L’ATTIVISMO ANIMALISTA: FRA INATTUALITÀ E SENSO COMUNE.

Una riflessione sulla difesa e sui difensori dei diritti animali.

 

di Emanuele Baiolini

 

1.      Una breve constatazione.

 

“Solo quelli che sono così folli da pensare di cambiare il mondo, lo cambiano davvero.”

Albert Einstein

 

La questione che vorrei sollevare in questo articolo è quella che ruota attorno al trattamento che gli animali umani riservano agli animali non-umani. Più precisamente, la mia intenzione non è quella di fornire una descrizione delle nefandezze che questi ultimi perpetrano sui primi, quanto evidenziare il modo totalmente errato di considerare coloro che si schierano dalla parte dei diritti animali[1]. Non si pensi che questa impostazione non tocchi direttamente le vittime in questione, dato che proprio tale diffusa mentalità permette la detenzione di un atteggiamento nei confronti degli animalisti pressoché derisorio. Siamo perciò completamente all’interno dell’angoscia, disperazione e sofferenza fisica che l’animale patisce ogni qual volta venga oggettivato, ogni qual volta divenga scopo o fine dell’uomo[2]. Sfruttamento per scopo alimentare (macelli e tutto ciò che concerne il trattamento riservato alla breve vita dell’animale), sfruttamento per scopo scientifico (laboratori adibiti alla sperimentazione medica – o così denominati -, laboratori adibiti  alla sperimentazione di prodotti cosmetici e chimici in generale, ecc.) o sfruttamento “per il tempo libero” (zoo, circhi, ecc.), non sono che tetri esempi che noi possiamo addurre. Oggi, la strumentalizzazione animale è dunque più che mai intensa; noi sappiamo infatti che il fenomeno non si estende a macchia di leopardo, ma pressoché omogeneamente su tutto il territorio coperto dai paesi industrializzati: America (del nord, soprattutto) ed Europa sono i continenti che detengono il trono, ma non va certo dimenticata una buona parte del continente asiatico.

      Ora, quello che vorrei evidenziare è che questa deficienza morale che registriamo nella contemporaneità, non è una menomazione riservata ad un immaginario mondo rozzo, superficiale, privo di cultura. Forse il tratto più peculiarmente deprimente di questa storia è che troviamo tale assenza già a livelli culturali elevatissimi. L’unico esempio che vorrei citare è quello del Prof. David Baltimore[3], biologo statunitense e premio Nobel per la medicina nel 1975 (insieme a Howard Temin e Renato Dulbecco), a soli 37 anni, per scoperte inerenti all’interazione tra virus tumorali e il materiale genetico della cellula. Dovete sapere che egli ha studiato allo Swarthmore College (Pennsylvania), al Massachusetts Institute of Technology di Cambridge e alla Rockefeller University di New York. Conseguito in quest’ultima il Ph. D. in biologia, nel 1968, dopo aver lavorato all’Albert Einstein College of Medicine e al Salk Institute, torna al prestigioso MIT come docente di biologia. Ma quali contributi ha dato, Baltimore, alla medicina? Nel 1970 scopre l’enzima trascrittasi inversa, che consente ai virus cancerogeni di moltiplicarsi all’interno dell’organismo ospite. Possiamo affermare, senza alcun timore di esagerare, che le sue scoperte scientifiche hanno contribuito attivamente allo sviluppo delle ricerche biotecnologiche, nonché alla comprensione delle cause dell’AIDS. Voglio rendere l’idea sufficientemente chiara che Baltimore è un grande scienziato, nel senso che ha conseguito importanti scoperte nel suo campo scientifico, e che i suoi brillanti risultati sono stati riconosciuti unanimemente, sino al conferimento del Nobel. Se oggi il “male del secolo” miete meno vittime è anche grazie a uomini come Baltimore. Eppure egli, che ha dedicato la sua vita alla ricerca di antagonisti della morte e sofferenza umane, non sembra minimamente interessato a quelle dei non-umani. In un programma televisivo andato in onda negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni Settanta, a cui parteciparono anche altri scienziati e il filosofo di Harvard Robert Nozick, egli dimostrò la sua totale indifferenza alle sorti di questi esseri: Nozick chiamò in causa gli scienziati presenti chiedendo loro se l’uccisione di centinaia di animali per un esperimento non fosse un motivo sufficientemente valido per non effettuarlo. Baltimore (come i suoi colleghi) rispose semplicemente di non ritenere che la sperimentazione animale sollevasse alcuna questione morale. A questo punto cito testualmente Peter Singer, sposando in pieno il suo giudizio:

«Uomini come White[4] e Baltimore possono essere brillanti scienziati, ma le loro affermazioni sugli animali mostrano che filosoficamente sono degli ignoranti. Non conosco un solo filosofo professionale contemporaneo che concorderebbe con l’asserzione che è “senza senso” o “impossibile” includere gli animali nel nostro sistema etico, o che sperimentare sugli animali non solleva alcuna questione morale. Dichiarazioni del genere sono, in filosofia, equivalenti all’asserzione che la terra è piatta»[5].

 

      Forse la nostra riflessione dovrebbe muoversi nella direzione opposta. Per esempio, il santuario ove sino ad oggi è stata riposta, e lo è tuttora, la ricerca scientifica[6], ha consentito il dilagare omogeneo di questa concezione che si ha dell’animale come strumento di ricerca. Quindi, è ai livelli superiori che va rintracciata la sistematica promozione di quella devitalizzazione operata sino ad oggi su questi esseri viventi. Le istituzioni scientifiche e politiche, anzi, nascondono al meglio delle loro possibilità i vari soprusi, con il fine di ottenebrare la mente dell’opinione pubblica. Quale altro imperativo, se non quello di conformare, omogeneizzare, livellare le credenze di quel grande organismo vivente che è la società? Oggi senz’altro è più che mai arduo ritrovare una propria individualità critica, laddove i processi di globalizzazione vanno sempre più elidendo l’importanza di un’autonoma riflessione sui problemi del mondo. Comunque, il ritratto che sembra delinearsi assomiglia proprio a quello del cane che si morde la propria coda: la responsabilità può essere rintracciata all’interno di questi livelli superiori, guidati da individui (questo è peculiare, soprattutto, delle istituzioni scientifiche) che, come ogni singolo individuo, ricevono sulle spalle il bagaglio di tutta una tradizione. Precisamente, la loro tradizione. Caratteristica del sistema scolastico statunitense, per esempio, è abituare gli studenti sin da giovanissimi a eseguire autopsie di piccoli animali. Nelle facoltà universitarie di Medicina veterinaria (ma, ovviamente, non sono le uniche facoltà)[7], invece, vengono svolti con molta disinvoltura esperimenti medici di vario genere. Addirittura essi sono obbligatori, e se non vengono eseguiti lo studente non potrà proseguire il regolamentare piano di studi. Sono stati molti gli studenti, e continueranno ad esserci, che non hanno potuto portare a termine la loro formazione scolastica. Essi hanno rinunciato alla loro passione, perché realizzare il loro sogno avrebbe implicato la sofferenza e la morte di esseri viventi senzienti.

      La nostra società, dunque, adopera gli animali. Come qualsiasi oggetto, essi hanno una funzione ben inserita in un determinato contesto, sia esso sperimentale o di altro tipo. Il senso comune non percepisce l’animale come un essere vivente senziente; la sua percezione viene educata e modellata dalle prescrizioni di coloro che hanno forti interessi (economici, ma non apro una digressione su quest’altra componente del problema perché lo spazio materiale concessomi non sarebbe sufficiente) a farle imboccare quella determinata strada. Contemporaneamente, le future generazioni di scienziati, ma anche allevatori e politici con le mani impastate negli affari delle case farmaceutiche, inizieranno la loro formazione, attività lavorativa, apprendistato politico, già preformati da questo stesso perverso senso comune.

Ecco che ritorna il giocoso cane di cui parlavo prima… e che come prima si morde la coda.

      In un certo senso, capisco che semplificare complessi meccanismi socio-economici possa condurre a commettere degli errori. Ma in questo caso non riesco proprio a pensare che la cosa vada diversamente. Io stesso ho riflettuto sulla mia condotta di vita tenuta sino a non molto tempo fa. L’errore più grave che noi uomini possiamo commettere non è tanto lasciarsi tracciare da quella pesante mano che disegna e colora pennellandoli i nostri usi, costumi, abitudini. Di fatto, noi non possiamo sottrarci a quella mano. Questa è un’impossibilità umana. Nel momento stesso in cui io vengo al mondo, sono già elemento di un quadro completo e provvisto di cornice. Quello che possiamo fare, invece, è non lasciare che essa invecchi con noi; impedire che divenga una mano rugosa. L’uomo deve capire l’importanza del sottoporre a vaglio critico la tradizione entro cui si inscrive. Che non comporta una sua sistematica e necessaria eliminazione: la tradizione non viene mai eliminata completamente; tanto meno si potrebbe pensare di farlo. Questo aspetto però non deve far accomodare l’uomo in una posizione di stallo morale, di mera passività. Seduti sulla confortevole poltrona dei valori trasmessici, agiati nella rilassatezza mentale scevra da ogni preoccupazione morale: questa è la “peste” che contagia ogni uomo. Nonostante tutto, però, ognuno di noi ha la possibilità di divenire “monatto”, essere vivente impassibile a quella malattia che in precedenza lo aveva debilitato.

2.      Una concezione particolare di sopruso

 

“Essere vegetariano è la mia protesta verso il comportamento collettivo. Essere vegetariano significa essere in disaccordo, in disaccordo su come va il mondo oggigiorno”.

Isaac Bashevis Singer

 

Nella breve e altrettanto semplice riflessione appena fatta, ho cercato di denunciare un dramma che, nella società in cui viviamo, è così vivo ed intenso. Tutto questo non è che una goccia d’acqua nell’oceano di informazioni e ulteriori chiarificazioni e riflessioni che si potrebbero (e dovrebbero!) addurre in favore dei diritti di quegli esseri viventi che la maggior parte di noi crede di amare. Dico crede, per una ragione che cercherò di chiarire lungo la parte rimanente di questo modestissimo intervento. D’altro canto, con la maggior parte di noi intendo quel novero di esseri umani che, nella loro più completa lealtà, ritengono di amare realmente gli animali. Ovviamente, ne consegue che da questa ideale categoria venga escluso chi perpetra direttamente su di essi violenza sia fisica che psicologica. Costoro, infatti, sono gli esseri viventi che per primi vengono individuati come nemici cui puntare minacciosamente il dito: noi serbiamo sterminato rancore per chi abbandona, oppure per chi ferisce (fisicamente) senza alcuna apparente giustificazione. E, molto probabilmente, il nostro astio termina qui, fra il cane reietto legato al palo stradale della luce ed il gatto eccessivamente punito perché, forse, non soddisfa le “aspettative” del suo “padrone”.

      Ora, io penso sia semplicemente giunto il momento in cui si debbano estendere le considerazioni inerenti questo genere di fenomeni. Premettendo come legittima e giusta la condanna (morale e giuridica) a soprusi come quelli appena riferiti, ritengo che la circonferenza che dovremmo tracciare, ed entro la quale far rientrare queste problematiche, dovrebbe avere un maggior diametro. Il passo decisivo è, dunque, quello di divaricare al massimo il compasso di cui disponiamo e tracciare, sino ai limiti estremi delle sue possibilità, i confini entro cui si muoverà la nostra riflessione. Ognuno di noi ne possiede uno: è bene quindi che lo si sfrutti al meglio delle sue capacità. Fatto questo, chiarita sinteticamente e ben compresa la necessità di usufruire della “strumentazione tecnica”  dataci in dotazione, si può tentare di sondare, anche timidamente, il nuovo terreno di esplorazione. Saremmo ora come quegli speleologi che non possono prevedere l’esito della loro spedizione, ma che sicuramente sanno che, una volta terminata, non saranno mai più gli speleologi di prima. Colui che cerca di allargare la critica a ciò che fino a quel momento era sempre stato introiettato, e dunque recepito passivamente, è una sorta di speleologo fresco di nuove esperienze.

      Ma, arrivati sin qui, qualcuno potrebbe chiedersi: cosa significa, esattamente, estendere le considerazioni di questi problemi? Che c’è d’altro? Vorremmo forse dire che il maltrattamento degli animali (in ogni sua forma) non esaurisce ogni possibile concezione della brutalità? Le considerazioni da fare sopra queste domande sono molteplici. E vorrei invitare chiunque a non ricadere nella credenza errata che dubbi come questi non sorgano ad un numero elevatissimo di esseri umani (se lo pensate allora siete sulla buona strada, giacché sta a dimostrare la vostra consapevolezza del problema e della sua portata, ma siete sulla buona strada da ingenui!). Ora,  il nocciolo della questione non è da individuare tanto sulla faccenda del maltrattamento. Certo, esso è un fenomeno deprecabile, infame in tutte le sue più perverse sfumature. Tuttavia, quello che veramente conta è evidenziare che il maltrattamento concepito nella contemporaneità è un maltrattamento prettamente elitario. Tale nocciolo è più che altro la “concezione” che si ha di questo fenomeno. Si pensa che ne esista “uno solo”, cioè quello che si riversa solamente sui cosiddetti “animali da compagnia” (sebbene questa categoria non si possa dire stabile nei suoi componenti che la realizzano. Molti animali che oggi svolgono questa funzione sino a non molti anni fa non erano nemmeno conosciuti, dalla gente comune, come esseri viventi esistenti). E tutto finisce lì.

      Io sono convinto, invece, che – hic et nunc – non finisca proprio nulla. Tutto è ancora da iniziare. Fino ad ora ho scritto di animali, intesi come esseri viventi non-umani, molto genericamente, e, in un certo senso, non vedo il motivo per cui dovrei essere “più preciso”. Che cosa vorrebbe dire essere più preciso? Forse che sarei dovuto essere più analitico, magari elencando tutte le specie animali? Se qualcuno mi chiede precisione in questo senso, allora ammette implicitamente questa assurda, volgare, superficiale e squallida bipartizione (quella fra “animali da compagnia” e “altri animali”). Quando io scrivo “animale” intendo quell’essere vivente che ha la pretesa di venire raggruppato, nelle sue più profonde peculiarità fisiologiche e psicologiche, sotto quella categoria denominata “animale”[8]. Sembra questa addirittura una tautologia, che però effettivamente non sussiste giacché nella realtà tale bipartizione è fortemente presente. La gente comune erige un muro che divide qualitativamente gli animali in due categorie indicanti le loro rispettive sorti. Questo noi lo potremmo dimostrare in qualsiasi momento. Per esempio, ammettiamo di prendere in esame due esseri viventi non-umani: un gatto ed una vacca. Immaginiamo di avere a nostra disposizione due semplici fotografie nelle quali essi sono immortalati in atteggiamenti pienamente ottemperanti alle loro rispettive nature: il gatto è seduto su una poltrona e si dedica alla propria igiene, mentre la vacca – e qui voglio essere ottimista – è in mezzo ad un prato verde a brucare l’erba. Se ora noi dovessimo mostrare queste due fotografie ad un essere umano (in possesso di comuni capacità intellettive) scelto a caso e chiedergli di classificare entrambi i soggetti, con tutta probabilità fornirebbe una risposta volta ad identificare il gatto come un animale adatto a tenere compagnia agli uomini, mentre la vacca come adatta all’allevamento, ossia ai nostri “piatti”[9].

      Il maltrattamento elitario di cui parlavo prima indica in primis un’omissione che reca danno agli animali che la nostra società riserva all’allevamento e alla ricerca scientifica. Il senso comune non ravvisa alcun sopruso nei confronti di questi ultimi, perché essi non sono considerati animali come lo sono i gatti o i cani. La stragrande maggioranza delle persone al mondo crede fortemente che le vacche o i maiali o i topi siano “meno animali” che i cani o i gatti.

 

 

3.      L’attivista: una figura inattuale

 

«Non è vero che l’uomo consumistico non ama gli animali. Invece li ama molto, specialmente se ben cucinati. L’uomo moderno soffre della peggiore di tutte le malattie cardiache, l’incapacità di amare col cuore. Molti pensano che amare col cuore, e amare anche gli animali, sia pura emotività e sentimentalismo. Si tratta invece di sanità morale e di razionalità più profonda di quella egoistica».

Giovanni Martinetti

 

Con questo terzo ed ultimo capitolo vorrei sviluppare la parte più importante e significativa di tutto l’intervento. Nel primo ho cercato di rilevare, seppur molto flebilmente, un dato di fatto, mentre nel secondo ho voluto evidenziare cosa faccia di quel dato propriamente un dato di fatto, individuando la responsabilità in quella omissione che il senso comune compie quando non riconosce i soprusi ai danni degli animali. In principio avevo sottolineato di non voler riflettere tanto sulle descrizioni delle prepotenze commesse dall’uomo[10], quanto piuttosto caratterizzare una logica di pensiero che ravvisasse nel modo di concepire (comune) colui che si schiera dalla parte dei diritti animali[11], una fondamentale causa del comportamento detenuto nei confronti degli esseri viventi non appartenenti alla specie umana.

      Ricapitolato nel modo più sintetico possibile l’indirizzo iniziale di questo mio articolo, è giunto il tempo di prendere in esame cosa c’è di propriamente non corretto nell’immagine comune che si ha di un qualsiasi essere umano che voglia preoccuparsi dei diritti fondamentali degli animali non-umani. A questo proposito, per iniziare nella maniera più chiara possibile, desidero citare un passo tratto dal solito Peter Singer:

 

«Avevo da poco cominciato a lavorare a questo libro quando mia moglie ed io fummo invitati a prendere il tè – a quel tempo vivevamo in Inghilterra – da una signora che aveva sentito dire che avevo in mente di scrivere qualcosa sugli animali. Anche lei era molto interessata agli animali, disse, e aggiunse che una sua amica aveva già scritto un libro sull’argomento ed era tanto ansiosa di conoscerci.

      Quando arrivammo, l’amica della nostra ospite era già là, ed effettivamente era ansiosa di parlare di animali. “Io li amo tanto” cominciò. “Ho un cane e due gatti e, sapete, vanno d’accordo a meraviglia. Conoscete la signora Scott? Gestisce un piccolo ospedale per animali da compagnia…” e continuò su questo tono. Nel frattempo venne servito il rinfresco. Fece una pausa, prese un panino al prosciutto, e quindi ci chiese che animali avessimo in casa.

      Le dicemmo che noi non avevamo animali. Sembrò un po’ sorpresa, e diede un morso al sandwich. La nostra ospite, che aveva finito di servire i panini, si unì a noi e raccolse la conversazione: “Ma lei è interessato agli animali, non è vero, Mr. Singer?”»[12].

 

Peter Singer ha qui tracciato una vicenda umana quasi surreale. Ma, a pensarci bene, non più di tanto. In fondo, il comportamento della signora Scott non fa altro che dimostrare ciò che ho esposto nel secondo capitolo, ossia la radicata e particolare concezione che i più hanno di sopruso, e quindi anche di che cosa significhi “interessarsi agli animali”. La sua amica ha un piccolo ospedale per “animali da compagnia” e si diletta a parlarne con i suoi interlocutori masticando morbidi panini farciti di carne di “altri animali”.

      Con lo scopo di rendere maggiormente l’idea di questo modo di pensare, ma so che non ce ne sarebbe bisogno, vorrei portare altri esempi che ho avuto modo di vivere in prima persona. Qualche anno fa, mentre passeggiavo per la strade di Torino, mi sono imbattuto in una bancarella per la petizione delle firme in favore dei diritti animali (non ricordo, onestamente, di quale associazione, organizzazione o ente si trattasse). Fra le persone che si fermarono a firmare, ci fu anche una giovane ragazza che volle dare il suo contributo vestita con la sua bella giacca di pelle nera. Non penso assolutamente che essa fosse in malafede, anzi, credo proprio che volesse sinceramente cercare di contribuire con la sua firma al miglioramento delle condizioni di vita degli animali. Il fatto è che gli esseri umani hanno ormai assorbito così passivamente l’abitudine di distinguere sulla base dei propri errati criteri che cosa è un animale e che cosa non lo è, che giungono a commettere azioni palesemente contraddittorie. Detto ciò, credo che una firma valga sempre come una firma, e chi organizza petizioni è felice per ognuna di quelle che riesce strappare alle persone.

L’altro esempio che volevo portare si riferisce, invece, ad una discussione risalente a poco tempo fa. Ero a pranzo con persone che conoscevo molto bene, quando ad un certo punto (anche qui la memoria fa cilecca, e non ricordo per quale esatto motivo) finimmo per concentrare le chiacchiere sulla questione dell’uso della pelliccia come abito. Vi furono unanimemente critiche ai danni di quelle persone che, pur di sfoggiare un indumento che avvalorasse un qualche prestigio di tipo sociale, erano disposte a sacrificare vite animali. Ciò che però strideva con questa accorata avversione fu che uno di noi ricordò ad un altro di avere indossato nel passato una pelliccia. La risposta che diede la persona a cui era stato puntato il dito fu che la sua era solo una pelliccia di coniglio, e non di un qualche animale raro o in via d’estinzione.

Questi soli tre esempi dimostrano in quale grado di considerazione noi oggi teniamo la vita degli animali non-umani, anche inconsciamente.

Va precisato, comunque, che chi porta indumenti di pelle – siano essi guanti, pantaloni, giacche o altro – o vere e proprie pellicce, ma anche chi si ciba di carne, non sono persone necessariamente violente. L’idea che chi mangia carne debba essere violento è, perlomeno, alquanto bizzarra: fino a poco tempo fa io mi cibavo di carne animale, ma non penso di essere mai stato, né mai essere stato considerato, una persona violenta. Qualche volta, si sente qualcuno sostenere che chi è carnivoro è predisposto maggiormente alla violenza di chi, invece, non lo è. Io non ho intenzione di addentrarmi in tale questione, giacché non ho avuto ancora modo di riflettervi.

     

Quella dell’attivista credo sia una figura prettamente inattuale. Semplicemente, quello dell’oggi non è ancora il suo tempo. Egli agisce per un futuro diverso, per un futuro che non dovrà essere né mera ripetizione di ciò che in passato, né sbiadito calco di un presente che lo rinnega. Nella stessa misura, egli non è figura che nega l’esistenza di una contemporaneità che le sta stretta, ma affonda nel suo terreno le proprie mani affinché possa usurpare quelle radici che troppo prepotentemente vorrebbero scavare in profondità. Quelle radici, lo abbiamo visto sinora, sono ciò che alimentano la staticità e la pigrizia del ragionamento etico e che permettono all’egoismo della nostra specie di prevalere. L’attivista è consapevole che più esse penetreranno in profondità tanto più arduo sarà liberarsi da quello stallo morale di cui ho scritto in precedenza.

      Ma qual è l’idea di fondo che non fa dell’attivista un personaggio dell’oggi? Io credo essa stia principalmente in quella credenza che ci suggerisce che per interessarsi ai diritti degli animali si debba essere obbligatoriamente dei loro amanti. Ecco che allora l’attivista diviene un sentimentale, un emotivo, quasi mi verrebbe da dire – e di fatti lo dico – un debole. Entro questa prospettiva trova così giustificazione l’atteggiamento per il quale ognuno possa e in definitiva debba decidere per sé: io sono oppure no un amante degli animali; se non li amo nessuno può farmene una colpa, e di conseguenza terrò il comportamento che meglio si confà a questa mia mancanza. Tutto ciò che concerne tali passioni viene relegato alla soggettività di ognuno, il che equivale alla relatività di ogni soggetto. Durante la proiezione di un film commovente io posso piangere seduto sulla poltrona del cinema, ma colui che è seduto di fianco a me può osservarmi interdetto e per nulla smosso nella sua emotività. Sono punti di vista, particolari e personali, e nessuno può arrogarsi il diritto di criticarli.

      È evidente che, messa così, la faccenda si conclude rimettendo il tutto all’interiorità di ogni essere umano. Se però ci soffermiamo a riflettere più attentamente su questa posizione possiamo scorgere, diciamo così, il lato oscuro di quella luna che l’avversario del sentimentalismo attivista ha disegnato nella notte della sua, ahimè, ottenebrata mente. La sua coriacea volontà di sottolineare la debolezza dell’attivista, come di uno che può fare perno solamente sulla propria particolarità emotiva, lascia intravedere l’opposto di quello stesso sentimentalismo: la razionalità. Ai suoi occhi, l’attivista non è per nulla un individuo raziocinante, ma accecato da quelle passioni che lo riducono ad essere uno smodato amante degli animali. Le sue sono esagerazioni, e come ogni cosa che eccede non va presa sul serio, ma al massimo fermata qualora minacci di recare fastidi o addirittura danni. Qui, ragione e passione sono visti come nemici: il primo fa la parte del vaccino, la seconda quella della malattia. Ma è proprio così? Io credo di no. Si potrebbe dire kantianamente, seppur in modo scontato ma tanto quanto opportuno, che la ragione senza passione è vuota, mentre la passione senza ragione è cieca. Razionalità e passionalità non sono antagonisti, ma rispettivi guardiani della reciproca salute.

      A questo punto, il concetto di amore provato nei confronti degli esseri non-umani non può più essere viziato dalle connotazioni di superficialità conferitegli dal senso comune.

Ecco che allora si rivela necessario rifare la fotografia all’attivista. Ciò che lo induce a preoccuparsi per i diritti animali non è mera spinta sentimentale, ma una razionalità sfumata da passioni che lo fanno compartecipe delle condizioni esistenziali di essi. Ora, è la volontà di cercare argomentazioni razionali che giustifichino la necessità e correttezza della difesa dei loro diritti l’essenza più profonda del suo amore. Nessun altro pretesto volto a delegittimarne la sua forza e importanza può rimanere in piedi dopo che si è ribadito ciò. Altresì, posso ora delineare con più chiarezza il motivo per il quale all’inizio del capitolo secondo avevo messo in forte discussione la comune credenza degli esseri umani del loro amore verso i non-umani. La risposta, in parte, è già stata data durante queste ultime caratterizzazioni, ed è sostanzialmente avversa proprio a «chi crede che l’amore per gli animali non comporti niente di più che accarezzare un gatto o dar da mangiare agli uccelli in giardino»[13]. L’amore qui inteso viene confuso con semplice interazione, che può essere solo un elemento dell’amore stesso. L’amore verso l’Altro si concretizza anche attraverso l’interazione, ma non termina col rapporto diretto espresso mediante una carezza od offerta di cibo. L’emotivismo e il sentimentalismo meri a se stessi sorgono esattamente nell’istante in cui si crede che la relazione uomo-animale, che dovrebbe essere connotata da una reciproca riconoscenza dei rispettivi diritti, duri l’istante di uno sguardo. L’amore, poi, è ancora inteso come presenza, volta a suggellare ulteriormente l’importanza assoluta ed esclusiva che viene conferita a quella stessa interazione diretta. Questa peculiarità del visivo, per la quale io dimostro il mio comportamento corretto nei confronti dell’animale in quanto faccio a lui le coccole, gioco con la palla, gli do un boccone, fa trascendere l’essere umano da ogni possibilità di poter riflettere sul rapporto uomo-animale al di là della mera prossimità corporea. Questa interazione nella presenza visiva e carnale, permette allora al senso comune di escludere dal gruppetto dei “privilegiati” tutti quegli animali destinati alla scienza ed alla gastronomia. Alla vacca non si tira la palla affinché la possa riportare indietro, tanto meno al maiale possiamo dare il bocconcino di cibo fuori nel giardino. Questa, difatti, è un'altra storia, laddove l’amore non può rientrare: nelle celle di refrigerazione o tra le vite che lungo un’inesorabile fila attendono la sottile lama di un coltello, non ci può essere il tempo della carezza e dell’effusione di compartecipazione. Non ci può essere questo tempo, perché non è di questo tempo che tutti loro hanno bisogno.

      Gli attivisti, siano essi studenti volontari, filosofi, scienziati e chi altro ancora, lavorano per fabbricare un orologio che restituisca all’animale lo scandire del suo tempo, biologico, naturale. Il viaggio da fare sarà molto lungo e travagliato, ed essi dovranno muoversi ancora per molto tempo con la loro maschera inattuale.

Vorrei infine concludere con l’ennesimo passo tratto da Liberazione animale, cui devo sinceramente tributare la mia riconoscenza, in quanto ciò che è stato scritto sinora ha trovato tra le sue pagine fertile terreno su cui far germogliare la mia riflessione:

 

«Raffigurare coloro che protestano contro la crudeltà verso gli animali come sentimentali, emotivi “amanti degli animali” ha avuto l’effetto di escludere da ogni seria discussione politica e morale l’intera questione del nostro modo di trattare i non-umani. È facile capire perché: se davvero prendessimo il problema in seria considerazione, se, per esempio, ci soffermassimo ad esaminare le condizioni in cui vivono gli animali nelle moderne “fattorie industriali” che producono la carne che mangiamo, potremmo cominciare a sentirci a disagio di fronte ai panini al prosciutto, al roast-beef, al pollo arrosto e a tutti gli altri elementi della nostra dieta a cui preferiamo non pensare come ad animali morti»[14].

 

 

     



[1] Per comodità espositiva, ma non concettuale, d’ora in avanti con il termine “animale” farò riferimento all’animale non-umano.

[2] Anche qui, per comodità espositiva ma non concettuale, d’ora in avanti con il termine “uomo” farò riferimento all’animale umano. Questo purché non si pensi che, per qualche strano motivo, l’uomo non faccia parte della specie animale (quella dei mammiferi, più precisamente). La questione non è affatto secondaria, giacché rientra abbondantemente nelle abitudini linguistiche della quotidianità il riservare l’appellativo di “animale” ai soli animali non-umani. Anzi, c’è di più. Nel comune dialogare di noi esseri umani, dare dell’ “animale” a qualcuno viene recepito come un’offesa. Non siete d’accordo? Bene: provate, allora, ad apostrofare in questo modo un vostro interlocutore, qualora ovviamente vi troviate in una situazione di diverbio; vi assicuro, poi, che l’effetto sarà ancora più “pirotecnico” se egli è uno sconosciuto. Ma perché il vostro “amico”, o magari addirittura voi se le parti dovessero invertirsi, s’infervora così? La verità è che l’abitudine verbale, in questa circostanza, non è altro che lo specchio rifrangente quella credenza diffusa per la quale l’animale sarebbe un essere vivente diverso dall’uomo. Di fatto lo è, ma non più di quanto si creda. Soprattutto, la maggior parte degli animali sono in grado di provare sofferenze, e fisiche e mentali, come noi uomini, se non addirittura superiori a causa della loro più acuta ricezione sensoriale.

 

[3] cfr. Peter Singer, Liberazione Animale, pp. 87-88.

[4] «Robert J. White del Cleveland Metropolitan General Hospital è uno sperimentatore che si è specializzato nel trapiantare teste di scimmie, e nel mantenerle in vita in un fluido totalmente staccate dal corpo. White è un perfetto esempio dello scienziato che vede nell’animale di laboratorio uno “strumento di ricerca” – in effetti egli stesso ha detto che il principale scopo del suo lavoro sulle teste di scimmia è “fornire uno strumento di laboratorio vivente” alla ricerca sul cervello. […] Secondo White, “l’inclusione degli animali inferiori nel nostro sistema etico è filosoficamente senza senso e praticamente impossibile”. In altri termini, White ritiene di non essere soggetto ad alcuna limitazione etica per ciò che concerne il trattamento degli animali». Ivi, p. 87.

[5]Ivi, p. 88.

[6] Vorrei ricordare, nuovamente, che questo è solo uno degli ambiti nei quali l’uomo si arroga il diritto di prevaricazione sull’animale, e che viene da me ora preso in breve considerazione per veicolare meglio il dipanarsi dell’articolo.

[7] Per fare solo un altro esempio, si può rilevare come sia ben consolidata la tradizione sperimentale nei corsi di laurea in Psicologia, nonché ovviamente nei progetti di ricerca all’interno delle stesse università; cfr. Peter Singer, Liberazione Animale, p. 55 e seguenti. Notorie pure sono le ricerche, a cavallo tra la psicologia e la psichiatria, dello psichiatra britannico John Bowlby; Ivi  p. 46 e seguenti, e, in generale, il capitolo secondo per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento della sperimentazione “scientifica” sugli animali.

[8] Vorrei precisare che gli animali cui faccio riferimento, chiaramente, non esauriscono nella sua totalità il mondo animale in quanto tale. Ovviamente, alcuni esempi potrebbero essere il maiale, la vacca, la gallina, il coniglio ed altri. D’altro canto, mi pare scontato che da questo mio articolo vengano escluse considerazioni inerenti ad animali quali potrebbero essere i pipistrelli o gli scorpioni (non sono a conoscenza di nessun sfruttamento da parte dell’uomo di questi due animali. Tuttavia, sarò indubbiamente disposto a ricredermi ed ammettere la mia ignoranza qualora mi si dimostrasse il contrario). La mia intenzione è quella di concentrare l’attenzione su quegli animali che vengono sfruttati e annientati dall’uomo in una quantità numerica raccapricciante. Qualche personalità critica potrebbe certamente obiettare che questa è una semplificazione, e tuttavia io non avrei nulla da contro-obiettare. Nella propria limitatezza sono convinto che ognuno debba estendere le sue competenze nella misura in cui creda di riuscire a mantenerle lungo tutta la durata del suo impegno.

[9] Non dimentico, ovviamente, che la vacca può essere anche da latte, e non solo da carne. Chiunque voglia credere la vacca da latte come “la privilegiata” è invitato a tenere sempre in considerazione le condizioni di vita di questo animale. Oltre agli spazi vitali pressoché inesistenti nei moderni stabilimenti industriali alimentari, vi sono le assillanti gravidanze che obbligano l’animale a partorire con una frequenza che in natura non avverrebbe, nonché disturbi fisici come la mastite, che insorge inevitabilmente quando le mammelle vengono sollecitate in una maniera eccessiva.

[10] Per chi volesse approfondire tale questione rimando, oltre che al già menzionato capitolo secondo, al capitolo terzo di Peter Singer, Liberazione Animale, nel quale viene focalizzata l’attenzione sulle condizioni di vita quotidiana degli animali negli stabilimenti industriali alimentari.

[11] Non è mia volontà preoccuparmi, in questa sede, di fornire una descrizione che possa in qualche modo fornire una sorta di carta d’identità dell’attivista. Ritengo solamente di dover precisare che esso non dovrebbe essere identificato unicamente con l’individuo stereotipato che i mass-media propongono alla collettività. Anzi, nella maggior parte dei casi è assai probabile che i soggetti in questione non siano degli attivisti, seppur vengano presentati (o si presentino loro stessi) come tali. Questo fenomeno è di fondamentale importanza. I veicoli informativi oggi modellano silenziosamente la percezione del senso comune, e all’interno della nostra riflessione giocano un ruolo primario anche nella costruzione dell’identità dell’attivista. Se – nel suo semplice meccanismo associazionistico – ricollego frequentemente la figura concettuale del sostenitore dei diritti animali alla concretezza dell’individuo scalmanato che, denudatosi e copertosi il viso, protesta con forme di violenza fisica e verbale contro ogni autorità pubblica, allora il personaggio che verrà partorito non potrà essere altro che un personaggio la cui affidabilità sarà messa in discussione. Chiaramente non voglio, diciamo così, scaricare tutto il sacco di patate sulle spalle del sistema informativo, giacché tale scalmanato di cui ho appena fatto l’esempio esiste nella realtà, ed è verosimile che egli stesso pretenda di essere considerato un attivista. La questione è abbastanza controversa. Io credo che tutti commettano qualche errore: i mass-media nel diffondere informazioni inerenti a presunti attivisti, qualora qualsiasi individuo si spacci come tale, senza verificare la presenza di un qualche minimo riscontro (ammesso che il singolo giornalista sia in grado di farlo); i presunti fautori della liberazione animale nel confondere quest’ultima con la liberazione dei più irrazionali e controproducenti istinti propri. Prima di tutto, e questo va detto, l’attivista è un non-violento. Egli cerca di lottare con l’attivo strumento della non-violenza l’ingiusto metodo della violenza: chiunque pretenda di affermarsi superando il limite della non aggressione fisica, ricade inevitabilmente dalla parte di coloro che egli stesso vuole abbattere. E a questo punto è come se usasse violenza sulla propria persona.

[12] cfr. Peter Singer, Liberazione animale, pp. 9-10.

[13] cfr. Peter Singer, Liberazione animale, p. 10

[14] Ivi, p. 11

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