Nietzsche e Hegel: morte di Dio e volontà di potenza.

 

Di Valentina Cordero

 

 

Sarebbe erroneo parlare di Così parlò Zarathustra  come di un libro, esso deve essere inteso come un “ evento “ ( come sostiene lo stesso Nietzsche ) che avrebbe portato ad una rottura della storia dell’umanità per la portata dei suoi contenuti. Non solo, l’opera sottolinea di per sé una rivoluzione stilistica negli scritti di Nietzsche. Essa, infatti, non ha la forma del saggio, del trattato e della raccolta di aforismi, bensì è una specie di lungo poema in prosa, e il suo modello più evidente è il nuovo Testamento ( con la tipica struttura in versetti ).

L’intento che si vuole avere in questo lavoro non è una descrizione dell’opera, ma prendere in considerazione due concetti fondamentali e porli in relazione con Hegel : la morte di Dio e la volontà di potenza.

Partiamo dalla morte di Dio che costituisce uno dei motivi filosoficamente centrali del suo pensiero. E’ necessario però prima di vedere che cosa significa questa espressione, fare un passo ulteriore, che consiste nel considerare che cosa rappresenta e sta ad indicare Dio stesso per il filosofo. Come prima cosa esso è il simbolo di ogni prospettiva oltre-mondana, ultraterrena e poi è la personificazione di tutte le certezze dell’umanità, la sintesi di tutte le illusioni e delle credenze metafisiche e religiose elaborate attraverso i millenni per dare un senso e un ordine rassicurante alla vita. Dunque, la concezione di un universo ordinato e retto da un Dio provvidente è soltanto una costruzione della nostra mente per potere sopportare l’esistenza. Di fronte ad una realtà che, secondo Nietzsche, risulta contraddittoria e disarmonica, gli uomini hanno convinto loro stessi e i loro figli che il mondo è qualcosa di razionale e di provvidenziale. Da questo sono, quindi, scaturite le metafisiche e le religioni, protese ad esercitare degli esorcismi protettivi nei confronti di un universo che danza sui piedi del caos. Giunti a questo punto, che cosa si rivela essere necessario per Nietzsche ? Il processo di liberazione dall’errore può giungere a compimento solo mediante l’ateismo assoluto. Con questo non si deve però intendere di dimostrare che Dio non esiste, ma di prendere atto del declino delle fede in Dio. L’idea di Dio da dove è scaturita ? Si afferma nell’accezione comune che Dio ama gli uomini perché li ha creati, invece, è l’uomo che crea Dio e perciò lo ama. Ogni creatore ama la sua creatura. Ed è proprio questo che si propone di fare Zarathustra : annunciare che “ Dio è morto “, in quanto, è colui “ senza Dio “ che ha saputo acquistare una nuova leggerezza, che può danzare e rovesciare le vecchie tavole di valori. Dietro tutto ciò si cela anche una forte critica alla metafisica, perché in quanto

 

 « bisogno di riferimento a nozioni ultime, insomma mettono il soggetto in possesso della situazione, si riporta a questa originaria ricerca di sicurezza »[1].

 

L’uomo saggio deve, dunque, opporsi all’uomo metafisico, ed è questo che Nietzsche vuole mettere in luce attraverso la figura di Zarathustra. E’ innegabile il fatto che nella morte di Dio il filosofo intende liquidare la metafisica platonica che si è irrigidita nel platonismo volgare, nel neoplatonismo e che, in qualche modo si è perpetuata nella gnosi e nella teologia cristiana, e secondo la quale a un mondo terreno, che è costituito da enti ontologicamente depotenziati, si contrappone il mondo soprasensibile come dimensione dell’essere pieno e assoluto.

 

« Le parole “ Dio è morto “ significano : il mondo soprasensibile è privo di forza efficace. Non dispensa vita. La metafisica, vale a dire, la filosofia occidentale intesa come platonismo, è al suo termine »[2].

 

Dunque, l’insicurezza originaria dell’uomo del mondo socratico si trova ad avere messo in opera una serie di apparati pratico-concettuali che alla fine conducono però alla cattiva coscienza come modo di essere dell’uomo permanente che ad esso si affida. A questo proposito, si può fare riferimento alla Prefazione di Zarathustra, in cui si narra che egli scese dalla montagna e come prima cosa vide un vegliardo nel bosco che, alla domanda su che cosa stesse facendo, rispose di fare canzoni per rendere lode a Dio. Ma, una volta giunto nella città, vide raccolta presso il mercato una gran folla e allora disse :

 

« Finora gli esseri hanno cercato qualcosa al di sopra di sé : e voi volete essere il riflesso di questa grande marea e regredire alla bestia piuttosto che superare l’uomo ? […] Vi scongiuro, fratelli miei, rimanete fedeli alla terra e non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene ! Si tratta di avvelenatori, che lo sappiano o meno. […] Un tempo il peccato contro Dio era il peccato più grande, ma Dio è morto e quindi sono scomparsi anche i peccatori »[3].

 

La morte di Dio è, dunque, un processo necessario come direbbe Hegel : è una condizione necessaria per l’affermarsi del Superuomo. Ma non solo, perché il senso del nulla dopo che gli uomini hanno ucciso Dio lascia capire che Dio in un certo senso era necessario. Se gli uomini sono stati capaci di uccidere Dio, devono rendersi degni di questa azione, ed essere anche in grado di riempire il vuoto lasciato dalla morte di Dio. Sebbene con risultati diversi, il concetto della morte di Dio è centrale anche nella filosofia di Hegel. Egli viene definito da Nietzsche un insidioso teologo che insieme a Goethe e Napoleone è un fenomeno che si ripercuote su tutta l’Europa e un tentativo di superare il XVIII secolo. Il cominciamento della filosofia e della religione, infatti, è l’insoddisfazione e la coscienza lacerata. In questo non vi è nulla di immortale, se bisogna assumere ad oggetto di studio non l’uomo astratto, ma l’uomo determinato dall’ambiente, dalle circostanze e l’uomo non soltanto razionale, ma dotato di un cuore. Partendo da ciò, si comprende, dunque, l’importanza che assume l’idea della coscienza infelice. Da un lato, tale idea è l’affermazione stessa del fatto che lo spirito procede da un’affermazione all’affermazione contraria, e dall’altro lato, è lo stadio che lo spirito deve superare per potere così procedere ad una coscienza più felice. Il principio dell’antitesi è un alcunché di necessario al fine di potersi elevare alla sintesi. La sintesi è la felicità e per potere giungere a questa felicità è necessario passare per l’infelicità. Dunque, la morte è il modo più preciso con il quale la negazione si manifesta al soggetto [4].

 

Essa, per Hegel è un momento necessario come per Nietzsche. Che cosa è però che li distingue ? Per Nietzsche la morte di Dio costituisce una sorta di punto di non ritrovo, mentre, per Hegel essa è nascimento. Infatti, come il Cristianesimo la morte diventa il momento della negazione sentita nella sua essenza, una morte dell’anima che può con ciò trovarsi come il negativo in sé e per sé, escluso da ogni felicità, assolutamente infelice. L’idea di coscienza infelice è legata all’idea di soggettività. Nel provare dolore l’uomo avverte la propria soggettività, nello stesso modo che la morte è l’immagine della negatività della ragione. La morte si comporta negativamente solo riguardo al negativo ; sopprime soltanto ciò che è nulla, è la mediazione, la riconciliazione del soggetto con l’assoluto ; negando il negativo essa è l’affermazione dell’assoluto. Questa morte è però necessaria al rinnovamento della vita, è legata alla resurrezione e non deve più essere vista come il bel genio fratello del sommo come sosteneva, invece, Lessing. La coscienza infelice è la presa di coscienza del tragico : ciò che è tragico, anzi la più grande delle tragedie è quella del fatto che Dio stesso è morto. Quest’ultima è la perdita di ogni certezza e l’idea dell’infelicità sono una sola cosa. Questo sembra, dunque, essere un punto di collegamento con il pensiero di Nietzsche, collegamento che viene a mancare, in quanto, comunque l’uomo torna ad avvicinarsi al divino, cosa che non accade, invece, per Nietzsche. La sua morte conferisce alla sofferenza umana tutto il suo significato, e la sofferenza umana è il dolore infinito, la prova dell’infinità divina, che unifica i contrari in cui lo spirito umano è diviso.

Ciò che ha l’essenza stessa della religione è questa coscienza della più grande sofferenza e con ciò stesso questa riconciliazione con la sofferenza. L’immanenza di Dio non è ancora percepita, e l’alienazione rimane proprio perché Dio muore. Più che la vita di un uomo diviso e più che la vita di un Dio, sarà, dunque, la morte di Dio ad arrecare la riconciliazione veramente divina. Fino a che questa riconciliazione non si manifesta si ha la perdita del sapere di sé.

Hegel stesso scrive :

 

« La vita bella dello Spirito non è quella che si riempie d’orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa […]. Lo Spirito è questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell’essere »[5].

 

Con queste parole il filosofo intende rivelare la radice speculativa della sua dialettica : il Dio padre che, in quanto è differenza assoluta, si incarna come Figlio, e come tale muore e risorge e ridiscende nella comunità dello Spirito Santo.

Questo, dunque, è il primo aspetto analizzato. Verrà poi analizzato un altro aspetto della coscienza infelice, considerato nella sua relazione con la volontà di potenza di Nietszche presente in Così parlò Zarathustra. Quello che abbiamo appena visto, la morte di Dio e la trasmutazione dei valori, consentono all’uomo di oltrepassare se stesso e di spingersi verso il nuovo. Ma questo spingersi verso ciò che non è ancora stato scoperto né sperimentato, comporta al tempo stesso una distruzione : emerge il nuovo solo a scapito del vecchio e, quindi, attraverso la sofferenza. La nuova virtù che si prospetta è allora la potenza. Quest’ultima, come scrive Vattimo, può essere considerata come una determinazione dell’atteggiamento con cui l’oltreuomo si impone alla natura,  anche se stesso, oppure come l’essenza stessa della decisione eternizzante che, secondo Zarathustra, redime le cose dalla casualità attribuendo un senso anche al passato, o che in generale conferisce al divenire il carattere dell’essere [6].

 

La vita stessa è volontà di potenza, in quanto, è il continuo, necessario superamento di se stessa. Si ha, quindi, una identificazione con la vita stessa, intesa come forza espansiva e autosuperantesi :

 

« Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato la volontà di potenza […]E la vita stessa mi ha confidato questa segreto : “ Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa “ »[7].

 

La molla fondamentale della vita non sono gli impulsi autoconservativi o la ricerca del piacere, ma la spinta all’autoaffermazione. Dunque, una quantità di energia accumulatasi la quale non attende che di esplicarsi. Essa non dipende da un ipotetico io o da una ipotetica anima, ma dalla vita stessa che è un continuo divenire e un necessario superamento di se stessa : la conservazione può essere considerata solo come una conseguenza indiretta di essa. Una caratteristica fondamentale di questa volontà di potenza che ci permette di collegarla a Hegel, è il fatto che essa si configura come un si detto alla vita, in ogni momento e in ogni aspetto. E’ necessario intendere “ ogni suo aspetto “, anche il dolore e le brutture che essa contiene, in quanto, solo la disciplina del gran dolore è creatrice di ogni eccellenza. In che cosa consiste, quindi, questa connessione tra Nietzsche e Hegel ? Se si parte dal presupposto che l’essere in quanto tale, e senza eccezioni, volontà di potenza, si deve concludere che persino colui che si trova assegnato alla figura del servo si trova al fondo la volontà di essere padrone : padroneggiare e sottomettere con la sua vita le altre vite. Questa figura la troviamo anche nella Fenomenologia dello Spirito a proposito dell’autocoscienza. Si tratta delle due figure delle Signoria e della Servitù, che è forse la parte più celebre dell’opera di Hegel, sia per la bellezza plastica dello sviluppo, sia per l’influsso che le è avvenuto di esercitare sulla filosofia politica e sociale dei successori di Hegel, in particolare su Marx. Essa consiste nel mostrare come nella sua verità il padrone si riveli il servo del servo, e il servo padrone del padrone. In questa sede non ci occuperemo della figura del padrone ; diremo solamente che il signore è tale solo perché è riconosciuto dal servo ed è autonomo solo attraverso la mediazione del servo. Quindi, la sua indipendenza è tutta relativa. L’aspetto che colpisce di più del servo è, in relazione a quanto abbiamo detto a proposito di Nietzsche, il fatto che è prigioniero della vita ed è immerso nell’esistenza animale, e questo significa che deve accettare tutte le brutture della sua esistenza. Hegel, infatti, dice :

 

« La servitù ha in sè stessa la verità della pura negatività e dell’essere per sé, in quanto ha fatto in sé esperienza di questa essenza »[8].

 

Accettare, dunque, la propria condizione e dire si alla vita. Non si tratta, come sosteneva Schopenhauer, che la semplice volontà di vivere basta alla vita, perché non esaurisce il senso ultimo delle cose. Nella vita bisogna esigere un continuo accrescimento e superamento, e qualsiasi tipo di incarnazione e ogni figura, reca in sé il suo oltrepassamento e il suo tramonto.

Si può, infatti, leggere :

 

« Non ha certo colto nella verità chi, proteso verso di lei, ha lanciato l’espressione “ volontà di esistere “ : questa volontà non c’è […]. Solo dove è vita, la è anche volontà : ma non volontà di vita bensì, così io ti insegno, volontà di potenza »[9] .

 

Il servo accetta, dunque, la propria condizione ed è proprio in questo che egli diventa il padrone del padrone. La coscienza umana può formarsi solo attraverso questa angoscia che dà sul tutto del suo essere […]. Ma proprio in questo suo operare apparentemente inessenziale il servo si rende capace di dare al suo essere per sé l’elemento del sussistere e permanere dell’essere in sè [10].

 Accettare il negativo, dice Hegel, che costituisce un farsi del positivo : il servo, nell’accettare la propria condizione e nel lavorare ( anche se lavora per il padrone ), riconosce se stesso e si realizza, così come la volontà di potenza è una prerogativa del superamento nietzscheano.

Cosa vuole insegnare veramente Zarathustra ? Egli ammonisce che la volontà di potenza deve arrivare a vincere se stessa, comprendendo e accettando tutto ciò che si è detto. Ma cosa questo in ultimo significhi appare spesso dubbio e oscuro. Se si prende in considerazione la seconda parte di Così parlò Zarathustra  si può notare come egli è preda di numerosi timori e di incertezze. Questo lo si può vedere, per esempio, in Il bambino con lo specchio dove Zarathustra, guardandosi nello specchio, non riesce a vedere se stesso, bensì una smorfia e il ghigno di scherno di un demonio. Ma non solo, egli teme che i suoi nemici, una volta diventati potenti, si approprino della sua dottrina stravolgendola in una mostruosità e in un ghigno nauseante. Quello che però scuote più di ogni altro l’animo di Zarathustra, tanto da potere sostenere che egli cade preda di una paralisi, è il discorso dell’indovino, maschera del nichilismo radicale. Egli dice, infatti :

 

« E vidi scendere sugli uomini una gran tristezza. I migliori si stancarono delle loro opere. Circolò una dottrina e insieme a essa si sparse una credenza : “ tutto è uno, tutto è indifferente, tutto è già stato ! “ […]. Ogni fatica è stata vana, il nostro vino è diventato veleno, un occhio malvagio ha incendiato e ingiallito i nostri campi e i nostri cuori. Tutti siamo inariditi, e se ci cade addosso fuoco, finiremo polverizzati come cenere : si, abbiamo stancato perfino il fuoco »[11].

 

Tutto risulta essere vano e indifferente, e questo stesso discorso fece si che Zarathustra precipitasse in un sonno profondo e al suo risveglio cominciò a raccontare il sogno che aveva fatto :

« Ho sognato di avere totalmente rinunciato alla vita. Ero diventato un guardiano notturno e guardiano di sepolcri, lassù, al solitario castello montano della morte. Lassù custodivo le sue bare : le tetre volte erano piene di questi segni di vittoria. Da bare di vetro mi spiava la vita, ormai vinta. Respiravo l’odore di eternità ridotte in polvere : la mia anima giaceva pesante e polverosa. E chi mai là, avrebbe potuto dar aria alla propria anima »[12].

 

Disperazione che non scompare anche se un discepolo cerca di confortare Zarathustra. Questo discorso va collegato con un altro discorso : Della redenzione, perché Zarathustra vede davanti a sé proprio questa desolazione. Egli vede, infatti, uomini in frantumi e sparpagliati che simboleggiano la conseguenza della moderna specializzazione. Di fronte a tutto ciò, Zarathustra vorrebbe essere il redentore ; ma è possibile un’unica, autentica redenzione : sapere accettare tutto il passato tragico e informe dell’uomo.  Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni “ fu “ in un “ così volli che fosse “ [13].

Dunque, si parla di una volontà come è già stato fatto in precedenza. Questa volontà non potrà mai dirsi libera fino a quando sarà impotente contro ciò che è già fatto : essa deve, infatti, infrangere il tempo e la voracità del tempo, ma soprattutto volere a ritroso. Zarathustra vuole, quindi, insegnare alla volontà come casualità del passato senza però cadere nello spirito di vendetta. Essa deve volere a ritroso ed è insieme volontà che si libera dal peso del passato e la volontà che si sviluppa in sempre nuove produzioni simboliche. Il passato si presenta nel suo contenuto come orrida casualità e spettacolo di una umanità che è incapace di costruirsi in una unità di senso, impotente a realizzare l’identificazione essenza-esistenza ed essere e volere.

 

« Ma quando intraprendiamo a nostra volta l’opera di costruzione di tale unità di senso, sentiamo il passato come limite insuperabile nella sua stessa forma di già stato »[14].

 

Partendo da questo presupposto, il passato nel suo contenuto, si svela come la storia di una umanità caratterizzata dalla impossibilità di rovesciare il “ così fu “. Ciò che la costituisce in tale insensatezza è proprio il fatto di non saper redimere il passato nella sua forma di già-stato. Dunque, questa redenzione del passato di cui parla Zarathustra non riguarda solamente l’attribuzione di un senso al nostro particolare già-stato ( che potrebbe risolversi in una rassegnazione spinoziana ), ma è il passato stesso in questo fare, che deve essere redento. Questo è possibile solo attraverso un radicale cambiamento della natura dell’uomo : l’eterno ritorno come modo di essere dell’uomo e non solo come struttura metafisica del mondo. Tutti questi aspetti portano a delineare la figura del “ superuomo “, anzi si preferisce usare il termine “ oltreuomo “ , in quanto, si intende accentuare la trascendenza di questo tipo di uomo rispetto all’uomo della tradizione[15]. Perché ? Perché non essendoci più un Dio che dica all’uomo che cosa deve fare, l’uomo deve giungere con un salto, più che fare una evoluzione graduale, ad un superamento dell’uomo : egli deve abbandonare i vecchi codici di valori e le prescrizioni legate a essi, che riducono la vita ad un puro nulla e superare l’uomo così come è stato fino ad ora e che, come tutte le cose in divenire, è solo una fase transitoria, paragonata da Nietzsche ad “ una corda tesa fra la bestia e il superuomo “[16].

 

« Amo tutti coloro che sono come gocce pesanti, che cadano a una a una dalla nuvola scura che incombe sugli uomini : essi annunciano che il fulmine sta per venire e muoiono nel recare l’annuncio. Ecco, io sono uno che annuncia il fulmine e una goccia pesante che cade dalla nuvola : ma il fulmine si chiama superuomo »[17].

 

Il superuomo non si trova più, come era l’uomo, tra la realtà divina e quella animale, ma poggia soltanto su se stesso. Nella nozione stessa do oltre-umanità, così come viene delineata in Così parlò Zarathustra, l’aspetto della liberazione del simbolico è legato a quello della liberazione dall’autorità, e in generale dalle strutture del mondo della ratio. Egli si presenta anzi, come commediante e libero creatore di simboli e definito nei termini di una “ hybris “, che però ha per lo più sviato gli interpreti e che è entrata di diritto a costituire quel grosso equivoco che furono le interpretazioni fascista e nazista di Nietzsche. Questa hybris, dunque, è quella che lo oppone, con disprezzo e atteggiamento di sovranità al gregge e alla sua morale. Con il termine gregge non si deve però intendere la totalità degli uomini considerati in una loro essenza sovrastorica e soggetti di un “ diritto naturale “, bensì l’umanità che risulta essere deformata e sfigurata dalle strutture del dominio. Partendo da ciò, si può dedurre come l’oltreuomo può essere una minaccia per l’uomo presente solo, in quanto, l’uomo presente è gregge e società della ratio dispiegata dallo spirito di vendetta. Questo aspetto si contrappone, dunque, alla morale platonico-cristiana. La tensione verso scopi che sono situati sempre al di là di ciò che possiamo raggiungere, copre il fatto che l’uomo è inglobato in un sistema la cui razionalità rigorosa gli sfugge sempre e, di conseguenza, tutto quello che vuole fare è necessariamente al di qua del raggiungimento dell’identità tra essenza ed esistenza, essere e volere. La morale nietzscheana però non concerne il fare ma l’essere : l’unico atto che si può ancora fare è, appunto, la trasformazione dell’uomo che abbia come scopo l’identità di esistenza e valore. Questo porta come conseguenza una sorta di riabilitazione di tutte le principali “ cose malvagie “ che tale società e morale hanno sempre messo al bando come le più pericolose. Esse sono la volontà, la sete di dominio e l’egoismo esplicitate in Delle tre cose malvagie in Così parlò Zarathustra.

La ratio, di cui si è prima parlato, porta a degradazione ogni suo strumento a pura in essenzialità, e in questo modo lo fissa in una casualità che è quella da cui Zarathusta la vuole liberare. La ricostruzione del mondo che l’oltreuomo deve effettuare, realizzando così l’eterno ritorno, è una ricreazione simbolica che però, per potersi verificare, esige un rovesciamento storico : portare l’uomo al di fuori del mondo della ratio. Che cosa significa ciò ? Significa che l’attività simbolica è da intendersi come l’attività con cui l’uomo plasma il mondo secondo la propria ragione e la propria volontà. Quindi, nel momento in cui parliamo di sostituire a Dio l’oltreuomo, significa liberare l’attività da ogni limite estraneo, che può derivare dalla condizione di paura e di insicurezza in cui il simbolo è nato come un ausilio per dominare la natura. Abbiamo , dunque, un nuovo modo di essere nei confronti di tutta la “ realtà “, quindi, l’essere nel mondo : da una parte si ha un potenziamento e una liberazione dalla capacità simbolica come capacità di conferire senso alle cose ; dall’altra parte si ha un nuovo modo di essere nei confronti della natura. Il problema non è, dunque, quello di recuperare una condizione originaria, bensì quello di rappresentare una nuova forma di umanità ( che è resa possibile da ciò che è stata l’umanità passata ). Questa visione dell’oltreuomo come libera creazione di simboli, che scaturiscono non dalla sublimazione, bensì dalla esuberanza creativa, ricorda la filosofia di Hegel, dell’articolarsi, alienarsi e ricomporsi dello spirito con se stesso.

Intercorre forse una differenza tra di loro ? Si, il fatto che il regno della libertà del simbolo non sta ad indicare un ritorno a sé, come si potrebbe avere nella filosofia hegeliana, bensì è un passaggio ad una condizione che è superiore. Dunque, il mondo della libertà ultraterrena non è la conseguenza di un procedimento dialettico dal mondo che lo precede, ma è radicalmente nuovo rispetto ad esso. Si potrebbe anche sostenere che l’oltreuomo nietzscheano racchiude in sé tutti i caratteri dello spirito assoluto hegeliano. In che modo però ? In un modo che comprende le due obiezioni che sono state mosse all’assoluto hegeliano : la critica esistenzialistica e la critica marxiana. Basta prendere, per esempio, in considerazione quanto Marx aveva detto a proposito di Hegel per capire meglio ciò. Marx partiva, infatti, dal considerare i singoli uomini che operano, mentre Hegel partiva, invece, dall’universale. Lo “ spirito assoluto “ di Nietzsche, dunque, si realizza nel singolo che non viene da lui visto solo come un momento della storia che si attiva attraverso lui, ma si decide al di sopra della sua testa. La posizione di Nietzsche, su questo argomento, non può definirsi solo esistenzialista ( rivendica l’autonomia e la libertà del singolo ), perché tende ad accostarsi di più a Marx, che vuole rovesciare il sistema di Hegel per rimetterlo sui suoi piedi. L’uomo di cui parla Nietzsche mantiene i caratteri costitutivi dello spirito assoluto, però si pone il problema di realizzarli realmente nella propria esistenza, senza considerarli delle fantasie. Si può, inoltre, sostenere che, quando Hegel parla dell’alternativa tra l’astuzia delle ragione e il fine della storia, ha in mente gli schemi metafisici del dominio, quasi come se fossero gli unici plausibili. Questa storicità si rivela assai radicale : infatti, il soggetto che torna in sé nella forma dell’autocoscienza dello spirito assoluto è sempre il soggetto cristiano-borghese. Questo si riflette in Hegel nella impossibilità di pensare ad una storia dello spirito assoluto realizzato. Si può dedurre, che se per Hegel c’è una storia, essa è mossa dallo scarto che c’è tra in sé e per sé, dunque, essa continua solo fino a che continua l’astuzia della ragione. Nella prospettiva di Nietzsche, questo si verifica solo nella misura in cui l’uomo non è stato ancora trasformato. Non è il sapere assoluto hegeliano che è impossibile, bensì è l’uomo attuale che non ne è ancora capace.

Si può concludere dicendo che la decisione che fa si che venga istituito l’eterno ritorno e l’oltreuomo è anche ciò che rende possibile, secondo Nietzsche, lo spirito assoluto non solo come  una sorta di escogitazione di filosofi ( la civetta di Minerva ), ma come vera e propria filosofia del mattino : condizione di un uomo che esce per la prima volta dalla propria preistoria e si impadronisce di sé e del suo mondo.

 

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Bibliografia :

Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Oscar Mondadori, Milano, 1992 ;

G. Vattimo, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Bergamo, 2007 ;

Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano, 2000 ;

Hegel, Filosofia della religione, Ed. Laterza, 1983 ;

Heidegger, Nietzsches wort “ Got si tod “ in “ Holzwege “, Frankfurt, 1957 ;

J. Hyppolite, Genesi e struttura della fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano, 2005 ;

F. Masini, Lo scriba del caos, Mulino, Bologna, 1978 ;

J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, Ed. Laterza, Bari, 1994

 

 



[1] G. Vattimo, “ Il soggetto e la maschera “, Bompiani, Bergamo, pag. 113-114, 2007

[2] Heidegger, Nietzsches wort “ Goti s tot “ in “ Holzwege “,Frankfurt, pag. 200, 1957

[3] Nietzsche , “ Così parlò Zarathustra “,  Mondadori, Milano, pag. 8, 1992

[4] Hegel, “ Filosofia della religione “, vol. II, pag. 185, Ed. Laterza, 1983

[5] Hegel, “ Fenomenologia dello spirito “, Bompiani, pag. 87, Milano, 2000

[6] G. Vattimo Op.cit., , pag. 349-350

[7] Nietzsche, Op. cit.,  “ Del superamento di se stessi “, pag. 104

[8] Hegel, Op.cit.,  pag. 287

[9] Nietzsche, Op. cit.,  “ Del superamento di se stessi “, pag. 105

[10] J. Hyppolite, “ Genesi e struttura della Fenomenologia dello Spirito “, “ L’autocoscienza e la vita. L’indipendenza dell’autocoscienza “, Bompiani, Milano, pag. 214-215, 2005

[11] Nietzsche, Op. cit.,  “ L’indovino “, pag. 123

[12] Nietzsche, Op. cit.,  pag. 124

[13] Ibid.  pag. 128

[14] G. Vattimo, Op. cit., pag. 259

[15] Ibid., pag. 183

[16] Nietzsche, Op. cit., pag. 9

[17] Ibid., pag. 11



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