Marc Bloch e la nouvelle histoire

 

(di Davide Guerra)

 

 

 

Introduzione

 

Ancora oggi, nel sentire comune, è facile che si parli di «storia» nei termini di «ricostruzione integrale del passato». In una tale prospettiva lo storico non sarebbe altro che un erudito, un assiduo frequentatore di biblioteche, il cui operare si ridurrebbe, in ultima analisi, a un lavoro di filologo che, scoperti i documenti, si limita a leggerli. Da questa semplice operazione, scaturirebbe in modo del tutto spontaneo la «storia». Ora, questa idea affonda le sue robuste radici in quel particolare clima culturale che attraversò l’intera Europa nel corso dell’Ottocento e che si è soliti riassumere con il termine «positivismo» . Questo particolare paradigma epistemologico condannava infatti la disciplina storica al ruolo abbastanza misero di «contenitore di fatti»: come verrà meglio chiarito in seguito, lo storico doveva limitarsi a collezionare i fatti, sistemandoli nel loro esatto ordine cronologico a uso e consumo della scienza sociologica, l’unica in grado di avere una conoscenza oggettiva dei fatti umani. Questa prospettiva fu tuttavia oggetto di aspre critiche nei primissimi decenni del Novecento, in Germania, Italia e, soprattutto, Francia. Quest’ultimo caso, in particolare, riveste una particolare importanza. L’area francese, infatti, fu il teatro degli scontri più accesi fra il fronte sociologico e quello storico. In questa querelle, un ruolo fondamentale lo ebbero i combats pour l’histoire di Marc Bloch e Lucien Febvre che, dalle pagine della loro rivista, le «Annales», lanciarono la proposta di un nuovo paradigma epistemologico per la scienza storica nel quale, ancora oggi, la storiografia contemporanea tende a muoversi.

Le poche pagine di questo scritto intendono - nelle sue linee fondamentali - mettere in luce la rivoluzionaria portata di questa proposta, prendendo in esame soprattutto la riflessione di Marc Bloch, uno dei maggiori storici e metodologi del Novecento. A differenza di quanto Raymond Aron riteneva[1], il progetto  blochiano non consiste unicamente in una serie di direttive “tecniche” rivolte unicamente agli addetti ai lavori. Al contrario, tutta la sua opera tende, lentamente ma costantemente, alla definizione di quel nuovo paradigma epistemologico che avrebbe consentito alla storia di fuoriuscire da quel ruolo marginale in cui il positivismo l’aveva fino ad allora confinata.  Infatti, spia di una precocità fuori dell’ordinario, tra le carte di Bloch sono stati ritrovati una serie di taccuini contenenti citazioni, annotazioni ma anche riflessioni proprie. Il primo di essi, intitolato Philosophie, risale al 1902, quando Bloch aveva appena sedici anni. Purtroppo questo primo carnet risulta tuttora inedito e, nel curare la pubblicazione di una serie di articoli e conferenze del padre, Étienne Bloch ne riporta solo una frase: «Je suis historien le matin et philosophe le soir»[2]. Nonostante la giovane età, in questa frase si può già leggere in nuce il filo rosso che accompagnerà tutto il percorso di maturazione intellettuale di Bloch: un legame costante e stretto tra la pratica di storico e la filosofia, qui intesa in un senso ben diverso dall’accezione classica hegeliana. D’accordo con Marrou, questa espressione è qui intesa come «riflessione sulla storia, dedicata ai problemi di natura logica e gnoseologica posti dalla stessa evoluzione spirituale dello storico»[3].

 

 

Storia, scienza degli uomini nel tempo

 

«Il mio intento è mettere per iscritto alcune idee sulla metodologia storica che da qualche tempo si sono sviluppate nel mio spirito, ma si presentano ancora in forma vaga e con contorni indistinti»[4]. Con questa dichiarazione Bloch comincia nel 1906 a redigere il taccuino Méthodologie historique, punto di partenza obbligato per chiunque voglia analizzare il suo pensiero epistemologico.

All’inizio un’affermazione che potrebbe sconcertare. «La Storia non ha esistenza scientifica. Da quando si è detto “biologia” invece di storia naturale, da quando si è smesso di descrivere per spiegare e classificare, da allora si è fatto un grande passo»[5]. Torna qui un confronto assai comune in quegli anni: lo studioso di scienze umane contrapposto a quello di scienze naturali. Se Henri Berr rifiutava il distinguo diltheyano tra scienze della natura e scienze della spirito in nome dell’esprit de synthèse e François Simiand riconduceva la causalità storica a causalità naturale, nel ventenne Bloch questa contrapposizione non è ancora completamente superata.

Infatti, se le scienze naturali adoperano il metodo analitico - il fenomeno oggetto di studio viene risolto nei suoi elementi e, in questo modo, spiegato -, la storia sembra usare un metodo cronologico e descrittivo, «l’opposto del metodo analitico»[6]. Bloch dimostra qui di essere ancora legato a un paradigma di matrice positivistica: la storia alla quale fa riferimento è infatti la storia dei vari Langlois e Seignobos[7], una storia in cui ci si limita a fornire una descrizione degli avvenimenti senza minimamente tentare di interpretarli, di spiegarli. È, potremmo dire, una storia priva di storici: lo studioso, come aveva affermato Durkheim, ha il dovere di sparire dietro i fatti che racconta[8]. Il suo lavoro è in tutto e per tutto simile a quello dell’editore che si applica con zelo per emendare il testo dai rimaneggiamenti, per restituirlo quanto più simile a quello che era in origine. Lo storico, come affermava Seignobos, fa pertanto un mestiere di chiffonnier[9]. Non per questo il giovane storico mostra di rassegnarsi. Se la storia insegnata nelle università è storia da straccivendoli, questo è dovuto unicamente al fatto che, fino a oggi, ci si è sbagliati nell’individuare l’oggetto da studiare. Lo storico come è stato appena delineato «assomiglia a un biologo che disponesse d’un eccellente microscopio, ma non sapesse a che cosa applicarlo»[10]. Che cosa significa questa analogia? Nel corso del XIX secolo, la storiografia aveva raffinato sempre più il suo metodo di lavoro: la critique du témoignage era ormai una realtà, uno strumento sofisticato che, se metodicamente applicato, avrebbe dovuto consentire allo storico di leggere correttamente i documenti. Il problema sta però nel suo impiego: il metodo critico era utilizzato prevalentemente nell’indagine di questioni di secondaria rilevanza. La storiografia tradizionale prediligeva infatti lo studio delle istituzioni politiche, delle battaglie e delle grandi individualità e, in un tale lavoro, rischiava spesso di diventare pura erudizione. È dunque chiaro, secondo Bloch, che qualora la storia voglia elevarsi a scienza dovrà abbandonare il lavoro di erudizione fine a se stesso e rivolgersi a problemi nuovi: dovrà cioè occuparsi «delle lente trasformazioni delle società umane, delle istituzioni, degli aspetti psicologici dei fenomeni sociali»[11]. Già ora è possibile intravedere, seppure in modo appena abbozzato, il progetto di quella nouvelle histoire[12] che, contrapposta all’histoire historisante, sarà il cavallo di battaglia delle «Annales»: una storia intesa nel senso di «scienza degli uomini nel tempo», come avrà poi modo di definirla Bloch nell’Apologie.

Fin da ora, tuttavia, Bloch si mostra consapevole delle difficoltà che un simile cambiamento di paradigma epistemologico comporterebbe: lo studio delle lente trasformazioni è sicuramente studio di un divenire, di un cambiamento. Connotarlo come scienza potrebbe, proprio per questo, rivelarsi un’arma a doppio taglio: Bloch riconosce che la scienza naturale è sempre stata dominata dal desiderio «di cristallizzare il divenire, di fissarlo in qualche modo per renderlo intelligibile, di scomporlo in leggi statiche»[13]. Non è questo lo status di scientificità che Bloch invoca per la storia. È necessario, al contrario, cogliere il reale cambiamento nella sua dimensione psicologica. La dinamicità temporale è un elemento imprescindibile da cui non è possibile distogliere l’attenzione. L’analogia con le scienze naturali potrebbe pertanto risultare ingannevole. Ma gli stessi scienziati naturali si sono resi conto di quanto sia impossibile svicolare dalla nozione di divenire: questo è stato il grande merito dell’evoluzionismo darwiniano. Eppure, questo fatto non ha impedito alla biologia di continuare a fornire leggi. «Cosa di più camaleontico della materia? E tuttavia la chimica esiste»[14]. Allo stesso modo si configura il progetto blochiano di una storia-scienza: una disciplina attenta al cambiamento, pronta a cogliere dietro gli avvenimenti l’elemento psicologico e, al contempo, consapevole che le sue formule «non renderanno mai tutto quello che v’è d’infinitamente sfumato nelle impressioni dell’uomo»[15]. Tuttavia non per questo impossibilitata a fornire spiegazioni.

La rivendicazione della validità scientifica della storia anima anche il discorso che l’allora insegnante di storia e geografia Bloch tenne nel 1914 presso il liceo di Amiens, pubblicato in seguito con il titolo Critique historique et critique du témoignage[16]. Fin dal titolo, esso mostra come il progetto di una nuova tipologia di storia possa concretarsi unicamente attraverso l’utilizzo del metodo critico. Anche qui risulta più che evidente come Bloch non si sia ancora completamente liberato dal debito contratto in gioventù nei confronti del positivismo: lo storico non può mai giungere direttamente in contatto con i fatti che studia. «Io vi narro battaglie cui non ho mai assistito, vi descrivo monumenti scomparsi ben prima della mia nascita, vi parlo di uomini che non ho mai visto. La situazione in cui mi trovo è quella di tutti gli storici. Tutti noi […] rassomigliamo a un povero fisico cieco e impotente che non fosse informato sui suoi esperimenti altro che dai resoconti del suo aiuto di laboratorio»[17].

Superando la tendenza, naturale in ogni uomo, ad accettare per vera ogni testimonianza, lo storico deve sostituire a tale istinto «una seconda natura»[18]. Già Tucidide aveva compreso che «così poco si affatica la maggior parte degli uomini nella ricerca della verità: preferiscono invece rivolgersi a versioni già pronte»[19] . Dallo storico greco aveva preso il via una lunga tradizione di spirito critico ma, non per questo, lo storico può oggi smettere di dubitare. Se la frase di Tucidide era valida più di duemila anni fa, non per questo essa «ha smesso di essere vera»[20]. Troppo spesso lo storico si trova costretto a ricostruire i fatti servendosi di testimonianze discordanti, talvolta opposte, per non ricorrere al metodo critico. Le sue regole non sono tuttavia un gioco da eruditi: lo spirito critico «è la pulizia dell’intelligenza […]. È una delle vie che conducono nella direzione del vero»[21].

Queste poche frasi mostrano chiaramente come il problema da risolvere sia sempre l’accertamento dei fatti quali sono realmente stati. Esemplificativa di tale atteggiamento è la domanda sulla provenienza dello sparo che diede il via alla rivoluzione parigina del 1848. «Chi tirò il colpo? Alcuni testimoni dicono: un soldato. Altri, un manifestante. Non possono avere ragione entrambi. Ecco lo storico costretto a scegliere»[22]. Se in Méthodologie historique il ventenne Bloch vagheggiava una storia diversa da quella accademica, sembrerebbe ora aver abbandonato il progetto originario, progetto che sarà ripreso e ampliato solo alcuni anni dopo. Anche Ginzburg, nella sua prefazione a I re taumaturghi, sottolinea come le posizioni del discorso di Amiens differiscano notevolmente da quelle del Bloch maturo[23]. Il continuo confronto tra la conoscenza storica e la conoscenza fisico-chimica mostra come ciò che in questo momento preme al medievista francese sia costruire una storia che, al pari delle scienze positive, sia in grado di cogliere la realtà. Come tutte le altre scienze, anche la storia deve poter descrivere e spiegare gli eventi e, in particolar modo, gli eventi del passato.

Come è possibile motivare un tale cambiamento? Per quale motivo il Bloch di Amiens sembra essere ricaduto in quell’histoire historisante da lui tanto deplorata in gioventù? Ancora una volta è Ginzburg a mostrarci la via da percorrere: l’intervento del ’14, nonostante la forma possa portarci a considerarlo un discorso occasionale, è la risposta data da Bloch ai duri attacchi che, in quegli anni, l’«AS» di Durkheim muoveva alla disciplina storica. Il progetto durkheimiano proponeva infatti l’assimilazione della storia nella sociologia. Come si è già detto, la storiografia doveva limitarsi a incasellare lungo una linea temporale gli avvenimenti storici a beneficio delle speculazioni sociologiche. Mettere in risalto i progressi fatti dal metodo critico significa per Bloch rigettare in toto la proposta del sociologo alsaziano. Quando quest’ultimo rimproverava gli storici di non lavorare con metodo, in realtà si rivolgeva a un modo di fare storia che era ormai in procinto di esalare gli ultimi respiri: non vi è bisogno dell’apporto della sociologia poiché la storia è già in procinto di diventare scienza. Il metodo critico, che ha in Tucidide il suo iniziatore ideale ma che è poi progredito grazie al lavoro di Mabillon[24] fino ai fondamentali apporti di Fustel de Coulanges e Renan[25], è uno strumento che, opportunamente applicato, rende lo storico in grado di discernere ciò che è stato da ciò che non è stato. È pertanto inesatto interpretare Critique historique et critique du témoignage come un completo abbandono da parte di Bloch del progetto di una nouvelle histoire. Il discorso di Amiens, al contrario, vi rientra pienamente: qualora la proposta dei durkheimiani fosse stata accettata, il progetto blochiano sarebbe naufragato prima ancora di poter essere applicato poiché, con l’assorbimento della storia nella sociologia, non si potrebbe più propriamente parlare di scienza storica.

I rapporti tra la riflessione blochiana e la sociologia di Durkheim non si esauriscono certo con il discorso del ’14. Nel 1919, infatti, Bloch venne chiamato a ricoprire la cattedra di storia medievale presso la nascente Università di Strasburgo[26]. Lì ebbe modo di giungere più strettamente in contatto con quello che lo storico francese era solito chiamare durkheimismus e, in particolar modo, con Maurice Halbwachs, uno dei discepoli di Durkheim che, fin dal 1929, collaborerà all’impresa delle «Annales». Se nei confronti della sociologia durkheimiana la posizione del 1914 era di netto rifiuto, la diversa temperie culturale degli anni ’20 ammorbidisce le posizioni di Bloch. Dopo la guerra mondiale, l’«AS» ha cessato di minacciare l’autonomia della disciplina storica: a un progetto eccessivamente aggressivo si preferisce una collaborazione tra le varie discipline umane (basti pensare al progetto della «Revue de synthèse historique» e, di lì a poco, all’interdisciplinarietà delle «Annales»). Solo tenendone conto si può comprendere  la scelta fatta da Bloch di cominciare a lavorare ai Rois thaumaturges.

Come Bloch stesso scrisse, il saggio ha per argomento una «gigantesque fausse nouvelle»[27], la credenza nel potere dei re francesi e inglesi di guarire la scrofolosi. Sorvolando sull’esame approfondito che Bloch fa del miracolo regale[28], all’interno dei Rois è possibile constatare la ripresa del progetto di un rinnovamento del paradigma storico che, solo apparentemente, sembrava essere stato abbandonato nel discorso di Amiens. Infatti, nell’Introduzione, Bloch scrive che con questo libro ha inteso dare «un contributo alla storia politica dell’Europa, in senso lato, nel senso esatto del termine»[29]. Occorre soffermarsi su questa dichiarazione poiché è proprio qui che Bloch rilancia la proposta di una nouvelle histoire. La storia politica, cioè la storia tradizionale tout court, aveva per lungo tempo ripercorso le vicissitudini del potere delle grandi dinastie. Ma questo non bastava: se si voleva fare della storia una scienza, occorreva che di queste grandi casate si spiegasse «il […] lungo dominio sullo spirito degli uomini»[30]. Non basta descrivere il funzionamento dell’apparato amministrativo, giudiziario e fiscale e neppure teorizzare astrattamente i concetti di assolutismo e di diritto. La storia scientifica indaga infatti elementi ben più profondi: i fatti sociali come espressione dello spirito umano[31]. In questo risiede il significato ultimo di storia politica: continuando ad ignorare «ciò che fino ad oggi era stato soltanto aneddoto»[32] diventa impossibile comprendere realmente il perché di questo dominio. Nella stesura dei Rois si può pertanto leggere l’avvenuta assimilazione della lezione durkheimiana. Certamente la posizione blochiana mantiene inalterata la sua specificità: la nouvelle histoire, quella storia «più ampia e più umana», come Bloch stesso ebbe modo di scrivere in una lettera indirizzata al collega e amico Febvre[33], già abbozzata nel taccuino del ’20, resta una disciplina del tutto distinta dalla sociologia. Questa autonomia non significa però chiusura totale nei riguardi delle altre scienze umane. La critica delle testimonianze resta certamente il metodo da adoperare, ma la sua applicazione, a differenza di quanto lo stesso Bloch riteneva nel ’14, non sta più nella ricostruzione dei singoli accadimenti. La critica deve al contrario essere applicata alle rappresentazioni collettive, unico elemento in grado di rendere la reale dinamicità degli eventi umani.

La storia intesa come scienza del dinamico è anche il tema che anima alcune delle pagine più belle dell’Apologie pour l’histoire, scritto che conclude la parabola della riflessione metodologica blochiana. Tornano qui alcune delle posizioni già espresse nel discorso del ’14. Fin dalle prime pagine, infatti, Bloch ritorna sulla questione della scientificità della storia. Questa disciplina è stata troppo duramente attaccata: anche se pochi hanno preteso di radere al suolo l’intero edificio storico, in molti hanno tentato di confinarlo «in un misero angolino delle scienze dell’uomo»[34]. I sociologi durkheimiani, in particolare, hanno inteso farne «una specie di botola in cui, riservando alla sociologia tutto ciò che appare loro suscettibile di analisi razionale, essi gettano i fatti umani ritenuti al tempo stesso i più superficiali e i più casuali»[35]. Lo storico ha pertanto il dovere di difendere la sua disciplina. Solo attraverso questa precisazione è possibile comprendere il vero spirito dell’Apologie. Alla sociologia durkheimiana, Bloch contrappone la sua storia, ben diversa da quella comunemente intesa. Anche oggi, scrive, la parola «storia» rimanda comunemente al modello elaborato più di duemila anni fa dalla civilizzazione ellenica. Gli antichi annalisti «narravano, alla rinfusa, avvenimenti il cui solo tratto comune era d’essersi prodotti nello stesso momento: le eclissi, le grandinate, la comparsa di meteore meravigliose, con le battaglie, i trattati, le morti degli eroi e dei re»[36]. Se è dalla Grecia antica che la disciplina storica aveva preso il via, non per questo essa ha smesso di svilupparsi.

L’Apologie non va tuttavia considerata semplicisticamente come una ripresa di posizioni precedenti. Se l’argomentare sembra unicamente ricalcare la netta opposizione al durkheimismus, ben presto è lo stesso Bloch a mostrarci come in questo scritto vi sia molto di più. Infatti è proprio attraverso le pagine dell’Apologie che lo storico espone con chiarezza le linee guida di quella nouvelle histoire tanto a lungo carezzata ma mai formulata compiutamente. Se la storiografia del XIX secolo, pur avendo elaborato la critique du témoignage, restava solamente lavoro di erudizione, questo era dovuto al paradigma positivista dominante che vedeva una contrapposizione tra le discipline fisico-chimiche, le uniche in grado di formulare leggi certe, e le discipline dell’uomo, nelle quali questa certezza non era in alcun modo raggiungibile. In questo campo, infatti, si aveva a che fare con la libertà umana e con le rappresentazioni inconsce, elementi non indagabili scientificamente. L’unica eccezione era data dalla sociologia, che avanzava la pretesa di formulare leggi in quanto il suo oggetto erano le ricorrenze e le regolarità. I fenomeni superficiali venivano lasciati come scarti alle discipline restanti e, in particolare, alla storia. Se il Bloch di Amiens, ancora fortemente legato a questo modello di storiografia, rigettava interamente e duramente la proposta dell’«AS», la posizione dell’Apologie è ben diversa. A essere mutato è l’intero clima culturale: «la teoria cinetica dei gas, la meccanica einsteiniana, la teoria dei quanti hanno profondamente modificato l’idea che, ancora l’altro giorno, ciascuno si faceva della scienza»[37]. Non si pretende più che una disciplina, per poter essere etichettata come scientifica, possa dare luogo a dimostrazioni euclidee e fornire leggi immutabili. È venuto meno l’obbligo di estendere il modello delle scienze naturali a tutte le discipline. Alla parola “certezza” si preferisce usare “probabilità”. Pertanto anche la storia può finalmente rientrare a buon diritto nel novero delle scienze: con la crisi delle scienze naturali, diviene ora possibile indagare scientificamente anche i fatti storici ai quali, proprio in virtù della loro “accidentalità”, il metodo matematico risultava inapplicabile. Il progetto di un nuovo paradigma storico può finalmente realizzarsi: la storia come «scienza degli uomini nel tempo», come efficacemente la definisce Bloch[38].

Occorre tuttavia soffermarci su questa definizione. Se la storia è stata per lungo tempo un lavoro da editori e filologi, finalmente si è compreso come «dietro gli scritti che sembrano più freddi e le istituzioni in apparenza più totalmente distaccate da coloro che le hanno fondate, sono gli uomini che la storia vuol afferrare. Colui che non si spinge fin qui, non sarà mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Il bravo storico, invece, somiglia all’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda»[39].

«Scienza degli uomini» tuttavia non basta. La ricerca storica va infatti condotta sempre attraverso la categoria della durata. Anche se nessuna scienza può realmente fare a meno della temporalità (ogni oggetto, anche quello fisico-chimico, si dà sempre nel tempo), spesso questa viene ricondotta a semplice misura: la fisica delle particelle elementari non può esulare dal tempo impiegato da un corpo radioattivo per trasformarsi in un altro corpo; tuttavia il fisico considera del tutto indifferente se questa trasformazione sia avvenuta mille anni fa oppure solo l’altro giorno. Al contrario, lo storico deve obbligatoriamente considerare il tempo come una «realtà concreta e vivente»[40]. Qualora ciò non avvenisse, nessun fenomeno storico potrebbe essere indagato. «Nessuno storico […] si riterrà soddisfatto constatando che Cesare impiegò otto anni per conquistare la Gallia […]. Gli importa ancor di più collocare la conquista della Gallia nel suo esatto ordine cronologico nelle vicissitudini delle società europee»[41]. In altre parole, l’evento storico diviene intelligibile solo nella misura in cui viene pienamente inserito nell’elemento temporale. Astrarre da esso significherebbe solo privare la storia della sua scientificità. Il continuum temporale è imprescindibile se davvero si vuole spiegare un accadimento: se la storiografia tradizionale è stata sempre considerata un mestiere da chiffonnier, questo è accaduto perché, sul modello delle scienze positive, il singolo evento veniva considerato di per se stesso e l’elemento temporale ridotto a semplice misura. Pertanto l’evento non poteva essere considerato che come  semplice accidentalità. Ma una storia che voglia essere scienza deve essere in grado di reperire delle cause: un singolo accadimento può essere spiegato per davvero solo se inserito nel suo particolare contesto e, per di più, solo considerando la serie di eventi precedenti ad esso. In quest’operazione lo storico deve però mostrare accortezza, evitando di cadere nella trappola dell’«ossessione embriogenetica»[42] o, per dirlo con un immagine ben più evocativa, dell’«idolo delle origini»[43]. Bloch ricorda come già Renan ritenesse lo studio delle origini delle cose umane l’oggetto più degno di studio. Questa idea aveva riscosso un notevole successo presso la «tribù degli storici»[44] e, in particolar modo, presso gli studiosi di storia delle religioni. La loro continua ricerca degli inizi può però realmente dirsi storia? La risposta sta nella definizione che si dà della parola “origine”: se con essa si intende indicare un «cominciamento sufficiente a spiegare»[45] sarà chiaro come, in una tale definizione, si celi un enorme pericolo per la disciplina storica. Infatti si può fin da subito obiettare come i cominciamenti di ogni fenomeno, e a maggior ragione quelli dei fenomeni umani, siano sempre sfuggenti: non ci si può mai dire davvero sicuri della loro corretta individuazione. Inoltre, e qui sta il problema maggiore, prostrarsi dinnanzi a questo idolo significherebbe ridurre l’intera spiegazione storica all’individuazione dell’origine prima del fenomeno studiato. Una corretta individuazione può sicuramente essere utile nell’economia complessiva della spiegazione, ma da sola non basta. Perché un determinato evento si compia servono necessariamente anche condizioni favorevoli al suo avvento.

È facile notare come, con questo discorso, Bloch intenda confrontarsi con l’annosa questione della causalità storica sulla quale il fronte sociologico e quello storico (rappresentati rispettivamete dal sociologo durkheimiano François Simiand e da Charles Seignobos) avevano aspramente dibattuto. In questa prima parte del Métier d’historien, tuttavia, Bloch si limita solamente ad abbozzare la sua posizione. Aveva infatti intenzione di dedicare un intero capitolo dell’Apologie, il quinto per la precisione, a tale argomento. Di questo capitolo ci restano tuttavia solo poche pagine, per di più interrotte in modo brusco. Nonostante la scarsità di materiale, è comunque possibile ricostruire per sommi capi la posizione del medievista francese.

«Stabilire rapporti di causa ed effetto costituisce […] un bisogno istintivo del nostro intelletto»[46]. Proprio per questo la ricerca di tali nessi non può «essere lasciata all’istinto»[47]. Occorre pertanto una presa di posizione critica sull’argomento. A Seignobos, il quale si limitava a individuare la causa degli eventi umani nell’intenzionalità dei grandi protagonisti della storia[48], Bloch obbietta che è la stessa psicologia ad averci mostrato come nell’agire dell’uomo non tutto sia riconducibile agli elementi coscienti. Eppure «a leggere certi libri di storia, si crederebbe l’umanità composta unicamente di volontà logiche, per le quali i motivi dell’azione non avrebbero mai il più piccolo segreto»[49]. Tuttavia «non c’è nulla di più raro che un progetto […]. Si falserebbe gravemente il problema delle cause in storia, se lo si riducesse, sempre e dovunque, a un problema di motivi»[50].

Questo atteggiamento era già stato condannato da Simiand[51], che rimproverava a Seignobos la confusione tra la nozione di causa e quella di condizione. L’azione cosciente delle grandi personalità non può da sé sola esaurire la spiegazione degli eventi storici. In senso proprio si può definire causa di un evento solamente un altro evento legato al primo attraverso una relazione il più generale possibile. Nel criticare Seignobos, tuttavia, Simiand era caduto nell’eccesso opposto. Se Seignobos individuava unicamente cause particolari, Simiand definisce causa l’antecedente «più costante e generale»[52]. Anche questo è un errore e, per di più, facilmente smascherabile utilizzando il senso comune. Come suo solito, Bloch chiarisce questo punto attraverso l’ausilio di un esempio. Immaginiamo un uomo che, durante una passeggiata in montagna, inciampi su una pietra del sentiero e cada in un precipizio. «Perché quell’incidente accadesse, ci volle il concorso di molti motivi determinanti»[53]: la forza di gravità, le lunghe vicende geologiche che portarono alla formazione di quella particolare montagna, l’uso della transumanza che ha portato il sentiero ad assumere quel particolare tracciato. Ma, se chiedessimo a chiunque quale sia stata la vera causa della caduta, nessuno esiterebbe a rispondere: il passo falso. Infatti, tra tutti i fattori elencati, il passo falso «è stato l’ultimo a verificarsi; era il meno permanente, il più eccezionale nell’ordine generale del mondo»[54] e, proprio per questo, il più facilmente evitabile. In altre parole, il passo falso è l’evento che appare più strettamente e direttamente legato alla caduta. Gli altri antecedenti, nella spiegazione storica, restano semplicemente sottointesi poiché sono i più costanti e generali e, per di più, sono antecedenti comuni a troppi altri eventi particolari. Causa sarà quindi l’antecedente più prossimo all’evento in questione e, al contempo, il più particolare. Condizioni saranno invece gli antecedenti anch’essi particolari ma, rispetto alla causa, «ancora dotati di una certa stabilità»[55].

La risposta blochiana alle considerazioni di Seignobos e Simiand sembra tuttavia mancare di una particolare originalità. Il continuo riferimento che in queste pagine viene fatto al «senso comune» sembrerebbe confermarlo. Bloch è tuttavia uno studioso attento e intriso di spirito critico. Si rende dunque conto di come la sua stessa classificazione si rivelerebbe pericolosa se assolutizzata. Infatti la mutevolezza della realtà umana non può interamente essere racchiusa in questa «classificazione gerarchica»[56]. Essa ha valore unicamente su un piano euristico. «La realtà ci presenta una quantità quasi infinita di linee di forza, tutte convergenti verso un medesimo fenomeno. La scelta che noi compiamo tra di esse può ben fondarsi su caratteri, in pratica, degnissimi di attenzione; ma non è mai altro che una scelta. C’è segnatamente molto di arbitrario nell’idea di una causa per eccellenza, opposta alle semplici condizioni»[57]. Simiand, «così assetato di rigore»[58], nella sua ricerca di definizioni precise, era incappato nell’idolo delle origini e ad esso si era inchinato, sacrificando la sua stessa ricerca. Una storia realmente scientifica deve, al contrario, abbandonare questa superstizione e subordinare l’individuazione della causa alla prospettiva della ricerca. Studiando un’epidemia, un medico individuerà come causa la diffusione di un microbo e come condizione il pauperismo che porta a una scarsa pulizia. Un sociologo, al contrario, indagando la stessa epidemia vedrà nel pauperismo la causa e nei fattori biologici le condizioni.

Abbandonando il falso culto della causa unica, lo studioso vero «si limita a domandare perché? e accetta che la risposta non sia semplice»[59]. Sicuramente sarebbe più semplice determinare aprioristicamente la causa di un evento e, ciò fatto, procedere con la sua analisi. La spiegazione risulterebbe però falsata: l’ipotesi di partenza non verrebbe provata ma data per acquisita. Se questo ragionamento vale per le scienze naturali, a maggior ragione esso varrà per lo studioso di fatti umani: «nella natura, la grande variabile per eccellenza non è proprio l’uomo?»[60]. L’apriorismo risulta così assolutamente incompatibile nei confronti di qualsiasi tipo di disciplina che voglia raggiungere uno status di scientificità. «Per dirla con una parola, le cause, in storia non più che altrove, non si postulano. Si cercano»[61].

 



[1] Cfr. in particolare i due corsi tenuti al Collège de France tra il 1972 e il 1974,  raccolti in R. Aron, Leçons sur l’histoire, Editions de Fallois, Paris, 1989; trad. it. Lezioni sulla storia, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 41 e ss.

[2] M. Bloch, Histoire et historiens, Colin, Parigi, 1995; trad. it. Storici e storia, Einaudi, Torino, 1997, p. 5.

[3] H.-I. Marrou, De la conaissance historique, Éditions du Seuil, Paris, 1954 ; tr. it. La conoscenza storica, Il Mulino, Bologna, 1962, p. 9.

[4] M. Bloch, Méthodologie historique, carnet del 1906; tr. it. Metodologia storica in M. Bloch, Storici e storia, cit., p. 95.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Langlois e Seignobos sono assunti da Bloch a modello di quella storiografia evenemenziale da lui tanto deplorata. Questi due studiosi sono infatti gli autori di quella Introduction aux études historiques, considerata non a caso il manifesto del positivismo storico. Cfr. C. V. Langlois - C. Seignobos, Introduction aux études historiques, Editions Kimé, Paris, 1992.

[8] É. Durkheim, Préface, in «Année Sociologique» (d’ora in poi «AS»), 1896; in seguito ripubblicato nella raccolta a cura di J. Duvignaud Journal sociologique, Presses Universitaires de France, Paris, 1969., p. 36.

[9] C. Seignobos, Les conditions pratiques de la recherche des causes dans le travail historique, in «Bulletin de la Société Française de Philosophie», VII, 1907, p. 263.

[10] M. Bloch, Metodologia storica, cit., p. 10.

[11] M. Mastrogregori, Introduzione a Bloch, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 8.

[12] L’espressione nouvelle histoire viene ancora oggi comunemente usata per indicare la storiografia delle «Annales» di Bloch e Febvre. Qui, tuttavia, viene usata esclusivamente in riferimento alla storiografia blochiana. Sul significato preciso di questa espressione cfr. J. Le Goff, La nouvelle histoire, in J. Le Goff (a cura di), La nouvelle histoire, RETZ-CEPL, Paris, 1979; tr. it. La nuova storia, Mondatori, Milano, 1983.

[13] M. Bloch, Metodologia storica, cit., p. 9.

[14] Ivi, pp. 9-10.

[15] Ivi, p. 10.

[16] M. Bloch, Critique historique et critique du témoignage, discorso pronunciato al liceo di Amiens il 13 luglio 1914; tr. it.  Critica storica e critica della testimonianza, in Storici e storia, cit.

[17]Ivi, p. 11.

[18] Ivi, p. 12.

[19] Tucidide, Storie, I, 20, 3, Utet, Torino, 1982, p.121. La stessa frase è citata da Bloch, con un’altra forma, all’interno di questo discorso.

[20] M. Bloch, Critica storica e critica della testimonianza, cit., p.13.

[21] Ivi, pp. 19-20.

[22] Ivi, p. 13.

[23] C. Ginzburg, Prefazione, in M. Bloch, I re taumaturghi, Einaudi, Torino, 1973, p. XII.

[24] Si ricordi come nel 1681 Jean Mabillon pubblicò il De re diplomatica. Bloch attribuisce a questa data una grande importanza, al punto che la ricorda anche nella sua Apologie pour l’histoire definendola «una grande data, in verità, nella storia dello spirito umano». Cfr. Marc Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, Colin, Paris, 1949; trad. it. Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino, 1998, pp. 63-64.

[25] A questo proposito cfr. L. Allegra - A. Torre, La nascita della storia sociale in Francia. Dalla Comune alle Annales, Torino, Fondazione “L. Einaudi”, 1977.

[26] All’indomani della guerra mondiale, l’Università di Strasburgo diventa il baluardo della cultura e della scienza francesi contro il mondo tedesco. Lo stato fece di tutto per accogliervi i più giovani e brillanti studiosi francesi del tempo: oltre a Bloch furono chiamati storici come Febvre, Piganiol, Perrin e Lefebvre, psicologi come Blondel e sociologi come Halbwachs. Gli ultimi due soprattutto, e particolarmente Halbwachs, hanno rappresentato una tappa fondamentale per la maturazione culturale di Bloch. A questo proposito cfr. J. Le Goff, Préface in M. Bloch, Les Rois Thaumaturges, Gallimard, Paris, 1983; tr. it Prefazione  in M. Bloch, I re taumaturghi, Einaudi, Torino, 2004, pp. XVIII-XXI.

[27] In realtà Bloch scrisse queste parole in una recensione fatta al celebre libro di Lefebvre La grande peur du 1789, ma questa definizione calza assai bene anche per i Rois. Non a caso Bloch e Lefebvre sono comunemente ritenuti i due precursori della storia delle mentalità. Cfr. M. Bloch, Compte rendu de G. Lefebvre, La grande peur du 1789, in «Annales d’histoire économique et sociale», 1933, p. 302.

[28] Analisi comunque condotta in modo straordinariamente approfondito, anche attraverso l’utilizzo di documenti che la storia tradizionale aveva ben poco considerato: i conti delle entrate e uscite delle corti regie, ad esempio, utilizzati dallo storico francese come indicatori della popolarità del tocco miracoloso.

[29] M. Bloch, I re taumaturghi, cit., p. 8. Il corsivo è mio.

[30] Ivi, p. 6.

[31] Ivi, pp. 8-9.

[32] Ovvero le superstizioni popolari, i rituali etc. Ivi, p. 6.

[33] M. Bloch, Apologia della storia, cit., p. 5.

[34] Ivi, p. 19.

[35] Ibidem.

[36] Ivi, p. 21.

[37] Ivi, p. 16.

[38] Ivi, p. 23.

[39] Ivi, pp. 22-23.

[40] Ivi, p. 24.

[41] Ibidem.

[42] Ivi, p. 25.

[43] Ivi, p. 24.

[44] Ibidem.

[45] Ivi, p. 25.

[46] M. Bloch, Apologia della storia, cit., p. 138.

[47] Ibidem.

[48] Per quanto riguarda la soluzione proposta da Seignobos di ricondurre la nozione di «causa» all’agire delle grandi individualità, cfr. in particolare C. Seignobos, Histoire politique de l’Europe, Colin, Paris, 1897.

[49] M. Bloch, Apologia della storia, cit., p. 141.

[50] Ibidem.

[51] F. Simiand, La causalité en histoire in «Bulletin de la Société Française de Philosophie», X, 1906. Ora ristampato in F. Simiand, Méthode historique et sciences sociales, Éditions des Archives Contemporaines, Paris, 1987, un’antologia di testi a cura di Marina Cedronio.

[52]  M. Bloch, Apologia della storia, cit., p. 139.

[53] Ivi, p. 138.

[54] Ivi, p. 139.

[55] Ibidem.

[56] Ivi, p. 140.

[57] Ibidem.

[58] Ibidem.

[59] Ibidem.

[60] Ivi, p. 142.

[61] Ivi, p. 143.

 

L'Inattuale - Tutti i diritti riservati

INDIETRO