VERITÀ E LINGUAGGIO.

Sulle Teorie canoniche. Un’introduzione*

 

di Emanuele Baiolini

 

 

Breve introduzione con premessa

 

“Che cos’è la verità?”

Ponzio Pilato (Giovanni, XVIII, 38)

 

 

          La verità è da sempre un muro contro il quale, prima o poi, ogni filosofo (ma, direi, noi tutti esseri umani) va a sbattere la testa. È qualcosa di profondamente, radicalmente irrinunciabile per il dinamico pensiero di chi vuole – almeno tentare di – afferrarla in tutto il suo fascino, lustro e importanza. Oggi giorno siamo letteralmente circondati dalla verità – o meglio, siamo letteralmente circondati da individui che la invocano come fulcro di ogni cosa, come fine cui ogni operosità umana tende. Nel mondo della politica non si fa altro che evocarla, e colui che vuole dimostrare il disprezzo che ha nei confronti del suo avversario è sufficiente che lo accusi di non dirla o di non essere dalla sua parte. Ma potremmo fare altri esempi: il bambino da educare si rimprovera quando dice le bugie: “Devi dire la verità, se no ti si allunga il naso!”; il detective Sherlock Holmes è sempre alla sua ricerca; ma anche nelle più comuni vicende umane, compare ed è ciò verso cui noi tendiamo: “Sarà veramente, oppure no, innamorato/a di me? Quale sarà la verità?”; “Ti sei scordato di innaffiare i fiori, per questo sono morti. Ecco la verità!”. Persino in una canzonetta italiana famosa, la protagonista tira in ballo una dura e spietata verità che non le fa sopportare alcun giudizio.

          Quello che non viene mai esplicitato, ed è forse naturale in ambiti come quello della quotidianità, è che cosa sia la verità, o, perlomeno, che cosa si pretende che sia. In questo articolo, cercherò di tracciare – al limite dell’essenzialità – le linee principali della riflessione sulla verità in Filosofia del linguaggio. Più precisamente, mi limiterò nel presentare le più importanti teorie canoniche della verità, cercando di fare luce su quelli che sono i pregi e i difetti di ciascuna.

          Tutto ciò che andrò a trattare, quindi, imboccherà una strada diversa da quella che, probabilmente, si è immaginata leggendo queste prime righe. Non mi soffermerò su particolari sfumature della verità di certa filosofia: non la si prenderà in considerazione, dunque, all’interno di un contesto religioso o prettamente esistenziale, o altre cose di questo genere. Insomma, lascerò da parte (ossia ad altri) tutte quelle circostanze che tradizionalmente vengono considerate come “quelle che contano veramente”.

          La mia attenzione si focalizzerà dunque su queste teorie appena menzionate Esse sono la teoria Coerentista, Pragmatista e Corrispondentista. È evidente che il campo in cui mi addentrerò è quello della Filosofia (analitica) del linguaggio, e, lo preciso sin da subito, quanto andrò a delineare non vorrà essere altro che una semplice presentazione delle teorie in questione. Inoltre, mi asterrò dal trattare argomenti più prettamente ‘tecnici’, ossia non mi soffermerò sulle teorie deflazioniste della verità, e quindi, inevitabilmente, non troveranno spazio in questo scritto le questioni della ridondanza, della concezione semantica della verità, la teoria della verità di Alfred Tarski, etc. Forse, sosterrebbe qualcuno, la parte più interessante e stimolante dell’odierno dibattito in tale disciplina, ma, da un punto di vista espositivo, sono convinto che le teorie sostanziali siano la tappa di partenza più consona per gli obiettivi qui proposti.

         

          Premesso ciò – e nonostante tutto – permettetemi di aprire una parentesi ‘alternativa’ che possa preparare il terreno alla stesura dell’articolo. In questo numero monografico, sono diversi i contributi intellettuali tributati alla verità. Sembra proprio che essa ci coinvolga pienamente, ed è su questo punto – quello dell’importanza – che voglio soffermarmi.

          Prenderò ora spunto dalla riflessione sulla verità del filosofo e logico Michael Lynch. Egli, nel suo True to life: why truth matters [1],  si è chiesto quale sia il posto della verità nella nostra vita. Per essere precisi, non tanto del posto della verità, quanto piuttosto quello delle credenze vere e delle asserzioni vere. Se riflettiamo attentamente, noi non siamo mai particolarmente felici quando qualcuno ci dimostra che stiamo sbagliando, e, ancor più realisticamente, da più fastidio quando qualcuno ci dice che stiamo errando, piuttosto che siamo bugiardi. Forse perché colui che afferma il nostro errore ci attribuisce un radicale difetto dell’intelletto, mentre qualora fossimo degli incalliti bugiardi, il difetto sarebbe morale.

          Lynch si occupa del valore della verità nella nostra vita: perché ci importano le credenze vere e le asserzioni vere (e le preferiamo a quelle false?)? Potremmo dire che, a buon diritto, a noi importa perché essa è condizione necessaria per la nostra felicità. Introdotto quest’ultimo concetto, il filosofo ritiene opportuno introdurre la nozione di senso di sé. In un certo qual modo, per avere senso di sé occorre avere anche una conoscenza di sé, ossia conoscenza di ciò che ci importa davvero (che non sono i comuni desideri, come per esempio il desiderio di bermi una dissetante granita).

 

Senso di sé → Conoscenza di sé

 

Ma cosa significa, precisamente, ciò che mi ‘importa davvero’? Questa è una domanda fondamentale. Ma lo è altrettanto quella di chiederci perché è importante, pure, avere un senso di sé. Innanzitutto, potremmo dire che è importante da un punto di vista ‘strumentale’: se non so cosa voglio, non so, automaticamente, cosa perseguire. Ma, soprattutto, avere un senso di sé è importante per l’autostima, ossia il rispetto di sé. Inoltre, per avere autostima, dice Lynch, devo sapere chi sono, e per sapere chi sono devo sapere che cosa mi importa davvero. Detto in poche parole, il nostro filosofo vuole dare questo messaggio: non ho senso di me stesso se non so cosa desidero veramente.

          Ma il discorso non termina qui. Infatti, avere senso di sé è anche condizione necessaria per l’autenticità, ossia l’atteggiamento di chi si identifica con i propri ‘reali desideri’ – cioè i desideri che guidano effettivamente la mia vita. D’altro canto, non è detto che, per forza di cose, io mi identifichi con essi, sia nel senso che potrei benissimo non sapere quali sono (e quindi non ho un ‘mio’ senso di sé), sia perché magari potrei credere, per esempio, di essere dedito ad aiutare gli altri (e quindi mi identifico con questo desiderio di altruismo), ma essere – in realtà – un autentico egoista; oppure potrei anche sapere quali sono i miei desideri reali (per esempio, voglio solo bere perché sono un alcolizzato), ma non identificarmi con essi (perché voglio smettere, ma non ci riesco). In queste circostanze, la mia vita sarebbe inautentica.

          Arrivati a questo punto, sembra quindi che la felicità richieda principalmente sia autostima che autenticità. Una persona autentica è generalmente più felice di una persona inautentica; lo stesso vale l’autostima.

 

 

Autostima

                                                    Senso di sé

Autenticità

 

                                                                           Autenticità

                                                        Felicità

                                                                           Autostima

 

          Lynch prende però in considerazione anche un altro percorso, che conduce sempre alla felicità. Questo itinerario inizia con la nozione di onestà intellettuale, che è la disposizione a prendere posizione su ciò che si ritiene ‘vero’, come, per esempio, l’avere coraggio delle proprie azioni – magari sino al sacrificio estremo della propria vita (il martire). In un certo senso, chi è onesto intellettualmente conferisce importanza alla verità, alle proprie credenze. Significativamente, d’altra parte, possiamo affermare che si può essere sinceri perché coatti alla sincerità (sinceri ‘per natura’) o sinceri perché si sceglie di esserlo (sinceri ‘per scelta’). Lynch sostiene che questa seconda forma di sincerità è quella che più si avvicina alla nozione di ‘onestà intellettuale’: chi è onesto intellettualmente è disposto a dire ciò che ritiene essere la verità perché è la verità. Cos’è che lo muove nelle sue scelte? Ovviamente, il valore intrinseco della verità stessa.

          L’idea di Lynch è che l’integrità di una persona richiede sia autenticità che onestà intellettuale.

 

                                                                       Autenticità

                                                Integrità

                                                                       Onestà intellettuale

 

Infatti, se un individuo non è disposto a esprimere quello che è essere la verità (dunque non è intellettualmente onesto) diciamo che non è una persona integra, ma quantomeno subdola. Ed è difficile, d’altro canto, avere rispetto di sé (autostima) se non sono una persona integra.

 

Autenticità

                          Autostima → Integrità

             Onestà intellettuale

 

 

Ma, siccome sia l’autenticità sia l’onestà intellettuale richiedono che la verità importi, ne segue che per essere felici occorre essere integri e avere autostima.

 

Autenticità

        Felicità → Autostima → Integrità

             Onestà intellettuale

 

In realtà, potremmo dire che Lynch non prende in considerazione esattamente queste relazioni. Egli sostiene non che l’autostima è condizione necessaria per la felicità, ma solo che – a parità di altre condizioni – una persona che ha autostima è più felice di una che non ne ha. E questo, di per sé, non dice che non si possa essere felici senza avere autostima.

          Comunque, al di là di queste suggestive riflessioni, è fortemente difficile stabilire filosoficamente qual sia il contenuto della felicità. Quello di Lynch, infatti, non vuole essere altro che un ‘modo’ per dimostrare che la verità ha un valore per noi.

         

          Ritornando alla delineazione delle mie intenzioni, accennate prima di questa breve digressione, il prezzo da pagare – di cui sono consapevole tanto quanto nei suoi confronti scettico – è quello della vecchia critica che viene mossa ad un certo metodo di indagine filosofica, ovvero quella d’essere arida e fredda. La comune credenza è, infatti, quella che ritiene necessario e irrinunciabile il solido riferimento alla componente passionale, istintiva, sentimentale dell’uomo. Il filosofo deve smuovere gli animi, destarli e infervorarli di dinamicità contraria e avversa alla sterile apatia di certi “esercizi” mentali.

          La filosofia, ovviamente, può essere anche altro, e permettersi di tralasciare certe sfumature e caratteristiche umane che, entro determinate questioni, ritiene quantomeno devianti. Naturalmente, per alcuni, tutto questo non è filosofia. Lasciando al lettore questo disguido, e la decisione da che parte stia la verità, mi addentro ora all’interno del mondo delle teorie sostanziali nella Filosofia del linguaggio contemporanea.

 

Premessa all’esposizione delle teorie sostanziali della verità

 

          Potremmo iniziare il nostro discorso sulla verità, o meglio sulla teoria della verità, con due fondamentali domande: 1) Che cosa si intende con ‘teoria della verità’?; 2) Che cosa significa fare una ‘teoria della verità’?

Per rispondere a queste due domande essenziali alla comprensione, possiamo delineare gli obiettivi che una teoria della verità generale vuole perseguire. Essi sono fondamentalmente quattro:

 

  1. Trovare l’essenza della verità. Esprimendoci con un’efficace metafora chimica, potremmo dire che la teoria della verità vuole trovare il numero atomico della verità, ossia il numero atomico che gli permette di sapere tutte le proprietà di quella tale sostanza. (tale obiettivo viene perseguito dalla teoria della corrispondenza);

 

  1. Trovare il criterio della verità. Significa trovare l’ in base a che cosa si dice che qualcosa è vero. Il criterio di verità non è da confondersi con l’essenza, perché posso cogliere il criterio di verità senza pretendere di cogliere anche l’essenza. (tale obiettivo è ciò a cui si rifà la teoria della coerenza);

 

  1. Trovare che cosa facciamo quando diciamo che qualcosa è vero. Il filosofo inglese Strawson ha elaborato la teoria, vicina tra l’altro alle posizioni di altri filosofi (Rorty, W. James), che sostiene che dicendo ‘x’ è vero approviamo x. Propriamente, esponiamo l’accordo con il nostro enunciato, compiamo l’atto linguistico dell’approvazione e sottoscrizione del nostro enunciato;

 

  1. Trovare cosa diciamo quando diciamo che qualcosa è vero. L’esempio è qui dato dalla teoria della ridondanza: quando diciamo che ‘x’ è vero diciamo che x. Facciamo un esempio per chiarire:

 

“Il Monte Bianco è in Francia” è vero;

 

     Con questo enunciato stiamo dicendo: “Il Monte Bianco è in Francia”. Questo significa che quando diciamo che P è vero, stiamo semplicemente dicendo P. Qui il predicato è ridondante, inutile. L’essenza della verità è perciò quella di essere ridondante.

 

     Tracciati questi quattro punti fondamentali, ora possiamo proseguire il nostro discorso evidenziando ancora almeno due domande, le cui rispettive risposte ci permettono di delucidare la questione della teoria della verità. Quel che bisogna chiedersi riguarda più specificamente la nozione di verità:

 

1.      La verità è definibile? A questo quesito alcuni filosofi rispondono affermativamente, altri invece credono che la verità non sia passibile di definizione. Vediamo, sinteticamente, le argomentazioni che stanno a capo delle due differenti risposte:

 

- No. Il discorso si chiude qui, però è necessario motivare la risposta. Questa è la posizione sostenuta dai cosiddetti primitivisti (Frege, Cartesio, Davidson e la “follia di cercare di definire la verità”, etc.), che sostengono che la verità sia, appunto, un concetto primitivo. A questo punto, precisato che non è passibile di definizione, non resta altro che la possibilità di definire solamente il nostro modo di accertarla.

 

- Sì. Sono coloro che credono che la verità si possa definire e sollevano la questione della definizione in termini di altre proprietà:

 

Px ≡ Q1 x + Q2 x … Qn x

 

I filosofi che sostengono che la verità è definibile in termini di altre proprietà sono i propugnatori di quelle che vengono chiamate teorie sostanziali, mentre sostengono le teorie deflazioniste coloro che non credono che la verità possa essere definita.

 

2.      Il concetto di verità ha una funzione? Il concetto di verità serve? Risponderà, a quest’altro particolare quesito, in modo affermativo chi ritiene, come abbiamo appena visto, che la funzione della verità sia quella di esprimere approvazione su qualcosa di detto o sostenuto; negativamente, i sostenitori della teoria della ridondanza.

 

 

Le teorie sostanziali della verità

 

Teoria Coerentista

 

- Cosa dice la teoria coerentista:

 

     La teoria della coerenza dice che una proposizione, un giudizio o una credenza P è vera se e soltanto se P appartiene ad un insieme coerente di proposizioni, giudizi e credenze. In altri termini: vera è una cosa che è coerente con le nostre conoscenze scientifiche, ossia deducibile in maniera dimostrativa dalle teorie scientifiche, oppure approvabile con osservazioni o strumenti del nostro sistema scientifico. Questa teoria, si badi bene, non afferma che le nostre credenze sono vere se corrispondono ad una realtà che sarebbe essa stessa coerente, ma significa che le nostre credenze sono vere se superano un test interno alle nostre stesse credenze.

     Dire che un enunciato è corretto, cioè vero, è dire che è inseribile (incorporabile) nel sistema della conoscenza scientifica. Questa teoria della verità fece discutere vivacemente, all’inizio del ‘900, il Circolo di Vienna; in particolare O. Neurath e M. Schlick.

 

 

- I difetti della teoria coerentista:

 

     La più forte obiezione alla teoria della coerenza afferma che il sistema di conoscenze che prendiamo in considerazione può essere del tutto falso, anche se qualcosa è coerente al suo interno. Inoltre, possono essere tanti i sistemi coerenti. Quale usare? Questi problemi hanno indotto alla possibilità di credere che l’unico modo di prendere sul serio la teoria della coerenza come teoria della verità, sia quello di sostenere che ci sono enunciati di per sé veri e altri enunciati che sono veri se coerenti con questi primi. Da qui, l’evidenziazione di due modi di considerare la nozione di verità: 1) per gli enunciati-base; 2) per gli enunciati coerenti con gli enunciati-base. Chiaramente, sorge qui la necessità di chiedere come questi enunciati-base siano veri, visto che non sono veri in base a nessuna coerenza. I coerentisti hanno risposto che tale obiezione presuppone un concetto metafisico di verità, perché in quale senso di “vero” la scienza potrebbe essere falsa? Lo sarebbe solo nel senso metafisico di corrispondenza.

     Questa possibilità di prendere in considerazione due modalità di nozione di verità ha condotto a quello che è stato il dibattito sui cosiddetti enunciati protocollari. A riguardo, O. Neurath sostiene che «ogni nuovo enunciato è confrontato con la totalità degli enunciati esistenti precedentemente coordinati. Pertanto, dire che un enunciato è corretto significa che esso può essere incorporato in questa totalità (…) Non c’è nessun modo per formulare degli enunciati protocollari puri e definitivamente assunti per veri, come base di partenza della scienza»[2]. Non tutti i neopositivisti sono d’accordo con il filosofo e sociologo tedesco: M. Schlick obietta che una considerazione siffatta fa emergere «l’impossibilità logica della teoria della coerenza; essa non può darci alcun univoco criterio di verità, poiché con il suo aiuto possiamo formulare diversi sistemi di enunciati, tutti in sé privi di contraddizioni e ugualmente incompatibili fra loro. Tale assurdità si evita solo non ammettendo che qualsiasi asserzione possa venire espunta o corretta, bensì, piuttosto, specificando quali asserzioni debbano essere tenute ferme, affinché le altre vi si possano conformare»[3].

 

Teoria Pragmatista

 

- Cosa dice la teoria pragmatista:

 

     La teoria pragmatista cerca di fornire un criterio di coerenza – e quindi una definizione della verità – che sia valido per le credenze e destinato a controllare i loro insiemi pertinenti. Tale criterio è l’utilità. Colui che ha esposto nel modo più raffinato questa teoria è stato C. S. Pierce. Egli sostiene l’esistenza di un intimo legame fra la credenza e la disposizione ad agire. Credere che P è vero, è essere disposti ad agire in certe maniere, o avere delle abitudini di azione. La verità non è definita dall’utilità di ciò che crediamo effettivamente, ma dall’utilità di ciò che crederebbe un agente ideale, collocato in condizioni ideali o, per dirlo con Peirce, “al termine della ricerca scientifica”. La teoria pragmatista è una concezione epistemica della verità, che stabilisce un legame essenziale fra verità e giustificazione. Infine, possiamo dire che la teoria pragmatista è anche una teoria coerentista: una credenza è vera se è coerente con l’insieme delle altre credenze cui potremmo disporre una volta in possesso dell’appropriato metodo di ricerca, cioè quello che permette di ottenere delle credenze stabili.

 

 

- I rapporti tra la teoria pragmatista e la teoria coerentista:

 

     Ora, è evidente che questa teoria pragmatista risolve il problema, sorto con la teoria della coerenza, della corrispondenza con la teoria della conoscenza, e in particolare della provvisorietà delle nostre conoscenze scientifiche. Peirce ha sostenuto appunto che ‘vero’ sarà considerato vero quando i dati saranno tutti incamerati, quando si raggiungerà, come dice lo stesso filosofo americano, il punto Ω. Ora, dunque, non abbiamo più propriamente una teoria della conoscenza a cui riferirci nell’ hic et nunc. Ma per un coerentista una nozione siffatta del termine ‘ricerca’ è assurda, tanto quanto inutilizzabile il concetto di verità ad essa collegato. Il coerentista guarda ai procedimenti reali che ci conducono a dire che qualcosa è vero. Identificare il punto Ω e la verità, vuol dire non avere il sistema dei termini della ricerca (si deve aspettare che essa finisca), e a questo punto il coerentista non può utilizzare un concetto di verità siffatto.

 

 

- I difetti della teoria pragmatista:

 

     Dire che qualcosa è vero se è utile, è comunque in un certo qual modo imbarazzante, anche se abbiamo visto che con Peirce ci si svincola leggermente da questa visione. Qualcuno ha precisato che quella pragmatista non è propriamente una teoria della verità, ma una teoria del valore della verità.

     Fatto sta che i pragmatisti sostengono che la verità serve. Se proprio volessimo avvicinarci un po’ di più alla loro concezione, potremmo affermare che hanno ragione nel senso che le credenze vere ci possono aiutare a realizzare i nostri obiettivi nella vita, le credenze false no. Si possono però addurre alcune obiezioni a danno del pragmatista: a volte, infatti, è utile avere delle credenze false. Facciamo un esempio. Mettiamo che io abbia un appuntamento con una persona alle undici. Guardo il mio orologio e vedo che segna le undici: sono convinto – cioè credo – che siano realmente le undici e quindi arrivo in orario al mio appuntamento. Più tardi, però, scopro che il mio orologio in realtà non ha funzionato perché si è fermato da ieri, e solo casualmente si è fermato quando erano le ore undici. Da questo esempio, concludiamo che la mia credenza che fossero le undici mi è stata utile (ad arrivare puntuale) sebbene fosse falsa. Dunque non solo le credenze vere, ma anche quelle false possono essere utili. A questa obiezione il pragmatista si difende sostenendo che le credenze devono essere vere e a lungo termine. Anche a questa contro-obiezione si può addurre un esempio: credere che mia moglie mi sia fedele (quando invece mi tradisce ripetutamente) è una credenza falsa e a lungo termine che mi è utile (perché non mi fa star male, perché mi fa stare insieme a lei, etc.).

     La definizione di verità dei pragmatisti crea dunque parecchie difficoltà. W. James era consapevole di questi problemi, e sostenne che se io, per esempio, ho sete e credo che nel frigo vi sia dell’acqua, questa credenza è funzionale al mio benessere. Quello che si deve ritenere importante – dice il filosofo americano – è questo: devo potermi fare un’immagine integrata del mondo in modo da potermi muovere in esso. Quello che è rilevante è che noi abbiamo elaborato un interesse alla conoscenza: la curiosità, ossia l’interesse alla conoscenza fine a se stesso.

 

 

Teoria corrispondentista

 

- Cosa dice la teoria corrispondentista agli albori:

 

     L’enunciato che evidenzia bene questa teoria è:

 

“vero è ciò che corrisponde ai fatti”.

 

Rileviamo subito che il merito di questa teoria è che fa salva l’oggettività della verità. Fa di essa relazione fra proposizioni e fatti, e questa relazione oggettiva è indipendente da noi.

     Aristotele è stato considerato il padre di questa teoria, ma studi recenti hanno messo in difficoltà questa paternità, tanto che oggi non si crede più che il filosofo stagirita fosse un corrispondentista. Ma cerchiamo di capire meglio. Egli scrive nella sua Metafisica (Γ 7, 1011b 25-26): «Di ciò che è dire che non è, o di ciò che non è dire che è, è falso; di ciò che è dire che è e di ciò che non è dire che non è, è vero». Ora, dobbiamo chiederci: come viene usata la copula da Aristotele? Vi sono tre letture possibili:

 

1.    Lettura esistenziale                    è = ‘esiste’

 

2.    Lettura fattuale                          è = ‘ciò che si dà’; ‘ciò che accade’

 

3.    Lettura predicativa                    è = ‘così e così’

 

Si è concordato che la lettura data da Aristotele è quella ‘predicativa’. Comunque, nel suo De Interpretatione, il filosofo dice che la verità e falsità hanno a che fare con la conciliazione (synthesis) e separazione (diaresis) di soggetto e predicato. Dovrebbe risultare strano, ai fautori di un Aristotele corrispondentista, che lo stesso Aristotele non parli di fatti. La questione è che, storicamente, è stata operata una manovra neoplatonica dell’opera dell’allievo di Platone, forzando il suo testo e facendolo diventare corrispondentista. Con Plotino si attua una vera concezione corrispondentista e viene divulgata dai commentatori di Aristotele del VI secolo. Nello stesso tempo viene quindi interpretato e si cerca di far convergere queste due parti.

     Questi corrispondentisti antichi sostengono che la verità è accordo (loro dicono symphonia). Accordo, cioè, fra Logos e le cose (non tra proposizioni e fatti). Essi avevano in mente che le asserzioni avessero degli oggetti:

 

“Socrate è un filosofo” ha come oggetto Socrate.

 

Noi diciamo che l’asserzione si accorda con il suo oggetto se e soltanto se l’oggetto selezionato dal soggetto dell’asserzione soddisfa la condizione espressa dal predicato. I neoplatonici invece non dicevano propriamente che ‘corrisponde’ a Socrate. Secondo loro ‘si accorda’ significa precisamente che attribuisce a Socrate ciò che conviene a Socrate. Questa concezione di verità come accordo fra predicato e soggetto sarà ancora viva nel pensiero di Kant.

 

 

- I difetti della teoria corrispondentista agli albori:

 

     Questa concezione ha creato difficoltà. Infatti, tutte le proposizioni dovrebbero avere la forma soggetto-predicato. Ma prendiamo un semplice enunciato come:

 

“Piove è vero”;

 

qual è qui il soggetto di ‘piove’? Non esiste.

Ma prendiamo ancora quest’altro esempio:

 

“La moglie di Aldo è bella” (…sappiamo che Aldo non è sposato)

 

L’enunciato ha la forma del soggetto-predicato, quindi, restando a ciò che ci dicono i neoplatonici, o comunque i sostenitori di questa tesi sino a Kant incluso, risulta vero. Il fatto è che qui il predicato non conviene al soggetto, perché il soggetto non esiste, e noi solitamente pensiamo che un enunciato come questo non sia vero.

 

- Cosa dice la teoria corrispondentista contemporanea:

 

     La teoria della corrispondenza, come la conosciamo noi oggi, è quella che è stata sviluppata a Cambridge, all’inizio del XX secolo, dai filosofi G. E. Moore e B. Russell, e perfezionata da Wittgenstein nel suo Tractatus. L’idea di fondo è molto semplice:

 

“Piove” è vero se e soltanto se piove.

 

Moore pensava non vi fosse altro da dire in riguardo. Non era vero. Prendiamo due enunciati come:

 

- “Caravaggio era un mezzo delinquente”

 

- “Michelangelo Merisi era un mezzo delinquente”.

 

Abbiamo ragione di argomentare e sostenere che in questi due enunciati è in gioco un solo fatto? (come sosteneva Moore). Prima di argomentare se vi sia un solo fatto, o due fatti, bisogna stabilire che cosa è un fatto. E con ciò ci addentriamo nella riflessione di Wittgenstein. Egli sostiene che:

 

“Il mondo è la totalità di fatti e non di cose”.

 

Se il mondo infatti fosse fatto di cose, non si riuscirebbe a capire per quale motivo i due enunciati sopra sono equivalenti (come di fatto lo sono). Precisamente, secondo il filosofo austriaco il linguaggio raffigura la realtà. La proposizione raffigura uno stato di cose, è un’immagine dello stato di cose. E per ‘stato di cose’ egli intende una connessione di oggetti, ossia certi oggetti in certe relazioni fra loro. Cosa significa tutto questo? Significa che A è immagine di B se A ha una struttura dove i suoi elementi e relazioni tra gli elementi stanno per gli elementi e le relazioni tra gli elementi di B.

     A questo punto quindi diremo che una proposizione è vera se e soltanto se raffigura uno stato di cose sussistente, dove il concetto di ‘raffigura’ viene definito dal concetto primitivo di ‘stare per’.

Wittgenstein sostiene che, che uno stato di cose sussista è un fatto. Si risolve così il problema del Caravaggio: v’è un unico stato di cose sussistente e dunque v’è un solo fatto. La nozione di ‘sussistente’ è anch’essa una nozione primitiva (o meglio quella di possibilità ad essa connessa).

 

 

- I difetti della teoria corrispondentista contemporanea:

 

     Abbiamo visto dunque come la teoria della corrispondenza sia ridotta alla nozione di ‘significato’ e di ‘sussistente’. Sono quindi le proposizioni elementari ad essere immagini di stati di cose. Non vi sono, però, solo le proposizioni elementari, ma anche quelle ‘complesse’, all’interno delle quali sono presenti i cosiddetti ‘connettivi’. Il filosofo austriaco fa dipendere la verità delle proposizioni complesse dalla verità delle proposizioni elementari, cui queste prime sono costituite:

 

- “A e B” è vero se e soltanto se A raffigura uno stato di cose sussistente e B raffigura uno stato di cose sussistente;

 

mentre:

 

- “A o B” è vero se e soltanto se almeno uno dei due disgiunti raffigura uno stato di cose sussistente.

 

Per  essere completi, diremo che la verità delle proposizioni elementari è analizzabile in termini di una teoria della raffigurazione, mentre quella delle proposizioni complesse è solo indirettamente analizzabile in termini di una teoria siffatta. Altresì, diremo che le proposizioni complesse non raffigurano sempre stati di cose sussistenti; anzi, neanche le proposizioni elementari raffigurano sempre stati di cose sussistenti. Vediamo degli esempi:

 

- “Giorgione era Giorgio Barbarelli”

 

“2 + 2 = 4”

 

- “La Cappella Sistina è bellissima”

 

- “Ad Alessandro piace suonare il pianoforte”

 

In questi enunciati non vi sono connessioni fra oggetti.

Quello che possiamo evidenziare è che gli enunciati semplici che hanno la forma

 

R abc

 

come vorrebbe Wittgenstein, in realtà sono pochissimi. A questa obiezione il filosofo come risponde? Da un lato pensa che molti esempi del linguaggio naturale non siano proposizioni semplici, ma proposizioni prive di senso (come quelle che abbiamo qui sopra elencato). Dall’altro, la soluzione che adotta è quella dell’analisi. Le forme che si presentano nelle proposizioni mascherano la forma logica, che sta nascosta sotto il linguaggio. La mente analizza, ossia vede quale connessione di oggetti raffigura la proposizione che superficialmente non fa vedere. Quando la nostra mente svolge questa attività (a noi sconosciuta, perché non ce ne accorgiamo), le proposizioni che sembrano essere semplici si scoprono essere proposizioni complesse. V’è quindi tutta un’attività di comprensione, di conoscenza che smaschera in un certo senso il linguaggio. Il problema è che Wittgenstein non spiega e non fa esempi in riguardo a tale processo. Più tardi lui stesso respingerà queste sue posizioni iniziali, sostenendo d’essere stato dogmatico e di non aver perciò dato spiegazioni per questo motivo.

     V’è analogamente difficoltà con le proposizioni complesse, e cioè non funzionano nel modo in cui dice Wittgenstein. Vediamo subito un esempio:

 

“La macchina non funziona          perché          il carburatore è intasato”

 

Le due proposizioni semplici possono essere vere, ma non la proposizione complessa, perché la macchina (mettiamo…) non funziona perché ha la batteria scarica. In questo caso si dice che il connettivo ‘perché’ non è vero-funzionale. A questo proposito, Wittgenstein se la sbriga dicendo che gli enunciati causali sono insensati. Possiamo dire, generalmente, che la teoria del filosofo austriaco è certamente una teoria della corrispondenza, o meglio una teoria dell’interpretazione della nozione di corrispondenza.

     Ora possiamo vedere tre obiezioni generali alla teoria della corrispondenza:

 

1)      Frege, in questo preciso ambito, è un filosofo cosiddetto primitivista. Egli dunque sostiene che la verità è un concetto primitivo. Di conseguenza è contrario a una teoria della corrispondenza. La corrispondenza perfetta, egli sostiene, è la coincidenza, ma nel linguaggio la corrispondenza perfetta non c’è: un enunciato non può coincidere con un fatto. Ma allora ‘corrispondenza’ non significa ‘coincidenza’, e quindi deve essere, per forza di cose, una relazione in qualche modo imperfetta. La nozione di corrispondenza è per questo inutilizzabile per la verità, e se essa non è coincidenza allora è solo parziale. Per essere precisi, a Frege si potrebbe obiettare che ci può essere una corrispondenza perfetta che non è coincidenza; per esempio: ci può essere un’immagine di uno stato di cose perfetto, ma non essere coincidente con lo stato di cose.

 

2)      La teoria della corrispondenza sembra implicare il platonismo:

 

2 + 2 = 4

 

Se seguiamo la teoria, questo enunciato aritmetico deve corrispondere a un fatto. Allora, v’è un altro mondo che corrisponde all’immagine cui è 2 + 2 = 4. È comunque strano che una teoria della verità mi condanni al platonismo. Questi due aspetti dovrebbero essere indipendenti. Vi sono tre vie d’uscita da questa difficoltà:

 

a)        Restringere la teoria della corrispondenza: la verità non riguarda la verità della matematica, ossia: un conto è dire che è vero che questo tavolo è marrone, un altro conto è dire che è vero che 2 + 2 = 4. Questa restrizione ci conduce ad una vera e propria teoria parziale della verità.

b)        No, la verità che si considera è la verità in quanto tale, solo che il termine ‘verità’ non si applica alle proposizioni matematiche (è la posizione di Wittgenstein nel Tractatus).

c)        La verità è corrispondenza, ma le proposizioni matematiche vanno reinterpretate: esse parlano di oggetti del mondo.

 

3)      La terza obiezione, con la quale concludo il mio intervento, è quella del cosiddetto argomento della Fionda. Esso vuole dimostrare che se un enunciato corrisponde ad un fatto, allora corrisponde a tutti i fatti. Se così fosse, è chiaro che la corrispondenza perderebbe interesse. L’argomento della Fionda è stato elaborato da filosofi, matematici e logici come Frege, Gödel, Davidson, etc. Wittgenstein, a titolo di cronaca, non ha dato una precisa risposta all’obiezione presentata da questo argomento.

 

Mettiamo di dire che l’enunciato

 

‘Napoli è a sud di Torino’ corrisponde al fatto che Napoli è a sud di Torino

 

Dobbiamo prendere in considerazione il

 

Principio *: Se x corrisponde al fatto che p, allora corrisponde al fatto che q a condizione che:

                     a) p e q siano logicamente equivalenti, oppure

                     b) p sia diverso da q solo per il fatto di contenere t1 al posto di t2 essendo t1 = t2

                     [esempio: p = Roma è in Italia, q = la sede del Papato è in Italia]

 

Osservazione:

 

a = a

             (l’x tale che x = a) = ( l’x tale che x = a) [è come dire a = a: l’x tale che x = a è a stesso]

 

Consideriamo ora la descrizione ‘ l’x tale che [x = a & p]’, dove p è un qualche enunciato.

1) Se p è vero, la descrizione è soddisfatta da a (e solo da a);

2) Se p è falso, la descrizione non è soddisfatta da niente (non esiste un x tale che sia vero ‘x = a &

    P’, perché p è falso).

 

Quindi se p è vero

                                  (l’x tale che [x = a & p]) = (l’x tale che x = a)

è vero;

 

Mentre se p è falso

(l’x tale che [x = a &p]) = (l’x tale che x = a)

 

è falso.

 

In altre parole, p è logicamente equivalente a ‘(l’x tale che [x = a & p]) = (l’x tale che x = a)’.

 

Torniamo ora a ‘Napoli è a sud di Torino’. Abbiamo visto che p è logicamente equivalente a

 

(l’x tale che [x = a e Napoli è a sud di Torino]) = (l’x tale che x = a).

 

Quindi – per il Principio * - ‘Napoli è a sud di Torino’ corrisponde al fatto che

 

(l’x tale che [x = a e Napoli è a sud di Torino]) = (l’x tale che x = a).

 

Ma allora corrisponde anche al fatto che

 

(l’x tale che [x = a e Pavia è a nord di Roma]) = (l’x tale che x = a)

 

[perché ‘Napoli è a sud di Torino’ e ‘Pavia è a nord di Roma’ sono considerati coestensivi].

 

Ma [per l’Osservazione] ‘(l’x tale che [x = a e Pavia è a nord di Roma ]) = (l’x tale che x = a)’ è logicamente equivalente a

                                             

                                               Pavia è a nord di Roma

 

Quindi ‘Napoli è a sud di Torino’ corrisponde al fatto che Pavia è a nord di Roma.

 

                                    

    

 



* Il presente articolo si avvale dei seguenti supporti bibliografici: 1) Pascal Engel, La vérité. Réflexions sur qualques truismes, in Jean-Michel Besnier (digée par) Optiques Philosophie, Hatier, 1998. Trad. It. Verità, De Ferrari Editore, Genova, 2004. 2) Marco Messeri, Verità, La Nuova Italia, Firenze, 1997.

D’altro canto, mi è d’obbligo precisare – con senso di profonda gratitudine – che, nella sua (quasi) integrità, quanto è stato scritto ha trovato spunto di riflessione e base su cui costruire le fondamenta nelle lezioni universitarie del corso di Filosofia del linguaggio tenute dal Prof. Diego Marconi, presso l’Università degli Studi di Torino, durante il secondo semestre dell’anno accademico 2004/05. Altresì, non ho riserve nel sottolineare che la struttura dell’articolo non sarebbe mai stata tale senza le sue conoscenze trasmesseci durante quegli incontri. Con la stessa forza, voglio precisare che, ovviamente, qualsiasi incompletezza, imprecisione o errore concettuale eventualmente presente non è che da imputarsi al sottoscritto.

[1] M. Lynch, True to life: why truth matters, MIT press, 2004.

[2] M. Messeri, Verità, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pp. 144-145.

[3] Ivi, p. 145.

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