Influenze kantiane nel pensiero di Friedrich Schiller

di Elisabetta Audisio

 

 

 

 

 

I. I presupposti Kantiani

 

 La concezione morale di Immanuel Kant si sviluppa su un radicale dualismo metafisico ovvero su una netta distinzione tra due differenti ed opposti ordini di realtà, uno fenomenico (sensibile) ed uno noumenico (intelligibile). Da un lato, infatti, vi è la realtà sensibile costituita dall’intero ordine naturale delle cose (quindi anche dal corpo e dalle sue determinazioni) che l’uomo può conoscere attraverso le facoltà sensibili, dall’altro lato una realtà intelligibile, che non è data attraverso i sensi, ma solamente per mezzo di un’esperienza extrasensibile.

 Questa concezione dualistica permette a Kant di distinguere due diverse giurisdizioni, riconoscendo un regno (mondo fenomenico) in cui vige la causalità meccanica e necessaria e, per contro, un regno (mondo noumenico) nel quale vige una causazione non necessaria, ma libera. Tale impostazione gli consente dunque di trovare un “terreno” per la libertà proprio nel mondo noumenico, cioè in quella sfera che si eleva al di sopra della realtà sensibile in cui è esclusa ogni forma di causazione libera (libertà trascendentale). La possibilità della libertà è dunque subordinata alla distinzione tra mondo sensibile e mondo intelligibile e può essere intesa soltanto come libertà trascendentale, cioè come causa incondizionata (il soggetto causante non è a sua volta effetto di una causa).

 Già nella Critica della ragion Pura Kant ammette la possibilità della libertà, aldilà del determinismo fenomenico, che non può essere verificata dalla ragione nel suo uso teoretico, poiché si arresta di fronte ad un problema irrisolvibile. Nella Dialettica trascendentale - che è la sezione della Critica della ragion pura in cui Kant prende in esame le facoltà della ragione - si parla dell’idea di mondo come totalità incondizionata di tutti i fenomeni e su cui si possono sostenere affermazioni contraddittorie senza poter provare l’errore né dell’una né dell’altra, giungendo a una serie di quattro antinomie della ragion pura. La terza di queste antinomie consiste, infatti, nell’opposizione di una tesi, riguardo all’idea di mondo, che afferma la libertà, ed un’antitesi che la nega: la ragione teoretica si trova quindi di fronte ad un conflitto (tesi-antitesi) che non è in grado di risolvere. La ragione, nella sua veste speculativa, può dunque solamente ipotizzare l’idea di una causalità libera come logicamente possibile, cioè pensabile senza contraddizione, ma mai obiettivarla in una conoscenza, in quanto quest’ultima si dà soltanto di fenomeni ma mai di cose in sé.

 La soluzione che Kant dà di tale conflitto consiste nel sostenere, sulla base del dualismo metafisico, la possibilità reale della libertà non nel mondo fenomenico, retto dalla necessità, ma nel mondo noumenico, cioè il regno della cosa in sé. Non essendo possibile conoscere la libertà, che non è mai data nel fenomeno e non può essere oggetto dei sensi, se ne può soltanto ammettere la possibilità in un regno intelligibile.

 Nella prima Critica la libertà, pur rimanendo dunque soltanto una possibilità, apre comunque una prospettiva che va aldilà del determinismo fenomenico. Ma la strada verso il noumeno non può esser percorsa con gli strumenti conoscitivi delle intuizioni pure (spazio e tempo) e categorie poiché in questo mondo gli oggetti vengono fenomenizzati, cioè ricondotti ad una rete di connessioni causali necessarie. Per giungere al noumeno occorre percorrere una via alternativa, quella dell’esperienza morale.

 Con la Fondazione della metafisica dei costumi (1785) e la successiva Critica della ragion pratica (1788), Kant risolve, infatti, la problematicità della libertà supposta nella prima critica postulando l’esistenza oggettiva della libertà sul piano pratico. Come egli stesso precisa già nelle prime righe della prefazione della seconda Critica, la ragione teoretica cade inevitabilmente in un conflitto“ se vuole pensare l’incondizionato nella serie del collegamento causale”[1], ovvero se intende pensare una prima causa libera nel mondo fenomenico in cui vigono le leggi del meccanismo naturale. Ma “..la ragione pratica per conto suo, e senza essersi messa d’accordo con la ragione speculativa, procura realtà ad un oggetto soprasensibile della categoria della causalità, ossia della libertà.[2].

 La questione morale è affrontata da Kant in forma differente nelle due opere anche se entrambe approdano alla medesima soluzione. Nella Fondazione della metafisica dei costumi egli si chiede se sia possibile una volontà buona di per sé, tale per cui la sua bontà non sia funzionale ad un determinato obiettivo, ma sia intrinseca alla volontà stessa. Invece, nella Critica della ragion pratica, Kant si domanda se la ragion pura possa essere pratica, cioè se, accanto alle funzioni conoscitive e teoretiche esercitate a priori, essa possa anche determinare immediatamente la norma dell’agire umano. Il valore morale contenuto nel concetto di volontà buona e di ragione pura pratica dipende dal fatto che la volontà sia unicamente determinata dalla legge morale, escludendo qualsiasi movente sensibile o inclinazione. Solo la pura forma della legge morale nella sua universalità (espressione della ragion pura nel suo uso pratico) può essere motivo fondante della volontà che si conforma pienamente alla ragione. La legge morale giustifica la realtà oggettiva del concetto di libertà conferendole anche il significato positivo di autodeterminazione e autonomia. La ragion pratica permette dunque di saper di sapere che la libertà è un oggetto reale, anche se inconoscibile, poiché sul piano speculativo rimane un’idea della ragione.

 Questa soluzione del problema morale comporta che la volontà intrinsecamente buona (cioè la ragione pura immediatamente pratica) sia espressione di universalità e principio di autonomia in quanto, per essere universale, non può essere determinata da passioni o interessi. L’unico elemento che può determinare immediatamente la volontà senza renderla particolare, è la ragione stessa nella sua universalità.

 La legge morale è per Kant un “fatto” che l’uomo scopre nella propria coscienza razionale: essa è universale (cioè ha valore incondizionato per tutti gli esseri razionali), è a priori (quindi non può essere ricavata dall’esperienza) e si presenta all’uomo sottoforma di imperativo categorico : “tu devi!”. Poiché l’uomo è un essere razionale ma finito, la legge pratica si presenta sempre con il carattere dell’imperatività cioè è una regola che contiene un dovere come espressione della necessità dell’azione. Gli imperativi categorici sono quindi i comandi della moralità e hanno il carattere della necessità e universalità rigorosa.

”L’imperativo, oltre alla legge, contiene solo la necessità che la massima sia conforme a questa legge, ma la legge non contiene alcuna condizione a cui essa sia limitata, allora non resta altro che l’universalità di una legge in generale come ciò a cui la massima dell’azione dev’essere conforme, e solo questa conformità l’imperativo rappresenta propriamente come necessaria“[3]

La legge morale espressa dall’imperativo categorico non è una disposizione soggettiva con cui decidiamo di agire ma un principio assolutamente necessario ed universale che ci obbliga ad agire, anche quando le nostre inclinazioni o disposizioni naturali gli sono avverse.“La legge morale è quindi, in quegli enti, un imperativo che comanda categoricamente, poiché la legge è incondizionata; il rapporto di una volontà siffatta con questa legge è il rapporto di una dipendenza che è chiamata “obbligatorietà “, che significa una costrizione ..”.[4]

 Tale imperativo assolutamente obbligante non può fondarsi su una materia particolare come le inclinazioni o i sentimenti, sempre variabili e contingenti, poiché non sarebbe possibile fondare leggi necessarie e valide per tutti. Per questa esclusione di qualsiasi fine particolare, l’imperativo è puramente formale.

 La legge morale, infatti, non comanda altro se non di agire in vista di una massima che ha un valore universale, ma non esplicita quale o quali siano queste massime. Per questo aspetto la dottrina morale kantiana prende le distanze da tutte le morali che invece si fondano su un principio materiale cioè deducono la legge da un oggetto del desiderio (l’educazione, il sentimento, la perfezione ecc): tutti i moventi soggettivi sono empirici e non possono essere il fondamento di una morale che obbliga in modo incondizionato.”La ragion pura deve essere pratica da sé sola, di per se stessa, ossia deve poter determinare la volontà con la pura forma della regola pratica, senza il presupposto di qualsiasi sentimento, quindi senza rappresentazioni del gradevole o dello sgradevole come materia che è sempre una condizione empirica dei principi (...). La ragione determina la volontà immediatamente, non con la mediazione di un interposto sentimento di piacere o dispiacere.’[5]

 Solo la convinta adesione alla legge morale permette all’uomo riconoscersi nella sua natura di soggetto noumenico, cioè fa dell’uomo un soggetto libero, causa egli stesso delle proprie azioni. Proprio perché la legge morale si costituisce come fatto della ragione e si manifesta all’uomo nella propria coscienza razionale, solo la volontà che assume la forma della legge come motivo fondante le proprie azioni può dirsi propriamente libera ed autonoma, poiché sottomettendosi alla propria ragione non fa altro che obbedire a sé stessa. In altri termini la vita morale è la costituzione di una natura soprasensibile in cui la legislazione morale prende il sopravvento sulla legislazione naturale.

 La volontà indipendente da condizionamenti sensibili e che presuppone come motivo determinante la mera forma della legge presenta il carattere dell’autonomia, nel senso che ha in se stessa la propria legge. “Autonomia della volontà è la costituzione della volontà per cui essa (indipendentemente da ogni altra costituzione degli oggetti del volere) è legge a se stessa. Il principio dell’autonomia è dunque: non scegliere se non in modo che le massime della propria scelta siano concepite nello stesso atto del volere, insieme, come leggi universali.”[6]

L’autonomia della volontà esprime il senso positivo della libertà, cioè la libertà propria di una volontà che si autodetermina, facendo immediatamente propria la legge della ragione senza condizionamenti da parte delle inclinazioni sensibili. La moralità non può imporsi dall’esterno ma presuppone un essere razionale capace di autodeterminarsi indipendentemente dagli impulsi sensibili, seguendo esclusivamente la pura forma della razionalità, che è la razionalità universale di cui tutti gli esseri partecipano. L’uomo trova questa forma in se stesso, come se fosse parte della propria essenza e tuttavia le obbedisce doverosamente e necessariamente.

 Kant difende il carattere dell’autonomia della morale dalle etiche eteronome, che si fondano su norme imposte dall’educazione esterna o dalla società o su un sentimento morale, poiché oltre a essere imposte esternamente al soggetto morale, esse mancano del carattere universale di cui deve essere dotata la pura forma della legge morale. “Quando la volontà cerca la legge che deve determinarla in un qualsiasi altro luogo che non sia la conformità delle sue massime alla propria legislazione universale, quindi quando essa la cerca, andando oltre se stessa, nella costituzione di un qualche suo oggetto, ne risulta sempre eteronomia.”[7]

 L’autonomia della volontà è strettamente connessa con l’idea di libertà: in un senso negativo, infatti, la libertà indica l’indipendenza da cause e motivi esterni, ma in senso positivo essa implica una forma di autodeterminazione con cui la volontà, come si è visto, da a se stessa la propria legge.

 Escludendo dall’ambito etico emozioni, sentimenti e in generale qualsiasi movente esterno alla pura razionalità, Kant approda ad un rigorismo etico come condizione della perfetta autonomia. La presenza di una anche minima inclinazione sensibile comporterebbe, infatti, il sorgere della spontaneità al posto dell’imperatività della legge, della materialità in luogo della formalità e dell’eteronomia anziché l’autonomia: verrebbero cioè meno i caratteri fondamentali della morale. Tutto ciò conduce dunque ad una rigida separazione tra ciò che appartiene alla sfera della sensibilità e ciò che rientra nell’ambito del razionale. Il mondo sensibile rimane allora confinato nel particolare e sotto la rigida necessità naturale della determinazione fisica mentre, grazie alla ragione, l’uomo si eleva a legislatore universale e realizza la propria autonomia (e quindi la propria libertà), conformandosi alla forma della legge.

 “L’azione compiuta in base alla volontà buona sarà quindi considerata come l’effetto contemporaneo di due distinti ordini causali: l’uno conseguenza di una causalità libera, come risultato della determinazione della volontà da parte della ragione; l’altro determinato da una causalità naturale, come effetto meccanico di una causa fenomenica, a sua volta condizionata a monte da un’intera serie causale”[8]

 Soltanto grazie a questa impostazione dualistica, Kant riesce a mantenere la compatibilità tra sensibilità e ragione.

 

 

 

II. Schiller e Kant

 

 

”Mi occupo ora con molto fervore della filosofia kantiana. La mia decisione è irrevocabile: non la lascerò fino a che non l’abbia penetrata sino in fondo, dovesse ciò costarmi anche tre anni di lavoro.”[9] Erano questi i termini con cui Schiller, in una delle tante lettere a Korner,[10]descrive la sua “iniziazione” alla filosofia di Kant di cui, nel corso della sua riflessione, si serve per prendere coscienza delle proprie esigenze e rielaborare il proprio pensiero.[11]

 In un primo tempo Schiller mutua dal pensiero kantiano la consapevolezza che l’uomo si costituisce di una doppia natura: l’uomo sensibile, che vive sotto l’impero dei propri bisogni, dei propri impulsi ed è sottoposto alla legge necessitante del mondo fenomenico, e l’uomo morale, l’uomo razionale, che nel mondo noumenico afferma la propria libertà. Nel corso della propria riflessione Schiller ritiene consapevolmente di superare il punto di vista kantiano, in forza del quale la libertà finisce con l’essere sempre monopolio del mondo noumenico, con la conseguenza di una netta scissione tra ordine della libertà e ordine della necessità, tra ordine della ragione e ordine della sensibilità. Tra sensibilità e ragione non sussiste la separazione pretesa dal rigorismo della morale di Kant, secondo cui, solo la totale repressione degli istinti e delle passioni sensibili, rende possibile il compimento del dovere.

 Ciò cui Schiller mira è una rivalutazione della sensibilità, pur concordando pienamente con Kant sul fatto che il valore morale di un’azione dipenda solamente dalla sua diretta determinazione da parte della legge morale. Tuttavia, Kant, per non deviare da questo principio, svaluta eccessivamente la sfera del sensibile e considera erroneamente le inclinazioni come nemico da eliminare. Affermare che l’uomo deve essere determinato dal dovere, non significa che la volontà è buona solo se opposta alla sensibilità: se si esclude dall’uomo la sua sfera sensibile, come pretende di fare Kant, egli rimane impoverito e sminuito, privo di una parte di sé.

” Tento di affermare almeno nel campo del fenomeno e nel reale esercizio del dovere morale le pretese del senso, che nel campo della ragione pura e nella legislazione morale vengono completamente respinte”.[12] Per Schiller la perfezione morale è intesa in termini di totalità, ovvero è una complicità tra natura e spirito, per cui l’uomo veramente morale è colui che educa la propria sensibilità al fine di promuovere l’accordo con la ragione.

“Alla sua pura natura spirituale è aggiunta una natura sensibile, non per gettarla via come un peso o togliersela di dosso come un rozzo involucro, no, ma per accordarla il più intimamente possibile col suo essere superiore. La natura, già facendo di lui un essere razionale sensibile, cioè un uomo, gli impose l’obbligo di non separare quello che essa ha congiunto, di non lasciare dietro di sé la parte sensibile e di non fondare il trionfo dell’una sulla soppressione dell’altra”.[13]

 La credenza dell’unità armonica tra natura e spirito conduce Schiller a modificare il punto di vista kantiano che aveva contrapposto la ragione all’istinto: l’uomo in cui si realizza l’armonia tra ragione ed istinto, e per istinto agisce moralmente, è l’anima bella. In un uomo veramente morale dovrà essere costante lo sforzo di educare la sensibilità a trovare un accordo con la legge della ragione e la condotta costantemente buona implica un’assidua educazione della sensibilità. Educare la sensibilità diventa un dovere morale fino a che questa consentirà spontaneamente con la legge della ragione.

 Un aspetto essenziale del pensiero schilleriano è proprio l’idea che l’armonia di inclinazione e volontà è oggetto della volontà buona stessa cioè è dovere dell’uomo “istruire” la sensibilità fino a farle seguire spontaneamente la via della ragione. Compito dell’uomo è quello di radunare interamente la sua umanità, “l’uomo morale deve essere l’uomo naturale, un uomo che non deve separare quello che la natura ha congiunto, non deve lasciarsi alle spalle, anche nelle più pure manifestazioni della sua parte divina, la sua parte sensibile.”[14] L’anima bella, l’anima veramente morale è quindi quella che ha realizzato tale conciliazione e ha “superato” il momento dell’opposizione tra le due fazioni: la sensibilità non viene più vinta e oppressa dalla ragione ma è ad essa congiunta, è una sua alleata.

“L’armonia fra sensibilità e razionalità è richiesta dal fatto stesso che l’uomo è unione di sensibilità e razionalità, sì che l’ideale dell’uomo deve consistere in un adeguato sviluppo delle sue due nature, senza che l’una sia sacrificata all’altra”.[15] L’uomo raggiunge la propria perfezione quando sviluppa armoniosamente entrambe le proprie nature, quando diviene anima bella. “Si dice anima bella, quando il sentimento morale è riuscito ad assicurarsi tutti i moti interiori dell’uomo al punto, da poter senza timore lasciare all’affetto la guida della volontà e da non correr mai pericolo di essere in contraddizione con le decisioni di esso.”[16]  L’anima bella si configura come l’ideale di perfezione umana cui tendere, e quando l’anima è bella si è sviluppato non solo lo spirito, realizzando un valore morale, ma anche la sensibilità, realizzando un valore estetico.

 L’accordo spontaneo della natura con lo spirito, realizzato dall’anima bella, prende il nome di grazia, ovvero la bella espressione dell’anima, una bellezza non data dalla natura ma prodotta dal soggetto morale. La grazia non s'identifica con la bellezza del corpo: un corpo umano può essere contrassegnato dalla bellezza, per la sua armonia architettonica, ma non è detto ch'esso si muova necessariamente con grazia; viceversa anche un corpo disarmonico può muoversi con grazia. Essa è dunque bellezza, ma prodotta dall'uomo, dallo spirito umano, e si rivela nei movimenti volontari del corpo i quali sono prodotto della libertà: non c'è grazia senza libertà. La grazia è quindi una conquista e un merito della persona integrale poichè implica un particolare rapporto tra anima e corpo: si ha grazia quando il corpo esprime docilmente i sentimenti dell'uomo, esegue senza opposizione o resistenza le indicazioni della ragione. La grazia pertanto è il segno dell’armonia tra anima e corpo, tra spirito e natura, tra ragione e istinto che si manifesta nell'espressione verbale e gestuale. “La grazia lascia una parvenza di spontaneità alla natura, là dove questa adempie gli ordini dello spirito..dove invece la volontà comincia e la sensibilità la segue, là non può dimostrare severità, ma deve usare indulgenza. Questa in poche parole è la legge del rapporto delle due nature nell’uomo, così come si presenta nel fenomeno.”[17]

 La conciliazione tra sensibilità e ragione viene affidata da Schiller al sentimento del bello: la bellezza, come si è visto, è data dall’equilibrio tra sensibile e sovrasensibile, che nell’anima bella si esprime perfettamente nella grazia. Schiller definisce il bello come libertà nel fenomeno: bello cioè è l’oggetto autonomo, indipendente da un fine o concetto che lo spieghi. La bellezza esclude un finalismo nell’oggetto. Il “fondamento oggettivo del bello” trova una nitida espressione: “La bellezza non può esserci quando la rappresentazione di un oggetto subisce la violenza della determinazione di un concetto o della considerazione di un fine. Un’opera d’arte o anche un’azione, non sono belle (non esprimono libertà nel sensibile) quando obbediscono a una finalità pratica. Non c’è libertà nell’artista o nell’uomo quando si lasciano sopraffare da fini esterni all’opera d’arte e all’azione.”[18]

 Per quel che concerne la bellezza dell’azione morale, Schiller la definisce come autodeterminazione del sensibile: l’azione morale è innanzitutto bella se risulta da un’azione della natura stessa, se è spontaneamente e naturalmente morale. Per questo la bellezza morale rappresenta il massimo della perfezione umana in quanto ha luogo solo quando il dovere diviene natura, diviene libertà e spontaneità. L’ideale dell’uomo è dunque quello di evitare la subordinazione di una sfera all’altra e andare incontro alla loro conciliazione, mantenendole nella loro indipendenza e nella loro correlatività, affermandole simultaneamente. Tuttavia ciò si realizza raramente, l’uomo è alternativamente determinato da sensibilità e ragione, che non sono mai compresenti nello stesso momento. Solitamente l’umanità dell’uomo non è né armonica né bella ma sempre a rischio di ridursi in modo unilaterale all’uno o all’altro dominio (fisico o morale). Dove trionfa la sensibilità, la razionalità è impedita e, viceversa, dove prevale lo sforzo della ragione la sensibilità è repressa e mortificata. Tale prospettiva appare desolante ed è spontaneo chiedersi se vi sia la possibilità di una risoluzione, la possibilità di una salvezza.

 Schiller rinviene tale possibilità nell’arte e nell’esperienza estetica, intesa tanto come creazione di opere d’arte quanto come fruizione delle stesse. Nell’arte si trovano all’opera entrambe le componenti della natura umana (razionalità e sensibilità): nell’esperienza artistica tutte le facoltà sono parimenti coinvolte e distolte dalla loro funzione abituale. L’arte risulta quindi una conferma alla concezione secondo cui nell’uomo la natura sensibile e quella razionale debbano convergere.

 All’origine, l’uomo è come immerso nella sensibilità e lì deve trovare la via per elevarsi alla razionalità e alla spiritualità: in questo processo è fondamentale, per Schiller, l’intervento dell’arte che gli illustra la strada verso il bene e la verità. Il bello, simbolo di bene e verità, apre all’uomo la strada verso la virtù ma la bellezza appare solo ai sensi uniti con la ragione. La virtù non può essere raggiunta dall’uomo con la pura razionalità, senza l’ausilio dei sensi: il primo modo di apparire della verità è quindi la bellezza. “La bellezza, dunque, è la verità resa sensibile e perciò l’arte è al tempo stesso primo gradino e perfezione dell’umanità.”[19]

 Grazie all’arte l’uomo non è dominato né dalla sensibilità né dall’intelletto o dalla ragion pratica: nell’esperienza artistica le opere d’arte non si pongono né come oggetti da conoscere né come mezzi in vista di una fine. L’arte avvia nell’uomo un processo che permette l’instaurarsi della bella umanità, perfetto equilibrio di tutte le facoltà, creando una situazione in cui la sensibilità è complice della ragione, il che è segnalato nell’esperienza estetica dalla compresenza di sensibilità e ragione (chi crea o contempla l’opera d’arte lo fa con tutte le parti di se stesso). Lo scopo dell’educazione estetica è di promuovere l’armonia dei due impulsi affinché essa si prolunghi anche nello stadio morale: si tratta di abituare, attraverso la frequentazione delle opere d’arte, i due impulsi alla convivenza e alla collaborazione; in questo senso l’educazione estetica “educa la sensibilità alla ragione e la ragione alla sensibilità”.

 La moralità e l’estetica si intrecciano vicendevolmente: solo attraverso la bellezza si giunge alla libertà e solo attraverso lo stadio estetico si giunge a quello morale. “La bellezza dell’opera d’arte, in quanto libertà nel fenomeno, diversamente dalla bellezza dell’opera della natura, dipende dalla capacità, dell’artista, di rappresentare oggettivamente l’oggetto che vuole rappresentare, senza lasciargli subire la violenza del medium della rappresentazione e della sua soggettività”.[20] Contemplando la libertà nel fenomeno, la bellezza, l’uomo può poco alla volta educare l’inclinazione a esprimere il dovere, la sensibilità a riconciliarsi con la spiritualità in un tutto armonico, come insegna di fatto la bellezza che non è sottoposta ad alcuna eteronomia. L’autodeterminazione, la libertà nel fenomeno, apre all’uomo la porta verso la libertà nel modo morale. Si delinea allora un preciso compito della cultura: quello di garantire a ciascuno dei due istinti i propri confini, cioè preservare la sensibilità dagli attacchi della libertà e assicurare la personalità contro il potere delle sensazioni.

 Il primo scopo è raggiunto con l'educazione della facoltà del sentimento, il secondo con l'educazione della facoltà della ragione. I due tipi di educazione inducono alla cooperazione tra i due istinti e, da questa cooperazione, nasce un nuovo istinto, quello del gioco, che è il segno della completezza umana, in cui si congiungono ed interagiscono le esigenze naturali e la regola della ragione. L'educazione estetica è dunque educazione alla bellezza, ossia educazione alla cooperazione armonica dei due istinti fondamentali, alla espressione dell'istinto del gioco. E in quanto è liberazione dal monopolio di ognuno dei due, essa è educazione alla libertà.

“L’arte tuttavia ha una funzione morale nel senso che il suo oggetto, pur non essendo necessariamente un modello di moralità, mette in luce la libertà e la potenza della volontà umana rispetto alla natura sensibile, il che è la prima condizione della moralità (…) L’arte esalta la libera volontà umana e opera l’affrancamento della ragione dalla sensibilità.”[21]

 

 

 Che cos’è dunque che distingue la posizione schilleriana da quella di Kant?

 Per quanto riguarda il valore della legge morale e la valutazione della volontà buona, Schiller si trova in pieno accordo con Kant. Tuttavia per Kant, l’esercizio della virtù è più che altro un ideale, un punto d’arrivo: l’uomo che ha adempiuto con costanza il proprio dovere, ha superato gli ostacoli opposti dalla sensibilità, è un uomo virtuoso.

 In Schiller, le azioni virtuose, frutto dell’anima bella, si conseguono, come per Kant, adempiendo il dovere ma chiamando in gioco anche la sensibilità. La posizione kantiana è di tipo unilaterale poiché finisce per metter in posizione altamente negativa l’inclinazione sensibile che, per Schiller, deve diventare il braccio della ragione. Ciò a cui mira Schiller è una rivalutazione della sensibilità, nonostante concordi pienamente con il filosofo di Königsberg sul fatto che il valore morale di un’azione dipenda solamente dalla sua diretta determinazione da parte della legge morale. Per assicurare l’autonomia di questo principio, Kant svaluta la sensibilità, escludendola dalla determinazione della volontà, e la considera in lotta e contrasto (anziché in armonia) con la legge della ragione. La difesa della sensibilità operata da Schiller, mira quindi a correggere l’eccessiva intolleranza nei confronti della sensibilità tipica del rigorismo kantiano: se è il dovere che determina l’uomo affinché questi sia virtuoso, non significa che la volontà sia buona solo se è opposta alle inclinazioni. “Nella filosofia morale kantiana l’idea di dovere è esposta con una durezza che fa indietreggiare spaurite tutte le grazie e potrebbe facilmente indurre un intelletto debole a cercare la perfezione morale sulla via di un’ascesi tetra e monastica.”[22]

Anche la sensibilità deve rientrare nella sfera morale, pur senza determinare essa sola le azioni umane. Per Schiller la perfezione morale è totalità, è convergenza armonica di natura e spirito e l’uomo morale è colui che educa la propria sensibilità affinché si accordi con la ragione. “La partecipazione dell’inclinazione a un’azione libera non dimostra nulla per la pura conformità di quest’azione al dovere, così credo di poter appunto da questo dedurre che la perfezione morale dell’uomo può risultare chiara proprio solo da questa partecipazione della sua inclinazione al suo agire morale (…) Il suo modo di pensare morale è sicuro solo quando sgorga dalla sua umanità totale come l’effetto unito dei due principi, quando per lui è diventato natura (…) Il nemico che è stato soltanto schiacciato può risorgere, ma il nemico conciliato è veramente vinto.”[23]

 Ciò che conferisce originalità alla posizione schilleriana, è l’assunto secondo cui l’uomo è per natura unione di sensibilità e razionalità, così che l’ideale dell’uomo non è quello di sacrificare l’una all’altra, ma semplicemente di riunire ciò che per natura esige essere armonizzato. Tale aspetto non è in contrasto con la legge morale, ma la stessa legge della ragione prescrive l’educazione della sensibilità. L’ideale morale schilleriano è un ideale estetico secondo cui l’anima bella è la perfezione morale , in cui i due principi si uniscono in perfetta armonia. Un ideale estetico poiché più che la considerazione morale delle singole azioni egli pone l’accento sull’educazione di tutte le facoltà umane in nome della realizzazione della totalità dell’animo. Bella è l’anima buona, in cui la sensibilità si lega spontaneamente alla legge morale.

Se il concetto di libertà in Kant presuppone l’indipendenza da tutto ciò che non è ragione nella determinazione delle azioni e veste i panni di una libertà di tipo trascendentale, cioè possibile soltanto nel mondo noumenico, in Schiller essa si presenta invece come espressione della totalità armonica dell’anima umana. “Realmente la libertà si trova nella natura e realmente esiste l’unità di natura e libertà (…) La libertà è legge oggettiva del mondo morale, così la spontaneità è legge oggettiva del mondo naturale.”[24] E’ qui esplicitata la concezione della libertà come espressione di tutti i principi che reggono la realtà: natura e spirito, necessità e libertà nel mondo, riflettono la costituzione dell’uomo come essere razionale sensibile. Non vi è un vero e proprio dualismo, poiché le parti, nonostante siano distinte tra loro, sono finalizzate ad unirsi in armonia, a incontrarsi e compenetrarsi sia nella realtà che nell’uomo stesso. La stessa natura si configura come espressione sensibile della libertà.

 In Kant ciò non avviene in quanto l’”accordo” (se così si può definire) tra ragione e sensibilità si risolve tutto a scapito della seconda: esse rimangono due sfere nettamente separate. Per Schiller, invece, la sensibilità non è forzosamente, ma spontaneamente sottomessa alla legge morale, e non c‘è traccia né della tirannide della ragion pratica né dell’anarchia della sensibilità.

 Tuttavia, sia Kant sia Schiller, convergono nel mantenere una posizione idealistica riguardo all’effettivo realizzarsi della moralità. Come per Kant solo la personalità santa, (che si configura come modello da emulare per gli uomini), è di fatto libera dagli impulsi e può interamente derivare le proprie massime dalla legge morale, così per Schiller l’anima bella è considerata più un ideale che non una realtà concretamente esistente, in quanto la moralità è quasi sempre in lotta tra passioni sensibili e ragione.

 In Schiller, l’ideale è sia quello dell’uomo totale, e dell’umanità perfetta, sia anche l’eventualità che questo si verifichi per via d’un educazione che sia estetica.

 



[1] I.Kant, Critica della ragion pratica, 1788, Prefazione

[2] Ibidem.

[3] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, 1785, Sezione II

[4] I. Kant, Critica della ragion pratica, 1788, par. VII

[5] I.Kant, Critica della ragion pratica, 1788, par. III, nota I

[6] I.Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, 1785, Sezione II

[7] Ibidem.

[8] M.Mori, Libertà, necessità, determinismo, Bologna, Il Mulino, 2001, cap. II, par. I

[9] Lettera a Korner, 1 gennaio 1792

[10] Gottfried Korner , giurista, filosofo kantiano e critico letterario, divenne intimo amico di Schiller. Egli contribuì alla sua maturazione spirituale e lo indusse a dedicarsi ad uno studio più profondo e metodico della filosofia e della storia.

 Le lettere di corrispondenza tra Korner e Schiller, si trovano nella raccolta Kalliasbriefe.

[11] Schiller iniziò ad avvicinarsi alla filosofia kantiana sin dal 1787, tuttavia il periodo cosiddetto kantiano della sua riflessione va dal 1791 al 1795.

[12] F. Schiller, Grazia e dignità, 1793, in F.Schiller, Saggi estetici, (a cura di C. Baseggio), Torino, UTET, 1951.

[13] Ibidem.

[14] A. Negri, Schiller e la morale di Kant, Lecce, Milella, 1968, p. 141

[15] L. Pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Milano, Mursia, 1983, cap. IV, par. III

[16] F. Schiller, Grazia e dignità, 1793

[17] Ibidem.

[18]  A. Negri, Schiller e la morale di Kant, Lecce, Milella, 1968, p. 289

[19] L. Pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Milano, Mursia, 1983, cap. I, par. VI

[20]  A. Negri, Schiller e la morale di Kant, Lecce, Milella, 1968, p. 296

[21] L. Pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Milano, Mursia, 1983, cap. I, par. IX

[22] F.Schiller, Grazia e dignità, 1793

[23] Ibidem.

[24] L. Pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Milano, Mursia, 1983, cap. III, par. IV

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