Finzione e realtà - valore ontologico delle teorie

scientifiche in Mach e Schlick

 

 

A cura di Michele Cardani

 

 

“Ci fu un tempo in cui la filosofia e le scienze naturali stavano l’una di fronte all’altra estranee e nemiche. Quel tempo è passato”[1].

 

 

 

Iniziare questo lavoro con una frase di Max Planck vuole avere un duplice significato; in primo luogo essa deve rappresentare l’espressione della stessa inclinazione verso una conciliazione tra il lavoro filosofico e quello scientifico, della stessa necessità di chiarificare i risultati delle indagini scientifiche attraverso una concettualizzazione filosofica, oltremodo sentite dagli autori ai quali mi sono avvicinato per questo approfondimento[2]; in secondo luogo costituisce un riferimento al fatto che anche oggi, a mio avviso, la filosofia ha bisogno di collaborare strettamente con le scienze, in un rapporto simbiotico di reciproco rispetto e spirito critico, di modo da non ricadere nell’errore, più volte sottolineato da entrambe le parti, di trascurare i risultati indiscutibilmente validi o quantomeno soddisfacenti di entrambe le discipline.

 

L’esigenza di approfondire il modo in cui Mach e Schlick hanno inserito la ricerca scientifica, ed in particolare la fisica, nel loro sistema di conoscenza, nasce dalla domanda intorno alla valenza o meno, dal punto di vista ontologico, degli enti della fisica, delle sue leggi, del suo rapporto col reale.

Sono essi effettiva conoscenza della realtà? In quale misura lo sono più di quanto non lo possono essere invece le conoscenze di tutte le altre discipline, scientifiche o meno? Fino a che punto possiamo a buon diritto affermare che forze, elettroni, campi, sono i costituenti ultimi del mondo, e non piuttosto solo mere finzioni e strumenti di cui ci avvaliamo per costruircene un’immagine coerente?

 

A mio avviso, se da una parte spetta alle scienze particolari il compito di indagare quanto più profondamente sul mondo reale, sta alla ricerca filosofica discriminarne il prodotto finale, fino a capire e affrontare con atteggiamento critico i presupposti da cui partono tali indagini, e le conseguenze a cui portano. Riprendendo le parole di Schlick, “il dominio ultimo, il più generale, in cui tutti i processi di spiegazione sempre progredenti devono conclusivamente affluire è quello della filosofia, della dottrina della conoscenza; perché i concetti basilari ultimi delle scienze più generali ammettono da ultimo solo una chiarificazione filosofica”[3].

Questa assunzione del filosofo viennese (che d’altra parte non ha mai rifiutato la sua formazione di fisico, avviata sotto la guida di Planck),  insieme alla convinzione che “il modo di pensare scientifico non è essenzialmente differente dal modo di pensare comune, solo ne costituisce uno stadio più alto”[4], rappresenta il presupposto di fondo e sta alla base dell’intero edificio epistemologico progettato e costruito da Schlick nella Teoria generale.

Già riguardo a questo punto possiamo riscontrare delle divergenze rispetto al pensiero di Mach.

Se seguiamo il ragionamento che Schlick effettua nel capitolo 13, intitolato Del valore della conoscenza, arriviamo con lui alla conclusione che il processo della trasformazione dei mezzi in fini – in breve, il processo di ri-conoscimento che funge da principio della conoscenza – è alla base del senso di gioia che ci viene procurato dal suo esercizio; in altre parole, “la conoscenza, nella misura in cui è scienza, non serve a nessun’altra delle funzioni della vita. Essa non è diretta all’esercizio di un dominio pratico sulla natura, sebbene in seconda istanza possa certamente essere utile anche a questo”[5].

Non è questa la sede adatta per discutere la validità delle premesse e delle argomentazioni attraverso le quali si snoda il pensiero di Schlick, né le mie competenze me lo permettono; non possiamo far altro, quindi, che porci nella sua prospettiva e vedere il motivo per cui egli stesso, nelle stesse pagine da cui è stata tratta la precedente citazione, muove una critica a Mach. Schlick ritiene che l’impulso alla conoscenza spiegato in termini biologici e fisiologici non sia sufficiente, anzi, sia addirittura fuorviante, e in un certo senso anche pericoloso; affermare che “il pensiero scientifico chiude la linea continua di evoluzione biologica che ha inizio con le prime, semplici, manifestazioni vitali”[6], può infatti portare all’errata conclusione che il principio cardine della scienza, ovvero il principio di economia, sia di tipo psicologico e che, appoggiandosi alla comodità ed alla pigrizia, induca i nostri processi di pensiero verso strade più facili e comode, facendoci risparmiare lavoro intellettuale. “L’asserzione di Mach - <<La scienza pertanto può essere anche vista come un problema di minimo, consistente nel presentare il più completamente possibile i fatti con il minimo dispendio di pensiero>> - è corretta se ‘minimo dispendio di pensiero’ viene interpretato in senso logico, come minimum di concetti”[7]: in altre parole, il vero principio di economia non consiste nel ridurre all’osso le operazioni intellettive, quanto piuttosto nel rendere il meno complesso possibile il sistema di coordinazione dei concetti tra di loro.

La lettura di Schlick è chiaramente influenzata dagli insegnamenti di Planck, e dipende principalmente dal fatto che, partendo da concetti completamente diversi di realtà, lo stesso ruolo ascritto alla scienza non può che essere divergente.

Ma andiamo con ordine.

Nel saggio del 1922 intitolato Spazio e tempo nella fisica contemporanea, Schlick torna ancora ad analizzare le parole di Mach, questa volta riferendosi alla definizione di realtà, per distinguere il suo empirismo e la sua concezione del mondo da quella del rigoroso positivismo machiano; la stritolante argomentazione prende le mosse dall’opinione stessa dei fisici: “se eminenti scienziati del campo delle scienze esatte continuano ad affermare che l’immagine positivistica del mondo non li soddisfa, il fondamento di ciò sta nel fatto che tutte le grandezze che compaiono nelle leggi fisiche non indicano <<elementi>> nel senso di Mach”[8].

Il riferimento a Planck mi sembra evidente. Nel saggio Positivismo e mondo reale pubblicato nell’opera sopra citata, il fisico tedesco afferma che il rischio in cui può ricadere tale posizione è quello di richiudersi in un monadismo solipsistico inconciliabile con l’inoppugnabile principio di obiettività e di universalità che costituisce il caposaldo della scienza; e sebbene vengano riconosciuti  meriti alla ricerca machiana, tuttavia “per quanto sia certo che questi ragionamenti possono essere condotti a termine in modo perfetto, senza temere di cadere mai in contraddizioni logiche, per la scienza fisica essi portano a risultati deleteri”[9].

Sebbene sia assolutamente chiaro che l’idea di Mach è molto più articolata e complessa di quanto invece non la voglia fare apparire Schlick nelle sue aspre critiche (dimenticando ad esempio che anche le analisi Planck aprono problemi filosofici immensi, che però non vengono affrontati), c’è tuttavia un punto nel quale, a mio avviso, essa pecca terribilmente, lasciando effettivamente a Schlick campo aperto per sferrare un attacco oserei dire vincente. Si tratta, come accennato poc’anzi, del concetto di realtà; ed è di questo che credo sia meglio occuparsi per comprendere la differenza del valore epistemologico della fisica nei nostri due autori.

La tesi secondo la quale l’uomo è parte integrante della natura e che, pertanto, le differenze che presenta dal punto di vista psichico rispetto a tutti gli altri animali sono di tipo quantitativo e non qualitativo, è la base portante dell’intero sistema machiano: è per ragioni fisiologiche e per esigenze di adattamento e conservazione che la specie umana ha edificato la conoscenza; “chi possiede un sistema concettuale riccamente articolato, che tiene conto dei suoi interessi, e se ne è appropriato col linguaggio, l’educazione e l’istruzione, gode di grandi vantaggi su chi non ha altro espediente che la percezione”[10]. Tuttavia potrebbe rivelarsi deleterio riporre una fiducia eccessiva nei nostri concetti, per il fatto che potrebbe tramutarsi in un distacco progressivo dal mondo delle sensazioni, fino a spingerci a credere che ai concetti corrispondano elementi di stabilità assoluta.

Ma se il contenuto dei concetti non va assolutamente identificato, equiparato e confuso con i fatti che essi espongono, e se, d’altra parte, essi sono funzionali per la nostra stessa sopravvivenza in quanto manifestazione biologica del successo evolutivo, allora non resta che ascrivere loro, come d’altra parte fa Mach, il ruolo di strumento per integrare mentalmente dei fatti parzialmente disponibili e per restringere il più possibile la nostra aspettativa in casi futuri: “lo scopo del concetto è quello di orientarsi nel confuso intrico dei fatti[11]”.

Nel momento però in cui, come scienziati, nel tentativo ad esempio di cercare le cause dei fenomeni oppure di individuare la “vera realtà” della natura, trascendiamo il mondo empirico dei fatti, stiamo già compiendo un passo verso la metafisica: l’esperienza non ci parla né di essenze, né di rapporti causali necessari, ma soltanto di un fluire mai concluso di dati immediati, che possono al massimo essere riorganizzati in modo astratto dai nostri concetti. La realtà, configurandosi come un flusso di sensazioni ed impressioni istantanee colte dall’azione primaria ed organica dell’intuizione, è costituita integralmente da tutti i dati empirici; la sua conoscenza, come detto, consiste nella “ricerca di tutte le relazioni esistenti fra tali dati, senza la pretesa che alcune di esse siano oggettive perché formulabili nel linguaggio tradizionale della fisica[12]”.

Geymonat osserva però che le conseguenze ultime della posizione di Mach, basata sul fenomenismo e sul già citato principio di economia, incorrono nella facile accusa di soggettivismo, che inevitabilmente si allontana dalla possibilità di fondare una scienza. E sebbene almeno nelle intenzioni Mach non propendesse assolutamente verso un tale atteggiamento filosofico, e considerato pure che nessuno può negare la serietà delle intenzioni anti-metafisiche del suo positivismo, ciononostante “la via indicataci da Mach per soddisfare tale esigenza non può accontentarci, perché non rivela una sufficiente consapevolezza delle difficoltà filosofiche cui essa va incontro”[13].

Sostenere che il compito della ricerca scientifica non è quello di determinare la struttura dei fenomeni fisici, bensì di correlare funzionalmente le intuizioni empiriche attraverso metodi matematici, significa ridurre il ruolo della legge di natura ad una correlazione di dati, e stringere la teoria scientifica nell’umile veste del resoconto descrittivo. Come osserva Gargnani nell’introduzione a Conoscenza ed errore, “per se stessa la legge non contiene un contenuto conoscitivo più ampio di quello espresso dalla rappresentazione di un singolo fenomeno individuale appartenente alla classe”[14]. Le leggi naturali, che la ricerca in ogni ambito scientifico si pone come obiettivo, risultano pertanto essere delle limitazioni che vengono prescritte alle nostre aspettative, e “sono un prodotto del nostro bisogno psicologico di orientarci nella natura, di non assumere una posizione di estraneità e di disordine di fronte ai suoi processi”[15]; il lavoro dello scienziato consisterebbe, in altre parole, nell’astrarre dal mondo dei fatti circostanze reciprocamente dipendenti tentando di fissarne una stabilità affatto oggettiva, tuttavia confermabile dalla continua verifica empirica. Le parole di Mach sono ancora più eloquenti quando afferma che “non dobbiamo considerare come fondamenti del mondo reale gli strumenti intellettuali che servono alla rappresentazione del mondo sulla scena del pensiero[16]. Chi attribuisce validità extramentale agli strumenti del pensiero elaborati dalla fisica ricade nell’errore di colui che, “avendo esperienza del mondo solo attraverso il teatro, scoprisse dietro le quinte le attrezzature meccaniche, e ne traesse la conclusione che il mondo reale consiste in un palcoscenico [..]”[17].

 

In seguito a queste constatazioni, non possiamo che soffermarci a riflettere sul fatto che parlare del concetto di realtà non poteva che condurci necessariamente ad affrontare la questione della conoscenza; abbiamo visto poco fa dalle parole di Gargnani che, secondo Mach, intuizione e conoscenza scientifica non sono differenti quanto a valore epistemologico, ma differenza intercorre solo a livello di aspettativa. Collocarsi nel regno dell’immanenza e del fenomenismo, togliendo dalla definizione di realtà tutti i contributi ingiustificati e superflui del pensiero, permette di costruire un’immagine del mondo di sorprendente semplicità, nella quale la scienza ha il compito di descrivere nel modo più facile la dipendenza degli elementi l’uno dall’altro. Vivere di sole intuizioni immediate – in breve, d’istinto – non permette all’uomo di valutare in anticipo le situazioni future; l’edificio concettuale ha appunto la funzione biologica di renderci più competitivi da un punto di vista evolutivo.

Per completezza di informazioni è altresì necessario aggiungere che i problemi in Mach sorgono esclusivamente da un punto di vista filosofico. La critica al meccanicismo, la formulazione matematica del principio di inerzia epurato di ogni riferimento metafisico allo spazio assoluto, l’anticipazione di molti concetti ripresi poi da Einstein (come ad esempio la distinzione tra teorie costruttive e teorie dei principi), non sono assolutamente messi in discussione da nessuno in quanto al loro valore scientifico.

Possiamo allora cominciare a rispondere alle domande da cui eravamo partiti: per Mach gli enti della fisica, insieme alle sue leggi, non rappresentano affatto il costituente ultimo della realtà; essi sono piuttosto finzioni e concetti ausiliari per la comprensione del mondo delle sensazioni. Nello specifico le equazioni di Maxwell sono apprezzate per il fatto che forniscono una fantastica semplificazione tra ottica ed elettricità: attraverso il metodo dell’analogia il fisico scozzese, sulle orme di Faraday, supera infatti la teoria dell’azione a distanza con quella dell’azione contigua tra elettricità e magnetismo, massima espressione della tendenza a semplificare ed unificare tipica del progresso delle scienze.

È da notare ancora una volta che la sostituzione di un paradigma con l’altro non avviene per motivi direttamente epistemologici (ovvero per il fatto che l’uno va più in profondità dell’altro nell’indagine conoscitiva del mondo), ma in nome del principio di economia e di una elevata e superiore forma di matematicizzazione, e questo per il semplice fatto che comunque nessuno dei due modelli ci parla della realtà, ma serve solo ad organizzarla e prevederla.

 

Imbattutici nelle equazioni di Maxwell, mi sembra il caso di procedere da qui. Esse sono infatti la formulazione analitica di una serie di deduzioni derivanti dall’evidenza sperimentale, che, una volta sottoposte a verifica, sono diventate termine fisico di indiscutibile ed imprescindibile validità; possono rappresentare pertanto un esempio paradigmatico della relazione tra la fisica e le sue conseguenze in ambito filosofico, per il fatto che hanno contribuito a soppiantare un paradigma plurisecolare con un nuovo sistema di pensiero ed approccio. Provando ora a svolgerne una piccola analisi, ci renderemo conto del motivo per cui il positivismo machiano desta sospetti in Schlick. Come abbiamo detto poc’anzi, esse rappresentano il passaggio epocale da un approccio di azione a distanza ad una teoria di azione per contatto. Tale svolta è evidente nell’utilizzo, da parte di Maxwell, di equazioni alle derivate parziali. Se il precedente metodo comportava l’assunzione di uno spazio geometrico, per il fatto che l’interazione tra le particelle avveniva a velocità infinita (non comparendo infatti la variabile tempo, pur essendo i protagonisti dell’evento distanti tra loro), il nuovo punto di vista maxwelliano permette in primo luogo di considerare lo spazio come ente fisico, e quindi di abbandonare il ruolo esclusivamente descrittivo e non esplicativo della legge fisica[18].

Nel caso di Maxwell, infatti, il differenziale indica il fatto che stiamo considerando gli effetti di una causa ignota, di cui non conosciamo nemmeno la posizione esatta, nello spazio, occupandoci solo delle risposte che otteniamo dall’interazione dei punti infinitamente prossimi. In questo modo, dunque, vengono risolte due questioni: innanzitutto il carattere metafisico della formulazione newtoniana – coulombiana della azione a distanza; in secondo luogo, la questione dell’etere. Un approccio di azione per contatto implica invero l’assunzione che lo spazio, e non le particelle, siano i veri protagonisti dell’evento fisico: in tal modo la descrizione dello spazio stesso non può più essere esclusivamente geometrica, ma ci costringe ad assumerne una caratterizzazione fisica, introducendo la teoria dei campi. La compromissione mezzo – evento è la chiave vincente per destituire il quinto elemento dal suo ruolo di deus ex machina per salvare la teoria newtoniana; l’etere, il nome inventato per dare un soggetto al verbo ondulare, perde le sue proprietà sostanziali, e sebbene “nulla si può obiettare se si continua ad usare la parola <<etere>> per il vuoto con i suoi campi elettromagnetici [..], tuttavia ci si deve rigorosamente guardare dall’intendere con questa parola una materia nel vecchio senso[19]”.

In termini matematici la deformazione elastica dello spazio è assolutamente chiara quando andiamo ad analizzare il concetto di potenza.

Poiché infatti

P = e x j, (dove e rappresenta il vettore campo elettrico e j il vettore densità di corrente), allora

P = e x j + e x d

Poiché però e = ρ x j, ne segue che P = ρ j2 + ε0 e x e, da cui

P = ρ j2 +   ε0 e2

I due addendi del secondo membro dell’equazione rappresentano rispettivamente una potenza dissipativa perché sempre >0, e la potenza di un corpo elastico, che però, nel nostro caso, è il vuoto (indicato dal dielettrico ε0 calcolato, appunto, nel vuoto): lo spazio, e persino il vuoto, dunque, si deformano elasticamente assumendo definizione fisica e non più geometrica.

 

È in riferimento a queste leggi fondamentali che è opportuno riagganciarci al pensiero di Moritz Schlick per sottolineare la differenza di veduta rispetto a Mach: basta infatti al filosofo pensare che un cambiamento di prospettiva di tal fatta abbia una valenza esclusivamente concettuale e non riguardi la configurazione effettiva della realtà? Credo che a questo proposito non esista modo migliore di rispondere alla questione se non introducendo la teoria schlickiana utilizzando le stesse parole del filosofo viennese: “il fisico, con l’aiuto di poche equazioni fondamentali – quelle che portano il nome di Maxwell – è in grado di coordinare all’intero dei fenomeni elettrici e magnetici dei giudizi adeguati, oppure, con un esiguo numero di leggi del moto, fare lo stesso per la totalità dei processi meccanici. Egli non ha bisogno di formulare ed imparare per ogni singolo fenomeno una legge particolare. Così le scienze esatte rassomigliano non al cunicolo di una talpa che si snodi attraverso il terreno dei fatti ma ad una torre Eiffel che, poggiando sul suolo in pochi punti soltanto, si innalza libera ed agile fino alle altezze aeree dei concetti più generali, dalle quali soltanto si dominano con tanta perfezione i fatti individuali[20]”.

 

È questo, a mio avviso, uno dei passi più significativi dell’intera Teoria generale, non solo per il tono quasi retorico e trionfale (cosa abbastanza inusuale per il filosofo viennese) con il quale Schlick tesse una lode a cuore aperto per le scienze esatte ed il metodo della fisica, ma anche perché ci porta direttamente nel nucleo del suo sistema epistemologico.

Prima di intraprendere qualsiasi ulteriore passo nel pensiero di Schlick, ritengo però assolutamente necessario per la sua comprensione esplicitare la fondamentale distinzione tra erkennen e kennen, che il traduttore rende con conoscere e (co)noscere, ovvero esperire, intuire, avere presente[21]. Intuizione e conoscenza non sono affatto la stessa cosa, e non tendono nemmeno verso la stessa meta; è proprio a causa della loro irrimediabile confusione, a parere di Schlick, che molti filosofi sono incappati in errori insolubili. Se conoscere significa ritrovare qualcosa di nuovo in qualcosa di vecchio, riconoscerlo in qualcosa di già acquisito, ne segue allora che l’essenziale caratteristica della conoscenza è quella che nel suo processo ci sono sempre due termini: “qualcosa che viene conosciuto e il come che cosa esso viene conosciuto”[22].

Nell’intuizione, al contrario, non vengono messi in relazione due oggetti, l’unico dato che abbiamo di fronte viene semplicemente colto. Ma “finché un oggetto non è confrontato con nulla, finché non è inserito in qualche modo in un sistema concettuale, fino a quel momento esso non è conosciuto. Nell’intuizione gli oggetti vengono solo dati, non compresi. L’intuizione è mero esperire; il conoscere però è qualcosa di interamente altro, è qualcosa di più”[23]. È chiaro che ci troviamo in una posizione epistemologica molto differente rispetto a quella di Mach. Eravamo partiti sostenendo che esisteva una divergenza sostanziale riguardo al concetto di realtà (di cui, per quanto riguarda Schlick, parleremo fra breve), la quale portava necessariamente ad un approccio altrettanto opposto per quanto concerneva il ruolo delle scienze; non potevamo che giungere altrettanto inevitabilmente ad una differenza essenziale nei concetti di conoscenza.

Come abbiamo visto dalle parole di Gargnani, secondo il disegno machiano le leggi fisiche non contengono un contenuto conoscitivo più ampio di quello espresso dalla rappresentazione di un singolo fenomeno; sembra quindi che anche lo stesso Mach incappi nell’errore condannato da Schlick, ovvero quello di confondere conoscenza e (co)noscenza. Non è qui assolutamente in dubbio il fatto che tutto ciò che nel mondo ci è dato, ci venga dato nell’intuizione; “ma le cose le conosciamo solo attraverso il pensiero, perché quell’unire e coordinare che sono necessari per acquisire conoscenza costituiscono ciò che appunto si designa come pensiero”[24]: poiché infatti la percezione non contiene alcun giudizio, per sua essenza non può essere conoscenza, e sostenere il contrario significa cadere in una contraddictio in adjecto. Il ruolo della scienza, come afferma poco dopo Schlick, è quello di insegnare a comprendere ed intendere quegli oggetti che ci vengono resi noti dall’esperienza: “l’intuizione è godimento, il godimento è vita, non conoscenza”[25].

Secondo il filosofo viennese, non si tratta questa di una definizione di conoscenza come un’altra, e come tale, pertanto, suscettibile di differenti interpretazioni: non si da infatti il conoscere se non come coordinazione, ri-trovamento e designazione. È curioso il fatto che Schlick, come Mach, utilizzi le parole di Kirchhoff per avvalorare la sua tesi, sostenendo che “nella teoria delle scienze di natura [..] il concetto di conoscenza che abbiamo sviluppato qui è arrivato oggi a prevalere pressoché interamente [..]. Egli dichiarò che il compito della meccanica consiste unicamente <<nel descrivere completamente e nella maniera più semplice i movimenti che hanno luogo in natura>>”[26]. Se accettiamo l’invito di Schlick ad intendere con la parola “descrivere” quello che lui chiama “coordinare con segni”, e con le parole “nella maniera più semplice” quello che rappresenterebbe il minimum logico di concetti per la coordinazione dei giudizi, arriviamo davvero a concludere che anche nel dominio delle scienze regna una tale definizione di conoscenza, e che, anzi, è proprio da esse che Schlick l’ha estrapolata e sviluppata portandola sotto la giurisdizione della filosofia.  Nella prefazione alla prima edizione, il filosofo viennese chiarifica infatti che una dottrina generale della conoscenza non può assumere come punto di partenza che il conoscere proprio delle scienze di natura, per il fatto che esse, più di ogni altra disciplina, sono caratterizzate da universalità e chiarezza. Nella ricerca scientifica infatti la parola conoscere “non riceve affatto un senso nuovo e particolare, l’essenziale del conoscere è esattamente lo stesso sia nella vita quotidiana che nella scienza. Solo che nella ricerca scientifica (per il suo procedere secondo un metodo ipotetico-deduttivo e attraverso l’analisi quantitativa – matematica che assoggetta la ricerca alla signoria del numero) e in filosofia l’oggetto e lo scopo sono più elevati e gli conferiscono una più alta dignità”[27].

 

Date queste considerazioni, non è più così semplice come poteva sembrare dalle parole di Mach abbandonarsi all’idea che le teorie scientifiche, ben lungi dal coordinare i concetti e la realtà attraverso i giudizi, siano soltanto delle finzioni utili per vivere il mondo.

Non basta infatti, secondo la visione di Schlick, che i giudizi della scienza poggino sul principio di economia e sulla verifica empirica; sebbene anche secondo il neoempirismo la riduzione dei concetti ad un minimum logico e la verificazione degli enunciati siano i capisaldi della scienza (e addirittura di tutta la classe delle proposizioni sintetiche), tuttavia è altresì necessario che esistano delle proposizioni del sistema con le quali esso si appoggi direttamente ai fatti reali, di modo che da questi giudizi fondamentali possa essere eretto passo passo l’intero sistema “ricavando le singole pietre da costruzione con un procedimento puramente logico, deduttivo [..]. Se l’intero edificio è compaginato in maniera corretta allora non soltanto ai giudizi fondamentali, ma anche ai membri del sistema generati per via deduttiva corrisponderà, uno per ciascuno, uno stato di fatto della realtà; ogni singolo giudizio dell’intera costruzione sarà coordinato univocamente ad uno stato di fatto reale”[28].

Non si tratta affatto, in questo caso, di una questione di poco conto: una posizione come quella sostenuta da Schlick in questo passo lo porterà a teorizzare l’isomorfismo strutturale tra linguaggio e realtà, a ritenere cioè che alla struttura formale attraverso la quale è possibile l’espressione degli enunciati, corrisponda a tutti gli effetti una medesima conformazione del mondo reale dei fatti; si tratta qui, a mio avviso, di un richiamo all’atomismo proposizionale di Wittgenstein (con cui il Circolo di Vienna entrò spesso in contatto), secondo cui  tutti i fatti atomici possono essere espressi in un linguaggio con equivalenti proposizioni atomiche, che potranno essere individuate come "vere" o "false" mediante un confronto con la realtà sensibile dei fatti atomici stessi.

Deve emergere a questo punto con assoluta chiarezza che se effettivamente ad ogni proposizione della scienza corrisponde uno stato di cose reale, se la validità dell’enunciato consiste nel metodo della sua verificazione empirica, e se la sua verità è l’univocità della designazione, allora il ruolo che Schlick ascrive alla fisica, non può che consistere nella definizione del reale stesso, con la convinzione che solo l’indagine scientifica possa soddisfare esaustivamente tutte le condizioni che vengono poste affinché il suo procedere sia sgombero da metafisica e misticismo: “possiamo pertanto tranquillamente affermare che in verità ogni conoscere ci dà una conoscenza di come gli oggetti sono in se stessi”[29].

 

Senza soffermarsi troppo a discutere sul fatto che, a mio avviso, l’avverbio “tranquillamente” non è del tutto adatto in un contesto così complesso e di assoluta difficoltà di risoluzione, né tantomeno dovrebbe essere utilizzato con tale tranquillità in un’opera filosofica, è assolutamente da rilevare il cambiamento di prospettiva rispetto a Mach. Come sottolinea Planck nel saggio da cui già in precedenza abbiamo tratto delle considerazioni, per il positivismo “non ha senso domandarsi cosa sia un tavolo in realtà. E lo stesso dicasi di tutti i concetti fisici. L’intero mondo che ci circonda non è altro che l’insieme delle esperienze che in esso noi raccogliamo. Senza queste il mondo esterno non ha significato. [..] Poiché secondo la dottrina positivista le sensazioni, come dato primario, costituiscono la realtà” [30].

La medesima considerazione viene fatta da Schlick nel capitolo 25 (Cosa in sé e idea di immanenza), nel quale affronta i problemi che sorgono nella teoria della conoscenza a partire dall’immanentismo: la domanda che ci viene posta è considerare se effettivamente un qualsiasi trascendimento del dato introduca nella spiegazione del mondo contraddizioni insuperabili; e se è vero che “se vuole essere coerente il positivismo può permettersi di dichiarare reale solo il percepito e non anche il percepibile”, se ancora “per un positivismo coerente tutto ciò che non è dato sullo stesso piano, non è reale[31]” (tanto che addirittura l’interno della terra e l’altra faccia della luna dovrebbero essere considerati concetti ausiliari del pensiero così come lo sono gli elettroni), allora la battaglia della filosofia dell’immanenza contro l’assunzione realista della cosa in sé è inutile per il fatto che quella non può fare a meno di assunzioni perfettamente equivalenti a questa, e contemporaneamente perché non è in grado di rendere completamente conto delle assunzioni stesse della scienza: se infatti l’individuo ingenuo può fermarsi solo a cose che sono percepite, “la scienza va al di là di questo, indirizzandosi a cose delle quali è escluso, secondo i suoi stessi principi, che verrebbero mai date ad un essere umano. La scienza formula giudizi sull’interno del sole, su elettroni, su forze di campo magnetiche, e così via; quale senso compete a questi asserti? Vi sono soltanto due possibilità: quegli oggetti non dati o vengono designati come reali oppure no”[32].

La mossa filosoficamente rilevante che Schlick si appresta a compiere consiste proprio nel conferire realtà agli oggetti non percepiti di modo che ad ambedue venga attribuita esistenza in uguale maniera, dichiarandone la piena realtà attraverso la negazione della differenza di oggetti percepiti e oggetti inferiti attraverso metodi rigorosi: “gli oggetti che noi designiamo mediante i concetti delle nostre scienze della natura (corpo, atomo, campo elettrico e così via) non sono identici ai complessi di elementi reali, ma sono reali quanto questi e lo rimangono anche se non sono dati affatto elementi. Le proprietà e le relazioni di questi oggetti non vengono mai direttamente date, ma sempre inferite. E ciò vale, esattamente nello stesso senso ed allo stesso grado, di tutti gli elementi del genere, tanto degli elettroni del fisico quanto del pane sulla nostra tavola”[33].

La trascendenza rispetto al dato e l’assunzione di una cosa in sé non significano per Schlick accettare sostanze metafisiche, permanenti, immutabili; semplicemente, cosi come sulla base dei nostri vissuti possiamo coordinare alle percezioni visive e tattili il concetto di “pane” ed inferirne l’esistenza, allo stesso modo, in virtù dei vissuti di ricerche sperimentali, noi assumiamo l’esistenza di oggetti a cui ci riferiamo mediante il concetto di “atomo”, oppure “campo”, “ forza” ecc. Tra i due casi non sussiste infatti alcuna differenza, “e l’affermazione spesso sentita che l’esistenza delle molecole non può valere come dimostrata fin tanto che non le possiamo vedere è del tutto infondata”[34].

L’argomentazione di Schlick è chiara: se l’immanentismo sostenuto dal positivismo ammette il passato includendolo nel dominio del reale, già sta compiendo un’azione che trascende il dato; ma se non esiste alcuna ragione per negarne la realtà, allora gli stessi motivi devono spingere a riconoscere le entità che trascendono la coscienza; “e giusto come il filosofo dell’immanenza non sarebbe contento di dichiarare il passato un mero concetto ausiliario – cosa che egli potrebbe benissimo fare – e gli riconosce invece realtà, così anche noi rivendichiamo la piena realtà per tutti gli oggetti temporalmente localizzati e non abbiamo alcuna ragione di dichiararli puri concetti ausiliari che non designerebbero nulla di reale”[35]. Per utilizzare un esempio presente in Spazio e tempo nella fisica contemporanea, credere che la matita che utilizziamo per scrivere sia reale mentre le molecole che la costituiscono no, presuppone una restrizione arbitraria e dogmatica del concetto stesso di realtà, per di più non giustificata nemmeno dagli intenti anti – metafisici, poiché essi si possono conseguire in altre maniere[36].

 

Riassumendo la posizione di Schlick, possiamo dire che esiste una sola realtà, accessibile in tutto e per tutto alla nostra conoscenza, che si può spingere fino alla determinazione della cosiddetta cosa in sé. Solo una parte della realtà è accessibile invece ai nostri sensi, ed è là che si esaurisce la (co)noscenza. È bene qui sottolineare che quello che stiamo intendendo per realtà è assolutamente definito e definibile solo dalla fisica e dalle scienze esatte; un oggetto è reale solo nella misura in cui le connessioni dell’esperienza rendono necessario assegnargli una posizione determinata nella serie temporale unidimensionale che noi coordiniamo alla serie esperita. È forse ancora il caso di riprendere le parole di Schlick: credo infatti che questo passo con assoluta chiarezza dimostri il netto distacco rispetto a Mach. Scrive il filosofo viennese: “Se intendiamo che l’<<essenza>> delle cose sia affatto qualcosa di conoscibile possiamo allora ben dire che la scienza empirica ci da conoscenza dell’essenza degli oggetti. In fisica, ad esempio, le equazioni di Maxwell ci dischiudono l’<<essenza>> dell’elettricità, le equazioni di Einstein l’<<essenza>> della gravitazione, perché con l’ausilio di tali equazioni noi possiamo di principio dare risposta a tutte le questioni che si possono porre riguardo a questi oggetti di natura. Se questo lo si concede, allora, conformemente a quanto detto poc’anzi, noi possediamo con ciò al tempo stesso conoscenza dell’essenza delle cose in sé. Non può concedere questo solo chi per essenza di una cosa reale vuole intendere null’altro che un assolutamente dato, una qualità direttamente esperita; dunque qualcosa che però non è affatto conoscibile ma solo (co)noscibile, qualcosa che possiamo soltanto sapere”[37].

 

Questa impostazione di pensiero vuole collocarsi come terza via tra l’idealismo logico à la Cassirer e il sensismo. Schlick tende spesso a sottolineare questa convinzione con l’intento da un lato di preservare l’opinione che l’empirismo sia la dottrina filosofica meno impregnata di residui metafisici, dall’altra che le teorie che fanno proprie l’a priori, in qualunque senso esso sia inteso, non sono assolutamente necessarie per comprendere alcuna teoria fisica, né tantomeno possono esimersi dalla critica di essere assolutamente non verificabili, e quindi metafisiche: un empirista può credere negli stessi principi generali del criticismo, egli negherà soltanto che essi siano sintetici e a priori. “Le tautologie (o giudizi analitici) sono le sole proposizioni a priori e godono di un’assoluta validità, ma la debbono alla loro stessa forma, non a una corrispondenza ai fatti, non dicono niente sul mondo, rappresentano delle vuote strutture”[38]; non esiste invero alcuna autentica conoscenza che sia a priori, essa deve infatti essere basata sull’esperienza. Per riassumere, sebbene questa posizione comporti non poche ambiguità, anche l’empirista, secondo la visione schlickiana, può credere nell’unità della natura, nella conformità a leggi di ogni esperienza, con la differenza rispetto all’idealista logico che egli ritiene che la validità e la necessità oggettiva di tale conformità non possano essere dimostrate attraverso una deduzione trascendentale; rispetto al positivista, come abbiamo visto, che le entità della fisica sono empiriche tanto quanto gli elementi a cui accediamo attraverso le nostre sensazioni ed intuizioni, con la garanzia che può accettare vera la sola proposizione che sia verificabile.

In sostanza, se Cassirer critica a ragione il rigido positivismo di Mach, dimentica che quegli stessi principi cui si rifanno sia il neokantiano che l’empirista, non sono da considerarsi a priori di nessun tipo, bensì “ipotesi o convenzioni; nel primo caso, non sono a priori (poiché manca ad essi l’apoditticità), nel secondo non sono sintetici”[39].

 

Questa posizione più che consolidare l’edificio epistemologico sembra aprire numerose crepe, anche perché, oltre al dibattito con l’idealismo logico della scuola di Marburgo, sembra aprirsi un problema fondamentale: se le proposizioni della scienza sono l’unico termine di misurazione e conoscenza della realtà, come possono essere soltanto delle ipotesi? Significa che ci siamo allontanati solo a parole da Mach ma che,  in verità, nei fatti siamo rimasti aderenti al suo fenomenismo e positivismo? Sembriamo incappare nel circolo vizioso del metodo ipotetico deduttivo: se possiamo definire la realtà attraverso convenzioni e ipotesi, e a partire da esse deduciamo i principi più particolari delle scienze, è chiaro che (a condizione di avere scelto buone premesse maggiori), le nostre inferenze saranno corrette; ma questo vuol dire che non esistono criteri per scegliere quale sia la posizione più reale oltre al principio di economia? Le risposte che ci vengono offerte da Schlick in proposito sono, a mio avviso abbastanza deboli; ritengo tuttavia che fossero l’unica effettiva conclusione cui il filosofo viennese poteva giungere senza cadere in ulteriori ed insanabili problematiche mantenendo gli intenti iniziali. Possono essere riassunte in tre punti:

1.     la convinzione che, come abbiamo visto, la scienza sia prosecuzione del senso comune;

2.     la concezione induttivistico – ipotetica della ricerca scientifica;

3.     la sottodeterminazione delle teorie.

 

Schlick osserva con vigore il fatto che nella vita quotidiana, nelle azioni che compiamo per vivere, possiamo a buon ragione presupporre una serie infinita di conoscenze; quello che facciamo è un semplice processo di associazione che trova fondamento psicologico nell’abitudine, di evidente ispirazione humeana. Ora, se l’uomo comune non considera affatto il valore epistemologico delle sue assunzioni per associazione (“non mi serve a nulla sapere che ogni volta che ho mangiato pane questo mi ha nutrito e mi ha fatto bene, se poi non so che anche il pane che mangerò domani avrà le stesse proprietà”[40]), significa che la questione è esclusivamente di natura teoretica, filosofica. E “se la credenza pratica nel principio si forma per associazione, attraverso un istinto che pervade, domina e mantiene la vita in ogni singolo atto del suo operare”, allora la garanzia della sua validità non solo per la vita quotidiana ma anche per la ricerca scientifica è una garanzia assoluta, “perché la credenza è contenuta implicitamente in ogni attività cosciente, senza alcuna eccezione”[41]. E se precedentemente avevamo rimosso ogni tentativo di introdurre nella teoria della conoscenza proposizioni a priori che non fossero analitiche, non rimane (come è giusto che sia) che ritenere che verità apodittiche circa il reale vanno oltre il potere dell’umana capacità di conoscere, e che la conoscenza più alta non possa che basarsi sul procedimento induttivo, con la consapevolezza che “tutte le nostre conoscenze di realtà sono dunque, a rigore, delle ipotesi. Non fa eccezione nessuna verità scientifica, sia esso di tipo storico oppure appartenente alla più esatta delle discipline che studiano la natura. Nessuna verità scientifica è di principio sicura di fronte al pericolo di essere un giorno confutata e di diventare quindi non-valida. Se anche vi sono innumerevoli verità sul mondo reale delle quali nessun uomo che le (co)nosca dubita, tuttavia nessuna di esse può mai liberarsi completamente dal carattere dell’ipotetico”[42]. Riassumendo, possiamo dire che l’esigenza di credere a principi universali (come può essere quello di causa) non è di tipo teoretico, ma pratico e biologico. Senza la possibilità offertaci dalla natura di associare e ri-trovare, persino la nostra sopravvivenza sarebbe compromessa. E giacché la scienza nasce come spinta verso il soddisfacimento di un piacere alla conoscenza, essa non può che essere guidata dai medesimi principi. Ma rimane aperta l’ultima questione, ovvero il problema causato dal processo di sostituzione di un paradigma scientifico con un altro.

Se effettivamente è possibile che una teoria domini sull’altra, significa che quella da sostituire non designava elementi reali? Se il modello atomico di Thomson è stato soppiantato da quello di Rutherford e poi da quello di Bohr, significa che era meno reale? O che non lo era affatto? Se la teoria della gravitazione newtoniana è stata sostituita dalla teoria della relatività, siamo di fronte ad una sostituzione di un modello sbagliato con uno corretto?  

La risposta che avrebbe dato Mach è evidente: dato che nessuno dei modelli descrive la realtà, quello che conta è che tutti soddisfino i risultati empirici; il migliore sarà scelto in base al principio di economia e all’esito dell’experimentum crucis[43]. I problemi nascono ovviamente con Schlick per il fatto che al contrario qui tutti dovrebbero descrivere un medesimo ente reale. L’idea di Schlick già accennata da Planck (vedi Significato della scienza, in La conoscenza del mondo fisico) e poi ripresa da gran parte della tradizione filosofica successiva, è sostenere la possibilità di descrivere gli stessi dati a partire da due teorie empiricamente equivalenti ma tra loro incompatibili, avvalendosi cioè del principio di sottodeterminazione delle teorie; riprendendo le bellissime parole di Schlick, “non si può mai dimostrare che soltanto Copernico ha ragione, e che invece Tolomeo ha torto; [..] ma si può sempre e soltanto dimostrare che, tra queste alternative, una concezione è più semplice delle altre e conduce a un’immagine dell’universo più compiuta e soddisfacente. Ogni teoria consiste di un insieme di concetti e di giudizi, ed essa è giusta o vera quando il sistema di giudizi designa univocamente il mondo dei fatti. [..] è possibile designare lo stesso stato di fatto mediante diversi sistemi di giudizi; di conseguenza, si possono dare diverse teorie per le quali il criterio di verità viene soddisfatto nella stessa maniera, teorie che vengono quindi giustificate tutte, in eguale misura, dalle osservazioni, e conducono alle stesse previsioni”[44].

 

Il riferimento al convenzionalismo di Poincarè mi pare evidente, e lo stesso Schlick non esita a sottolinearlo; così come avviene infatti per la scelta di una geometria piuttosto di un’altra, allo stesso modo la scelta del sistema di giudizi per la designazione della realtà (a patto che conservi le condizioni poste per la sua validità), è arbitrario e dipende solo da questioni di semplicità, coerenza, fecondità e portata esplicativa.

 

La nostra breve indagine ci permette ora di effettuare qualche considerazione conclusiva, nella speranza di avere soddisfatto appieno quanto ci eravamo chiesti all’inizio del nostro percorso. Le domande intorno al valore epistemologico delle scienze in riferimento alla loro realtà hanno trovato due sbocchi divergenti nelle teorizzazioni di Mach e Schlick, che tuttavia si incontrano in un punto comune di fondamentale importanza. Da un punto di vista fenomenico e positivista, il primo ha percorso una strada che ci porta verso un’idea delle scienze come delle costruzioni concettuali per nulla più vere delle impressioni sensoriali degli elementi che costituiscono la realtà; da un punto di vista fisicalista abbiamo assistito, nel secondo autore, ad una trattazione assolutamente incentrata nel tentativo di conferire alle scienze esatte il ruolo primario non solo nella teoria della conoscenza, ma anche nella definizione stessa del concetto di reale.

Abbiamo visto come la posizione di Mach, forse più vicina al sensismo immanentista di quanto egli stesso non si accorga, porti a problemi difficilmente conciliabili con la natura della scienza: basti pensare a questo proposito all’accusa di solipsismo e monadismo che gli viene propugnata da Planck, e alle considerazioni di Geymonat che non può esimersi dal riconoscere alcune pecche della teoria machiana.

Rimane ora da affrontare il problema legato alla posizione di Schlick; prescindendo dalle critiche che gli sono state rivolte dai filosofi del suo tempo e da coloro i quali hanno raccolto la sua eredità, voglio limitarmi ad accennare alcune questioni che sorgono direttamente dalla sua stessa opera. Anzitutto lo scientismo: questa tendenza a considerare la conoscenza scientifica come il fondamento di tutta la conoscenza in qualunque dominio, è assolutamente limitante: non lascia spazio, in prima istanza, ad alcuna immagine del mondo che non sia quella della fisica. Quanto può infatti soddisfarci una concezione chiusa e ristretta come quella di Schlick, nella quale addirittura l’intero mondo reale (e non solo la conoscenza) appartiene al dominio delle scienze, e a nient’altro?   A che diritto possiamo attribuire agli enti della fisica più realtà di quella che attribuiamo invece a quelli di ogni altra disciplina? La risposta di Schlick può essere accettabile solo a condizione di precluderci ogni altra strada, e di seguirlo senza opinare lungo tutto il suo tragitto; ma non si tratta questa forse di una mossa anti-filosofica?

In secondo luogo questo tipo di approccio non soddisfa le esigenze del relativismo ontologico che credo, oggi, sia di vitale importanza non solo nel campo filosofico, ma anche nella totalità di quello scientifico. Una visione epistemologica della scienza come quella di Quine, ad esempio (che tra l’altro non esita a scagliarsi contro il cosiddetto dogma del riduzionismo, secondo il quale ad ogni proposizione del sistema conoscitivo deve corrispondere uno stato di fatto), permette di conservare una maggiore libertà non solo all’interno del paradigma scientifico in cui ci si trova, ma soprattutto nella panoramica generale di tutti i sistemi di conoscenza che regolano la vita di qualsiasi gruppo sociale umano. L’olismo di Quine, che concepisce la scienza come un “campo di forza”, e non come una serie di proposizioni verificabili ad una ad una, rifiuta addirittura la distinzione classica tra proposizioni analitiche e sintetiche, consentendo alla rete concettuale che “cattura” e definisce il mondo di essere assolutamente mobile ed euristicamente inesauribile; scrive Quine: “da parte mia, in quanto fisicalista laico, credo negli oggetti fisici e non negli dei di Omero; e ritengo che sia un errore scientifico fare altrimenti. Ma dal punto di vista del fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dei di Omero differiscono solo in quanto al grado e non in quanto al genere. Entrambi i tipi di entità entrano nella nostra concezione solo in quanto postulati culturali. Il mito degli oggetti fisici è epistemologicamente superiore alla maggior parte degli altri perché ha dimostrato maggiore efficacia rispetto ad altri miti come strumento per modellare una struttura maneggevole all’interno del flusso dell’esperienza”[45].

Le differenze tra questo empirismo liberalizzato e quello di Schlick sono evidenti, e se la strada percorsa dalla filosofia del Novecento è stata più vicina alla posizione olistica quiniana che non all’empirismo logico ed al fiscalismo del Circolo di Vienna, la ragione sta, a mio avviso, nel fatto che quest’ultimo risultava forse troppo rigido e troppo poco fecondo perché potesse trovare maggiore successo.

 

 

È difficile per me, che sono ancora alle prime armi, assumere una posizione in questo dibattito; da una parte, vuoi per lo spirito assolutamente polemico (tanto da essere spesso quasi sarcastico), vuoi per la tenacia e la forza con cui sono espresse le sue teorie, vuoi per la sua dichiarata ricerca di rigore e chiarezza, e per alcune osservazioni filosofiche assolutamente uniche, mi affascina in modo particolare Schlick; ma d’altra parte, non posso esimermi dal condannare l’eccesso di fiducia nel valore ontologico degli enti fisici senza tenere in considerazione Mach o Quine, che tentano di ridurne il valore fino a farlo divenire nullo, oppure di racchiuderlo assieme a tutti gli altri enti epistemologicamente rilevanti liberamente creati dallo spirito umano. Quello che è certo è che difficilmente si possono trovare casi migliori per esemplificare l’atteggiamento che dovrebbero assumere filosofi e scienziati secondo l’appello che ci viene rivolto da Ludovico Geymonat nella sua Storia del pensiero filosofico e scientifico: “In tempi recenti si è manifestata una diffusa tendenza a relegare la filosofia entro i problemi dell’anima lasciando alla scienza la responsabilità di far progredire la nostra conoscenza del mondo, quasi che i due compiti siano separabili l’uno dall’altro. Noi  siamo fortemente convinti che questo modo di procedere sia in aperto contrasto con lo sviluppo più significativo del pensiero antico e moderno, e stia proprio alla radice della grave crisi da tutti denunciata nella cultura odierna: tanto in quella umanistica (che in pratica ignora Maxwell, Einstein, Planck, come fino a qualche tempo fa ignorava Newton e Buffon, se non Galileo), quanto in quella specificamente scientifica (che spesso trova ad operare i risultati delle scienze senza sapere e senza chiedersi da quali travagli culturali siano nati)”[46].

 

E se recentemente sul Corriere della Sera[47] è apparso un articolo in cui, nel discutere del dialogo tra scienza e filosofia, Boncinelli affermava che “la scienza, e non le elucubrazioni teoriche, ha cambiato il mondo”, soltanto perché essa sembra inutile per il fatto che non ha mai raggiunto risultati positivi come le altre discipline scientifiche, mi sia permesso di concludere, per rispondere allo stesso Boncinelli e a chi come lui arresta ciecamente il suo orizzonte a ciò che evidentemente non apprezza e capisce, con il pensiero di un altro insigne filosofo: “la filosofia va studiata non per amore delle precise risposte alle domande che essa pone, poiché nessuna risposta precisa si può, di regola, conoscere per vera, ma piuttosto per amore delle domande stesse; perché queste domande allargano la nostra concezione di ciò che è possibile, arricchiscono la nostra immaginazione e intaccano l’arroganza dogmatica che preclude la mente alla speculazione; ma soprattutto perché, grazie alla grandezza dell’universo che la filosofia contempla, anche la mente diviene grande, ed è resa capace di quella unione con l’universo che costituisce il suo massimo bene”[48].



[1] Max Planck, La conoscenza del mondo fisico, Universale Bollati Boringhieri, 2002, p. 203

[2] Le parole di Mach in merito sono perentorie, quando afferma che “sono pochi, oggi, i filosofi che prendono parte al lavoro scientifico, e solo eccezionalmente lo scienziato dedica il suo lavoro intellettuale a questioni filosofiche. Eppure questo lavoro è assolutamente necessario alla comprensione” (Ernst Mach, Conoscenza ed errore, Giulio Einaudi editore, 1982, p. 6); e in maniera del tutto simile, e in modo non meno deciso, anche Schlick, nella prefazione alla prima edizione della Teoria generale della conoscenza, non si esime dal riconoscere la stessa esigenza epistemologica: “lo scienziato veramente grande è sempre anche filosofo. Questa stretta interrelazione di fini consente ed esige anche all’esterno uno stretto collegamento della dottrina della conoscenza con le scienze della natura” (Moritz Schlick, op. cit., Collana di filosofia Franco Angeli, 1986, p. 10).

[3] M. Schlick, op. cit., pp. 11-12

[4] M. Schlick, Forma e contenuto, Boringhieri, 1987, p. 80

[5] M. Schlick, Teoria generale della conoscenza, p. 121

[6] E. Mach, op. cit., p. 4

[7] M. Schlick, op. cit., p. 120

[8] M. Schlick, op. cit., p. 92

[9] M. Planck, op. cit., p. 241

[10] E. Mach, op. cit., p. 160

[11] E. Mach, op. cit., p. 133

[12] L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti libri, 1978, p. 243

[13] L. Geymonat, op. cit., p. 246. Anche Schlick utilizza parole analoghe riguardo agli intenti anti-metafisici di Mach ed alle loro conseguenze quando, in Spazio e tempo nella fisica contemporanea, afferma che “questo restringimento del concetto di realtà al dato immediato non è giustificato dal procedere della scienza. Esso si spiega per l’opposizione contro certe erronee concezioni metafisiche, ma queste si possono evitare anche per altre vie” (p. 92).

[14] E. Mach, op. cit., Introduzione, p. XII

[15] E. Mach, op. cit., p. 447

[16] E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico – critico, Bollati Boringhieri, 1992, p. 494

[17] E. Mach, op. cit., p. 494

[18] La legge di Coulomb per l’interazione delle cariche elettriche, che ricalca l’impostazione della legge newtoniana della gravitazione, ha infatti la forma: f = k q x Q/r2 x r/r. Come si nota, innanzitutto siamo di fronte a cariche puntiformi che creano campi centrali; in secondo luogo l’azione che esse esercitano l’una sull’altra avviene in un intervallo ∆t nullo, e pertanto a velocità infinita. Le leggi che regolano questo tipo di interazione sono globali di tipo integrale, e non differenziale.

[19] M. Schlick, Spazio e tempo nella fisica contemporanea, p. 35

[20] M. Schlick, Teoria generale della conoscenza, p. 99

[21] In riferimento, vedi l’Avvertenza alla Teoria generale della conoscenza a cura di Ernesto Palombi, p. 7

[22] M. Schlick, op. cit., p. 103

[23] M. Schlick, op. cit., p. 103

[24] M. Schlick, op. cit., p. 104

[25] M Schlick, Forma e contenuto, p. 93

[26] M. Schlick, Teoria generale della conoscenza., pp. 113-114

[27] M. Schlick, op. cit., p. 27

[28] M. Schlick, op. cit., p. 98

[29] M. Schlick, op. cit., p. 110

[30] vedi p. 3; M. Planck, op. cit., p. 238-239

[31] M. Schlick, op. cit., p. 246

[32] M. Schlick, op. cit., p. 232-233

[33] M. Schlick, op. cit., p. 247

[34] M. Schlick, op. cit., p. 247

[35] M. Schlick, op. cit., p. 259

[36] Per mostrare inequivocabilmente la dichiarata posizione antimetafisica di Schlick, intendo citare direttamente il Manifesto del Circolo di Vienna: “Il metafisico e il teologo credono, a torto, con i loro enunciati di asserire qualcosa, di rappresentare uno stato di fatto. Viceversa, l’analisi mostra che simili enunciati non dicono nulla, esprimendo solo atteggiamenti emotivi. [..] Se un metafisico o un teologo vogliono mantenere nel linguaggio la forma usuale, debbono consapevolmente e chiaramente ammettere di non fornire rappresentazioni, bensì espressioni; di non offrire teorie, di non comunicare conoscenze, bensì poesie o miti. [..] La concezione scientifica del mondo respinge la metafisica”.

[37] M. Schlick, op. cit., p. 272

[38] M. Schlick, Forma e contenuto, p. 126

[39] M. Schlick, op. cit., p. 154

[40] M. Schlick, Teoria generale della conoscenza, p. 418

[41] M. Schlick, op. cit., p. 430

[42] M. Schlick, op. cit., p. 422

[43] “La questione se i colori derivino dalla rifrazione o siano già presenti prima della rifrazione e diventino visibili per la diversità degli indici di rifrazione è stata decisa da Newton col suo experimentum crucis. È il termine coniato da Bacone e accolto da Newton per gli esperimenti che decidono tra due interpretazioni. Un importante esperimento di questo genere è quello con cui Foucault dimostra che la velocità della luce è minore nell’acqua che nell’aria: esso decide l’insostenibilità della teoria dell’emissione a favore della teoria ondulatoria”. E. Mach, Conoscenza ed errore, p. 241

[44] M. Schlick, Spazio e tempo nella fisica contemporanea, pp.93-94

[45] Willard Van Orman Quine, Da un punto di vista logico, Raffaello Cortina Editore, 2004, pp. 62-63

[46] Ludovico Geymonat, op. cit., p. I

[47] Corriere della Sera di mercoledì 23 aprile 2008, p. 45 – GRAZIE SIMO!

[48] Bertrand Russell, I problemi della filosofia, Feltrinelli, 2007, pp. 190-191



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