La guerra Considerazioni sui moti distruttivi umani e le loro conseguenze nelle dinamiche sociali.



Baumgarten e Shaftesbury

 

Di Andrea Pesce

Da tempo immemore l’uomo si interroga sul perché della guerra, sulle sue continue evoluzioni, sui motivi che conducono alla fine della discussione razionale per spostarsi verso i territori della violenza e del sangue. Secondo lo storico M. R. Davien tra il 1496 a. C. e il 1861 d. C. si sono avuti 227 anni di pace e 3357 anni di guerra. Soltanto in Europa si sono combattute negli ultimi tre secoli ben 286 guerre e dal 1820 al 1945, secondo calcoli molto attendibili, sono cadute in guerre o in altri conflitti ben 59 milioni di persone . Basterebbero questi dati per arrestare qui la nostra riflessione ed accettare senza commento la natura bellicosa ed aggressiva dell’essere umano. Malgrado la consapevolezza dell’errore che egli commette quando dà il via alle operazioni bellico-militari, sembra che egli non possa fare a meno di questo comportamento. Il precetto di von Clausewitz, secondo il quale la guerra non sarebbe altro che il proseguimento dell’azione politica con altri mezzi, appare, in moltissimi casi, come l’unica soluzione per porre rimedio ai problemi tra le nazioni. Sarebbe tuttavia ingiusto ed ipocrita non riconoscere alcune funzioni determinanti per la società umana proprie della guerra, e non commentare alcune delle dinamiche che questa spiacevole esperienza innesca nell’agire sociale. Si deve all’etologia, una disciplina relativamente recente che studia il comportamento animale, ponendolo in relazione con quello dell’uomo, l’avere considerato l’istinto un preciso meccanismo adattivo utile per la sopravvivenza e l’affermazione della specie. Lo scienziato austriaco Konrad Lorenz si servì di un’efficace metafora per spiegare il funzionamento dell’istinto. Prese come esempio una caldaia a vapore in cui l’energia accumulata deve ad un certo punto trovare una via d’uscita per far sì che la macchina non esploda. Nel comportamento umano è facile riscontrare comportamenti aggressivi che apparentemente sono dissociati dalla causa che li ha provocati. Quando il lavoratore stressato dal suo capo giunge a casa e litiga anche violentemente con la moglie perché la bistecca non è ben cotta, si è di fronte alla comunemente detta “valvola di sfogo”. In questo frequentissimo caso l’accumulo dell’energia non scaricata al momento opportuno (l’aver mandato al diavolo il proprio capo ufficio) trova una via d’uscita nella banale situazione della bistecca non cotta a dovere. Ben altri e più drammatici sono gli esiti delle scariche degli accumuli energetici che si verificano nei rapporti tra i vari stati, in cui i grandissimi interessi economici danno luogo a scontri che determinano la perdita di molte vite umane. Le scienze naturali hanno dimostrato che la competizione interspecifica, ovvero quella che si attua tra individui appartenenti alla stessa specie, molto raramente conduce alla morte di uno dei contendenti. I grandi mammiferi che popolano la terra, anche se dotati di armi micidiali, difficilmente infliggono ferite mortali al proprio simile; i meccanismi inibitori consentono la ritualizzazione del combattimento e fanno sì che il più forte vinca senza causare elevati danni al rivale. Diversa è la reazione che un individuo attua durante uno scontro con un animale di specie diversa dalla propria: la lotta si trasforma in combattimento per la sopravvivenza, dove il più forte primeggerà uccidendo o costringendo alla fuga l’avversario. L’uomo, oltre all’istinto, deve fare i conti con i condizionamenti culturali. Le suggestioni che fin da bambino l’essere umano subisce, inculcate manifestamente o meno sia dal sistema educativo diretto dallo stato, sia da tutti gli altri mezzi di diffusione ideologica, possono trasformare la nazionalità di un determinato individuo, in un valore talmente forte e inviolabile da essere difeso a prezzo della vita. Le costrizioni che il sistema sociale impone, agiscono nell’uomo sul piano simbolico, e provocano uno spostamento di significato di alcuni elementi concernenti l’area naturale ad altri di origine culturale, movimento tramite il quale i vari popoli, etnie, nazioni, a cui l’individuo non appartiene, vengono frequentemente considerati come possibili nemici, allo stesso modo in cui il comportamento animale tende ad approcciarsi per gli scontri intraspecifici. Ciò che determina il cortocircuito della ragione, nel momento in cui si accende l’aggressività umana, portata all’estremo nella guerra, è provocata dall’ibridazione tra i mondi “animale-istintuale” e “umano-razionale”, in cui si mescolano pulsioni ataviche, legate alla sopravvivenza, proprie del comportamento animale, con altre legate alla ragione, alla (in senso etimologico) logica, che dovrebbero invece caratterizzare la gestione politica, economica e diplomatica, al fine di evitare lo scontro diretto sul piano militare; dimenticando di essere tutti appartenenti alla stessa specie, gli esseri umani danno il privililegio al gruppo di appartenenza e alla sua difesa con ogni mezzo. Non meno rilevanti sono alcune problematiche politico-sociali che la guerra è riuscita ad innescare durante gli ultimi conflitti che, dietro la fasulla e bizzarra idea di combattere il terrorismo islamico, ultimo di una lunga serie di “nemici reali da uccidere” , in vero, queste guerre, hanno solo la funzione di rendere omologhi al modello occidentale, universi culturali totalmente diversi ed estranei ai nostri standard. L’imposizione violenta della democrazia in culture teocratiche come quella islamica, o anche la semplice volontà degli occidentali, che vogliono modificare, tramite i loro eserciti, stili di vita presenti da millenni in questi territori, ebbene questi casi, se interpretati alla luce dell’antropologia strutturale elaborata da Claude Lévi-Strauss (ma di questo i viaggiatori più acuti se ne erano accorti fin dal 1500 in seguito alle esplorazioni transoceaniche, di cui si ha testimonianza nei saggi di Montaigne a proposito dei cannibali), riassumibile nel concetto secondo cui l’organizzazione sociale è una struttura, che costituisce l’insieme delle parti di un sistema unite tra loro da relazioni reciproche, provocano gravi squilibri all’intero assetto sociale di un popolo, che non riesce a metabolizzare cambiamenti così rapidi, senza entrare in profonde crisi identitarie. Il fatto che queste operazioni militari, che si autodefiniscono “missioni di pace”, siano considerate come forze di occupazione da combattere e cacciare al più presto, dimostra che i tentativi di eliminazione brutale di alcuni aspetti delle altre culture, costumi sgraditi all’occidente, senza avere preventivamente dialogato con gli interessati, senza neanche un minimo di rispetto per il patrimonio culturale di queste comunità (si pensi alla selvaggia distruzione del museo archeologico di Baghdad, che doveva essere preservato dagli eserciti americano ed inglese, proprio da coloro che beffardamente hanno il minor interesse per la conservazione di tali preziosi reperti, tanto è grande la loro furia per la vendetta e immenso l’interesse economico per lo sfruttamento delle risorse pertrolifere presenti nel paese), è pura follia e continuerà ad essere fonte di disastri a livello planetario. Che la guerra sia un parente scomodo per gli esseri umani è dimostrato dal fatto che il progresso tecnologico ha favorito un progressivo distanziamento tra l’aggressore e l’aggredito. Spersonalizzando il conflitto, allontanandolo sempre più dalla dimensione corporea, del contatto fisico della lotta a mani nude o dei pugnali, la funzione dei meccanismi inibitori dell’aggressività si è praticamente dissolta. Oggi, il pilota di un caccia bombardiere o l’ufficiale addetto a premere il pulsante su una portaerei, gesto apparentemente innocuo che farà decollare un missile a lunga gittata, non si fanno praticamente nessuno scrupolo nel valutare le conseguenze delle loro azioni: non vi è nessuna “etica delle responsabilità” (ennesima ulteriore conferma della “banalità del male”) in questi comportamenti perché, provocare la morte senza conoscere la vittima, è assai più facile che in un contatto ravvicinato. Il nostro immaginario si è abituato a considerare lo svolgersi di un combattimento a mani nude tra due uomini come (nella stragrande maggioranza dei casi) ci è mostrato dalla finzione cinematografica: nessuna tumefazione, nessuna goccia di sangue, colpi eleganti che, nel giro di pochi secondi, decretano la fine dello scontro e la vittoria dell’eroe di turno che tranquillamente torna alle normali attività di sempre. Niente di più falso. Basta avere un po’ di familiarità e passione per sport come il pugilato o la lotta greco-romana, per sapere che un colpo anche molto debole, specie se non si indossano protezioni per le mani, può danneggiare seriamente occhi e arcate sopracigliari, può far uscire una buona quantità di sangue dal naso e, in molti casi, i due avversari finiscono la loro zuffa avvinghiati a terra, privi di energia, senza avere chiarito nulla di ciò che li ha condotti alla rissa. La ricerca di questo distanziamento fisico tra le parti in lotta ha fatto sì che la tecnologia entrasse sempre più prepotentemente in ambito bellico e raggiungesse il suo culmine nella seconda guerra mondiale con la bomba atomica. Quest’arma ha costituito un vero mutamento di paradigma della concezione bellica che, dopo Hiroshima e Nagasaki, è divenuta non più appartenente solo all’individuale ed all’esperienza del soggetto chiamato alle armi, ma tragedia legata al collettivo, conflitto esteso all’intero pianeta. Con questo evento si è scardinata l’intera struttura mitologica e valoriale legata alla battaglia. A tal proposito si pensi che tra l’VIII e il X secolo si formò in Europa un gruppo di “professionisti della guerra”, staccato dal resto della società ai quali, dopo aver assegnato della terra, veniva richiesto di partecipare alle azioni militari quando necessitava. La figura che era nata è quella del Cavaliere, un uomo addestrato alla guerra per il quale la battaglia e le armi rappresentavano un prestigio e un onore. E’ proprio in questo periodo che si introduce la distinzione tra oratores, laboratores e appunto i bellatores, gli unici individui totalmente coinvolti dalle azioni miltari. La classe produttiva dell’epoca, cioè i contadini, non subivano praticamente le conseguenze della guerra, tranne che in rarissimi casi in cui il campo di battaglia coincideva con quello del lavoro. A differenza di epoche passate, come ad esempio quella feudale, in cui solo i nobili e i possidenti terrieri erano abilitati alla difesa del territorio, e combattevano affinchè i loro sudditi potessero continuare a vivere e lavorare, con l’epoca moderna si assiste ad una progressiva proletarizzazione della guerra, principio di cui troviamo traccia nella Rivoluzione americana (1776-1783) secondo cui “tutti i cittadini debbono essere soldati, e tutti i soldati cittadini” e nella Francia rivoluzionaria (1789-1794), quando il Direttorio il 23 agosto 1793 decretò la prima leva di massa e introdusse la coscrizione obbligatoria. Da questo momento saranno i poveri ad andare a combattere, impugnando le armi affinchè le classi più agiate possano mantenere la loro posizione di privilegio. Eppure, come osserva lo scrittore e giornalista Massimo Fini: “La guerra […] è evasione dal frustrante tran tran quotidiano, dalla noia, dal senso di inutilità e di vuoto che afferra molti di coloro che vivono nelle società opulente. E’ avventura. Evoca e rafforza la solidarietà di gruppo. Ci si sente, e si è, meno soli in guerra. Attenua le differenze di classe, economiche, di status, che perdono importanza. Si è più uguali in guerra” . Aggiungiamo, a queste considerazioni, che la scossa adrenalinica che un individuo può provare in combattimento, diventa ricordo indelebile e tema ricorrente nei discorsi dei reduci che, come ben sanno tutti coloro che hanno genitori o nonni ex combattenti, non perdono occasione per narrare episodi cruenti della loro esperienza militare. Con l’avvento della bomba atomica e di tutte le altre armi iper-tecnologiche, il senso dell’atto individuale ha perso la sua ragion d’essere. Il soldato impegnato nelle operazioni militari inconsciamente sa che il suo gesto potrebbe essere inutile, dal momento che lo sgancio di una sola di queste armi nucleari può modificare l’intero corso della storia. L’atto eroico si svilisce in favore di un meccanismo burocratico assolutamente impersonale, deciso a migliaia di chilometri dal campo di battaglia e ordinato da persone quasi estranee all’evento bellico. Lo stesso ragionamento non è applicabile alla figura del kamikaze, un singolare tipo di combattente tornato alla ribalta soprattutto dopo l’11 settembre, diventato il vero incubo dell’occidente per i suoi attacchi suicidi. Kamikaze è parola di origine giapponese che significa vento (kami) divino (kaze), ed era un pilota dell’aereonautica nipponica che, durante la seconda guerra mondiale, conduceva il suo velivolo carico di esplosivo contro gli obiettivi nemici. L’aspetto etimologico che riguarda queste azioni, è tornato attuale con gli attentati terroristici islamici (non a caso il mezzo di trasporto da distruggere più ricercato e che genera più terrore nelle vittime è proprio l’aereoplano), in cui la morte dell’attentatore è considerata un gesto fortemente connotato di sacralità, che lega, chi si immola contro l’occidente e i suoi simboli, direttamente con Dio, colui che, secondo l’islamismo, crea senza mediazioni le azioni degli uomini: si muore solo e unicamente per volere di Dio. Questo atteggiamento risulta essere determinante nello scontro tra le due civiltà oggi in atto. Come ha osservato Jean Baudrillard: “I terroristi sono riusciti a fare della loro stessa morte un’arma assoluta contro un sistema che vive dell’esclusione della morte, che ha eretto a ideale l’azzeramento della morte, lo zero-morte. Ogni sistema a zero-morte è un sistema a somma zero”. Interessante è una frase che il sociologo francese riporta come diretta testimonianza di quello che lui definisce lo spirito del terrorismo: “I bombardamenti americani non servono a nulla! I nostri uomini hanno tanta voglia di morire quanta gli americani di vivere!” , affermazione che dimostra l’assoluta disconnessione dei piani simbolici nella valutazione dell’evento morte, atteggiamento che rende davvero difficile sperare in una rapida risoluzione delle ostilità. Terminiamo questo breve saggio con una domanda della quale conosciamo gìà sia la risposta, sia le reazioni di ilarità che essa provocherà nei lettori. E’ possibile che la guerra scompaia dal comportamento umano, che tutte le armi presenti sulla terra vengano definitivamente distrutte? La bellicosità dell’uomo è considerata talmente innata, sedimentata ormai nel patrimonio genetico di tutti noi, che un tale quesito suscita quasi un moto di fastidio o, ancor di più, viene interpretato come motto di spirito, come battuta ironica utilizzata per concludere una discussione noiosa. Ma è proprio dal riso, da questo straordinario modo di comunicare tipico dell’uomo, che possiamo sperare in una rivoluzione comportamentale anche per gli aspetti bellicosi degli esseri umani. Elias Canetti ebbe a scrivere che: “Si ride invece di divorare” , per sottolineare il fatto che in passato, per i nostri progenitori, il mostrare i denti rappresentava un atteggiamento aggressivo, la minaccia di un possibile sbranamento rivolto al nemico. Col tempo, questa intimidazione, si è trasformata nella massima espressione di apertura e rassicurazione verso i nostri simili, trasmettendo loro che nulla di malvagio e violento è contenuto nelle nostre intenzioni. Chissà se in futuro, ciò che oggi si tenta di risolvere con le bombe, non verrà chiarito in modo indolore, analogamente alla metamorfosi di senso che ha caratterizzato il ridere umano?

 

 

 


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