HEGEL E LA RIVOLUZIONE FRANCESE

 


A cura di Alessandro Sangalli

 



 

INTRODUZIONE

Breve storia del dibattito politico su Hegel

 

Nel 1844, tredici anni dopo la morte di Hegel, Karl Rosenkranz pubblica la biografia del filosofo, un’opera in cui tratta anche degli scritti del periodo giovanile: nel corso di tutto l’Ottocento questi scritti vengono però lasciati da parte e si studia prevalentemente lo Hegel maturo del sistema. La svolta più importante negli studi hegeliani nel Novecento è costituita dalla pubblicazione, a breve distanza, di Storia della giovinezza hegeliana (1905) di Wilhelm Dilthey e dell’edizione degli Scritti teologici giovanili di Hegel curata da Herman Nohl (1907). Dilthey e il suo discepolo Nohl pongono la questione di studiare storicamente il filosofo, affermando che il tempo della lotta contro Hegel è ormai concluso. Gli scritti pubblicati prima di queste date si riferiscono quindi necessariamente allo Hegel rigido della maturità e ignorano di fatto il primo trentennio della vita del filosofo, un periodo molto importante per la formazione del suo pensiero: alla luce del fermento di idee, di aspirazioni e di speranze anche rivoluzionarie che animava Hegel a Tubinga, sono infatti nate nuove letture ed interpretazioni del pensiero politico hegeliano.

L’opinione forse ancor oggi più diffusa è però quella che risale al lavoro di Rudolph Haym Hegel e il suo tempo (1857): in quest’opera egli accusa Hegel di essere stato il dittatore filosofico della Germania e definisce il suo pensiero <<dimora speculativa della restaurazione prussiana[1]>>. In definitiva la filosofia hegeliana è ridotta a una sorta di giustificazione dello Stato prussiano, in quanto divinizza la potenza dello Stato contrapponendola alla libertà dell’individuo. Questa lettura, nonostante avesse suscitato la risposta polemica di Karl Rosenkranz già nel 1870, ha consegnato alla tradizione l’immagine di uno Hegel autoritario e antidemocratico, un’immagine sfociata nella critica di “profeta del totalitarismo” rivolta al filosofo da Karl Popper. Nello scritto La società aperta e i suoi nemici (1945) egli sostiene che le teorie hegeliane avrebbero lasciato in eredità alle dittature del Novecento alcune forme mentali atte a giustificarne la politica, andando a costituire un “arsenale teorico” che i regimi totalitari avrebbero ampiamente sfruttato. Popper è molto duro nei suoi giudizi: la filosofia di Hegel costituirebbe il collegamento tra il fascismo platonico e quello moderno, e la tesi dell’identità di razionale e reale equivarrebbe ad affermare che “la ragione è del più forte”. L’interpretazione popperiana è forse un po’ eccessiva, ma d’altra parte non si può negare come il totalitarismo abbia <<desunto le armi concettuali per la propria autolegittimazione in larga misura da Hegel; e se è vero che questo è stato un abuso, resta però vero che Hegel fornisce effettivamente un ampio materiale disponibile a tale abuso[2]>>.

La communis opinio sopra esposta è stata però duramente contestata da Erich Weil: in Hegel e lo Stato (1950) egli affronta tutte le accuse tradizionalmente mosse al filosofo, rifiutando nettamente l’accostamento delle teorie hegeliane a quelle del romanticismo reazionario. Weil osserva che la Prussia dell’inizio del XIX secolo, della quale Haym considera il pensiero di Hegel un’evidente apologia, nonostante non fosse uno Stato democratico, era comunque una realtà politica dotata di ordinamenti molto più avanzati di quelli della Francia della Restaurazione o dell’Inghilterra prima del Reform Bill (1832): la Prussia era infatti uscita frantumata dalle guerre napoleoniche e nella ricostruzione il governo decise radicali riforme, come la rimozione della maggior parte dei privilegi nobiliari e l’abolizione del lavoro servile.

Accanto a Weil, sulla scia del rifiuto di uno Hegel conservatore e autoritario, si devono citare: Herbert Marcuse, che in Ragione e rivoluzione (1941) si dedica a confutare l’opinione secondo la quale lo Stato hegeliano sarebbe alla base di quello dittatoriale e totalitario, insistendo sul fatto che in Hegel l’esaltazione dello Stato è comunque condizionata dal fatto che esso sia razionale e realizzi, non opprima, l’individuo; Joachim Ritter, che in Hegel e la rivoluzione francese (1957) interpreta la filosofia politica hegeliana in chiave “progressista”, associandola più alla rivoluzione francese che non alla Restaurazione; György Lukács, che nel suo libro Il giovane Hegel e il problema della società capitalistica (1948) connette direttamente la dialettica hegeliana ai problemi della società industriale inglese, alla rivoluzione francese e, più in generale, a tutti gli sviluppi della società capitalistica, facendo del filosofo di Stoccarda quasi “un Marx mancato” a causa della realtà sociale troppo arretrata in cui era vissuto.

L’avvicinamento della figura di Hegel al concetto di rivoluzione è un fatto che ha illustri precedenti. Per Michail Bakunin, teorico vicino a idee anarchiche, Hegel con la sua logica della contraddizione ha espresso la contraddittorietà del suo tempo, aprendo la strada all’azione negatrice e rivoluzionaria dell’uomo. Anche Marx, nei suoi Manoscritti economico-filosofici (scritti nel 1844, ma pubblicati a Mosca nel 1932), rivolge una grande attenzione a Hegel, trovando nella Fenomenologia un’interpretazione idealistica del processo di autocostruzione dell’uomo nella Storia attraverso il lavoro, tramite un rapporto di alienazione e di superamento dell’alienazione. In seguito l’accento della dialettica si sarebbe spostato con Marx dall’aspetto logico-metodologico a quello storico ed umano. Da segnalare, infine, l’interpretazione della Scienza della logica che troviamo nei Quaderni filosofici (1914-15) di Lenin: secondo quest’ultimo Hegel ha il merito di aver mostrato l’universalità e l’oggettività dei processi di contraddizione, anche se la posizione del filosofo rimane ancorata al piano idealistico, mentre per Lenin andrebbe sviluppata su un piano storico-pratico.

Vista l’evidente opposizione tra questi due principali filoni interpretativi, lo scopo di questo lavoro è verificare quanto effettivamente vicine siano le idee di Hegel agli ideali rivoluzionari, in particolare a quelli dell’Illuminismo e della rivoluzione francese, ed analizzare la posizione e l’atteggiamento del filosofo nei confronti di questo grande evento storico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


HEGEL E IL GIUSNATURALISMO

 

Nella loro opera riformatrice e rivoluzionaria gli illuministi intesero la politica non più come tecnica di dominio, ma come strumento al servizio dell’uomo e dei suoi diritti naturali di base. La proclamazione dei “diritti dell’uomo” fu accompagnata dallo sforzo di rendere questi diritti operanti nella realtà storica del tempo, attraverso un processo che ebbe il suo sbocco nella rivoluzione del 1789. Il concetto di diritti naturali non era certo una novità, perché gli illuministi la derivarono dalla tradizione del giusnaturalismo, corrente che ebbe ulteriori sviluppi in età moderna con Hobbes, Locke e proprio in quegli anni con Rousseau.  

Come si può conciliare Hegel con le tesi del giusnaturalismo? L’idea di diritti naturali esistenti prima e oltre lo Stato è per definizione antihegeliana, perché <<soltanto la società è la condizione in cui il diritto ha la sua realtà>> (Enc., § 502). Tuttavia già il primo giusnaturalismo, nato tra Cinquecento e Seicento, si sviluppò da un presupposto dal forte sapore hegeliano: l’identità del diritto naturale con le esigenze della struttura razionale della comunità. Uno dei maggiori esponenti di questa corrente, l’olandese Hugo Grozio, assunse come punto di partenza dell’opera De iure belli ac pacis l’identificazione di ciò che è naturale con ciò che è razionale, e anche qui le somiglianze sono evidenti. Se a questo aggiungiamo che il giovane Hegel, nel periodo dello Stift di Tubinga, lesse con passione il progetto di rivoluzione culturale e politica dell’Emilio e del Contratto sociale di Rousseau[3], ecco che abbiamo trovato qualcosa di più di un tratto comune tra la filosofia hegeliana e il giusnaturalismo.

Norberto Bobbio ha legato ancor più strettamente gli elementi di queste due dottrine, definendo la filosofia del diritto di Hegel dissoluzione e compimento della tradizione giusnaturalistica[4]: con “dissoluzione” intende dire che Hegel rifiuta e critica le categorie fondamentali in base alle quali i giusnaturalisti avevano elaborato la teoria generale del diritto e dello Stato, con “compimento” vuole indicare il fatto che Hegel, pur costruendosi nuovi strumenti, tenda alla stessa meta finale.

Per quanto riguarda il primo momento, quello della dissoluzione, le critiche di Hegel alla teoria del diritto naturale si possono riassumere in quattro punti:

1.    Per i giusnaturalisti il singolo e l’individuo vengono prima del Tutto, lo Stato è costruito a partire dal singolo[5]. Per Hegel è vero esattamente l’opposto, cioè il Tutto non solo viene prima delle parti, ma è anche superiore alle parti di cui è composto: lo Stato non è un agglomerato atomistico, ma una <<sostanza etica consapevole di sé>> (Enc., § 535).[6]

2.    Hegel rifiuta la teoria del contrattualismo per la sua inconsistenza razionale: la volontà universale non può essere costituita dalle singole volontà particolari. In questo modo la costituzione sarebbe solo un accordo arbitrario tra volontà singole, e non l’espressione della razionalità universale e del Volksgeist.

3.    Critica la concezione dello stato di natura: per i teorici del diritto naturale questo era lo stato immaginario di innocenza primitivo, punto di partenza ipotetico per arrivare allo stato civile in atto; per Hegel è lo stato reale di guerra e violenza che si verifica là dove non esiste lo Stato. Lo stato di natura è per Hegel l’antitesi dello stato civile, è l’assenza di ogni forma di società.

4.    Secondo i giusnaturalisti esisteva un diritto naturale diverso e superiore rispetto al diritto positivo, quindi ha senso affermare che una legge non è legge se non è giusta, cioè razionale e conforme alla natura. In Hegel sparisce la differenza fra queste due forme di diritto ed è perciò lecito dire che una legge è giusta solo per il fatto di essere legge, in quanto la realtà è espressione della razionalità. Hobbes aveva affermato che <<l’autorità, non la sapienza, crea la legge[7]>>, Hegel aggiunge che l’autorità fa la legge perché è essa stessa sapienza, in quanto realtà razionale.

Dove si attua allora il compimento della tradizione giusnaturalistica? Bobbio, dopo aver dimostrato come Hegel si opponga a tutte le teorie fondamentali del diritto naturale, afferma che il filosofo riesce a raggiungere lo stesso risultato che si prefiggevano i giusnaturalisti proprio perché si è liberato di questi concetti inutili e inadeguati. Nella Prefazione alla Filosofia del diritto Hegel scrive infatti di voler intendere lo Stato come “cosa razionale in sé”: egli descrive lo Stato non come deve essere ma com’è, perché esso nella sua realtà è già razionale. A differenza dei suoi predecessori Hegel non sente più il processo di razionalizzazione come un’esigenza o un ideale, ma come una realtà. Il problema fondamentale resta la giustificazione razionale dello Stato, ma ciò che per i giusnaturalisti era un programma per il futuro, per Hegel diventa un riconoscimento del presente.

Inoltre lo studioso italiano ritrova ancora vive nel pensiero di Hegel due delle categorie che erano state oggetto di critica, in particolare quella dello stato di natura e quella del contrattualismo. La prima ricompare alla fine del processo, quando il filosofo sostiene l’inesistenza di un diritto internazionale che regoli i rapporti tra i diversi Stati e che possa risolvere i conflitti. Il solo e unico giudice è in questi casi lo Spirito universale, cioè la Storia, il tribunale del mondo: di conseguenza la guerra ha un carattere inevitabile e necessario. Questa concezione ricorda quella dello stato di natura originario descritto da Hobbes, definito come bellum omnium contra omnes, con la differenza che in Hegel non è al principio ma alla fine del processo[8]. La seconda categoria mostra ancora una volta l’influenza di Rousseau nella filosofia hegeliana, in quanto nel filosofo di Stoccarda scompare solo l’espediente del contratto sociale, ma non il risultato. Entrambi i pensatori vogliono infatti attuare nello Stato il regno della libertà come autonomia, e con la teoria del contratto Rousseau poteva definire questa libertà come <<l’obbedienza alla legge che ciascuno si è prescritta[9]>>. Anche Hegel intende la libertà come obbedienza alla legge, ma ricordando che una legge non è altro che l’espressione dello Stato considerato come il razionale in sé e per sé, si può concludere che anch’egli riesca a realizzare la libertà come autonomia, seppur in un altro modo. A tal proposito Bobbio conclude che il contrattualismo <<scompare, sì, ma lasciando una traccia talmente profonda da far refluire la soluzione hegeliana, nella sua sostanza se non nella forma, in quella dell’autore del Contratto Sociale[10]>>.

Collocato il suo pensiero nella corrente del diritto naturale ed evidenziati i suoi rapporti con Rousseau, fondamentale pensatore illuminista, Hegel può essere letto sotto una nuova luce. Una volta liberata la sua figura dai vecchi pregiudizi possiamo infatti analizzare meglio il suo atteggiamento nei confronti di un fatto storico a lui contemporaneo: la rivoluzione francese. 

 

 

 HEGEL E LA RIVOLUZIONE FRANCESE

 

Nel saggio intitolato Hegel e la rivoluzione francese Joachim Ritter scrive che <<non esiste nessun’altra filosofia che come quella di Hegel sia altrettanto, e fin dentro i suoi più intimi impulsi, filosofia della rivoluzione[11]>>. Tramite una breve analisi cerchiamo di capire su che cosa si fondi questa sua interpretazione.

Per iniziare, non c’è dubbio che la rivoluzione francese come fatto storico eserciti una notevole influenza su Hegel: il filosofo infatti, essendo nato nel 1770 e morto nel 1831, può seguire l’evento dalla sua nascita fino al suo fallimento e alla sua degenerazione. Il suo atteggiamento può così essere distinto in due fasi, una di entusiasmo e una di delusione. La fase di entusiasmo e di partecipazione coincide con il periodo di Tubinga (1788-1793), dove il giovane Hegel condivide il suo ardore per i fatti di Parigi con gli amici Hölderlin e Schelling, e dove insieme auspicano anche una rivoluzione in Germania, in connessione con la rivoluzione filosofica attuata dal criticismo di Kant. La seconda fase coincide con l’esperienza del Terrore in Francia e vede nascere le prime critiche alla rivoluzione: Hegel sostiene infatti che essa non ha saputo portare a soluzioni politiche durevoli né ad alcuna salda organizzazione. Questo, tuttavia, non basta a fare del filosofo un avversario della rivoluzione, perché anche nella critica egli mantiene inalterata l’idea di necessità e ineluttabilità dell’evento, necessità che sta nella contraddizione tra il nuovo sentimento di libertà e le vecchie istituzioni: la rivoluzione ha distrutto ciò che in realtà era già distrutto in sé, in quanto vecchio, superato, contraddittorio (ancien régime). Il problema posto e non risolto per mezzo di essa è proprio l’attuazione politica della libertà.

Libertà è, per Hegel, la condizione in cui l’uomo può sviluppare la sua umanità, in cui può essere se stesso e condurre una vita umana, in cui egli ha in sé il suo essere e non in un altro uomo[12]. In questo riprende la definizione classica che ha dato Aristotele nella Metafisica: <<È uomo libero chi ha il fine in sé e non in altro[13]>>. Il problema sollevato dalla rivoluzione francese consiste quindi nel trovare la “forma giuridica” della libertà, e cioè nel cercare un ordinamento giuridico e politico che sia conforme alla nuova idea di libertà e che renda possibile al singolo di essere se stesso e di giungere alla sua determinazione umana. Hegel in tal modo sottolinea l’importanza della svolta storica che si compie attraverso la rivoluzione, una svolta storico-cosmica che porta con sé l’emancipazione da tutti gli ordinamenti politici precedenti: per la prima volta infatti la libertà politica è innalzata a principio e scopo della società e dello Stato, per la prima volta l’uomo diventa soggetto dell’ordinamento politico perché è uomo, e non perché è giudeo, cattolico, protestante, tedesco, italiano. Nel pensiero hegeliano la rivoluzione è un momento fondamentale, che spezza la continuità storica e istituisce una scissione, una discontinuità, un’impossibilità di ritornare al passato, a ciò che esisteva prima: scrive Ritter che <<ogni ordinamento giuridico e statale presente e futuro deve muovere dall’universale principio di libertà della rivoluzione e presupporlo[14]>>.

L’idea rivoluzionaria di libertà di tutti è fondata sull’avvento della moderna società civile, perché solo in essa l’uomo vale in quanto uomo. Il concetto di società civile è il punto centrale della Filosofia del diritto, è un problema che determina tutto e che non può passare sotto silenzio. Il senso storico-universale della rivoluzione consiste per Hegel nell’idea che la libertà è un diritto di tutti gli uomini,  ma essa può diventare davvero di tutti solo nella società civile, dove si abbattono le differenze tra gli uomini.

In definitiva si può dire che Ritter sottolinei il ruolo centrale che la rivoluzione francese avrebbe esercitato sulla formazione intellettuale di Hegel, anche se il filosofo, dopo un iniziale entusiasmo, avrebbe avuto, nei sui confronti, una posizione “ambivalente”, non tale, comunque, da portarlo (nemmeno negli anni di Berlino) a sostenere o parteggiare per la Restaurazione. Anzi, <<il giovanile entusiasmo per la rivoluzione presente, in Hegel, all’inizio del suo itinerario filosofico, penetra nella sua stessa filosofia e continua a operare in modo vitale nella maturità[15]>>.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Testi da cui sono tratte le citazioni utilizzate nel presente lavoro

 

N. Abbagnano - G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, Milano 1999

Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2003

Aristotele, Politica, a cura di R. Laurenti, Laterza, Bari 1973

N. Bobbio, Studi hegeliani, Einaudi, Torino 1981

G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Calogero – C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1973

G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1996

G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Bari 1996

T. Hobbes, Opere politiche, Utet, Torino 1988

J. Ritter, Hegel e la rivoluzione francese, Guida Editori, Napoli 1970

J.J. Rousseau, Il contratto sociale, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1994

V. Verra, Introduzione a Hegel, Laterza, Bari 1988

 

 

 

 

 

  

 

 



[1] R. Haym, Hegel und seine zeit, Berlino 1857.

[2] Abbagnano-Fornero Protagonisti e testi della filosofia, Vol. C, Paravia, Milano 1999, p. 177.

[3] Il rapporto con Rousseau è stato sottolineato da F. Rosenzweig in Hegel e lo Stato (1920): in questo scritto vengono evidenziate le influenze democratiche che l’illuminista francese ha esercitato su Hegel.

[4] Cfr. N. Bobbio, Studi hegeliani, Einaudi, Torino 1981.

[5] Per i giusnaturalisti il populus e la civitas sono enti artificiali creati dal pactum unionis: Pufendorf li chiama entia moralia, Rousseau designa lo Stato come corps artificiel o être moral.

[6] Hegel recupera in sostanza la definizione classica di Aristotele, per il quale <<per natura lo stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto deve essere necessariamente anteriore alla parte>> (Pol. I,2; 1253a).

[7] T. Hobbes, Opere politiche, Utet, Torino 1988, Vol. I.

[8] Nei Lineamenti di filosofia del diritto  troviamo scritto: “Poiché il rapporto tra gli Stati ha per principio la loro sovranità, essi sono pertanto nello stato di natura gli uni di fronte agli altri” (§ 333).

[9] J.J.Rousseau, Il contratto sociale, I, 8, Einaudi, Torino 1994.

[10] N. Bobbio, Op. cit. p. 26.

[11] J. Ritter, Hegel e la rivoluzione francese, Guida Editori, Napoli 1970, p. 26.

[12] Scrive Hegel: “L’essere-presso-se-stesso è la libertà […] libero sono solo quando sono presso me stesso” da Lezioni sulla filosofia della storia, (a cura di G. Calogero – C. Fatta), La Nuova Italia, Firenze 1973, Vol. I.  

[13] Aristotele, Met., I, 2; 982 b. 

[14] J. Ritter, Op. cit., p. 34.     

[15] J. Ritter, Op. cit., p. 40.

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