erroneo: soggetto e oggetto esistono sempre mediati: l’oggetto è nella misura in cui il soggetto sa di esso, è mediato dal soggetto. Possiamo infatti fare esperienza di un percepire sensibile che non sia anche qualcosa di più di un mero percepire? Nel momento in cui io so di sentire sono già oltre la dimensione passiva della sensibilità: io sono cosciente di essere cosciente, sono cosciente del fatto che è vero che sento. La coscienza del vero della percezione mi porta oltre la dimensione della percezione stessa, mi porta cioè nella dimensione dell’autocoscienza, in cui il soggetto è consapevole di essere costitutivo della percezione. L’oggetto è percepito da un soggetto che è cosciente di percepire l’oggetto stesso: al di fuori della coscienza non esiste nulla, il mondo è nella misura in cui è pensato, abbiamo sempre a che fare con dei pensati, mai con degli oggetti che ci stanno davanti come ostacoli.

Il sapere non è mai sapere puro, è sempre volontà di potenza come volontà di sapere, ovvero il sapere è il potere, un poter-fare. L’ente è proprio ciò che è saputo-fatto dalla coscienza. L’ente per la coscienza è ciò che sappiamo e facciamo, è un πραγμα, realizzato attraverso tutto il viaggio della coscienza, in cui tutti i momenti sono ricompresi nel risultato:i risultati vengono sempre ricollocati su piano superiori, mai dimenticati, ma sempre ricordati. Progressivamente la coscienza diviene sempre più universale, fino al sapere assoluto, absolutus, in cui la coscienza è absolta, sciolta dai legami con la propria individualità. Il sapere assoluto è un sapere della totalità dell’ente, che ricomprende in sé, nell’interezza del movimento processuale, le determinatezze oppositive riconciliate dallo Spirito, che le innalza, comprendendole in sé, non le nega, e anzi è consapevole di tutti i momenti che hanno portato al risultato. L’ente è ora saputo come πραγμα, come fatto creato dalla coscienza, non come puro dato irrelato alla coscienza medesima. La coscienza è giunta nel pensiero ad una forza, capacità, potenza, tale da potersi fare altro: l’ente, l’oggetto, è un prodotto della soggettività cosciente. Il soggetto si fa altro, pone l’oggetto e in esso si ritrova. Percepisce l’oggetto come proprio prodotto. Il soggetto diviene cosciente di sé nel proprio esser altro. Fichtianamente l’io deve porre un non io cui si contrappone per diventare cosciente di sé.

Il soggetto si riconosce nell’oggetto e dopo essersi fatto altro ritorna in sé arricchito. Noi quando percepiamo l’oggetto lo percepiamo sempre attraverso il nostro io e come contrapposto al nostro io: tutto ciò che è è altro dall’io, ma mediato dalla coscienza che si fa altro per riconoscersi come sé.

Per comprendere la riforma gentiliana della dialettica hegeliana è indispensabile vedere come gentile interpreti la filosofia di Marx. Gentile infatti ritrova in Marx una filosofia della prassi: è la prassi umana a produrre e modificare l’oggetto, il quale a sua volta viene  a modificare anche il soggetto. Il mondo in Marx è sempre frutto della prassi, la realtà si vien formando tramite il fare, l’oggetto è sempre l’esito di un porre da parte del soggetto. La prassi è il modo in cui viene posto il rapporto soggetto-oggetto nel divenire. Anche la natura è opera dell’attività prassistica del soggetto, anche se l’errore di Marx secondo Gentile consiste proprio nel riconoscere il mondo come prodotto di un’azione e di ammettere una materia data sottratta a quell’azione.

Attraverso dunque una rielaborazione del pensiero di Marx e una riforma prassistica della dialettica di Hegel, Gentile dà vita alla propria posizione filosofica che egli chiama attualismo.

La prima differenziazione fondamentale è quella tra dialettica del pensiero pensato e dialettica del pensiero pensante. Secondo gentile da Platone a Hegel la tradizione filosofica ha compiuto un errore cruciale: ha inteso il pensiero come un oggetto e ha studiato le relazioni tra concetti come se fossero oggetti dati anziché intendere il pensiero il pensiero come atto. Le dialettiche del pensiero pensato pensano il mondo, che è pensiero, come statico, mentre la dialettica del pensare è la dialettica della vita, che pensa che il mondo esista sempre e solo nell’atto del pensare in atto che lo pone, è una dinamica sempre rigenerantesi.

La prima forma di dialettica è quella platonica, grazie a cui il filosofo può comprendere la totalità del reale, cogliendo le differenze tra gli enti ad armonizzandole tra loro al fine di giungere alla verità. “Dialettica infatti per Platone è la ricerca del filosofo, non già in quanto egli aspira alle idee, ma in quanto le idee, alla cui cognizione aspira, formano tra loro un sistema; sono cioè connesse tra loro da mutui rapporti in guisa che la cognizione del particolare sia cognizione dell’universale, la parte implichi il tutto, e la filosofia insomma sia una sinossi”. Ma questa capacità della filosofia dipende dai rapporti che le idee intrattengono tra di loro, non dalla capacità del pensiero umano. Il pensiero è già stato pensato ab aeterno nel sistema di rapporti con cui le idee sono legate tra di loro, il pensiero non si vien facendo pensando, ma è già tutto pensato. Il filosofo coglie sì l’universale archetipico nel particolare, comprende sì che l’ente è sintesi di essere e di non essere, che partecipa dell’identico e delle differenze, ma fa questo adeguandosi alle idee fisse ed immutabili che devono essere colte dal pensiero umano che intenda spiegare la realtà. “La dialettica platonica è solo un’apparente dialettica: perché essa è bensì sviluppo dell’unità attraverso la molteplicità, se si considera per rispetto alla mente dell’uomo che non possiede il sistema e aspira a possederlo, e ne viene indefinitamente realizzando l’unità dialettica mercè l’indagine sempre più larga dei rapporti onde sono tra loro connesse le idee. Ma poiché il valore di questa indagine presuppone la dialettica eterna immanente al mondo ideale, la verità dialettica, alla cui stregua è possibile concepire quella della mente, non è come si è detto, la dialettica della mente, bensì quella delle idee. La quali non realizzano l’unità ma sono unità; né realizzano la molteplicità, perché sono molteplicità: e né per un verso, né per l’altro hanno in sé alcun principio di mutazione e di movimento. Perciò la vera dialettica è quella che non è più tale”. La natura stessa in Platone è un presupposto del pensiero: la φυσις nessun dio la crea, è plasmazione della χωρα ad opera del demiurgo che imprime su di essa i rapporti tra le idee. Il pensiero, ritrovando nella natura gli archetipi ideali eterni, irrigidisce ipso facto la natura stessa: essa “s’irrigidisce ed impietra pel fatto stesso di essere oggetto del pensiero”.

Non solo Platone, ma anche Aristotele, pur considerando la natura come sinolo di materia e forma riuscì a sfuggire alla dialettica del pensato. Il divenire è l’evidenza suprema ed è passaggio dalla potenza all’atto; tuttavia in base al concetto dell’ex nihilo nihil l’atto è prioritario, ed essendo contraddittorio il regressus ad infinitum è necessario che esista l’Ente Sommo, l’atto puro, motore immobile che è causa efficiente del movimento in quanto causa finale. Dice Gentile “il mondo pensò mole animata da movimento eterno a recare in atto l’eterno pensiero. Ma anche per lui il pensiero pensa la natura come suo antecedente: quindi come realtà già realizzata che come tale si può pertanto definire, e idealizzare in un sistema di concetti fissi e immutabili”.

Lo stesso Hegel non ha pensato fino in fondo il divenire ed è rimasta legato ad una visione troppo oggettivista del reale, che pensa l’identità di essere e pensiero come se fosse statica. Non ha colto che questa identità è un atto, non un risultato compiuto. Il massimo merito di Hegel secondo Gentile è stato quello di aver posto un Λογος a fondamento di tutto il reale, ma separando “l’intelletto che concepisce le cose dalla ragione che concepisce lo spirito”, l’uno che distingua analiticamente, l’altra che coglie l’unità, il ritmo dialettico rimane incastrato in “concetti astratti e quindi immobili, che sono affatto privi di ogni dialettismo, e di cui perciò non è dato intendere come possano, per se stessi, passare l’uno nell’altro e unificarsi nel reale continuo moto logico”. L’identità di pensiero ed essere è pensata come se si avesse a che fare con concetti astratti e quindi immobili, mentre il pensiero per Gentile non è qualcosa di oggettivato, di statico e cristallizzato, ma il pensiero è sempre pensare in atto, un movimento che si sta realizzando, è l’atto in atto del pensare. E’ sempre all’opera un pensiero pensante in atto di pensare. Il pensiero non si può mai oggettivare, non è mai compiuto, e non si può mai trascendere perché è la nostra stessa soggettività, “poiché nel definire come oggetto determinato di un nostro pensiero la nostra stessa attività pensante, dobbiamo sempre ricordare che la definizione è resa possibile dal rimanere la nostra attività pensante, non come oggetto, ma come soggetto della nostra stessa definizione, in qualunque modo noi si concepisca questo concetto della nostra attività pensante. la vera attività pensante non è quella che definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce”. “Per noi invece il vero pensiero non è il pensiero pensato, che Platone e tutta l’antica filosofia considerano per sé stante, presupposto del pensiero nostro che aspira ad adeguarvisi. Per noi il pensiero pensato suppone il pensiero pensante; e la vita e verità di quello sta nell’atto di questo. Il quale nella sua attuosità, che è divenire o svolgimento, pone bensì come suo proprio oggetto l’identico, ma appunto mercè il processo del suo svolgimento, che non è identità, cioè unità astratta, ma unità e molteplicità insieme, identità e differenza.” Il pensiero non è inerte e il pensato non esiste indipendentemente dall’atto in atto del pensare, perché la realtà è posta dal pensiero che pensa sempre in atto.

In questo senso è necessario riformare la dialettica hegeliana, che prende avvio dall’essere vuoto e indeterminato invece che dall’atto del pensiero. Dire essere è dire nulla: il puro essere è indeterminato e pensandolo, determinandolo come indeterminato, lo si pensa come nulla. Bisogna parlare del dasein non del sein, del divenire dell’essere come unità di essere e di non essere, cioè diviene l’essere che non è. “Ma, dice gentile, è stato osservato, se l’indeterminatezza assoluta dell’essere lo ragguaglia davvero al nulla, noi non abbiamo così quell’unità di essere e di non essere, in cui consiste il divenire: non c’è quella contraddizione tra essere e non essere  di cui parla Hegel e che genererebbe il concetto del divenire. (…) in tal caso l’essere come puro essere sarebbe estraneo al non essere come puro non essere, e non ci sarebbe quell’incontro e quell’urto dei due, da cui Hegel vede sprizzare la scintilla della vita. In conclusione siamo da una parte e dall’altra innanzi a due cose morte le quali non concorrono in un movimento”.

La realtà è sì un positum della coscienza, ma un positum del pensare sempre in atto, posta in essere dal pensiero pensante. Il pensato è posto dal pensiero stesso, non c’è un pensato se non c’è un pensare in atto perché è nell’atto del pensare che si pone la contrapposizione di soggetto e oggetto e la si supera. La molteplicità dei pensati è già sempre posta e risolta nell’unità del pensare in atto. Il principio e la forma della realtà in divenire è l’atto del pensiero pensante, che istituisce l’identità di soggetto e oggetto. Si configura dunque una dialettica dell’immediatezza e della staticità di contro ad una dialettica della processualità e del dinamismo.

“L’essere, che Hegel dovrebbe mostrare identico al non essere nel divenire, che solo è reale, non è l’essere che egli definisce come l’assoluto indeterminato; ma l’essere del pensiero che è soggetto del definire, e in generale pensa: ed è come vide Cartesio in quanto pensa, ossia non essendo (perché, se fosse, il pensiero non sarebbe quello che è, un atto), e perciò ponendosi, divenendo”. Dobbiamo dunque ora capire cose significa quel “non essendo”.

Dice gentile “chi dice soggetto dice insieme oggetto. Nella stessa autocoscienza il soggetto oppone sé come oggetto a sé come soggetto: e se nel soggetto è l’attività della coscienza, l’oggetto suo, nella stessa autocoscienza, gli si oppone come negazione della coscienza, ossia come realtà inconsapevole”. L’unità della coscienza istituisce e supera la contrapposizione del soggetto all’oggetto per riconoscersi in esso. Il logo astratto considera necessariamente pensiero ed ente separati, autonomi, irrelati, contrapposti, ma è lo stesso soggetto a porre questa contrapposizione. Per divenire cosciente di sé come io e per esercitare la propria libera attività creatrice l’io è necessitato a oggettivarsi a se stesso, cioè a porre la dualità per risolverla superandola nel pensare in atto: la coscienza deve cioè continuamente negarsi, farsi altro, e superare quella negazione, negare la propria negazione x affermarsi, divenire cosciente di sé come di colui che pone l’ente, divenire cosciente di essere il produttore del mondo. La coscienza dell’oggetto è la coscienza della propria produzione dell’oggetto: l’io è cosciente di essere lui colui che pone la cosa e nel porre la cosa altro da sé è cosciente di sé, riconoscendosi in essa. Ma nell’attualismo gentiliano l’oggetto è posto continuamente dal pensare pensante in atto: il soggetto per scoprirsi autoctico deve farsi oggetto a se stesso, l’io è cosciente di sé per contrasto con qualcosa che è non io. Solo negandosi e superando la negazione diviene cosciente di sé. “e sempre l’oggetto si contrappone al soggetto in guisa che, quantunque concepito come dipendente dalla stessa attività di questo, non gli sia dato partecipare alla vita ond’è animato il soggetto. Giacchè questo è attività, ricerca, movimento verso l’oggetto; e l’oggetto, sia che si consideri come oggetto di ricerca, sia che si consideri come oggetto di scoperta e di conoscenza attuale, è inerte, sta”. 

Ma il pensato con cui il soggetto, cioè il pensiero pensante, ha a che fare, che è chiamato da gentile fatto o natura, come risultato dell’attività spazializzatrice e temporalizzatrice del pensiero pensante, è continuamente superato nell’atto del pensare. Questo errore che è la natura, in quanto riconosciuto e pensato come errore è già di fatto superato. Lo spirito deve superare ogni volta le sue oggettivazioni. Dice Gentile:“intendere, anzi conoscere la realtà spirituale, è assimilarla a noi che la conosciamo. È una legge si può dire della conoscenza della realtà spirituale, che l’oggetto si risolva nel soggetto. Niente per noi ha valore di spirito, se non finisce con l’essere risoluto in noi che lo conosciamo”. L’oggetto è soggettività in quanto spirito, e lo spirito è nella misura in cui si concretizza, nel suo farsi risiede la concretezza. La distinzione tra spirito e fatto spirituale è fallace, perché è tutto spirito inteso come pura attività di creazione del mondo, attività sempre in atto, non si ferma mai. Per spiegare meglio questo concetto Gentile fa riferimento alla lingua e dice: “la verità è che la lingua, quando la si voglia conoscere in concreto, si presenta come lo svolgimento della lingua, ed è la lingua che suona sulla bocca degli uomini che la usano. La quale lingua non si stacca più dal soggetto, non è un fatto spirituale che si possa distinguere dallo spirito in cui avviene. Quest’atto spirituale che si chiama linguaggio, è appunto lo spirito nella sua concretezza(…) distinguiamo pure la divina commedia da dante che la scrisse e da noi che la leggiamo; ma avvertiamo poi che questa divina commedia, che così distinguiamo da noi, è da noi ed in noi, dentro la nostra mente, pensata come distinta da noi. È cioè essa stessa in noi, malgrado la distinzione: in noi in quanto la pensiamo. Sicchè non è nulla di estraneo a noi che la pensiamo”.

Dire fatto è come dire spirito, cioè “individualità concreta, storica: soggetto che non è pensato come tale ma attuato come tale. Lo spirito come soggetto è la realtà spirituale, la cui oggettività è posta dal soggetto che la pensa attualmente, si risolve nell’attività del soggetto, che ponendola continuamente la ri-supera: “la sua oggettività si risolve nell’attività reale del soggetto che la conosce”. L’io, lo spirito, è per sua essenza pura attività che agisce sulle proprie oggettivazioni, e per questo è puro, inoggettivabile, è in quanto si vien facendo. Lo spirito è auto-creazione di se e totalmente immanente a se stesso. Anche l'altro propriamente non esiste come altro, perché mediato dalla coscienza.

“Il mondo spirituale è concepibile soltanto come la realtà stessa della mia attività spirituale”. Questa proposizione, dice Gentile, non ha alcun senso se si guarda all’io empirico, perché quest’ultimo è contrapposto a tutte la cosa materiali e a tutti gli individui cui è assegnato valore spirituale. Il soggetto del pensare in atto non può essere l’io empirico, perché è un fatto, è natura, ed è quindi posto dal pensiero pensante come altro da sé come oggetto, non soggetto dello spirito. Il soggetto del pensiero pensante non può essere una sostanza ma è il processo creativo in cui consiste l’io trascendentale, che è tutto sempre da fare. Il soggetto del pensiero in atto coincide con l’atto stesso del pensare e il pensato non può esistere se non c’è un atto del pensiero pensante che lo pone come pensato.  “Affinchè si possa intendere la natura di questo stesso oggetto che risolve sempre ogni oggettività degli esseri spirituali, e non è possibile che si arresti dinnanzi a un essere spirituale diverso da sé, e non ha perciò dinanzi a sé se non se medesimo, bisogna prima di tutto considerare che questo soggetto unico e unificatore non è un essere o uno stato, ma un processo costruttivo”. La soggettività trascendentale è un’attività creatrice per cui verum et factum convertuntur, come disse Vico nel “De antiquissima italorum sapientia”, cioè il concetto della verità coincide con quello del fatto. La verità è un fare, è una sviluppo necessario che collega soggetto e oggetto in una fare che è anche conoscere: fare ed essere sono la stessa realtà, ma teoria e prassi sono sostanzialmente identici: il conoscere non è pura contemplazione passiva, ma pensiero in atto, prassi. L’idealismo non nega la realtà, ma la deduce dalla prassi: il soggetto liberamente pone l’oggetto. Ogni atto spirituale è sempre anche pratico e questa praticità si manifesta nella storia, “cioè una realtà che si realizzi con un processo che non sia vana dispersione di attività, ma creazione continua della realtà stessa, o incremento del suo essere”. La conoscenza è azione, prassi, attività in atto del soggetto che pensa, del pensiero pensante.  Ritornando all’esempio della lingua gentile afferma: “la lingua vera non è εργον(opus), ma ενεργεια: non è il risultato del processo linguistico, ma appunto questo processo, che è sviluppo in atto. Dunque, la lingua, qualunque essa sia, non si conosce, nel suo essere definitivo (che non ha mai), ma a grado a grado nel suo concreto svolgimento. E come la lingua, tutto che sia realtà spirituale; e che voi conoscerete sì, come s’è detto, risolvendolo nella vostra attività spirituale, ma a grado a grado instaurando quella medesimezza o unità, in cui la cognizione consiste(…) vero è che il fatto, con cui si converte il vero, essendo la stessa realtà spirituale che realizza (o che intende realizzando) se stessa, non è propriamente un fatto, ma un farsi. Sicchè piuttosto dovrebbe dirsi: verum et fieri convertuntur”, oppure come si dice in seguito verum est factum quatenus (qualora) fit. Il processo costitutivo tramite cui il soggetto risolve in sé l’oggetto è dinamico, mai concluso. “Il soggetto che risolve in sé l’oggetto, almeno quando questo oggetto è realtà spirituale, non è essere, né stato dell’essere: non è niente di immediato, come dicemmo, ma processo costruttivo. Processo costruttivo dell’oggetto in quanto processo costruttivo dello stesso soggetto(…) il soggetto è sempre soggetto di un oggetto, in quanto si costituisce soggetto del suo atto rispettivo”. Lo spirito non è mai essere, è sempre un farsi attuale, è essenzialmente uno svolgimento che si attua, è attualmente se stesso. Non esiste spirito fuori dal suo manifestarsi in svolgimento. Tutto è sempre da fare, nulla è mai staticamente concluso, fatto, la natura viene ad oltranza ri-superata, mediata dalla coscienza. Lo spirito è eterno divenire. “noi non conosciamo nessuno spirito che sia di là dalla sue manifestazioni, e consideriamo queste manifestazioni come la sua stessa interiore ed essenziale realizzazione”. Lo spirito si realizza dunque come coscienza di sé progressivamente, senza mai arrivare al traguardo, mai raggiunto ma raggiungibile.

Ogni determinazione dell’ente è solo in relazione alla totalità delle determinazioni che si concretizzano progressivamente, in cui consiste lo spirito nella sua attualità. “Ma, come la molteplicità è da subordinare e unificare nell’unità, così la determinatezza deve intendersi nella concretezza del sistema di tutte le determinazioni, che è la vita attuale dello spirito. Anche la menzionata verità, dell’equivalenza degli angoli interni d’un triangolo a due retti, soltanto per astrazione è un che di chiuso e per sé stante: in realtà si articola nel processo della geometria attraverso tutte le menti, in cui questa geometria nel mondo si attua”.

L’Io trascendentale è unitario, la sua è un’unità “immoltiplicabile e infinita”. Il pensiero non ha limiti: ogni oggetto conosciuto è un pensato ed è quindi interno alla coscienza, che di conseguenza non avendo oggetti che le si contrappongono in quanto ad essa interni, non ha limiti, non ha nulla contro cui arrestarsi: è cioè infinita, ed essendo essa tutto il pensiero, non può essere una parte della realtà che è la totalità pensata, ed è quindi unica. “La coscienza infatti non si pone se non come una sfera il cui raggio è infinito: e qualunque sforzo si faccia per pensare o immaginare altre cose o coscienze al di là della nostra coscienza, quelle cose e coscienze rimangono dentro di essa, per ciò appunto che sono poste da noi, sia pure come esterne a noi. Questo fuori è sempre dentro. Designa cioè un rapporto tra due termini, che esterni l’uno all’altro sono tuttavia interni entrambi alla coscienza. Niente c’è per noi, senza che noi ci se n’accorga, e cioè che si ammetta, comunque definito (esterno o interno), dentro alla sfera del nostro soggetto”. L’oggetto si risolve sempre nella coscienza. Già Spinoza riconosceva che la res è objectum mentis, contenuto della coscienza. “Movendoci col pensiero lungo tutto il pensabile, noi non troviamo mai né il margine del pensiero stesso, né l’altro che sia di là dal nostro pensiero, e innanzi a cui il nostro pensiero si arresti. Di guisa che lo spirito non solo è uno psicologicamente, in se stesso, ma è uno anche gnoseologicamente e metafisicamente considerato, non potendo riferirsi ad un oggetto che gli sia esterno, né potendo perciò concepirsi reale tra i reali, come una parte cola della realtà”.

Abbiamo detto che il soggetto oppone a sé come soggetto sé come oggetto, si nega, si fa altro: prescindere dalla sintesi che il soggetto imprime all’oggetto significa opporre al soggetto la molteplicità del reale: conoscere e creare sono sempre un determinare, cioè un distinguere. Il non io che l’ io si autoppone, per essere conosciuto e posto in essere deve essere determinato e sarà quindi molteplice: la molteplicità si risolve nell’unità che è originaria, a priori e senza di cui la molteplicità stessa non sarebbe, e l’unità a sua volta per riconoscersi come unità deve moltiplicarsi. L’io oppone a se un non io, si nega e quindi dà vita ad una molteplicità che è già da sempre unita nell’io. La molteplicità dell’oggetto si risolve perché è già da sempre risolta nel soggetto, che pone in essere l’oggetto opponendo a sé un non io e riconoscendo se stesso come fonte dell’opposizione, riconoscendosi così nell’opposto che dalla propria negazione deriva. Nel conoscere l’oggetto il soggetto si riconosce come il suo autore, supera l’alterità dell’oggetto che esso stesso ha posto per divenire cosciente di sé. “Ne consegue che all’unità realizzata dall’attività del soggetto si oppone nell’oggetto la molteplicità propria del reale, appena si prescinda dalla forma sintetica che gl’imprime il soggetto. La cose infatti nella loro oggettività, termine presupposto dall’attività teoretica dello spirito, sono molte: essenzialmente molte in guisa che una cosa sola non sia pensabile se non come risultante dalla composizione di molti elementi. Una cosa unica e infinita non sarebbe conoscibile; perché conoscere è distinguere una cosa da un’altra: omnis determinatio est negatio. E tutta la nostra esperienza si libra tra l’unità del suo centro, che è lo spirito, e la infinita molteplicità dei punti costituenti la sfera dei suoi oggetti(…) ma la molteplicità delle cose non sta accanto all’unità dell’Io; essa appartiene alle cose in quanto queste sono oggetto dell’Io, ossia in quanto tutte vengono raccolte nell’unità della coscienza. Le cose sono molte in quanto sono insieme, raccolte nell’unità della sintesi(che è a priori). Spezzata la sintesi, ognuna è soltanto se stessa, senza riferimento di sorta alle altre. (…) quindi in tanto c’è molteplicità, in quanto c’è sintesi di molteplicità e di unità. La molteplicità, per essere quella molteplicità che è propria dell’oggetto della coscienza, implica la risoluzione della molteplicità stessa; implica cioè l’unificazione di questa nel centro a cui tutti i raggi infiniti della sfera convergono.” La molteplicità viene riassorbita originariamente, aprioristicamente nell’unità, che è unità della realtà in quanto spirituale. Lo spirito, l’io trascendentale è svolgimento unitario. Il logo astratto concepisce unità e molteplicità irrelate e pone lo spirito o all’inizio o come risultato del processo, ma “la realtà si vien moltiplicando in diverse forme restando sempre una”, perché molteplicità e unità sono la stessa cosa, cioè lo svolgimento concreto della vita. Il logo concreto infatti è quello che “non lascia concepire l’unità se non attraverso la molteplicità, e viceversa: quello, che nella molteplicità mostra la realtà e la vita dell’unità. La quale, appunto perciò non è ma diviene, si forma: non è come abbiamo detto, una sostanza, un’entità fissa e definita, ma un processo costruttivo, uno svolgimento. La realtà è “infinita unificazione del molteplice, com’è infinita moltiplicazione dell’uno(…) lo svolgimento è moltiplicazione che è unificazione, ed è unificazione che è moltiplicazione”.

Il pensiero pensante è eternamente atto in atto, lo spirito è essenzialmente il suo farsi, il suo svolgimento che non giunge mai ad un risultato, ma è esattamente il processo che esso compie: è un’unimolteplicità, un’unità molteplice. Unità e molteplicità sono relati e si risolvono riguardandosi reciprocamente nell’atto del processo del farsi dello spirito. La sintesi non è mai risultato, ma continua rideterminazione. “ Esso né fu in principio né sarà alla fine, perché non è mai: diviene. Il suo essere consiste appunto nel suo divenire, che non può avere né un antecedente né un conseguente, senza cessar di divenire. Ora questa realtà che non è né fine né principio di un processo, ma, appunto, processo, non si può concepire come unità che non sia molteplicità: perché come tale non sarebbe svolgimento, cioè non sarebbe spirito. La molteplicità è necessaria alla stessa concretezza, alla stessa realtà dialettica dell’unità. E la sua infinità, che è l’attributo essenziale dell’unità, non è negata, anzi è confermata o per meglio dire si realizza attraverso la molteplicità: la quale ne è infatti il dispiegamento lungo il cammino in cui l’unità si attua”.