AXEL HONNETH

 

A cura di Alessandro Ferrara

 

 

 

Axel Honneth (1949)  è stato fra gli anni 1983-90 assistente di Habermas e oggi è docente all’Università di Francoforte sul Meno e direttore dell’Istituto per la Ricerca Sociale di cui fa parte della terza generazione dopo quella storica di Horkheimer e Adorno e la seconda dominata dalla figura di Habermas. Honneth muove i suoi primi passi all’interno del quadro analitico e di teoria sociale articolato nella Teoria dell’Agire Comunicativo ed ha cercato di introdurvi degli elementi che ne mitigassero certi tratti di astrattezza e formalismo. In una prima fase culminata nel volume Critica del Potere (1985) Honneth criticava l’impoverimento del concetto di lavoro retrocesso al rango di “agire strumentale”, l’assenza di una adeguata riflessione sul potere e il conflitto, l’indebita trasposizione della dicotomia agire comunicativo\agire strategico, di pertinenza esclusivamente analitica, in un’immagine falsante delle società complesse come di fatto scisse in un’area a prevalenza comunicativa(mondo della vita) e un’area a prevalenza strategica (il mercato e la pubblica amministrazione), Ma soprattutto Honneth rimproverava a Habermas di aver fatto svaporare l’immagine del mutamento sociale come frutto dello scontro tra gruppi sociali concreti che configgono intorno ad interessi e concezioni normative contrastanti nell’immagine molto più esangue e disincarnata di uno scontro, o meglio di una tensione, fra due diversi processi di razionalizzazione che inaugurano e accompagnano la modernità: uno interessa la sfera economica e in parte quella politica e si dipana sotto  il segno della razionalità rispetto allo scopo, l’altro posto sotto l’egida dell’agire comunicativo, conduce dapprima alla formazione di un mondo di vita autonomo, non più fuso con istanze sacrali o strumentali, e poi alla sua ulteriore differenziazione interna. A questa critica immanente del paradigma comunicativo di Habermas è subentrata da qualche anno, al centro del lavoro di Honneth – memore della lezione della Fenomenologia dello spirito hegeliana e della sua “dialettica servo-signore” in lotta per il riconoscimento – una linea di ricerca che di quella critica fa tesoro per sviluppare un approccio originale e propositivo, imperniato sui concetti di “riconoscimento” (Anerkennung) e “lotta per il riconoscimento” che Honneth espone nel suo volume Lotte per il Riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto. Il nostro sulla scia di Habermas è uno di quei teorici muniti di doppia cittadinanza filosofica e sociologica. Nel suo pensiero teoria sociale e riflessione filosofica si intrecciano indissolubilmente: la teoria del riconoscimento risponde insieme ad una esigenza sociologica l’obiettivo di Honneth è al fondo quello di articolare in un coerente quadro teorico la compresenza di conflitto e progresso, due nozioni che i paradigmi vigenti difficilmente riescono a coniugare insieme senza ridurre uno dei due termini a vuoto simulacro. Da un lato vi sono concezioni della società moderna come quelle di Parsone e Habermas che si sforzano di dare l’intuizione di un progresso normativo nel modo umano di associarsi e convivere e in particolare nel passaggio dalle società premoderne a quelle moderne. Il prezzo che queste concezioni pagano è spesso quello di appiattire il ruolo del conflitto sociale,di eliminarne la tragicità di precostituirne l’esito, di relegarlo a un fenomeno di secondo piano, contingente, e dunque eliminabile. L’evoluzione prevale sulla storia. Dall’altro vi sono teorie che caratterizzano il mutamento sociale come uno scontro fra gruppi sociali concreti in lotta per la propria autoaffermazione e considerano gli aspetti normativi, istituzionali,e culturali come stati di equilibrio, più o meno stabili, in cui però in ultima analisi non si riflettono altro che le istanze  di quel gruppo o costellazione di gruppi a cui la contingenza storica e le vicissitudini del conflitto hanno dato modo di prevalere. Difficile è in questo quadro articolare una nozione sensata di progresso: c’è storia ma non evoluzione, nel senso che una forma di dominio (Adorno), o una formazione discorsiva (Foucault) ne succede ad un’altra. Honneth si sforza di articolare il senso in cui è concepire un progresso nel conflitto, piuttosto che un progresso a dispetto del conflitto. Tale progresso nel modo di configgere da per scontata l’ineliminabilità del conflitto tra gruppi sociali portatori di visoni diverse ma rende questa conflittualità il luogo in cui il progresso normativo, lungi dal distruggersi, nel lotta e nel confronto al contrario si fa. Questo è lo sfondo su cui si articola la prospettiva di Honneth. La figura di cui Honneth si occupa, riguarda una questione più specifica: su che cosa verte, qual è il vero oggetto del conflitto da cui può emergere il progresso normativo? È conflitto per il riconoscimento per essere riconosciuti dall’altro. Qui Honneth imprime una svolta inter-soggettiva al tema dell’autoaffermazione e, se vogliamo, della volontà di potenza. Il Conflitto Sociale, nella visione di Honneth, non è mai solo un conflitto per il mero controllo delle risorse, per avere di più, per imporre agli altri una volontà, per il potere. È un conflitto che ha come fine l’affermazione del Sé individuale o collettivo, ma una affermazione che non è veramente completa se non conquista il riconoscimento dell’altro\a. Se il conflitto è al fondo una lotta per essere riconosciuti nel proprio valore dall’altro, alla sua radice c’è sempre in qualche modo una mancanza di riconoscimento. Honneth sviluppa il momento centrale di questa visione articolando a diversi livelli i concetti ancora indifferenziati di riconoscimento, spregio o mancato riconoscimento di cui già Hegel e Mead avevano offerto una prima definizione. Honneth analizza tre tipi di riconoscimento ricostruendoli in negativo ossia come elementi normativi presupposti necessariamente ogni volta parliamo di un’esperienza di spregio, offesa e umiliazione. Si può essere offesi nella propria integrità fisica, con la violenza di forme di maltrattamento che ci pongono nella impossibilità di esercitare l’autonomia più elementare ossia il disporre del proprio corpo. Ad un livello superiore, si può essere offesi di forme di umiliazione che colpiscono la comprensione normativa di sé di una persona forme di umiliazione ad esempio che ci escludono dal godimento dei diritti accordati a tutti i membri a pieno titolo della nostra società. Questo genere di umiliazione rappresenta un attacco al nostro rispetto da noi stessi. Infine si può umiliati nel senso di vedere negato ogni valore sociale al proprio modo di essere, alle proprie affiliazioni culturali, al proprio orizzonte di valori. Questo tipo di umiliazione ci depriva non già della nostra capacità di disporre autonomamente del nostro corpo o di godere dei diritti attribuiti a tutti gli altri membri della nostra comunità, bensì della possibilità di far riferimento al nostro ideale di vita come a qualcosa dotato di significato positivo all’interno della comunità. Da una analisi di queste esperienze negative Honneth trae una distinzione fra tre modalità positive del rapporto dell’attore sociale con se stesso, generate da altrettanti tipi di relazioni di riconoscimento:la fiducia in se stessi come prodotto implicito della relazione d’amore, il rispetto di sé come rispetto implicito nella relazione giuridica e infine l’autostima come prodotto del riconoscimento implicito improntato ad una situazione di solidarietà-Queste tre modalità positive del rapporto con se stessi, legate a tre forme di riconoscimento, rappresentano altrettanti presupposti dell’autorealizzazione individuale. E qui ritroviamo la doppia valenza della riflessione sociologica e filosofia della riflessione del nostro. Sul versante di filosofia morale queste riflessioni sugli elementi costitutivi di relazione con se stessi sono intesi da Honneth come l’ossatura di una teoria formale della buona vita, formulata da una prospettiva post-metafisica e intersoggetiva che va ad affiancarsi ed integrare le altrimenti troppo scarne concezioni deontologiche della giustizia, nel cui novero rientra l’etica del discorso di Habermas. La teoria del riconoscimento, precisa Honneth mira ad occupare una posizione mediana fra una teoria morale di ascendenza kantiana e le etiche comunitariste;della prima condivide l’interesse verso norme quanto più possibili generali, che possano intendersi come condizioni per il realizzarsi di determinate possibilità, delle seconde condivide però il fine dell’autorealizzazione della persona. Sul versante della teoria sociale, queste riflessioni di Honneth conducono invece alla questione del tipo di riconoscimento reciproco su cui l’integrazione di una società complessa deve poggiare. Già Hegel e Mead, i due pensatori che per primi hanno gettato le basi per una teoria del riconoscimento si resero conto del perdurare anche nella società moderna di una esigenza integrativa che solo un orizzonte valoriale può soddisfare. Di questo orizzonte comune, da cui può trarre  alimento una solidarietà individuata e individuante, Hegel e Mead hanno messo in luce solo alcuni tratti formali, primo fra tutti il suo dover essere compatibile con le limitazioni normative poste dai rapporti di riconoscimento giuridico sui si basa l’autonomia dei soggetti moderni. Non vi è dubbio però continua Honneth che ciò è insufficiente. Un orizzonte comune in grado di generare solidarietà un ethos democratico moderno dovrà pur avere dei contenuti specifici e materiali da consentire la formazione di identità collettive in un’età in cui l’affermazione della differenza individuale e collettiva sembra diventata la norma. Honneth  rifiuta la possibilità che sia la teoria ad indicare questa esigenza integrativa delle società complesse possa in ultima analisi venire meglio soddisfatta da una qualche forma di repubblicanesimo politico, di ascetismo ecologicamente fondato o di esistenzialismo collettivo, e se essa rimanga o meno compatibile con le condizioni di una società capitalista. La risposta ultima spetta solo ad un futuro intessuto di conflitti sociali. Rimane da veder e gli anni a venire daranno risposta questo interrogativo se un atteggiamento di riserbo normativo come questo si in ultima analisi compatibile con le secche del formalismo habermasiano o se invece il punto di una teoria filosofica della società contemporanea non sia di indicarci, sia pure con la cautela postmetafisica indispensabile oggi, quale concreto orizzonte integrativo meglio si attagli a chi noi siamo e perché. In Reificazione, Honneth mette in evidenza i tre mattoni fondamentali sui cui poggia la lunga riflessione lukácsiana in merito alla natura e alle cause della reificazione: 1) equivalenza tra processi di spersonalizzazione delle relazioni sociali e i processi di reificazione; 2) necessaria unità tra le diverse dimensioni della reificazione; 3) eziologia sociale saldamente ancorata ad un rigido determinismo di matrice materialista. Sulla base di questi tre mattoni è dunque possibile ricostruire lo scheletro dell’argomentazione di Lukács: dal momento che ormai la totalità della società è stata investita dall’economia capitalista e che in tale orizzonte le interazioni sociali sono ridotte a meri scambi tra merci nell’ambito dei quali l’altro non viene considerato in quanto persona, ma viene oggettivato in quanto semplice controparte, vi è una tendenza generale alla reificazione che porta a considerare se stessi, gli altri e l’ambiente naturale in quanto “cose” da cui è possibile ricavare un profitto. In altre parole, “Lukács descrive l’effetto prodotto dalla società di mercato capitalistica come se conducesse automaticamente a una generalizzazione delle disposizioni reificanti in tutte e tre le dimensioni, fino a che rimangono soltanto soggetti che reificano tanto se stessi, quanto il loro ambiente naturale e tutte le altre persone” (p. 78). Nella prospettiva lukácsiana l’effetto che viene meccanicamente prodotto nella cornice di una società governata dal modo di produzione capitalistico, è dunque una “seconda natura” artificiale e alienata e, in quanto tale, intrinsecamente malata. La fredda analisi di Lukács nasconde infatti, indubbiamente, un secco giudizio di valore: “La reificazione configura una sindrome di coscienza distorta a più livelli e permanente” (p. 21). Giudizio inappellabile che è sempre sul punto di estendere la propria portata da una condanna ristretta, seppur totale, del sistema capitalistico, ad una condanna estesa, seppur confusa, della Modernità. Si tratta di quella stessa, pericolosa, deriva anti-moderna insita, in maniera più o meno esplicita, in molte opere dei Francofortesi (si veda, ad esempio, un testo cardine quale La dialettica dell’illuminismo) come in molte riflessioni contemporanee, deriva che spinge verso un condanna indistinta tanto della “logica del capitale” quanto della “geometria del moderno”. Le critiche che si possono fare all’approccio lukácsiano sono molteplici e, del resto, ne sono state formulate in gran copia. Tuttavia quella proposta da Honneth mi sembra, nella sua essenzialità, particolarmente stringente: l’approccio di Lukács “è sia concettualmente, sia tematicamente troppo orientato dall’identità tra lo scambio di merci e la reificazione per poter costituire il fondamento teorico di un’analisi allo stesso tempo globale e differenziata” (p. 81). L’approccio strettamente materialista abbracciato da Lukács produce infatti un vero e proprio “accecamento sistematico” (p. 80) che, in quanto tale, impedisce l’elaborazione di una teoria della reificazione che risulti globale, ovvero in grado di inquadrare i diversi processi di reificazione (non solo quelli di natura economica) in uno stesso sguardo sistematico complessivo, e diversificata, ovvero in grado di analizzare statuto e cause delle diverse forme in cui si incarnano, e delle diverse dimensioni secondo cui si manifestano, i processi di reificazione. Ed è proprio a partire da una simile constatazione che Honneth si mette nella condizione di poter intravedere una teoria della reificazione che invece aspiri ad essere ad un tempo globale e diversificata, cioè, nel concreto, capace da una parte di inquadrare e di comprendere, in quanto fenomeni appartenenti alla medesima classe, processi di reificazione economica, fenomeni di tipizzazione quali il maschilismo e l’antisemitismo, l’approccio fisio-biologico nell’ambito degli studi sul cervello, la riduzione dell’essere umano a dati genetici, la ricerca del partner attraverso internet, ecc; dall’altra parte, di fornire per ciascuno di questi fenomeni una descrizione appropriata in virtù di un strumentario concettuale unitario ed adeguato, ovvero sensibile all’inalienabile eterogeneità dei fatti sociali. Anche se l’elaborazione di una simile teoria della reificazione è lungi dal potersi dire completa, è indubbio che il saggio di Honneth riesca, pur nella sua brevità, a fornire importanti indicazioni circa i principi e le direttrici fondamentali del suo dispiegamento. Un’efficace definizione del fenomeno, debitrice di una precedente formulazione della teoria del riconoscimento che raccoglie l’apporto della riflessione di Heidegger, Dewey e Adorno, oltre che di Lukács (capp. 2 e 3), riesce infatti a coglierlo in tutta la sua complessità: reificazione è oblio del riconoscimento, ovvero “è il processo attraverso il quale nel nostro sapere di altre persone e nella loro conoscenza perdiamo la consapevolezza di quanto l’uno e l’altra siano debitori di una precedente disposizione alla partecipazione coinvolta e al riconoscimento” (p. 55). Perdita di consapevolezza che investe, oltre alla dimensione intersoggettiva, la dimensione soggettiva (autoreificazione) e quella oggettiva (reificazione della natura), ovvero quelle che sono le tre dimensioni della reificazione, collegate tra loro seppur autonome. Perdita che si esplica secondo due diverse modalità, l’una che deriva da fattori interni all’azione, l’altra da fattori esterni: la perdita della consapevolezza del riconoscimento può derivare da “l’autonomizzarsi di uno scopo particolare rispetto al contesto dal quale ha tratto origine” oppure da “una serie di schemi di pensiero (che) influenza la nostra prassi, portando a un’interpretazione selettiva dei fatti sociali” (p. 59). Si tratta dunque, in definitiva, o di pratiche sociali o di schemi di pensiero che, a seconda della situazione, provocano – in maniera più o meno consapevole, più o meno efficace, più o meno controllata – la negazione del riconoscimento, ovvero la rimozione di quella forma originaria di relazione emotivamente carica (“cura” in Heidegger, “coinvolgimento pratico” in Dewey, “prassi impegnata” in Lukács, “imitazione” in Adorno) che, alla base di ogni nostra conoscenza della realtà, conferisce ad essa qualità e valore. Negazione che indubbiamente, in determinate circostanze, costituisce la causa determinante di gravi “patologie sociali”, di vere e proprie schiavitù, nell’ambito della prassi vitale umana. Ma che in altre costituisce, in quanto distanziamento controllato e consapevole, la condizione necessaria per l’instaurazione di determinate prassi (si pensi, banalmente, ad un’attività elementare quale il gioco) che, lungi dal condurre meccanicamente ad assetti patologici, contribuiscono in maniera determinante ad arredare lo scenario sociale e a renderlo abitabile. Ma se dunque ogni processo di oggettivazione non è da considerarsi in sé reificante, allora una critica sociale attenta alle forme della complessità moderna non può non riconoscere legittimità a spazi delegati all’oggettivazione (le scienze, la politica, il diritto, ecc.), sempre a patto che questa avvenga in maniera riflessa ed esplicita. Questa è la conclusione, forte e radicalmente contraria rispetto alla prospettiva lukácsiana, che si affaccia qua e là nel corso dell’argomentazione di Honneth. Conclusione che è il naturale esito della prospettiva costruita sapientemente nel corso di tutto il saggio e che emerge in maniera ferma ed esplicita, seppure in forma di dubbio, in questo passo: “Sorge la questione se Lukács non abbia gravemente sottostimato la misura in cui le società altamente differenziate esigono – per ragioni di efficienza – che i loro membri apprendano a rapportarsi strategicamente con sé e con gli altri. Se fosse così, una critica della reificazione non potrebbe essere così totalizzante come la concepisce Lukács, ma dovrebbe escludere sfere sociali nelle quali il comportamento da osservatore distaccato ha un posto del tutto legittimo” (p. 24). Questa è del resto, come sottolinea giustamente Honneth in una nota, la posizione sostenuta, tra gli altri, da Habermas nella Teoria dell’agire comunicativo.

 

 

 

Bibliografia delle opere di Honneth disponibili in italiano

 

- Critica del Potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, edizione Dedalo.

 

- Lotte per il Riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto,edizione il Saggiatore.

 

- Riconoscimento e Disprezzo. Sui Fondamenti di un’etica post-tradizionale, edizioni Rubbettino.

 

- Il dolore dell’Indeterminato. Una attualizzazione della filosofia politica di Hegel, edizioni Manifestolibri.

 

- La Reificazione, Biblioteca Meltemi.

 

- Redistribuzione o Riconoscimento? (con Nancy Fraser), Biblioteca Meltemi

 


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