G. Elizabeth M. Anscombe e l’illusione dell’intenzione

di Roberto Di Letizia

 

 

 

§1 La definizione di «intenzione».

Il primo obiettivo della Anscombe è individuare e circoscrivere il significato di «intenzione». Per far ciò ella prende le mosse dal suo maestro Wittgenstein


[1] sostenendo che il miglior modo per individuare il significato di una parola è riuscire a definire il dominio d’uso di tale parola, vale a dire in che occasioni linguistiche essa viene impiegata dai parlanti. Da questo punto di partenza la Anscombe proporrà una serie di esempi felici la cui forza teoretica è alquanto lodevole.

Per prima cosa dovremmo chiederci «quando diciamo che qualcosa è intenzionale e quando invece non lo è». Possiamo distinguere immediatamente due domini d’uso. Diciamo che qualcosa è intenzionale quando non è causata da una causa esterna all’agente che compie una determinata azione. In questo caso parleremo di «cause mentali», le quali come vedremo «non sono osservabili». Quando invece una certa azione è stata causata da un fattore esterno, allora di solito diciamo che tale azione «non è intenzionale». In questo secondo caso diremo che abbiamo a che fare con una «causa fisica». Consideriamo due esempi.

Immaginiamo di sorseggiare una bevanda qualsiasi. All’improvviso la luce del sole riflessa dalla finestra semiaperta mi abbaglia. Nel preciso momento in cui il raggio di luce raggiunge il fondo della mia retina, questo viene trasformato in un impulso nervoso che, a sua volta, viene interpretato dal mio sistema nervoso centrale come un probabile pericolo. A questo punto i neuroni del sistema nervoso centrale «comandano» al sistema nervoso periferico mediante la trasmissione di dati biochimici (impulsi nervosi, di rilasciare un neurotrasmettitore, diciamo l’acetilcolina, il quale viene recepito dalle cellule nervose motorie che scaricano un impulso nervoso che fa contrarre i muscoli della mano: il bicchiere cade. Una probabile descrizione di questo evento verrebbe con molta probabilità classificato tra gli eventi «non intenzionali», sebbene possiamo individuare una causa neurofisiologica e quindi fisica.

Immaginiamo ora di sorseggiare sempre la stessa bevanda mentre discutiamo animatamente di un argomento che ci coinvolge particolarmente, per esempio di politica. Il nostro interlocutore è molto irriverente, ci propone delle tesi o delle controtesi che dal nostro punto di vista ci appaiono assurde ed improponibili. In segno di protesta «decidiamo» di far cadere il bicchiere a terra. Dal punto di vista neurofisiologico è stato rilasciato il medesimo neurotrasmettitore per far contrarre i muscoli della mano in un preciso modo al fine di far cadere l’oggetto che avevamo afferrato.

Tuttavia in questo caso non diciamo che vi è stata una «causa fisica» che ha determinato quella precisa azione, bensì diciamo che c’è stata una «causa mentale». Qual è la differenza fra le due cause?

 

  1. Se nel caso della «causa fisica» chiediamo a chi ha fatto cadere il bicchiere «perché hai fatto cadere il bicchiere?», l’interrogato potrebbe rispondere in diversi modi. Un paio probabili potrebbero essere «non lo so» o «il lampo di luce mi ha abbagliato e così “non volendo” ho fatto cadere il bicchiere». Dunque, l’interrogato ha fatto qualcosa non volontariamente o intenzionalmente, egli potremmo dire è stato semplicemente osservatore di ciò che è «accaduto». Naturalmente la risposta dell’interrogato potrebbe non essere soddisfacente e potremmo chiedere «perché il lampo di luce ha fatto cadere dalle tue mani il bicchiere?». L’interrogato potrebbe a questo punto non rispondere o potrebbe dire «non lo so» perché in effetti non conosce quali processi neurofisiologici si siano attuati nel preciso momento in cui ha percepito il lampo di luce. Quindi ne concludiamo che in noi ci sono processi neurofisiologici di cui ignoriamo il funzionamento.
  2. Se nel caso della «causa mentale» chiediamo a chi ha fatto cadere il bicchiere «perché hai fatto cadere il bicchiere?», la risposta potrebbe essere ben diversa dalla prima. L’interrogato potrebbe benissimo risponderci «per protesta» o «perché volevo farmi notare» o «perché volevo far tacere quello stupido fascista». Le risposte in effetti potrebbero essere molteplici, ma è chiaro che qui non siamo di fronte a delle cause fisiche bensì a delle «ragioni», ed è bene pertanto chiarire cosa s’intenda per «ragione» quando queste coinvolgono le azioni.

 

Definiamo innanzitutto cosa intendiamo per «ragione» in questo preciso contesto. La «ragione» è la giustificazione per la quale viene realizzata una determinata azione. In tal senso diciamo che un’azione è intenzionale quando questa viene fatta per una ragione o, ancora meglio, «in vista di una ragione». Quindi un’azione viene detta intenzionale o volontaria – come vedremo per la Anscombe le due cose non sono la stessa cosa, ma stiamo pur sempre definendo il dominio d’uso della parola «azione» – quando l’agente causale può rispondere alla domanda «perché l’hai fatto» o «perché stai facendo ciò». Chiariamo meglio il concetto ancora una volta con un esempio.

Immaginiamo di stare salendo la rampa di scale che portano al piano superiore della nostra abitazione. Nella stessa camera dove si trovano le scale c’è un nostro amico che ci vede salire le scale. A questo punto egli ci può chiedere «cosa stai facendo?», e la risposta di primo acchito potrebbe essere «sto salendo le scale». Come può essere prevedibile questa risposta potrebbe non essere soddisfacente, sicché l’interrogante potrebbe continuare e chiederci «perché stai salendo le scale?». Ecco, secondo la Anscombe, è proprio in questo momento che subentra l’intenzione, quando cioè dobbiamo giustificare una nostra precisa azione. Nell’esempio banale da me proposto la risposta potrebbe essere «sto salendo le scale perché devo prendere la spillatrice».

Ora possiamo subito tracciare due caratteristiche dell’intenzionalità o meglio dell’uso della parola «intenzionalità»: a) ha a che fare con cause non visibile (leggi apparentemente “non fisiche” e che quindi io non vedo), b) ha a che fare con ragioni o giustificazioni «in vista delle quali» compiamo determinate azione. Ma le cose, per la Anscombe, non sono così semplici.

Per prima cosa un’azione può essere oggetto di diverse descrizioni. Al nostro simpatico amico che ci chiede «cosa stai facendo», potremmo rispondere «sto salendo le scale» ma anche «sto piegando i miei muscoli femorali» o «sto appoggiando i miei piedi sugli scalini». Detto in altre parole, un’azione può essere vista in varie prospettive a seconda della descrizione mediante la quale la descriviamo. Questo significa che un’azione può essere descritta da una serie definita di «descrizioni»: A («sto poggiano i piedi sugli scalini») – B («sto flettendo i muscoli femorali») – C («sto salendo le scale») – D («per andare a prendere la spillatrice»). Come si può notare l’ultima descrizione della serie (D) è costituita da ciò che abbiamo detto essere «la ragione per cui stiamo facendo quello che stiamo facendo».

La giustificazione che diamo di una determinata azione, la quale così viene definita come «intenzionale», fa uso di una particolare credenza la quale a sua volta è connessa ad una rete di credenze («olistica» come la definisce Quine[2]) praticamente indefinita. Ecco perché Davidson (1980[3]) sostiene che per avere un’intenzionalità è necessario avere delle credenze. L’uomo ha un’intenzionalità in quanto ha delle credenze. Io sto salendo le scale perché so (credo, penso) che la spillatrice sia situata al primo piano e so (credo, penso) che sia sulla scrivania della mia camera. Tutte queste credenze, a ben vedere, possono essere impiegate per giustificare le proprie azioni, ragion per cui possiamo anche pensare che l’intenzionalità abbia un carattere intersoggettivo o, più ampiamente, sociale. E questo è possibile se e solo se l’agente fa uso di parole il cui significato è impiegato dai parlanti di una certa comunità linguistica a cui appartiene, e che ha un significato per «spillatrice» o «primo piano [quando ci riferiamo ad un edificio o abitazione, e quindi che ha anche un significato per «edificio» o «abitazione»]», e così via. Ma non vorrei mettere troppa carne al fuoco, così ritorno alla Anscombe.

 

2§ La distinzione tra «volontà» e «intenzione».

Abbiamo detto che quando parliamo di un’azione intenzionale facciamo uso implicitamente di una serie A – D di descrizioni, della quale serie l’ultima descrizione è ciò che definiamo «ragione». Tuttavia la Anscombe osserva che la ragione in vista di cui facciamo quel che facciamo non coincide con la volontà dell’azione; infatti se il nostro amico ci chiede «perché stai salendo le scale?» e noi rispondiamo «perché voglio salire le scale» non gli sto dando di certo la ragione per la quale sto salendo le scale. Sicuramente irritato riproporrebbe la domanda, magari dicendo «vorrei sapere la ragione per cui stai salendo le scale». In parole povere la «volontà» rifugge dalla domanda «perché?» e se la domanda «perché?» o meglio la risposta a tale domanda è ciò che caratterizza un’azione come azione intenzionale, allora un’azione volitiva non è un’azione intenzionale, poiché può essere priva di ragione, ma come vedremo di seguito l’azione volitiva, priva di ragione, è la conditio sine qua non dell’azione intenzionale giustificata razionalmente. Scrive la Anscombe:

 

La distinzione tra il volontario e l’intenzionale sembra essere la seguente: (1) I movimenti meramente fisici, alla cui descrizione è applicabile la nostra domanda “perché?”, sono definiti volontari piuttosto che intenzionali quando (a) la risposta è per esempio “stavo giocherellando”, “era un movimento casuale”, o anche “non so perché”; (b) i movimenti non sono considerati dall’agente, sebbene egli può dire quali siano nel caso in cui li dovesse considerare. Potrebbe sembrare che si tratti di un procedimento di scoperta empirica; per esempio, un uomo che vuol dire quali movimenti ha fatto dettagliatamente potrebbe esaminare i movimenti per trovarli. La conoscenza così acquisita non è forse frutto di osservazione? Il fatto che non lo sia può essere compreso se ricordiamo che non deve necessariamente per esempio guardare le mani per dirlo […] (2) Qualche evento è volitivo sebbene non intenzionale se è il risultato concomitante precedentemente conosciuto dell’azione intenzionale di qualcuno, così che si sarebbe potuto prevenirlo se si fosse abbandonata l’azione; ma non è intenzionale: si rifiuta la domanda “perché?” in relazione ad esso. […] (3) Possono essere volontari eventi che non sono l’azione propria di qualcuno, ma che si verificano per il diletto di qualcuno, così che uno può acconsentire e non protestare o muoversi contro di essi: come quando qualcuno sull’argine spinge una barca nel fiume, così che chi sta nella barca è portato fuori, ed è compiaciuto. – “Perché” si potrebbe chiedere “sei sceso scivolando dalla collina in questo gruppo di persone?” cui la risposta potrebbe essere “sono stato spinto così che sono sceso scivolando giù sulla riva”. Ma una replica potrebbe essere “Non ti sei preoccupato; non hai gridato, o cercato di rotolare via, vero?” (4) Ogni azione intenzionale è anche volontaria, sebbene ancora come al punto (2) le azioni intenzionali possono anche essere descritte come involontarie da un altro punto di vista, come quando uno si pente di “doverle fare”. Ma “riluttante” sarebbe la parola usata più comunemente[4].

 

Delle quattro definizioni di «azioni volontarie (o volitive)» proposte dalla Anscombe sicuramente la più interessante è la (2) e quindi la (4) – non considero la (1) e la (3) perché non le ritengo essenziali per chiarire l’argomento.

Esaminiamo la definizione (2). Essa dice che alcune azioni possono essere considerate «volontarie» quando sostanzialmente non sappiamo dare un «perché», cioè una ragione, alla domanda «perché lo stai facendo?», ma, allo stesso tempo, tale azione è necessaria per avviare la serie di azioni descritte nella serie A – D. Sembrerebbe essere qualcosa di contraddittorio, infatti, come può essere un’azione di cui ignoriamo la causa essere volontaria? In realtà le cose non sono proprio assurde se seguiamo il seguente ragionamento.

Abbiamo detto che un’azione intenzionale è tale in quanto il prodotto di una serie di descrizioni A – D in cui D è la ragione per cui si è commessa un’azione. Ora poniamo caso che il nostro amico impertinente ci chieda, dopo averci chiesto «perché stai salendo le scale?» e dopo aver ricevuto come risposta «perché devo prendere la spillatrice e la spillatrice si trova nel piano superiore», «perché vuoi prendere la spillatrice?». Probabilmente potremmo rispondere «perché devo spillare dei fogli». Allora potrebbe incalzarci e chiederci ancora «perché devi spillare dei fogli?». La risposta di ritorno potrebbe essere «perché voglio che siano ordinati in quanto voglio essere ordinato». E ancora alla domanda «perché vuoi essere ordinato?», la risposta potrebbe avere le sembianze di una frenata brusca: «perché voglio essere ordinato, punto e basta». Ecco il punto d’arresto delle giustificazioni e quindi dei «perché». In questo caso dobbiamo ammettere che «facciamo quel che facciamo perché voglio X anche se io non so perché voglio X».

Sia chiaro: è possibile è dare una risposta alla domanda «perché vuoi X?». Per esempio, potrei rispondere, nel caso da me considerato, «perché mi piace essere ordinato», ma questa risposta sembra piuttosto un cane che si morde la coda, giacché alla seguente e scontata domanda «perché ti piace essere ordinato», non sapremmo rispondere se non con «non lo so perché, mi piace e basta». Da ciò possiamo dedurre che la ragione per cui abbiamo fatto una determinata azione non è in alcun modo la causa mentale che ha fatto scaturire la serie A – D. Ci deve essere, per così dire, dell’altro.

La definizione (4) potremmo vederlo come un corollario di (2), e dice due cose importanti: a) ogni azione intenzionale è volontaria, ma questo lo abbiamo appena dimostrato sopra; b) possiamo commettere delle azioni «contro la nostra intenzione» ma non «contro la nostra volontà», per esempio quando «devo fare quello che sto facendo perché sono costretto in qualche modo».

Per chiarire b) possiamo fare un semplice esempio. Pensiamo ad un soldato di fede pacifista che, nonostante tale fede in cui crede fermamente, uccide un soldato nemico. Questa azione può essere descritta in vari modi tra cui «un gesto omicida» o «un gesto per il bene della patria».  Il nostro sfortunato pacifista potrebbe descrivere il proprio gesto come «omicidio», un suo superiore guerrafondaio come «un gesto per il bene della patria». Ma se chiediamo al pacifista «perché hai commesso quell’omicidio?» quale pensate possa essere la ragione da lui adottata? Non certo «perché devo fare il bene della Patria» – egli non crede in qualcosa del genere. Allora più verosimilmente potrebbe essere «perché sono stato costretto dai miei superiori». Quindi potremmo chiedere «perché sei stato costretto?». E la risposta «perché altrimenti mi avrebbero accusato di ammutinamento». E ancora: «perché non ti sei ammutinato?», «perché mi avrebbero ucciso ed io voglio vivere». Ancora una volta, ci troviamo di fronte ad un’azione volontaria in quanto presumibilmente se chiedessimo «perché vuoi vivere?», lui ci risponderebbe «non lo so perché, ma voglio vivere». Pertanto anche la costrizione nasconde, in qualche modo, un gesto volontario sebbene comunemente non verrebbe definito intenzionale.

 

3§ La critica al sillogismo pratico di Aristotele.

La distinzione della Anscombe tra «volontà» ed «intenzione» è il frutto di un’analisi demolitrice del cosiddetto «sillogismo pratico» teorizzato da Aristotele nell’Etica Nicomachea. Aristotele introduce il suo celebre sillogismo pratico quando vuole distinguere il continente dall’incontinente. Il continente è colui che fa ciò che è bene in quanto sa cos’è ciò che è bene. L’incontinente è colui che fa ciò che è piacevole – che per Aristotele non necessariamente coincide con ciò che è bene – anche se sa che ciò che è piacevole non è in quella circostanza ciò che è bene.

Secondo Aristotele un’azione è volontaria quando «il principio che muove come strumenti le parti del corpo in simili azioni è nell’uomo stesso: e le cose di cui ha in se stesso il principio dipende da lui farle o non farle». Al contrario un’azione è involontaria quando sono «atti compiuti per forza o per ignoranza[5]». Possiamo dunque dire che per Aristotele un’azione è volontaria solo quando è determinata da ciò che la Anscombe chiama «causa mentale», non vi è quindi volontarietà quando l’azione è determinata da una causa esterna all’agente: da un altro agente (il superiore) o da un fattore puramente fisico (il lampo di luce).

Circoscritto il dominio della «volontarietà» Aristotele afferma che un’azione volontaria viene «deliberata» e «scelta» in vista di un oggetto o fine considerato naturalmente come bene. Dunque la «scelta» [proairesiV] è qualcosa di necessaria affinché vi sia volontarietà ma non sufficiente[6]. L’oggetto della «volontà» [boulesiV], vale a dire il fine a cui essa tende, è ciò che viene deliberato dall’agente come bene, ma per Aristotele non tutto è bene e il bene è tale solo quando conforme alla realtà delle cose. L’uomo retto agisce bene in quanto conosce ciò che è (il vero) e quindi le sue azioni sono conformi alla natura delle cose, per esempio alla natura di essere uomo:

 

Infatti, l’uomo di valore giudica rettamente di ogni cosa, ed in ognuna a lui appare il vero. Per ciascuna disposizione, infatti, ci sono cose belle e piacevoli ad essa proprie, e forse l’uomo di valore si distingue soprattutto per il fatto che vede il vero in ogni cosa, in quanto ne è regola e misura. Nella maggior parte degli uomini, invece, l’inganno sembra avere origine dal piacere: esso appare un bene, ma non lo è. Essi scelgono, pertanto, il piacere come se fosse un bene, e fuggono il dolore come se fosse un male[7].

 

Troviamo qui un punto fondamentale dell’etica aristotelica e più in generale dell’etica classica a partire da Socrate: la connessione tra conoscenza teoretica e conoscenza pratica. Infatti solo chi conosce il bene può agire bene, sebbene ci siano casi – detti di «incontinenza» [akrasia] - in cui si sceglie ciò che è piacevole anche se non è bene e pur conoscendo il bene. Ciò è motivato dal fatto che questi uomini incontinenti scelgono non in base alla volontà ma al desiderio. La volontà infatti è legata alla ragione, cioè alla conoscenza delle cose, essa è deliberazione attraverso cui si sceglie un oggetto in base alla conoscenza che se ne ha, mentre nel desiderio [epiqumia] si sceglie un oggetto in quanto piacevole o non si sceglie un oggetto in quanto causa di dolore. Il desiderio, a differenza della volontà, affonda le proprie radici nel corpo e non nella conoscenza delle cose. Pertanto gli incontinenti sono persone deboli poiché preferiscono i piaceri del corpo che sono solo momentanei e che possono contraddire ciò che è bene a ciò che è bene che invece è perenne. In questo contesto s’innesta il sillogismo pratico di Aristotele.

Come dice Aristotele nel sillogismo pratico si predicano due premessa universale ed una particolare proprio come il sillogismo teoretico. La premessa universale viene predicata all’oggetto, mentre quella particolare all’agente. Vediamo un esempio proposto dallo stesso Aristotele[8]:

 

  1. “I cibi secchi giovano ad ogni uomo”.
  2. “Io sono un uomo”.
  3. “Questa cosa qui è un tale cibo”.

 

Allora,

 

Devo mangiare quel cibo”.

 

Stando al ragionamento pratico di Aristotele se io sono un uomo e agli uomini giova mangiare del cibo secco e questo è un cibo secco, allora devo mangiare questo cibo. In realtà si annida dietro questo ragionamento un non sequitur equivalente, secondo la Anscombe, alla fallacia naturalistica criticata da Moore che confonde l’essere con il dover essere[9].

Infatti dai fatti che i cibi giovano all’uomo ed io sono un uomo non segue che io debba mangiare quel tipo di cibo. Posso anche non mangiarlo. La fallacia consiste nel confondere il fatto di «voler mangiare quel cibo» con l’assunto «devo mangiare quel cibo». Certamente potrei rispondere «so che mangiare dei cibi secchi fa bene all’uomo ed io sono un uomo, ma a me non piacciono i cibi secchi quindi non voglio i cibi secchi». Aristotele probabilmente avrebbe classificato un ragionamento di questo genere come irrazionale poiché mosso non dalla ragione bensì dal desiderio: i cibi secchi possono anche non piacermi, ma se fanno bene agli uomini allora devo mangiarli. La certezza evidente che traspare in Aristotele è che un’azione di questo genere sia mossa non dalla desiderabilità bensì dalla ragione per cui viene mossa. Io mangio il cibo secco perché sono un uomo e ad un uomo fa bene mangiare il cibo secco. Ma c’è qualcosa che non torna del tutto.

Ammettiamo che sappiamo che ad un uomo faccia bene mangiare del cibo secco grazie alla presenza di alcune vitamine X. A questo punto possiamo chiedere: «perché mangi del cibo secco?», «perché fa bene mangiarlo». Continuiamo chiedendo: «e perché mangi ciò che fa bene?», quale potrebbe essere la risposta ad una domanda apparentemente vacua? «Perché devo mangiare ciò che fa bene», ma badate bene che qui soggiace sempre un presupposto di desiderabilità, in quanto se chiedessimo ancora «e perché devi mangiare ciò che fa bene?», la risposta potrebbe essere sia «perché fa bene» che «perché voglio ciò che fa bene». Nel primo caso la risposta non ci dice nulla. Nel secondo caso invece ci dice molto, e vale a dire che «io voglio ciò che fa bene», e se chiedessimo infine «perché vuoi ciò che fa bene?» la risposta sicuramente sarebbe «non lo so, lo voglio e basta». Qui evidentemente non c’è una ragione per cui si vuole ciò che è bene per sé o per il proprio organismo, ma semplicemente lo si vuole! Quindi il ragionamento aristotelico ha una sua validità se e solo se «vogliamo ciò che è bene» inteso qui come «ciò che si addice ad un uomo». Pertanto dovrebbe essere reso così:

 

  1. “Io voglio ciò che è bene per l’uomo come ‘organismo animale’ ”.
  2. “La carne secca si addice all’uomo come ‘organismo animale’ perché ha le vitamine X”.
  3. “Io sono un uomo come ‘organismo animale’ ”.
  4. “Qui c’è del cibo secco”.

 

Ma come si può notare qui si sta facendo uso pur sempre di una descrizione quando si dice che si vuole «ciò che è bene per l’uomo come organismo animale», cioè si sceglie ciò che è bene relativamente alla descrizione dell’uomo come organismo animale. Ed ancora una volta se chiediamo «perché vuoi ciò che è bene per l’uomo come “organismo animale”?», probabilmente avremo questa risposta: «perché sono un organismo animale ed io voglio ciò che è bene per un organismo animale», ma allora «ammesso che sei un uomo come organismo animale, perché vuoi ciò che è bene per l’uomo come organismo animale?», la risposta naturalmente sarebbe «lo voglio o basta» o «lo voglio perché altrimenti potrei morire ed è male morire» (ma in questo caso potremo fare una domanda alquanto prevedibile «perché non vuoi morire?», la risposta sarebbe «perché voglio vivere», senza alcuna ragione).

La Anscombe dimostra che un ragionamento pratico è sempre mosso dalla «desiderabilità», pertanto si agisce in un certo modo non in virtù di una determinata ragione ma perché «si vuole agire, e basta senza una particolare ragione». In tal senso la ragione è solo la descrizione che diamo all’azione ma non la volontà per cui compiamo quell’azione.

Consideriamo un esempio a dir poco azzeccato della Anscombe:

 

Prendiamo per esempio alcuni nazisti caduti in una trappola in cui sono certi di essere uccisi. Vicino a loro c’è un campo pieno di bambini ebrei. Uno di questi sceglie un sito e inizia a montare un mortaio. Perché questo sito? – Ogni sito con questa o quella caratteristica sarà utile, e questo sito le ha. Perché montare il mortaio? – è il modo migliore per uccidere i bambini ebrei. Perché uccidere i bambini ebrei? – Si addice ad una nazista, se deve morire, usare l’ultima sua ora nello sterminare ebrei (Sono un nazista, è la mia ultima ora, qui ci sono degli ebrei). Siamo arrivati qui alla caratterizzazione di desiderabilità che pone fine alle domande “per che cosa?”.

[…] Con “si addice ad una nazista, se deve morire, usare la sua ultima ora nello sterminare ebrei” abbiamo quindi raggiunto un termine nella ricerca entro quel particolare ordine di ragioni cui Aristotele dà il nome di “pratiche”. O ancora: abbiamo raggiunto il punto di partenza principale e non possiamo cercarne un ulteriore. (La domanda: “perché essere un nazista?” non è un prosecuzione di questa serie; si rivolge ad una delle premesse particolari). Ogni premessa, se veramente funziona come una premessa principale in un pezzo di “ragionamento pratico”, contiene una descrizione di qualcosa di voluto; ma con le premesse intermedie, si solleva la domanda “per cosa lo vuoi?” – almeno finché raggiungiamo la caratterizzazione di desiderabilità, sulla quale “per cosa lo vuoi?” non si solleva[10].

 

L’esempio del nazista è a dir poco calzante perché ci porta ad esplorare anche quei modelli di comportamento che per abitudine consideriamo come “giusti” in virtù della loro presunta “verità”. Si tratta per la Anscombe di un grave errore che portiamo avanti proprio a partire da Aristotele. Se infatti facciamo qualcosa non in virtù della sua ragione ma in virtù della volontà, del nostro volere quel qualcosa pur non sapendo perché lo vogliamo fare, allora tutto lo schema aristotelico che unisce conoscenza teoretica a conoscenza pratica crolla come un castello di carte.

Teniamo presente l’esempio proposto dalla Anscombe. Il nazista in questione pensa che si addice ad un nazista uccidere degli ebrei un’ora prima della propria morte. Ammesso che ciò sia vero, perlomeno è plausibile giacché se si è nazista si è anche nemico degli ebrei, allora il ragionamento pratico prodotto dal nazista sarebbe pressoché il seguente:

 

  1. Il nazismo odia gli ebrei e progetta di sterminali tutti.
  2. Io sono un nazista.
  3. Qui ci sono degli ebrei.

 

Ne segue che il nazista deve uccidere quegli ebrei? No, perché nessuno o niente lo obbliga ad essere un nazista, semplicemente vuole essere un nazista e se vuole essere un nazista deve fare ciò che si addice ad un nazista, come sterminare degli ebrei. Non c’è un “perché” vuole essere un nazista, semplicemente lo vuole essere senza una precisa ragione, potremmo quasi definire questa «volontà» costrittiva, giacché noi vogliamo delle cose senza una ragione determinata, semplicemente le vogliamo:

 

Se le caratterizzazioni di desiderabilità sono richieste in fine per le azioni finalizzate, allora non devono quelle in relazione al bene umano come tale essere in qualche modo oscure costrittive, se credute? Così chi le comprende bene deve essere buono; o almeno (logicamente) deve intraprendere una condotta entro un certo campo permesso oppure vergognarsi[11].

 

Non c’è un “perché” per il quale vogliamo qualcosa, ma se la vogliamo allora siamo obbligati a seguire una serie di moduli comportamentali inerenti a ciò che vogliamo, potremmo dire degli algoritmi, il cui fine è quello di risolvere determinati problemi pratici.

L’intenzionalità, dice la Anscombe, sta nella «descrizione formale» di un’azione, più specificatamente nel descrivere il perché si è fatta una determinata azione. Ma tale descrizione non è mai univoca bensì dipende dalla rete di credenze a cui si aderisce: un nazista che sta sterminando degli ebrei è per un gerarca nazista un uomo ligio al dovere o un buon nazista, per il resto dell’umanità probabilmente solo un uomo che sta commettendo una carneficina.

Abbiamo visto che la ragione per cui si fa una ragione non è la volontà per cui la si è fatta. Sono due cose ben diverse. La prima è determinata da una specifica dimensione linguistica, la seconda invece sembra avere un carattere che sfugge alla determinazione linguistica ma anche alla conoscenza dell’agente stesso. Potremmo dire: facciamo cose, ma non sappiamo perché le facciamo, semplicemente le faccio. In tal senso la Anscombe scrive che «io faccio ciò che accade», per dire che non sa perché in fondo fa ciò che fa, lo vuole e basta.

 

Conclusioni e prospettive.

Il testo della Anscombe ha chiaramente aperto un ventaglio di nuove interpretazioni riguardo all’azione umana. Il distacco tra volontà e ragione è stata visto da qualcuno come la prova che l’uomo, a differenza degli altri animali, compie delle azioni in vista di una ragione che è stata scelta a monte.

Per esempio, J. R. Searle (2001[12]) ha sostenuto che ci sono eventi in cui la causa fisica è necessaria ma non sufficiente per cui da uno stato fisico S in un tempo t del nostro cervello si passi ad uno stato S’ in un tempo t’. E cioè, tenendo ancora una volta presente l’esempio del nazista ed ammettendo che il nazista debba fare una scelta tra lo sterminare o non sterminare gli ebrei e scelga di sterminarli, sicuramente dal punto di vista fisico tale scelta porta al rilascio di un neurotrasmettitore che fa contrarre i muscoli delle braccia le quali a loro volta spingono il detonatore delle bombe nascoste nel campo di detenzione dove si trovano gli ebrei. Ma in questa descrizione fisica dell’avvenimento manca la causa che ha fatto rilasciare il neurotrasmettitore e che quindi indirettamente ha fatto detonare le bombe. La causa, secondo Searle, non è fisica ma mentale in quanto quel nazista ha agito in vista di una ragione che è quella di essere nazista. Perché ha scelto quella ragione il nazista? Perché vuole essere nazista. Secondo Searle il «voler essere nazista» è la causa che ha portato lo stato S in un tempo t allo stato S’ in un tempo t’. In questo senso possiamo parlare di libertà, almeno per Searle. Tuttavia un ragionamento di questo genere porta con sé alcune aporie.

Innanzitutto il nazista sceglie di essere nazista senza alcuna ragione. Siamo di fronte non alla libertà, bensì alla nostra ignoranza riguardo a ciò che vogliamo. Vogliamo qualcosa e non sappiamo perché non significa affatto fare le proprie scelte in virtù di una ragione, a dispetto da quanto è stato sostenuto da Searle, ma fare le proprie scelte in virtù di una costrizione che è ciò che vogliamo.

Le «caratterizzazioni della desiderabilità», come le chiama la Anscombe, sono fuori del nostro dominio linguistico, nel senso che non possiamo sapere perché vogliamo ciò che vogliamo, tuttavia sappiamo cosa vogliamo. In questo caso aveva ragione W. Sellars (1956[13]) quando sosteneva che la comprensione dei nostri stati mentali avviene pur sempre mediante il linguaggio, ciò che lui chiama «lo spazio logico delle ragioni». Io non so perché voglio essere un nazista, ma so cosa è un nazista e dunque cosa è un ebreo, cosa è un comunista, cosa è la razza ariana, e così via. E ancora, io giustificico ciò che voglio sempre mediante il linguaggio. Addirittura Sellars sostenne che gli stessi qualia (cioè le sensazioni che sentiamo o vediamo come il dolore o i colori) sono linguistici, cioè vengono determinati a seconda dell’uso che facciamo di certe parole. Così, solo mediante l’uso della parola “rosso” applicata agli oggetti rossi capiamo come distinguere il rosso dagli altri colori, sebbene ci debba già essere un sistema rappresentazionale che renda possibile tale distinzione (Dretske, 1997[14]). Un sistema che non distingue le onde elettromagnetiche dello spettro non è capace neanche di usare la parola “rosso”.

A questo punto il grande dilemma è il seguente: sarà mai possibile riuscire a conoscere il perché vogliamo qualcosa, dato per certo che questo “qualcosa” sia pur sempre determinato linguisticamente? Le risposte forse potrebbero arrivare, con la difficoltà tipica delle scienze che hanno a che fare con il cervello, dalle neuroscienze, la psicologia cognitiva e la psicologia evoluzionistica.

Facciamo qualcosa senza sapere quali processi neurali si attivano quando le facciamo o prima che le facciamo. Il neurobiologo G. M. Edelman (1992[15]) per esempio ha proposto una teoria molto interessante chiamata «darwinismo neurale» secondo cui il comportamento di un agente che possiede un sistema neurale è determinato dal rinforzo ambientale e dai rispettivi feedback positivi o negativi che attivano determinate mappe neurali piuttosto che altre. Si tratta quindi di una sorta di selezione naturale delle mappe neurali. Quelle attivate più spesso dall’ambiente circostante saranno poi quelle che avranno la meglio sulle altre appartenenti alla medesima rete in quanto un neurone o un gruppo di neuroni più sono eccitati e più abbassano la loro «soglia di eccitabilità». In questa prospettiva «vogliamo qualcosa senza sapere perché la vogliamo» in quanto non possiamo sapere quali sono state le mappe neurali attivate e rinforzate nel corso della nostra vita, non possiamo saperlo perché quelle mappe neurali siamo noi stessi.

E ancora P. M. Churchland (1987[16]) ha sostenuto che le cosiddette mappe neurali non sono altro che dei moduli che rappresentano delle informazioni a seconda dei dati immessi in input e del sistema rappresentazionale che li processa in modo autonomo ed incapsulato e che migliorano la propria prestazione (ad esempio individuare una “preda” o “distinguere dei sapori”) mediante un gioco di feedback positivi o negativi in relazione all’ambiente. In tal senso l’insieme organismo dei moduli è ciò che determina l’organismo nel pieno delle sue funzioni cognitive e comportamentali.

Secondo gli psicologi evoluzionisti come Tooby e Cosmides (2000[17]) e il filosofo D. Dennett (1995[18]) le nostre capacità cognitive e comportamentali non sono altro che moduli informativi ed algoritmici finalizzati alla soluzione di problemi adattativi, che si sono cioè determinati attraverso e per l’adattamento all’ambiente. Naturalmente ciò è stato possibile in virtù di mutazioni genetiche le quali, come sostengono i biologi J. Maynard Smith (1975[19]) e E. Mayr (1982[20]), sono in sé neutre, ma possono assumere una valenza adattativa in relazione ad un ambiente specifico e se, ovviamente, l’individuo o agente riesce ad elaborare un algoritmo capace di risolvere un determinato problema “scoprendo” di avere degli strumenti fisici (le mutazioni genetiche) che prima non aveva preso in considerazione.

Un altro contributo alla domanda «perché vogliamo ciò che vogliamo» può venirci dal biologo Dawkins (1989[21]), il quale non solo sostiene il vecchio assunto di La Mettrie, e cioè che l’uomo, come gli altri animali, è una macchina ma che è una macchina «guidata» dai suoi «geni». Che cosa significa questo? Quando vogliamo mangiare o fare del sesso non sappiamo perché vogliamo farlo, semplicemente vogliamo farlo. Certamente si potrebbe addurre delle giustificazioni di ogni genere, ma queste, tenendo ben presente l’argomento della Anscombe, non aggiungono nulla al fatto che vogliamo mangiare o fare del sesso: semplicemente lo vogliamo. Dal punto di vista biologico vogliamo nutrirci o fare sesso perché sono rilasciate in noi delle particolari sostanze ormonali che letteralmente ci comandano di fare ciò che vogliamo. Il rilascio ormonale è un processo molto complesso che deve calcolare (quindi si tratta di un processo computazionale) una miriade di variabili ambientali e locali (cioè interne all’organismo stesso), ma le cui istruzioni di base sono, per così dire, stampate dalla mappatura dei geni dell’organismo-sistema.

Questo ragionamento potrebbe essere esteso anche a ciò che Dawkins definisce «memi», vale a dire moduli informativi il cui contenuto può essere simbolico, musicale, etico-comportamentale, e così via, e che possono essere assimilati dai sistemi neurali degli individui. Pertanto se un individuo vive in un ambiente che instilla continuamente «memi» come «l’onore della razza» o «lo sterminio degli ebrei» tutti appartenenti al meme del «nazismo», allora più facilmente incideranno nel suo comportamento e quindi nei suoi sillogismi pratici. Per questo quando chiediamo al nazista «perché essere un nazista?», egli risponderà «perché voglio esserlo, e basta». Ma è altrettanto chiaro che questi memi incideranno nel suo comportamento in quanto ad essi sono stati accompagnati rinforzi positivi che a livello neurofisiologico hanno rilasciato sostanze registrate come «piacevoli» e dunque quei comportamenti rinforzati positivamente saranno interpretati dall’individuo come «desiderabili» senza che lui sappia perché sono tali.

Lo psicologo cognitivo D. M. Wegner ha scritto nel suo libro The Illusion of Conscious Will  (2002) riguardo a quelle azioni che comunemente riteniamo essere consce o intenzionali:

 

La mente crea questa continua illusione; essa non sa cosa causa le proprie azioni. In qualsiasi volontà empirica c’è una sorta di continuo rumore nella camera degli ingranaggi – ovvero la relazione pensiero e azione – la quale potrebbe essere totalmente imperscrutabile al guidatore della macchina (la mente). La mente ha un meccanismo autoesplicativo [interpretativo, dunque linguistico] che produce bruscamente la sensazione continua che ciò che è cosciente è la causa dell’azione – la volontà fenomenica – mentre in realtà la mente non può nemmeno conoscere se stessa abbastanza bene da dire qual è la causa delle sue stesse azioni[22].

 

Per concludere: noi vogliamo qualcosa ma non sappiamo perché lo vogliamo in quanto agiscono in noi processi neurofisiologici e biologici che ignoriamo e che determinano il nostro comportamento e modo d’essere. Si tratta di un determinismo? Non propriamente, perché il nostro cervello è talmente plastico che molto difficilmente potremmo racchiuderlo in una visione assolutamente determinista. Un uomo vissuto nella Germania degli anni ’30 probabilmente sarebbe diventato nazista e nonostante ciò non tutti i nazisti avrebbero avuto il coraggio di sterminare dei bambini ebrei. Discorsi di questo genere sono validi finché si è su di un piano molto generale, poiché appena si scende nel particolare, e più esattamente sul piano del singolo individuo allora occorrerebbe tracciare di lui tutta la sua storia neurofisiologica e biologica in cui rientrano variabili ambientali, personali (in cui potrebbe rientrare persino l’alimento X mangiato nel tempo t) e genetiche che rendono pressoché impossibile prevedere il comportamento di tale individuo, il quale per quanto possa essere simile a quella di molti altri (della sua società) e di tutti gli uomini (per quanto riguarda le funzioni biologiche essenziali, come nutrirsi o riprodursi), tuttavia sarà sempre unico. In questo caso ha senso parlare di probabilismo comportamentale e di determinismo neurofisiologico. Ma il probabilismo comportamento, sia nei confronti di noi stessi che nei confronti degli altri, è dato solamente dalla nostra ignoranza che riguarda le cause delle nostre azioni, così come sostenne Spinoza (1677):

 

cosicché l’esperienza insegna, non meno chiaramente della ragione, che gli uomini credono di essere liberi solo perché sono consapevoli delle loro azioni e ignari delle cause da cui sono determinati; e inoltre perché i decreti della Mente non sono altro che gli appetiti stessi e perciò variano a seconda della varia disposizione del Corpo. Infatti, ognuno regola tutto secondo il proprio affetto, e quelli che poi si trovano in conflitto tra affetti contrastanti non sanno ciò che vogliono, ma quelli che non ne hanno alcuni sono facilmente spinti da una parte o dall’altra. Tutto ciò dimostra certo chiaramente che tanto il decreto della Mente, come l’appetito e la determinazione del Corpo, sono per natura simultanei, o meglio, sono una sola e medesima cosa, quando è considerata e spiegata sotto l’attributo del Pensiero chiamiamo decisione, e quando è considerato sotto l’attributo dell’Estensione ed è dedotta dalle leggi del moto e della quiete chiamiamo determinazione[23][24].



[1]L. Wittgenstein, Philosophical Investigations, Blackwell, Oxford, 1953; tr. it. Ricerche Filosofiche, Einaudi, Torino 1967, p. 14.

[2] W. V. O. Quine, Word and Object, MIT, Cambridge, Mass. 1960; tr. it. Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano, 1970.

[3] D. Davidson, Essays on Actions and Events, Oxford, Oxford University Press; tr. it. Azioni ed eventi, Il Mulino, Bologna, 1992.

[4] G. E. M. Anscombe, Intention, Blackwell, Oxford, 1958; tr. it. Intenzione, Edizioni Università della Santa Croce, Roma, 2004, pp. 151-153.

[5] Aristotele, Etica Nicomachea, 1109b

[6] Ivi, 1112a

[7] Ivi, 1113b

[8] Ivi, 1146d

[9] G. E. Moore, Principia Ethica, 1903; tr. it. Principia Ethica, Bompiani, Milano, 1964.

[10] Anscombe, Intenzione, cit., p. 129-131.

[11] Ivi, p. 132.

[12] J. R. Searle, Liberté et Neurobiologie, Editions Grasset & Frasquelle, 2004; tr. it. Libertà e neurobiologia, Bruno Mondadori, Milano, 2005.

[13] W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, Harvard College, Cambridge, Mass., 1997; tr. it. Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino, 2004. A riguardo si veda anche H. Putnam, Representation and Reality, MIT, Cambridge, Mass., 1988; tr. it., Rappresentazione e realtà, Garzanti, Milano, 1993.

[14] F. Dretske, Naturalizing the Mind, MIT, Cambridge, Mass. 1997.

[15] G. M. Edelman, Bright Air, Brilliant Fire. On the matter of the mind, Basic Books, 1992; tr. it. Sulla materia della mente, Adelphi, Milano, 1993.

[16] P. M. Churchland, A Neurocomputational Perspective. The Nature of Mind and the Structure of Science, MIT, Cambridge, Mass., 1989; tr. it. La natura della mente e la struttura della scienza. Una prospettiva neurocomputazionale, Il Mulino, Bologna, 1992.

[17] B. Duchaine, L. Cosmides, J. Tooby, Evolutionary Psychology and the Brain, in Neurobiology 2001, 11:225-230.

[18] D. Dennett,  Darwin’s dangerous Idea, Simon & Schuster, New York, 1995; tr. it. L’idea pericolosa di Darwin, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.

[19] J. Maynard Smith, The Theory of Evolution, Penguin Books, Harmondsworth, 1975; tr. it., La teoria dell’evoluzione, Newton Compton, Roma, 1976.

[20] E. Mayr, La biologie de l’évolution, Hermann, Paris, 1981 ; tr. it. Biologia ed evoluzione, Bollati Boringhieri, Torino, 1982.

[21] R. Dawkins, The Selfish Gene, Oxford University Press, Oxford, 1976, edizione riveduta 1989; tr. it. Il gene egoista, Mondadori, Milano, 1992.

[22] D. M. Wegner, The Illusion of Conscious Will, MIT, Cambridge, Mass., 2002, p. 28.

[23] B. Spinoza, Etica, Parte III, Prop. II, Scolio.

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