“Dépense, sacrificio e trascendenza:

Georges Bataille e la filosofia della religione”

 

di Claudio Tarditi

 

 

“Si rimedia al carattere vuoto del mondo trascendente con il sacrificio. Con la distruzione di un oggetto d’importanza vitale, si spezzava in un punto il limite del possibile: l’impossibile, in questo punto, era liberato da un crimine, messo a nudo, svelato.”

Georges Bataille

 

 

 

§1. Dalla dépense al sacrificio.

L’opera di Bataille è un immenso frammento composto da una miriade di frammenti. Nessuna lettura critica che, negli ultimi anni, ha tormentato questo testo è riuscita a spiegare perché alcune opere siano state pubblicate, altre siano rimaste inedite, altre ancora presentate sotto vari pseudonimi. Perché, ad esempio, delle sette versioni della Nozione di dispendio[1] proprio quella che leggiamo ha visto la luce? E perché altre opere, come La parte maledetta, sono sempre presentate come frammenti di un’opera più vasta, che si proietta nel futuro, senza mai trovare compimento[2]? Ciò nonostante, questi frammenti ruotano tutti attorno ad un centro, al sole nero della morte: oscurità splendente, eruzione ed inabissamento, per cui, curiosamente, l’opera più frammentaria del Novecento francese risulta, nello stesso tempo, l’opera più “unita”, più stretta al suo tema segreto, con una perseveranza quasi religiosa. Questo centro, questo sole nero, attraversa tutta l’opera di Bataille, già a partire dal primo romanzo, lo scandaloso Storia dell’occhio[3]: esso si determina come il progressivo emergere di una terribile verità sempre nascosta, la verità del consumo, della distruzione, del dispendio senza contropartita, del sacrificio.

            È la realtà della dissipazione che chiude L’Educazione sentimentale di Flaubert in una disperata rassegna di lapidi, o La bestia umana di Zola in una corsa verso il nulla, che cancella ogni fede positivista nel progresso. Questa è l’eredità che Bataille coglie e che fa irrompere nella Nozione di dispendio, pubblicato nel 1933 in “La critique sociale”: qui inizia l’isolamento di Bataille, un isolamento che costituisce, allo stesso tempo, la sua necessità nel contesto culturale del Novecento francese. La Nozione di dispendio è il primo tentativo, ancora ingenuo, di rovesciare il male e l’insensatezza del nostro tempo – la “normalità” di un’esistenza che ha sepolto la propria tensione metafisica verso un oltre, verso un orizzonte luminoso al di là dell’oscuro abisso – in un senso nuovo, in un male che sia il rovescio di quel male. Si tratta, in una parola, di rovesciare ogni sapere consolidato, l’intero “principio di entropia”, per mostrare il fondo oscuro e tenebroso dell’esistenza, la presenza costante – dietro il simulacro dell’utile - di quel male che si realizza nel dispendio, nello sperpero, nella dilapidazione. Bataille si muove in questa direzione, contro la scienza del suo tempo, appellandosi alla scienza etnologica di Durkheim e al Saggio sul dono di Mauss per mostrare l’insufficienza del principio classico dell’utilità: l’umanità fatica a riconoscerlo, ma la metà della sua attività è costitutivamente improduttiva, nel senso che si fonda sul dispendio di energie e merci, sino al dispendio - fine a se stesso - di vite umane: tali attività, per acquistare il loro senso, necessitano di un dispendio il più grande possibile. Tale nozione di dispendio, affacciatasi in questo brevissimo ma significativo saggio, diventa il fulcro del successivo saggio, La parte maledetta, pubblicato nel 1949. Qui Bataille introduce il concetto di doppia economia. Nel suo primo significato, che è anche quello classico, l’economia studia i processi della produzione, dello scambio e del consumo finalizzato alla ri-produzione; al contrario, quella che Bataille chiama “l’economia in grande”, l’economia generale, si fa carico del lato oscuro e invisibile della produzione, in altre parole di ciò che fa dell’economia non una scienza comune, ma un’antinomia tragica. Si tratta del paradosso dell’eccedenza, il fatto che al massimo della produzione corrisponda sempre il massimo della perdita[4]. Il primo esempio di dépense che l’etnologia – in particolare il Saggio sul dono di Mauss – offre a Bataille è l’usanza nordamericana del potlàc; esso consiste nel dono reciproco finalizzato alla restituzione ad usura: insomma, si dona non gratuitamente, ma per vedersi restituire un dono maggiore di quello fatto, poiché non restituire il dono significa restare sottomesso alla volontà di colui dal quale lo si è ricevuto. Tuttavia, il potlàc, pur essendo un buon esempio di dispendio, in quanto sottrae le cose al consumo produttivo, non le libera dalla schiavitù dell’utile, poiché il dono è comunque fatto in vista di una restituzione futura.

Esiste un’esperienza più radicale, che strappa completamente gli oggetti all’ordine del consumo produttivo e li consegna ad una sfera totalmente altra, trascendente il pensiero razionale: il sacrificio. Esso de-crea, de-cosifica la cosa, istituendo un rapporto nuovo tra il soggetto e l’oggetto: la vittima del sacrificio è la più maledetta perché oltrepassa ogni ordine possibile del reale, restituisce la cosa al mondo sacro. “Il sacrificio restituisce al mondo sacro ciò che l’uso servile ha degradato, reso profano. L’uso servile ha reso cosa (oggetto) una realtà che, nel profondo, è della stessa natura del soggetto, che si trova con il soggetto in un rapporto d’intima partecipazione. Non è necessario che il sacrificio distrugga, propriamente, l’animale o la pianta che l’uomo dovette rendere cosa per il proprio uso. Basta che li distrugga in quanto cose, in quanto sono divenuti cose. La distruzione è il miglior mezzo per negare un rapporto utilitario tra l’uomo e l’animale o la pianta.”[5]

 Se il potlàc sembra restare ancora legato, in qualche modo, all’ordine della produzione, il sacrificio accede all’intimità della cosa, al suo essere più nascosto. Allo stesso tempo, la restituisce alla dimensione che le è propria, al sacro, sottraendola dallo stato di alienazione a cui la logica dell’utile l’ha ridotta. Il sacrificio è la distruzione della cosa in quanto oggetto di consumo utile e produttivo. Ma, perché ciò accada, perché sia distrutto il nostro rapporto con le cose in quanto oggetti, il sacrificio dev’essere innanzitutto sacrificio di un sapere: non è possibile, secondo Bataille, giungere all’oggetto ultimo della conoscenza senza che la conoscenza stessa non sia dissolta. Solo nel non-sapere il nulla della cosa ridotta a mero oggetto viene tolto nell’esperienza dell’intima oscillazione che “abita” le cose, e che ne fa il luogo di transiti infiniti, d’infinite possibilità. È a questo punto che Bataille abbandona il progetto di continuazione della Parte maledetta per studiare, ne L’esperienza interiore e in tutti gli altri testi della Somma ateologica[6], le varie modalità della dépense – riso, erotismo, sacrificio, poesia – secondo la “legge della comunicazione”, che dovrebbe congiungere in un punto ciò che fin qui si presenta come separato: la conoscenza dell’oggetto e del soggetto contemporaneamente, all’interno di una esperienza.  La Parte maledetta si chiude sulla stessa aporia che aveva costretto Bataille ad interrompere Il limite dell’utile. La vera comunicazione fra soggetto e oggetto ha luogo dove la vita raggiunge la sua forza massima, al limite stesso della morte: ma nel momento stesso in cui abbiamo accesso a questo limite, c’inabissiamo nel nulla, là dove non esiste più né soggetto né oggetto, e neppure la loro comunicazione.

“Esiste tra il mio simile e me un legame che tocca la parte sacra, mia e degli altri. Questo legame esiste, ma quando si sacrifica un uomo si confessa che per noi questo legame non esiste.”[7]

 

§2. L’esperienza interiore.

            Abbiamo appena visto come il progetto che ruota attorno a La parte maledetta si areni su un’aporia, la stessa su cui si era interrotto, cinque anni prima, Il limite dell’utile: l’autentica comunicazione tra soggetto e oggetto, che si dovrebbe realizzare al limite stesso della vita, cioè nella morte, massima manifestazione della perdita fine a se stessa, sprofonda invece nel nulla, là dove non esiste più né soggetto, né oggetto, né comunicazione. Allo stesso esito perviene la Teoria della religione, progettato come la prosecuzione de La parte maledetta, in cui Bataille giunge a parlare della “puerile incoscienza del sacrificio”[8], dell’ordine negativo, ma pur sempre ordine, che esso stabilisce. Soltanto la morte[9] emerge come il massimo dis-ordinamento possibile, come autentica de-creazione capace di accedere all’essere vero delle cose. Tuttavia, a questo punto, siamo tornati nel cuore dell’enigma da cui siamo partiti: infatti, se la morte è l’unico modo per eccedere il limite che costringe le cose a una mera cosalità, e l’io all’essere definito come opposizione a questa inesorabile insensatezza, allora non c’è nulla che possa dare senso al reale, al suo consumo fino alla morte. In questa prospettiva, c’è soltanto spazio per il non-senso universale e per il dolore.

            Su questo problema s’interrompe – all’altezza de Il limite dell’utile - il progetto de La parte maledetta, che tuttavia noi abbiamo seguito sino ai suoi esiti ultimi, e inizia la stesura della Somma ateologica, quella che avrebbe dovuto diventare la grande opera di Bataille, ma che, inesorabilmente, è rimasta incompiuta. Il primo volume di quest’opera, L’esperienza interiore, identifica il luogo della comunicazione tra la ragione umana e il suo al di là - la sua dimensione sacra, l’essere autentico delle cose – nella mistica, quella che Bataille definisce, per l’appunto, l’“esperienza interiore”.

            Per esperienza interiore intendo ciò che abitualmente vien detta esperienza mistica: gli stati di estasi, di rapimento, quanto meno di emozione meditata. Ma penso meno all’esperienza confessionale, cui si è dovuti sinora attenere, che a un’esperienza nuda, libera da legami, anche di origine, con qualsiasi confessione. Ecco perché non mi piace la parola mistica. […] L’esperienza interiore risponde alla necessità in cui mi trovo – l’esistenza umana con me – di porre tutto in causa (in questione) senza ammettere tregua. […] Ho voluto che l’esperienza guidasse là dove conduceva, non condurla a qualche fine stabilito in precedenza. E dico subito che essa non conduce ad alcun posto tranquillo (ma in un luogo di smarrimento, di non-senso). Ho voluto che il non-sapere ne fosse il principio – e in questo ho seguito, con più aspro rigore, un metodo in cui i cristiani eccelsero (essi si spinsero su questa via fin là dove permise il dogma). Ma tale esperienza nata dal non-sapere in esso indubbiamente persiste. Essa non è ineffabile, non la si tradisce parlandone, ma, di fronte alle domande del sapere trafuga persino allo spirito le risposte che esso ancora aveva. L’esperienza non rivela nulla e non può fondare la credenza né da lì partire. L’esperienza è la messa in questione, nella febbre e nell’angoscia, di ciò che un uomo sa del fatto di essere.”[10]

            L’esperienza interiore è dunque un viaggio ai limiti del possibile umano, ed il suo principio è il non-sapere, la liberazione dalla razionalità abituale che incatena l’esistenza e le cose alla schiavitù dell’utilità. Nell’esperienza lo spirito è messo a nudo nella tensione che spezza le regole del sapere: l’io è gettato di fronte alla nudità senza riserve, che non può essere né detta né articolata in un pensiero. Solo il sacrificio della parola nella poesia[11] può forse trovare una forma per un’esperienza che resterebbe, altrimenti, puramente estatica. La poesia si rivela pertanto una forma particolare della pura dépense improduttiva, un sacrificio in cui le parole sono “de-parolificate”, ossia strappate dal loro significato abituale e consegnate ad un al di là sacro dove trovano il proprio essere vero. Se, come si è detto, l’esperienza mistica poggia sul non-sapere, essa si oppone decisamente all’idea di progetto[12] come atteggiamento comune dell’esistenza umana; essa si determina abitualmente nei propri progetti, sui quali ragiona, calcola, agisce: si trova dunque nel dominio dell’utile e della schiavitù. Orbene, se dobbiamo lasciare spazio all’esperienza interiore, dobbiamo rinunciare ad ogni progetto razionale ed abbandonarci alla perdita di ogni certezza o stabilità, ad una sorta di non-sapere che, tuttavia, non è mai mollezza o indifferenza, ma audace decisione per l’ignoto. In ultima analisi, l’esperienza interiore non si fonda su alcunché, ma si appella soltanto alla propria autorità: essa è la cessazione di ogni operazione intellettuale, la cessazione di ogni discorso: è, essenzialmente, silenzio. Il significato dell’esperienza interiore, rispetto ad ogni processo razionale, è cosi sintetizzato da Bataille: “La differenza tra esperienza interiore e filosofia risiede principalmente nel fatto che, nell’esperienza, l’enunciato non è nulla, se non un mezzo e anche, in questo mezzo, un ostacolo; ciò che conta non è più l’enunciato del vento, è il vento.”[13]

            Ricapitoliamo. L’esperienza interiore è l’evento in cui l’io, ormai del tutto estraneo al progetto che è stato e al legame cogli oggetti in quanto strumenti utili, oltrepassa la soglia dell’umano per perdersi nell’oltre, nell’abisso oscuro del non-senso e del male esperito sino alla sua più intima radice. In ciò differisce dall’ascesi cristiana, che mantiene sempre una connotazione positiva, ciò che si chiama salvezza, insomma un fine al quale si lavora e per il quale si progetta l’esistenza. Inoltre, se entrambe possono essere considerate come sacrifici, l’ascesi resta comunque sacrificio di una parte di sé che si perde in vista di un’altra, mentre l’esperienza interiore consiste nella perdita di tutto il proprio essere, nella rinuncia totale al principium individuationis, nella decisione risoluta - scevra da ripensamenti – per l’ebbrezza del baccanale.

            “Voglio dare ancora una volta lo schema dell’esperienza che chiamo esperienza pura. Dapprima raggiungo l’estremo del sapere (ad esempio, mimo il sapere assoluto, poco importa come, ma ciò suppone uno sforzo infinito dello spirito che vuole il sapere). So allora che non so nulla. Ipse ha voluto essere tutto (tramite il sapere) e cado nell’angoscia: l’occasione dell’angoscia è il mio non-sapere, il non-senso senza rimedio (il non-sapere non sopprime qui le conoscenze particolari, ma il loro senso, toglie ogni senso). […] Finché l’ipse persevera nella sua volontà di sapere e di essere ipse dura l’angoscia, ma se l’ipse si abbandona e con se stesso il sapere, se si dà al non-sapere in tale abbandono, ha inizio il rapimento. Nel rapimento la mia esistenza ritrova un senso, ma il senso si riferisce immediatamente all’ipse, diventa il mio rapimento, un rapimento che io ipse possiedo, tale da soddisfare la mia volontà di essere tutto. Non appena ne faccio ritorno, cessa la comunicazione, la perdita di me stesso, ho smesso di abbandonarmi, rimango lì, ma con un sapere nuovo.”[14]

            In queste poche righe risiede il senso ultimo dell’esperienza interiore, in equilibrio tra i pensieri di due grandi figure filosofiche che, pur nella loro opposizione, rappresentano due elementi necessari e ineludibili per la riflessione bataillana: Hegel e Nietzsche. Infatti non si dà esperienza mistica, non si dà comunicazione se prima non si è esperita sino in fondo la fallacia del sapere assoluto, l’illusorietà della pretesa di possedere il mondo e l’esistenza - in tutte le sue forme – attraverso il pensiero, la ragione, la logica. Questo è il senso della filosofia hegeliana[15]: un fallimento, ma un fallimento necessario. D’altro canto, non si raggiunge l’estasi, il rapimento, senza che l’io non si abbandoni al rapimento stesso. Di che natura è tale abbandono? Esso è il contrario di una qualche mollezza o non-volontà: è il sacrificio, sintomo di quella “grande salute” e “spirito di decisione” che Bataille eredita direttamente da Nietzsche. Come si è già visto, il sacrificio è l’atto attraverso cui si strappano gli oggetti alla loro appartenenza – che è allo stesso tempo alienazione e schiavitù – alla logica dell’utile e del profitto; tuttavia, a ben vedere, questo sacrificio rappresenta soltanto il gradino più basso di una scala che culmina nell’ultimo, tremendo, crudele sacrificio: il sacrificio di Dio.

            “Data la servilità crescente in noi delle forme intellettuali, ci tocca compiere un sacrificio più profondo di quello degli uomini che ci hanno preceduti. Non dobbiamo più compensare con offerte l’abuso che l’uomo ha fatto delle specie vegetali, animali, umane. La riduzione degli uomini stessi alla servitù ha ora (del resto, da molto tempo) conseguenze nell’ordine politico (è opportuno, invece di trarne conseguenze religiose, abolire gli abusi). Ma il supremo abuso che l’uomo fa tardivamente della propria ragione richiede un ultimo sacrificio: la ragione, l’intelligibilità, il terreno stesso su cui si regge, l’uomo li deve respingere, in lui Dio deve morire, è il fondo del terrore, l’estremo in cui soccombe.”[16]

            Il destino dell’uomo è terribile, tragico: ogni certezza, ogni retaggio dell’esistenza intesa come progetto e calcolo, ogni speranza di consegnare se stessa e il mondo ad un senso intelligibile devono morire. Tuttavia, analogamente a quanto accade nel percorso teorico di Nietzsche, Bataille non descrive questo ultimo ed estremo sacrificio, in cui l’uomo vecchio - l’uomo della servitù – sprofonda nell’angoscia, come un totale annichilimento dell’io: il “salto”[17] nel nulla, nella dimensione del puro dispendio, avviene solo grazie ad una decisione grande e risoluta, anzi, la più grande e risoluta azione che l’uomo abbia mai compiuto. Finalmente, dopo secoli di schiavitù alla logica del profitto, alla razionalità, alla morale, a quel fantoccio che i servi, per giustificare il loro “spirito gregario”, hanno chiamato Dio, l’uomo può liberarsi dal giogo, esperire il male sino in fondo, penetrarlo e riappropriarsi del proprio essere divino. L’esistenza umana - dominio della ragione e dell’utile – e il suo oltre - la sua dimensione sacra, il suo possibile estremo - entrando in comunicazione nell’esperienza mistica, raggiungono una dimensione che prima non avevano, vengono annientati in quanto elementi separati, in quanto individualità. Questo annientamento di ciò che è separato è la ferita immedicabile che ci apre al mondo: questa lacerazione inguaribile dell’essere, che ci offre la possibilità di giungere al contrario dell’essere, all’estremo del possibile, è ciò che abitualmente chiamiamo male, ma che un gesto sovrano ci concede nell’istante supremo del sacrificio, dell’eros che demonicamente divide e plasma il mondo[18].

 

§3. Dal riso all’erotismo.

            Il percorso seguito ne L’esperienza interiore ci ha condotti sulla soglia di un’impossibilità cui si perviene soltanto con un salto nel nulla, con il sacrificio di ogni solidità razionale, con l’eliminazione stessa di Dio e di ogni senso intelligibile: questa è la grande decisione dell’uomo proiettato verso la sovranità, ossia il totale distacco dalla logica dell’utile e la perdita dell’io nei recessi più remoti della negatività. Questa audace risoluzione per l’oltre, per l’assenza di ogni fondamento, si annuncia in un fenomeno apparentemente secondario, il riso. Proprio laddove non ci si aspetterebbe alcuna traccia dell’angoscia del nulla, dove tutto sembra tranquillo, sereno, stabile. Eppure il riso è una forma embrionale di sacrificio: “Il riso comune, supponendo allontanata l’angoscia, quando nello stesso tempo ne trae spunti di ripresa, è indubbiamente la forma insolente di un simile imbroglio: non è chi ride a essere colpito dal riso, ma uno dei suoi simili – quantunque senza eccesso di crudeltà. Le forze che lavorano alla nostra distruzione trovano in noi complicità così felici – e talvolta così violente – che non ci è possibile allontanarci da esse semplicemente perché lì ci porta l’interesse. […] Certamente questa parola, sacrificio, significa che alcuni uomini, per loro volontà, fanno entrare alcuni beni in una regione pericolosa, in cui infieriscono forze distruttrici. Così sacrifichiamo colui di cui ridiamo, abbandonandolo senz’angoscia alcuna a una decadenza che ci sembra lieve.”[19]

            Scopriamo così che, anche laddove ci sembra del tutto assente la dimensione soppressiva, costitutiva del sacrificio, le forze distruttrici della pura dépense sono al lavoro: pertanto, ridendo di qualcuno, lo strappiamo all’ordine abituale del mondo, per consegnarlo al sacro e all’angoscia del nulla[20]. Nella direzione del possibile estremo e del sacrificio, al cui inizio abbiamo trovato il riso, si muove un altro complesso fenomeno, l’erotismo. Nel 1950 Bataille scrive la Storia dell’erotismo[21], che avrebbe dovuto costituire la seconda parte de La parte maledetta, ma che è rimasta inedita. L’erotismo è innanzitutto dépense, non serve a nulla, eppure è comune a tutti gli uomini, è la “parte maledetta per eccellenza”. Tuttavia, pur nella sua inutilità, esso fonda, nella trasgressione della mera animalità, l’umanità autentica. L’uomo è l’animale che nega la natura, ma che la ritrova nelle sue deiezioni, in un gesto che, tuttavia, non è mera negazione dialettica, poiché qui i contrari non sono mai superati nell’Aufhebung hegeliana. Non si tratta, infatti, di un superamento, ma di una trasfigurazione: la “parte maledetta” si esplica nell’opera – distruttiva e costruttiva insieme – che ci consegna ad un’altra natura, sconosciuta ad ogni produzione concettuale o fattuale. L’erotismo ci mette dunque di fronte alla massima corruzione, nel luogo in cui si apre la ferita che non può più rimarginarsi. Nell’abbraccio, nella stretta amorosa ed erotica, si apre uno spazio ignoto, in cui si respira un’aria nuova e in cui il mondo appare in un modo nuovo: già, perché il desiderio che l’erotismo esprime è sempre desiderio di un altro, di un oltre. “In una parola l’oggetto del desiderio è l’universo nella forma di colui che, nella stretta, è lo specchio in cui noi stessi siamo riflessi. Nell’istante più vivo della fusione, il puro splendore della luce, come un lampo improvviso, illumina il campo immenso delle possibilità.”[22]

            Qui, nel punto in cui emerge, nella totalità dell’essere, l’animalità più ripugnante, qui, in questa terribile e gioiosa caduta, c’è il senso di una duplicità autenticamente tragica, che ci permette di avere l’esperienza ultima della morte nell’atto stesso della vita. Ma è, ancora una volta, l’impossibilità di Bataille di pensare al limite come a una soglia, che lo porta verso la catastrofe del suo stesso discorso. Il luogo dell’abbraccio diviene “il vuoto in cui non c’è più parola”, nell’ “assenza di fondo e di limiti dell’universo che l’amplesso disegna”[23]. Il dominio di questo spazio è l’atto sovrano, che è, come si è visto, il sacrificio ultimo, la negazione assoluta che ci consegna alla fine della storia e ad un presente in cui domina il non-sapere[24]. Ma chi può vivere fuori dalla storia? È questo l’argomento de La sovranità[25], progettato come terza e ultima parte de La parte maledetta. La sovranità è l’aldilà dell’utile a cui possono avere accesso tutti gli uomini nell’istante miracoloso in cui hanno la sensazione di poter “disporre liberamente del mondo”[26]. Il sovrano, in questo istante, si sente realmente Dio, esperisce la totalità delle contraddizioni di un sapere illimitato, che è il sapere del nulla. È l’istante in cui la conoscenza si arresta di fronte all’esperienza di ciò che è autenticamente essenziale, e che Nietzsche ha espresso con il grido terribile, ma ciononostante di gioia, di una soggettività felice, perché se Dio è morto l’uomo può diventare veramente sovrano, signore di se stesso.

            In questa fase di pensiero, tuttavia, Bataille matura la consapevolezza di una sua certa qual “incapacità” nel dire l’impossibile, l’estremo, connotare positivamente la sovranità cui si giunge attraverso il sacrificio di Dio. Così, ancora una volta, il progetto della Storia dell’erotismo si interrompe, e Bataille si rivolge alla letteratura, cercando in essa il mezzo più adatto per esprimere l’inesprimibile. È la stagione dei saggi La letteratura e il male[27], Lascaux, o la nascita dell’arte[28], L’odio della poesia[29] e del grande romanzo L’azzurro del cielo[30]. Possiamo rintracciare una svolta nel pensiero bataillano nella versione della Storia dell’erotismo del 1957, intitolata semplicemente L’Erotismo. In questo breve saggio, emerge tutto ciò che l’erotismo, la “parte maledetta” per eccellenza, può svelare, ciò che Bataille non era riuscito ancora a dire giunge qui ad un’evidenza lancinante: “Dell’erotismo si può dire che esso è l’approvazione della vita fin dentro la morte.”[31]

            Qui, dove l’”essere è messo in questione” sin nella sua più intima radice, l’estremo del possibile è raggiunto “con una gioia spasmodica”, come scrive Bataille nelle Lacrime di Eros[32], il suo ultimo scritto. Nelle opere precedenti, Bataille aveva parlato più volte di un’esperienza che guarda alla morte, della morte che si genera dalla vita, a sua volta generatrice di morte. Mai era giunto però al punto di cogliere la morte come ombra della vita. Il negativo rovesciato era rimasto se stesso, sia pure capovolto. Ora, quando – come scrive Nietzsche – “entriamo nella stanza tremenda della verità”, là dove scopriamo che “c’è una felicità nel grembo delle cose”, che proietta “la sua ombra intorno alle luci”[33], il negativo diviene un’altra cosa. Bataille ora ha davvero compreso la saggezza di Nietzsche, quando questi affermava che “se un giorno non riesci a sopportare la vita, devi cercare di amarla”, in quanto “il difensore della vita” è costretto “a difendere anche la sofferenza”[34].

 

§4. La potenza del negativo.

            Ancorato alla dialettica hegeliana, spinta sino agli estremi, sino al suo punto di dissoluzione e di evanescenza, Bataille non è riuscito – sino alla Storia dell’erotismo – a pensare l’impensabile, ma soltanto ad indicarlo, attraverso una tensione spinta sino all’angoscia dell’apertura senza confini, in cui è possibile solo perdersi. In altre parole, il movimento hegeliano è stato da lui aperto – per non dire sfondato – sino ai limiti del non-sapere, ma di questo spazio, di questo al di là della ragione, non ha trovato parola possibile. Per questo Bataille si è rivolto alla letteratura. Ma la letteratura, sottomessa ad un compito che non le è proprio, quello cioè di “luogotenente” della filosofia, ha finito per appiattirsi in una sorta di allegoresi che, anziché aprire il senso del reale, lo chiude in un unico significato, in un’unica immagine, ben lontana dal compito di unificare la suprema tensione della molteplicità dei contrasti[35].

            Questo residuo di non-detto, di opacamente proiettato verso un oltre che costantemente sfugge alla parola, è finalmente espresso da Bataille ne L’Erotismo, dove, per la prima volta, la vita e la morte si compenetrano in un tutt’uno inseparabile e il negativo entra in una dimensione nuova, che non ha più nulla a che fare con la negazione dialettica. In uno degli ultimi articoli, Hegel, la morte et il sacrificio[36], Bataille, sottolineando l’importanza degli studi di Kojève sulla filosofia hegeliana, riformula la sua teoria del sacrificio, giungendo però, questa volta, sino all’estremo, là dove la vita e la morte si compenetrano vicendevolmente. “Del sacrificio posso dire essenzialmente, sul piano della filosofia di Hegel, che, in un certo senso, l’uomo ha rivelato e fondato la verità sacrificandosi: nel sacrificio, egli distrugge l’animale in se stesso, non lasciando sussistere, di se stesso e dell’animale, che la verità non corporale che descrive Hegel, che fa dell’uomo – secondo l’espressione di Heidegger – un essere-per-la-morte, o – secondo l’espressione di Kojève stesso – la morte che vive una vita umana.”[37]

            Ancora una volta, il sacrificio si svela come la soglia attraverso cui avviene quella comunicazione tra l’umano e il suo oltre, tra la vita e la morte. Nel sacrificio l’uomo in quanto “cosa” è distrutto, resta solo più la sua dimensione negativa, il suo essere che esperisce la morte nella vita e la vita nella morte. La manifestazione privilegiata del negativo è la morte, ma, in verità, la morte non rivela nulla, nel senso che la rivelazione non ha mai luogo. L’uomo potrebbe rivelare a se stesso il proprio essere soltanto morendo e allo stesso tempo restando in vita: la morte dovrebbe divenire coscienza di sé, nel momento stesso in cui essa annienta l’essere cosciente[38]. L’unica via d’uscita risiede nel sacrificio: “Nel sacrificio, il sacrificatore s’identifica con l’animale colpito a morte. Così egli muore vedendosi morire, in qualche modo per la sua propria volontà, con in mano l’arma del sacrificio. Ma è una commedia!”[39]

            La forza rivelatrice del sacrificio si fonda pertanto sull’identificazione essenziale tra il carnefice e la vittima: è come se, nell’attimo in cui egli affonda la lama nelle carni della vittima, morisse egli stesso, mantenendo tuttavia la coscienza della propria morte. Il sacrificio, ponendoci vis-à-vis col negativo, è inscindibilmente legato alla necessità della rappresentazione[40] – si tratta di un vero spettacolo – e della ripetizione di essa, al fine di svelare all’uomo il suo vero essere, tragicamente impronunciabile. Finalmente, dopo un percorso teorico fatto di ripensamenti, oscillazioni, aporie e rifacimenti, Bataille giunge qui ad una chiarezza sorprendente: il sacrificio resta l’unica via d’accesso al negativo, alla sua esperienza più radicale, al di là di tutte le altre manifestazioni – il riso, la poesia, l’erotismo – che ne costituiscono solo una pallida ombra. Il sacrificio è finzione, è la “commedia” mediante cui l’uomo può esperire, mantenendo il suo essere coscienza di sé, la morte, la perdita totale, l’al di là impossibile ed estremo, l’alterità impenetrabile.

            Il progressivo isolamento intellettuale di Bataille si rivela ora come la ricerca di una prossimità ad un pensiero che, saldando logos ed eros, ha liberato quella che Hegel chiamava la “potenza del negativo”, al di là di ogni rigidità dialettica, sin dove la filosofia non si era mai spinta. Ciò che Bataille alla fine ha trovato è un nuovo pensiero della soggettività, di un soggetto che si spende, perché solo spendendosi può vincere l’orribile condanna alla passione per noi stessi, per il possesso, per le cose e i soggetti che incrociano il nostro sguardo. Nell’esuberanza di questo sguardo, che nulla nega e tutto accoglie, c’è la bellezza: c’è il rovesciamento reale dei decreti di un’economia legata alla mera produzione di cose, e al loro semplice e disperato consumo. La bellezza che questo sguardo coglie può davvero essere la chance della salvezza che il mondo delle cose effimere attende da noi, i più effimeri.

 



[1] G.Bataille, La notion de dépense, in “La critique sociale”, n.7, Gennaio 1933. Questo testo fu rielaborato più volte da Bataille, tanto che possiamo contarne ben sette versioni: quella pubblicata è la quinta, posta da J.Piel in testa alla seconda edizione di La part maudite (cfr. G.Bataille, O.C., I, cit., pp.147-58).

[2] La pubblicazione delle Œuvres Complètes, portata a termine in dodici volumi, ha reso più evidente questa logica frammentaria, dalla quale dobbiamo partire se vogliamo avere accesso al senso di una marginalità che è, in Bataille, la tragica coscienza che la verità non può più essere colta dentro un sistema o un’idea, ma nel movimento erratico della ricerca: nella ricerca dell’enigma. Esattamente in questo punto risiede la ragione della necessità di ripercorrere Hegel sino al fallimento del sistema, per cogliere l’enigma di una verità accessibile solo attraverso un al di là della ragione, che assumerà, nelle ultime opere, la forma dell’esperienza mistica.

[3] Lord Auch (pseudonimo di G.Bataille), Histoire de l’œil, in O.C., I, cit. Lo scandalo di quest’opera non è nel suo erotismo spinto, una sorta di eretismo sessuale di moda in quegli anni. Lo scandalo è proprio nella storia, nel destino dell’occhio, in ciò che esso vede alla fine. Il libro si muove attraverso una serie di immagini dell’occhio – le uova, i testicoli del toro – che si avvicinano inesorabilmente a un luogo di invisibilità, là dove, forse, sarà offerto allo sguardo ciò che non si vede abitualmente. L’immagine conclusiva è terribile e tragica: terribile perché l’occhio, affondato nel sesso, dove doveva trovare la verità che si sottrae alla luce della ragione, non vede nulla, è un occhio morto; tragica perché, nell’incandescenza di un simbolo incancellabile, è possibile intravederne il contrario. La morte dovrà testimoniare della vita, ma il simbolo diventerà trasparente soltanto al termine dell’itinerario intellettuale di Bataille, quando troverà la sua caratterizzazione positiva nell’esperienza mistica.

[4] “L’uomo non è soltanto l’essere separato che disputa la sua parte di risorse al mondo vivente o agli altri uomini. Il movimento generale di dilapidazione della materia vivente lo anima ed egli non saprebbe arrestarlo; anche al vertice la sua sovranità nel mondo vivente lo identifica con questo movimento; lo vota, in modo privilegiato, all’operazione gloriosa, al consumo inutile. (G.Bataille, La parte maledetta, cit., p.37). 

[5] Ivi, p.66. Come si vede chiaramente, Bataille interpreta il sacrificio come un sottrarre le cose dal loro essere di oggetti. È il rapporto intimo tra sacrificatore e vittima che emerge nel sacrificio: “Ciò che il rito ha la virtù di ritrovare, è la partecipazione intima del sacrificante e della vittima, cui un uso servile aveva posto fine. Lo schiavo assoggettato al lavoro e diventato proprietà di un altro è una cosa allo stesso titolo di un animale da lavoro. Chi impiega il lavoro del suo prigioniero tronca il legame che lo unisce al suo simile. Non è lontano il momento in cui lo venderà. Ma il proprietario non ha soltanto fatto di questa proprietà una cosa, una merce: nessuno può render cosa l’altro se stesso che è lo schiavo senza allontanarsi nello stesso tempo da ciò ch’egli medesimo è intimamente, senza porre a se stesso i limiti della cosa.” (ivi, pp.66-67). È chiaro il riferimento alla dialettica hegeliana del servo e del padrone, ma Bataille la pone completamente fuori dalla logica hegeliana, al fine di recuperare tutta la sua negatività: per Bataille non c’è sintesi (cfr. le critiche di Sartre a Bataille in J.P.Sartre, Qu est-ce que la littérature?, in Situation, II, Parigi, Gallimard, 1948; trad. it. Che cos’è la letteratura?, Milano, Il Saggiatore, 1976), ma si apre lo spazio negativo del sacrificio e della sovranità, cioè dell’alterità che rende terribile la lucidità trasparente della dialettica hegeliana. (cfr. J.Derrida, De l'économie restreinte à l'économie générale: un hégélianisme sans réserve, in “L'Arc”, V,1967.  Ora in L'écriture et la différence, cit.)

[6] La Somme athéologique è il progetto di una grande opera che doveva contenere tutto il pensiero maturo di Bataille. Anch’essa resterà incompiuta, e si compone de L’expérience intérieure, Méthode de méditation, Post-scriptum e Le coupable, tutti raccolti in G.Bataille, O.C., V, cit.

[7] G.Bataille, La limite de l’utile, in O.C., VII, cit., p.542.

[8] Tutta la Teoria della religione ruota attorno alla nozione di sacrificio come sottrazione della cosa alla propria cosalità, in altre parole alla propria alienazione nella logica dell’utile: “Il principio del sacrificio è la distruzione, ma per quanto si giunga a volte a distruggere totalmente (come nell’olocausto), la distruzione che il sacrificio intende operare non è l’annientamento. È la cosa – solo la cosa – che il sacrificio vuole distruggere nella vittima. Il sacrificio distrugge i legami di subordinazione reali di un oggetto, strappa la vittima al mondo dell’utilità e la rende a quello del capriccio inintelligibile. Quando l’animale offerto entra nel cerchio in cui il sacerdote lo immolerà, passa dal mondo delle cose – precluse all’uomo e che per lui sono niente, che conosce dall’esterno – al mondo che gli è immanente, intimo, conosciuto come lo è la donna nella consumazione carnale.” (G.Bataille, Teoria della religione, cit., p.43). Il sacrificio varca la soglia di una dimensione totalmente altra da quella umana e razionale, e necessita di un progressivo offuscamento della coscienza: in questo senso Bataille parla di “puerile incoscienza del sacrificio”. 

[9] “La potenza che in genere ha la morte chiarisce il senso del sacrificio, che opera come la morte, poiché esso restituisce un valore perduto attraverso l’abbandono di questo valore. Ma la morte non gli è necessariamente legata e il sacrificio più solenne può non essere cruento. Sacrificare non è uccidere, ma abbandonare e donare. […] Quello che importa è passare da un ordine duraturo, dove ogni consumo di risorse è subordinato alla necessità di durare, alla violenza di un consumo incondizionato; quello che conta è uscire da un mondo che crea e conserva (che crea a profitto di una realtà duratura). Il sacrificio è l’antitesi della produzione, fatta in vista dell’avvenire, è il consumo che non ha interesse che per l’istante.” (ivi, pp.46-47).

[10] G.Bataille, L’esperienza interiore, cit., pp.29-30. Sebbene Bataille neghi ogni dimensione religiosa e confessionale dell’esperienza interiore, chiari sono i riferimenti alla tradizione cristiana della mistica e della teologia negativa. Scrive Bataille: “Leggo in Dionigi l’Areopagita (Nomi divini, I, 5): “Coloro che, con la cessazione intima di ogni operazione intellettuale entrano in intima unione con l’ineffabile luce […] parlano di Dio solo per negazione.” Ed è così dall’istante in cui l’esperienza rivela e non la presupposizione (al punto che agli occhi dello stesso la luce è “raggio di tenebre”; si spingerebbe a dire, secondo Eckart: “Dio è nulla”.). ” (ivi, p.31).

[11] Scrive Bataille: “Della poesia dirò ora che essa è, credo, il sacrificio in cui le parole sono vittime. Le parole, le utilizziamo, ne facciamo gli strumenti di atti utili. Non avremmo nulla di umano se il linguaggio in noi dovesse essere interamente servile. Non possiamo neppure fare a meno dei rapporti efficaci che le parole introducono tra gli uomini e le cose. Ma le strappiamo a questi rapporti in un delirio.” (ivi, p.210).

[12] Com’è noto, lo scontro tra Bataille e Sartre si gioca proprio a proposito della nozione di progetto. Cfr. J.-P.Sartre, Un nouveau mystique, in Situation, II, cit. 

[13] Ivi, p.43.

[14] Ivi, pp.97-98.

[15] Bataille si sofferma a lungo sul fallimento della filosofia hegeliana, provando un certo gusto nel mostrare i segni del progressivo cedimento del sistema e del conseguente vacillare della forte personalità di Hegel stesso: “Allorché il sistema si chiuse, Hegel credette per due anni di diventare pazzo: forse ebbe paura di aver accettato il male – che il sistema giustifica e rende necessario; o forse, collegando la certezza di aver raggiunto il sapere assoluto con il compimento della storia – con il passaggio dall’esistenza allo stato di vuota monotonia – si è visto, in un senso profondo, diventare morto; forse, anche, queste tristezze diverse si componevano in lui nell’orrore più profondo di essere Dio.” (ivi, p.175).

[16] Ivi, p. 209

[17] L’abbandono all’esperienza interiore è precisamente un “salto”, così come per Kierkegaard la scelta per la fede; pur nel trovarsi agli antipodi, entrambi i salti si configurano come decisione per l’ignoto, per l’infondato, per una dimensione totalmente altra da quella umana e razionale: solo che per Kierkegaard il salto conduce a Dio, mentre, per Bataille, esso implica la morte di quello stesso Dio, dal quale l’uomo si libera per accedere liberamente al nulla.

[18] Come si è visto, l’autore che ha reso pronunciabile il pensiero di Bataille è senza dubbio Nietzsche. Tuttavia, la critica ha detto ancora troppo poco circa i rapporti di Bataille con un altro autore, mai citato espressamente, eppure ben presente: S.Weil. Bataille e S.Weil sono insieme nella “Critique sociale”, e il loro rapporto sembra superare la semplice antipatia: rasenta l’incompatibilità. Uno dei protagonisti de L’azzurro del cielo (G.Bataille, Le bleu du ciel, in O.C., IV, cit.), il più grande – se non davvero l’unico - romanzo di Bataille, è proprio S.Weil, Lazare, per la quale il protagonista prova un sentimento di orrore e repulsione, ma anche di appartenenza: questa duplicità è il paradosso di una comunità inconfessabile, il senso profondo della comunicazione che viene teorizzata nello stesso periodo – i primi anni Quaranta – sia da Bataille che da S.Weil. Al fondo di questa comunicazione che è ferita ed apertura al mondo, c’è la necessità di sottrarre le cose all’ordine reale, alla loro povertà, restituendole al divino. Questo è il compito del sacrificio, dice Bataille; ma è anche ciò che afferma S.Weil quando scrive che “il sacrificio è un dono a Dio, e dare a Dio è distruggere.” (S.Weil, La connaissance surnaturelle, Parigi, Gallimard, 1950). È dunque in una dimensione gnostica che S.Weil e Bataille s’incontrano in un nodo decisivo. Dio, dice S.Weil, ha abdicato creando; l’uomo completa l’opera divina attraverso la de-creazione, che porta la cosa verso il nulla e noi stessi verso una misura diversa del reale. Questo gesto di de-creazione, che Bataille cercherà attraverso l’estasi e l’orgia, è appunto il limite del possibile, ossia quell’impossibile che è il solo accesso a Dio. Questo impossibile è chiamato male, e per questo “dobbiamo amare il male in quanto male.”

[19] G.Bataille, L’esperienza interiore, cit., pp.157-58.

[20] Questo sottrarre l’altro, di cui rido, dall’ordine razionale propriamente umano si manifesta essenzialmente nel mostrare la sua insufficienza e fallacia, causando in lui uno scacco: “Il riso nasce da dislivelli, da depressioni bruscamente date. Se tiro via la sedia… alla sufficienza di un personaggio serio succede immediatamente la rivelazione di un’insufficienza ultima (si tira via la sedia ad esseri fallaci). Sono felice, comunque sia, per lo scacco provato. E io stesso, ridendo, perdo la mia serietà. Come se fosse un sollievo sfuggire alla preoccupazione della mia sufficienza.” (ivi, p.148). 

[21] G.Bataille, Histoire de l’érotisme, in O.C., IX, cit.

[22] Ivi, p.100.

[23] Ivi, p.146.

[24] Anche le cosiddette Conferenze sul non-sapere del 1951-53, a cui Bataille lavorava negli ultimi istanti di vita, affermano il trionfo del non-sapere nella prospettiva della fine della storia (su quest’ultimo tema ha certamente un ruolo decisivo l’influenza della filosofia atea di Kojève).

[25] G.Bataille, La souveraineté, in O.C., V, cit.

[26] Ivi, p.249.

[27] G.Bataille, La littérature et le mal, in O.C., IX, cit.

[28] G.Bataille, Lascaux, ou la naissance de l’art, in O.C., IX, cit.

[29] G.Bataille, La haine de la poésie, in O.C., III, cit.

[30] G.Bataille, Le bleu du ciel, in O.C., IV, cit.  In realtà questo romanzo è stato scritto da Bataille alla vigilia dello scoppio della guerra mondiale, ma pubblicato soltanto nel 1957.

[31] G.Bataille, L’Erotisme, in O.C., VIII, cit., p.13.

[32] G.Bataille, Larmes d’Eros, appendice a L’Erotisme, in O.C., VIII, cit., p.577.

[33] Queste espressioni sono tratte da F.Nietzsche, Bruchstücke Nachträglichen 1882-1884, in G.W., VII, cit.

[34] Ivi, 17[1], 13[1], 22[3].

[35] Le avventure erotiche di Madame Edwarda, così come le deiezioni dell’Abate C., rimangono soltanto un’ombra rispetto a ciò che dovrebbero significare realmente. Tutti i loro gesti possono indicare la “parte maledetta” solo forzatamente e in modo piattamente razionalistico, rimanendo molto al di sotto di ciò che Bataille cercava angosciosamente di esprimere: ciò che l’occhio morto della Storia dell’occhio ci aveva permesso d’intravedere simbolicamente, ossia non solo la morte nella vita, ma anche – e forse più – la vita che si prolunga fin dentro la morte.

[36] Questo articolo è apparso la prima volta in  “Deucalion”, n.5, X, 1955. Ora in O.C., XII, cit., pp.326-45.

[37] Ivi, p.335 (trad. nostra).

[38] Ivi, p.336. Come sappiamo, questa aporia si ritrova spesso in Bataille, ed è una delle cause – forse la maggiore – dell’interruzione del progetto iniziale de La parte maledetta, all’altezza de La limite de l’utile.

[39] Ibidem.

[40] Scrive Bataille: “Questa difficoltà annuncia la necessità dello spettacolo, o in generale della rappresentazione, senza le cui ripetizioni noi resteremmo, faccia a faccia con la morte, stranieri, ignoranti, come apparentemente lo sono le bestie. Niente è meno animale, infatti, che la finzione, più o meno distante dalla realtà, della morte.” (ivi, p.337, trad. nostra).

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