Reductio Dei ad omnipotentiam

L’onnipotenza divina nella sistemazione di Bonaventura da Bagnoregio

di Manlio Della Serra

 

 

1. Diffidare di Colui che può tutto

 

Dalla diffusa convinzione che la teologia contemporanea risenta di un trattamento più che inadeguato, come dalla riconosciuta sterilità di insegnamenti da sempre rivendicati entro una vincolante paternità precettistica, emerge facilmente quanto l’instabilità di uno sguardo critico al trattato teologico o alla disamina di una quaestio possa sminuire l’impalcatura fortemente razionalistica che anima qualsiasi interrogativo di stampo religioso. La profonda crepa tra fede e ragione separa due aspettative della stessa umanità. L’occasione di questo saggio muove direttamente dal parallelismo con cui i saperi in questione non smettono di fronteggiarsi, invitando a riflettere tanto sulla mediazione, supporto necessario all’impegno dialettico, quanto sulla reciproca integrazione di conoscenze rese troppo divergenti.

Il destino della teologia contemporanea trae spesso ispirazione dall’appiattimento di certa filosofia universitaria, evitando di proposito la ripresa di vetuste contrapposizioni che videro due mondi perennemente in conflitto. Mai come oggi la proposta del polemos eracliteo troverebbe ragioni opportune per organizzare quello scambio ritenuto impossibile: le grandi questioni etiche, i progressi della scienza, il vasto apparato di sperimentazioni in tutti i restanti settori del sapere, maturerebbero entro queste espressioni dinamiche una coscienza innovativa, spontanea realizzazione di tutte le loro pretese.

Naturalmente, non è consentito fare teologia come si studiano le piante o i corpi naturali: e ciò risulta plausibile se, prima di tutto, si considera l’estraneità del divino alle determinazioni sensibili. L’indagine compiuta esalta la rilevanza di una scommessa metodologica, quella stessa che impone da sempre uno sforzo rinnovato – d’immaginazione o di rinuncia – e orientato verso l’imprendibile natura metafisica. Dunque, Dio sfugge e non si lascia riconoscere: convinti di questo, ritroviamo in ogni contaminazione religiosa già un punto d’arrivo.

Il suggerimento di un filosofo di straordinaria esperienza e versatilità quale Sgalambro, può essere indicativo per intraprendere un viaggio nel teatro divino che ospita qualunque metafisica. La sua proposta non induce ad abbandonarsi a Dio fiduciosi, ma a mettere Dio sotto accusa attraverso la sfiducia: “in quanto teologo, non posso che avere sfiducia in Dio”,[1] preferisce ripetere senza la minima reticenza. La sfiducia come diffidenza, impiegata per provocare Dio (piuttosto che per compiacere), conduce lontano dall’originale proposito di fede, realizzato nella piena devozione e libero da impedimenti occasionali. Sgalambro riconduce all’empietà il sentimento di sfiducia che, elaborato razionalmente, raffigura Dio “capace di tutto”. L’uomo che approssima se stesso a Dio secondo sfiducia comprende, in poco più di un gesto, che tra lui e Dio non ci sarà mai un confronto poiché Dio è veramente capace di tutto. Questa prescrizione teologica comporta effetti come il timore di Dio e l’ammissione della sua esistenza minacciosa, che, intercettati nell’uomo, devono tradursi in rispetto per Dio. Soltanto diffidando apertamente di Dio, l’inquietudine che la Sua onnipotenza suscita nelle creature stempera in un pacato richiamo, in un devoto rapporto carico di distacco: nulla ci sarà mai tra Dio e l’uomo che il Dio “capace di tutto” non possa autonomamente riferire a sé. L’onnipotenza è potentia che non lascia scampo, disposizione contratta che lascia al perdente la sola gioia della resa. Così Sgalambro prospetta il suo incontro con Dio: “Il nostro stato d’animo è la “sfiducia”. Noi esprimiamo ciò come “sfiducia in Dio”. Io ho sfiducia in Dio, dice il nostro teologo. O, più precisamente, “io”, in quanto teologo, non posso che avere sfiducia in Dio”.[2]

Attento studioso di Kant, Sgalambro affida il suo intervento alla ripresa di un’intuizione già presente nella Critica della Ragione Pura, alla quale sembra aderire senza esitazione: “Dio è onnipotente: ecco un giudizio necessario. L’onnipotenza non può essere negata, se voi ponete una divinità, cioè un ente infinito, il cui concetto è identico a quell’altro concetto”[3] che, parafrasato con una domanda, si traduce in: perché Dio risulta, prima di tutto, onnipotente? Ciò che può esser detto di Dio non può che riferirsi alla sua onnipotenza nel giudizio necessario che la enuncia: l’onnipotenza e l’essere di Dio occupano lo stesso luogo metafisico, sono una sola realtà identica in ogni luogo e assolutamente semplice. Tuttavia, Kant non vede nel giudizio che esprime l’esistenza di Dio alcunché di necessario, come invece nei giudizi che tale certezza sembra far derivare. Saranno tuttavia risparmiate le eventuali implicazioni psicoanalitiche e storiografiche – certamente trainanti per una strategica impostazione del problema – correlate alle complesse esperienze dell’antropologia religiosa.

Dal Breviloquium di Bonaventura, Sgalambro estrae un’occasione[4]  per testimoniare la prorompente inclinazione di Dio a mostrarsi integralmente, unico e inarrivabile: la convinzione di Sgalambro è certezza e silenzio allo stesso tempo. Ma per evitare che la sfiducia diventi un valore dominante come sintomo d’ateismo, puntualizza: “Domandarsi quindi che cos’è la sfiducia, o meglio che cos’è la sfiducia in Dio, diventa assolutamente necessario. Ovviamente essa non ha a che fare con “l’ateismo”. Vi ripeto, questa stupida inezia non ha fatto che mettere sotto chiave un buon numero di stati che fanno parte del cosiddetto rapporto con Dio (d’altra parte è chiaro che anche se butti via Dio, te ne resta il concetto: hai di che indagare una vita! Ma niente, il borghesuccio non fa una piega. Non c’è nulla da indagare, dice con aria di sufficienza, e quanto al concetto, non sono dell’umore)”.[5] Dio, come concetto, diventa dunque una bruciante preoccupazione, venerea per ogni impostazione di ricerca espressamente metafisica. La vitalità dell’ateismo come rimedio, soprattutto se dispiegato come pratica di dimenticanza, riporta un’inutile cautela: l’improprietà della classificazione non merita ulteriori chiarimenti per il filosofo.

Basti questo per avvicinarsi alla teologia secondo la propaganda di Sgalambro, nel tentativo di approfondire l’onnipotenza come proprietà che, meglio di altre, identifica il divino. Pertanto la reductio trova nel red-ducere una vocazione al ritorno e alla sintesi: le infinite qualità di Dio risultano assorbite, pur nell’impossibilità di un’eventuale enumerazione, dall’onnipotenza sovrana. Ciò che possiamo riferire di Dio torna, prima di tutto, in questo dispiegamento dell’unica sostanza. 

 

2. La potenza per potenza: incorruttibilità della potenza divina nel Breviloquium

 

Nel libro della Genesi[6], Abramo ascolta una voce che afferma: “Io sono Iddio onnipotente, cammina alla mia presenza e sii perfetto”. In questo luogo delle Scritture, la scelta dell’onnipotenza dovrebbe risultare assai indicativa poiché Dio sottoscrive con l’uomo un accordo d’inestimabile valore. Dio sceglie l’onnipotenza per presentarsi all’uomo: permette ad Abramo di ascoltare una voce e si definisce, come se la voce del suo occultamento non bastasse ad annunciarne la potenza: Dio esprime così la propria unicità nel modo diretto dell’onnipotenza pronunciata e in quello indiretto risolto nell’ascolto dell’uomo. 

Ad inquadrare la complessa questione dell’onnipotenza divina, può essere utile esprimere da ora una riserva chiarificatrice a sostegno del fallibilismo umano: dopo aver distinto l’esistenza divina dall’essenza, è d’obbligo continuare ad impostare la lunga serie degli interrogativi sull’onnipotenza, senza perdere di vista la singolare condizione umana che favorisce la loro formulazione. Si dà ormai per certo che l’uomo sia abilitato a parlare di Dio, che possa farlo senza esitazione; ma l’ambiziosa propensione che lo tormenta, ineluttabile quanto ossessiva, nasconde l’insidia del parlarne troppo umanamente. In altre parole, se, oltre la diversificazione di stati ontologici in Dio, si ponesse la domanda sulla volontà dell’agire divino, si riconoscerebbe appartenente a Dio la peculiare divergenza tra volontà (potenziale) e agire (attuale), solitamente caratteristica della natura umana. La comparazione tra entità così distanti, permette di accentuare notevolmente le difficoltà di un simile schematismo, ponendo la nuova questione dell’abilità umana nel formulare argomentazioni inerenti al divino. Pertanto, buona parte dei teologi medievali preferisce introdurre argomenti di questo genere, facendo procedere la loro formulazione dal contesto dell’assoluta simplicitas divina (che non ammette separazioni o alterazioni) e mai riferendosi con impropria accuratezza alla loro trattazione. Il teologo parla di Dio ma impone a se stesso il limite che una conoscenza inopportuna, qualora si manifestasse con troppa evidenza, accentuerebbe sino a compromettere del tutto il fine della ricerca. Nel criterio dell’indagine è sempre incluso l’assenso verso l’indicibile condizione divina, elemento che tale studio richiama come proprio: affiancando al tentativo umano un ritardo così radicale e connaturato all’umano, molte parole possono apparire impronunciabili perché troppo lunge o mai udite. Riportando il parere di Huxley[7] – forse agevolmente assimilabile alla spiritualità bonaventuriana – si comprende che “se ci accostiamo a Dio con l’idea preconcetta che Egli sia esclusivamente reggitore personale, trascendente, onnipotente del mondo, noi corriamo il rischio di restare invischiati in una religione rituale, di sacrifici propiziatori (talvolta orribili) e di osservanze legalitarie”.[8] Dio va incontrato come se si affrontasse in battaglia, accompagnati dalla certezza di uscire sconfitti dal duello: non si deve inseguire un concetto isolato e incapace di ritrarne l’essenza, ma l’insieme assolutamente semplice delle proprietà classificabili, serviti da misurazioni imperfette. L’innatismo è propiziatorio per estendere alle vie del deduttivismo e dell’induttivismo la domanda che va continuamente rimandata in forma di risposta. Rimanendo in attesa di risposta, la curiosità raffinata della ricerca soddisfa il diritto umano al superamento.

Elaborato tra il 1254 e il 1257, quando Bonaventura riveste la carica di Maestro Reggente ad scholas fratrum e prima dell’elezione a Ministro Generale dell’Ordine Francescano, il Breviloquium presenta un capitolo (VII) interamente dedicato all’onnipotenza.

Il divenire attribuito a Dio non può che essere un’aberrazione del pensiero umano: se l’onnipotenza aumentasse, il cambiamento indicherebbe che tale proprietà è inferiore rispetto a quanto compiutamente possibile; se diminuisse, non sarebbe più rispettabile come valore intrinseco e assoluto.

L’abilità riassuntiva dimostrata nel VII capitolo del Breviloquium concede al lettore piena libertà nella scelta dell’argomentazione da cui iniziare ogni approfondimento. Risulta abbastanza agevole considerare la definizione di Dio (primum principium) come potens potentia: la qualità semantica dell’onnipotenza va chiarita secondo la proprietà distributiva contenuta nella radice latina del termine (omni); ogni concessione espressa ad alterazione o completamento delle cose – come la stessa creazione o il miglioramento – non riguarda ciò che definisce la potenza simpliciter, cioè ordinata e compiuta. La necessità di una dimostrazione per questo principio decresce rispettando il regime ontologico contenuto nella condizione di partenza: non vi sarebbe onnipotenza se ciò che si dice tale subisse – non come qualità di Dio, ma come Dio stesso – un’alterazione accrescitiva o diminutiva. Rispetto ad una simile asserzione, si modellano le condizioni che l’onnipotenza esige per completarsi vere, proprie et perfecte: Dio non può compiere azioni colpevoli come ingannare e volere il male, atti dolorosi legati al temere o al soffrire, atti materiali come il dormire e il camminare, atti inconvenienti come creare un essere uguale a sé (sibi aequalem) o l’infinito in atto. Gran parte delle affermazioni bonaventuriane – come, del resto, quelle del Lombardo – tendono a puntualizzare la stabilità assoluta di ciò che s’impone a dominio delle creature, evitando così che l’onnipotenza, attenuata da obblighi e limitazioni, si trasformi in un’impotenza.

Tralasciando per ora gli evidenti parallelismi con il libro delle Sententiae, si cerca di organizzare la dimostrazione secondo ulteriori raggruppamenti: un comodo avvio potrebbe consistere nell’accorpamento delle azioni impossibili per Dio e per l’uomo. Tra gli impossibilia, Bonaventura distingue[9] quelli relativi all’uomo tra cui la limitazione delle potenze naturali (come il fatto che la vita di un individuo non gli permetta di essere qualcos’altro) e quelli legati alla limitazione della nostra intelligenza (come quelli legati all’incapacità dell’immaginazione di figurarsi due corpi nello stesso luogo). Ma seguono anche due forme d’impossibilità, vincolanti per le azioni divine: la privazione di ogni esistenza (privationem omnis existentiae) e, agostinianamente,[10] l’incompatibilità di una cosa con le regole eterne (illustrationem veritatis aeternae et ordinem divinae sapientiae). Quest’ultima forma d’impossibilità ridimensiona il dubbio prettamente umano che invita a credere Dio capace di andare contro se stesso, di ribellarsi alle leggi eterne che da sempre ispirano ogni sua attività. In questo contesto, tuttavia, la presenza decisiva delle leggi eterne a sostegno dell’attività divina è opportunamente motivata come nel fecondo dibattito dei razionalisti del secolo XVII.[11] Invertendo il punto d’osservazione sull’argomento, si può agevolmente invadere un campo etico dove si rinneghi l’esistenza del male perché non contemplabile tra le azioni a Dio possibili: nelle pagine della Consolatio boeziana, l’onnipotenza è una proprietà dichiarata con naturalezza ma senza essere perlustrata a fondo come, invece, in Bonaventura. Al Dio onnipotente di Boezio non è concesso fare il male e ciò permette di concludere circa l’inesistenza del male stesso:[12] questo perché l’onnipotenza è indiscussa almeno quanto l’esistenza stessa di Dio.[13] In Bonaventura, l’onnipotenza è rimaneggiata, sezionata, destrutturata, sottoposta alle estenuanti trazioni della quaestio. Si potrebbe riassumere che l’elemento speculativo cui Boezio mira conserva una tenuta etica che nella prospettiva bonaventuriana riappare nella consistenza di una forza contrastante: il male esiste e Dio non può che evitarne le determinazioni.   

Ciò che rientra nelle possibilità divine si mostra con maggiore aderenza nella creazione di enti in atto, nella formazione di attitudini realizzabili nella creatura (ma non ancora in atto) e nell’univocità dell’appartenenza a Dio. La flessibilità di questi tre modi esistenziali non ammette alcune delle condizioni proposte da altri pensatori, come l’infinito in atto e il cambiamento degli eventi già avvenuti.

 

3. Frammenti d’onnipotenza: il commento alle Sententiae di Pietro Lombardo

 

Si è già ricordato come la formulazione riassuntiva delle argomentazioni sull’onnipotenza contenute nel Breviloquium, rievochi tracce affini presenti nel commento alle Sententiae.

Ammesso che l’uomo possa dimostrare l’onnipotenza di Dio,[14] in cerca di una sua definizione, Lombardo riferisce il parere di Agostino contenuto nelle Quaestiones Veteris et Novi Testamenti:[15] l’agire divino è regolato secondo quanto conviene alla sua verità e giustizia, estraneo alle sollecitazioni di qualsiasi capriccio personale: insomma, un agire razionale e finalizzato. Ma il potere ogni cosa va distinto dal potere ciò che si vuole, ossia da ciò che è giusto o è meglio volere: pur allineate e in sincrono, volontà e azione sembrano rallentarsi in una sorta di dipendenza reciproca. L’azione mutua dalla volontà ciò che altrimenti non le permetterebbe di ottenere legittimità. Pertanto, il potere ogni cosa servirà a stabilire un’eterogeneità tra gli ambiti umano e divino, mentre la volontà continuerà a percorrere orbite interamente precluse all’individuo: questo significa che l’uomo non può fare tutto ciò che vuole, mentre Dio può fare ogni cosa sebbene non voglia altro che ciò che è giusto. Le azioni materiali, ad esempio, sono possibili a Dio ma non volute:[16] come potrebbe il Dio creatore dell’uomo e delle sue azioni non avere accesso a ciò di cui le sue creature comunemente dispongono? Dunque, affermare che Dio non fa ciò che potrebbe fare – perché non lo vuole – è altro dal dire che non fa ciò che non può fare – perché impossibile – (o, se si preferisce, dire che fa ciò che vuole fare è altro dal dire che fa solo ciò che può fare): quel decentramento dell’impossibilità totale è attutito, nel primo caso, da una scelta più moderata. Ricavando il giudizio da Agostino, Bonaventura[17] riporta una definizione chiarificante la destinazione etimologica dell’omni, che attribuisce a Dio il potere indiscriminatamente tutte le cose, ma che esclude dal volere ciò che lo contrasta[18]. Per Lombardo, quindi, l’onnipotenza non include tutte le possibilità d’azione. Tuttavia, Dio potrebbe anche le cose che non vuole ma, non volendole, le rimuove fino a dirsi vere onnipotente: una simile rinuncia rende appieno il senso ridimensionato di questa sublime qualità, portata ben oltre la consueta interpretazione.[19] Verità e possibilità convivono in una matassa inestricabile che fa dipendere l’onnipotenza autentica del Breviloquium dal non volere ciò che non si fa[20] (ma che si potrebbe fare) e non dal fare ogni cosa: distinta in questi due casi, l’onnipotenza si realizza in una definizione meno discutibile. La volontà di Dio non dipende dall’azione che la realizza ma da una decisione preventiva[21] che l’uomo concepisce soltanto in ritardo: in quest’ultimo, ogni desiderio è subordinato all’agire, poiché l’individuo può volere soltanto ciò che può realizzare, mentre ogni altra volizione rimane una fantasia. Bonaventura si limita a ripercorrere il sentiero delle affermazioni già note proponendo un’obiezione[22] alla possibilità divina di fare ciò che le creature abitualmente fanno: anche in quest’occasione è riproposto per Dio l’impedimento della ricezione di qualcosa, della sofferenza come atto accrescitivo (sustinere est opus fortitudinis), del compiere azioni materiali come quelle già menzionate nel Breviloquium. Per superare l’ostacolo, si distinguono piano linguistico e fattuale: concordando con Lombardo, Bonaventura nega che tali azioni possano sottendere l’onnipotenza. Esse sono piuttosto potentiae imperfectae.[23] Dio può omne quod posse est potentiae: l’utilizzo del verbo derogant[24] conferma quel divenire al quale Dio sfugge nell’identità semplice ed eterna cui appartiene; come un non- accontentarsi, un domandare (de-rogo) altro che inclina al rifiuto perché già perfetto.

Riassunti i quattro luoghi dell’impossibilità, si concentra l’attenzione sulla proprietà dell’infinità. Nell’agire divino si rintraccia un’equivalenza tra il fatto compiuto e la correttezza ontologica che lo accompagna: ciò che è non potrebbe essere altrimenti, poiché ciò che è stato fatto non sarebbe giusto se non fosse stato realizzato come è stato realizzato.[25] Riprendendo il VII libro delle Confessiones, Lombardo sottolinea come nel ventaglio delle possibilità realizzabili sia contenuta la certezza sintetica dell’onnipotenza, circoscritta dalla convenienza (che definisce spesso giustizia) delle cose effettivamente realizzate. Il laborioso itinerario dell’agire non si modella su una volontà chimerica – vero sinonimo d’impotenza (non può fare ciò che Lui stesso, che è somma giustizia, non vuole fare)[26] – ma sulla realizzabilità di un volere senza dubbio in accordo con la giustizia (non può fare ciò che non può convenire alla sua giustizia).[27]

L’onnipotenza di Dio si esprime nella totalità delle azioni possibili che tuttavia il suo volere modera con scelte e intendimenti: questa la ragione per cui la vera onnipotenza è una potenza limitata dalla convenienza.

Il concetto d’infinito si presta, da sempre, ad un’evidente imprendibilità, al rischio di invalidare ogni speculazione privandola di un punto d’arrivo. Quell’inesorabile conflitto tra implicazioni sintattiche e livelli ontologici, non supporta né accoglie le corrispondenze con l’universo empirico. Ritenere Dio infinito perché creatore di grandi cose[28] ricorda tutta la precarietà della scelta umana secondo una diteggiatura che la rende fallibile dall’interno. Bonaventura sceglie di definire anche l’infinità dell’onnipotenza, dibattendo il problema in rapporto alla divina capacità di produrre effetti infiniti: considerata a priori, tale proprietà scompare all’ombra di una sola essenza. Nella duplice veste d’infinità attuale (la totalità di ciò che è) e abituale (il possesso dell’infinità degli effetti che può produrre), essa non realizza l’infinito in atto come effetto.[29] Nell’intricata questione dell’onnipotenza, si pongono nuovi interrogativi che coinvolgono più esplicitamente i prodotti dell’agire divino. Se Dio è, aristotelicamente, Atto puro, oltre a non mancare di nulla, non può essere causa di una privazione successiva al suo stato consolidato di perfezione: dal produrre l’infinito in atto – in alternativa o affiancando l’infinito in potenza – si contravviene all’ordine che amministra i rapporti tra le cose, che le fa essere le une per le altre; il loro rapportarsi sarebbe sempre più carente fino a gettarle nel disagio dell’incomunicabilità; tutto ciò, a causa dell’esistenza simultanea di un numero infinito di enti. Al contrario ogni ente è collocato all’interno di un ordine di enti, è parte integrante di quell’ordine e risente di ogni cambiamento; la loro corrispondenza è dialogo espresso nel movimento dialettico che non cessa di coinvolgerli. La creazione di un infinito in atto scardinerebbe ogni proporzione tanto da ridurre l’ordine cosmico ad un caos indecifrabile. Diversamente, nel mantenimento dell’ordine creaturale, fatto di ritmi e convergenze, nella conservazione della potentia simplex,[30] si preservano entrambi gli aspetti dell’infinito in potenza e si combatte la presenza simultanea di elementi altrimenti incompatibili. Quindi Dio ritrova sé stesso come infinito in potenza e in atto, ma senza poter essere causa di un altro infinito in atto.[31] Nell’accostamento a Descartes, il Cress non si sofferma sull’eventualità di un altro infinito in atto, ma ribadisce che il Dio di cui si può avere conoscenza chiara e distinta è sempre in atto, poiché ciò che è in potenza è sempre soggetto all’imperfezione del mutamento.[32] Tale riflessione, poco esplicativa ad una prima lettura, restituisce all’attualità divina la garanzia dell’estraneità a qualsiasi imperfezione: senza soffermarsi sugli effetti del raddoppiamento, si preferisce enunciare la dimensione destabilizzante propria della potenzialità. Dal pretesto offerto, si risale alla duplicazione di un infinito in atto come raddoppiamento o mutamento di grado: il primo caso prevede il rischio di un conflitto tra due entità aventi la stessa potenza e capaci di annullarsi nel contatto; il secondo, precede nelle modalità le conclusioni ricordate nel primo caso: la complessa quanto paradossale situazione di due forze che vicendevolmente si disturbano con l’eventualità di mutare nell’essenza è il preludio di qualsiasi scomparsa; ciò che un infinito in atto opera sull’altro produce effetti drastici perché contribuisce al tramonto progressivo dell’identità.

Quanto affermato sull’infinità dell’onnipotenza conferma la breve ripresa della tematica del peccato che Bonaventura espone nel In II Sententiarum.[33] Raccolti in questo passo, troviamo gli elementi che, in maniera analitica, risollevano la questione del poter fare rispetto al volere: la potenza genericamente intesa è una proprietà addizionale rispetto alla sostanza individuale, una concessione divina che, come tale, anche se est a Deo può rivelarsi potentia peccandi ordinata ad actum peccato substratum:[34] nonostante rimanga sottilmente velato il richiamo al libero arbitrio, possedere la potenza di peccare è un surplus donato all’apparato umano di base come forma di potenza imperfetta (defectiva) o, meglio ancora, d’impotenza (impotentia); nella volontà, espressione concreta di tale attuazione, rientrano invece le implicazioni morali che attingono dalla potenza la vocazione al Bene come unico fine: è soltanto nel fare il male attraverso il peccato che tale potere passa dalla condizione potenziale a quella attuale, manifestandosi come impotenza.

A conclusione di questi passaggi, Bonaventura riassume e teorizza una soluzione netta a vantaggio della scelta divina: abituati a considerare la volontà e la potenza su piani ontologici separati, ci si accorge presto di come una tenue inclinazione al subordinazionismo corredi la corrispondenza imperfetta che lega questi termini. Se nel voler peccare si coglie un volere, nel poter peccare non è compreso un potere:[35] in accordo con la distinctio XLV del In I Sententiarum, il volere non esprime appieno il peccato, trattenendolo in una forma di empietà non attuata, situata in Dio e nell’individuo come germe della loro capacità di compiere il male; inoltre, qualora fosse realizzata, esprimerebbe l’eccezionalità nella concessione del libero arbitrio. L’estensione semantica del potere, al contrario, incita, attraverso l’inganno di un’illimitata padronanza del sé e delle azioni che ne derivano, a credersi in possesso di qualcosa che è meglio avere perché in più. La decisione del volere si compie in accordo con la malvagità, mentre il potere conserva una squallida illusione che, soprattutto nell’ideare il male senza realizzarlo, non sembra causata da propositi dannosi. La radicalità del volere affonda nell’animo quando aspetta di attuarsi e, soltanto nel compimento, può dirsi riuscita. Il volere si preserva nella ricaduta presente che lo avvolge. Nel potere, la scelta non ancora compiuta è disposizione al rischio nella paralisi del ripensamento: l’ardente desiderio del male agevola coerentemente il progetto di una volontà determinata, ma ritenere il poter fare il male un bene, manifesta sostanzialmente l’incoerenza di un’intelligenza malata.

Nell’infallibile conoscenza degli eventi futuri, Dio supera il limite incontrato dall’uomo nella previsione degli effetti delle sue azioni: questa la ragione per cui il potere di Dio è orientato sempre a ciò che si addice alla sua potenza,[36] che non la contrasta in alcun modo.

Il profilo divino che gradualmente prende forma da quest’analisi non sembra allontanarsi molto dai regimi imposti alle vicende da un’onnipotenza leale. Tra gli impossibilia già ricordati come atti inconvenienti, bisogna ora trattare l’impossibilità divina di creare un'altra divinità identica. Dopo aver attraversato gran parte della cultura medioplatonica,[37] il tema della duplicazione di Dio come fenomeno compreso tra i possibili atti d’onnipotenza, è affrontato con un deciso rifiuto a vantaggio dell’unicità indiscussa di Dio. Contemplata addirittura come una distrazione dell’intelletto nell’immaginazione, questa impossibilità viene ricollocata in una visione d’insieme che raggiunge tutte le cose create nella necessità[38] che conservino un limite. La creazione di un altro Dio, pertanto, apporterebbe un annullamento imminente della solitaria natura divina a cui tutto è riducibile: un intenso verticalismo consolida la promessa offerta da un riferimento sicuro, meta raggiungibile e destinazione di ogni esistenza. L’utilizzo ripetuto dell’accrescimento per quantità è frequente in Bonaventura come parametro di debolezza: la quantità che aumenta comporta un’illusione per gli uomini che, abituati a misurare le ricchezze, ritengono che due divinità siano migliori di una.[39]

Dunque, la potenza di Dio trascende la potenza umana come onnipotenza, non per la vastissima serie di opportunità che concede a sé stessa, ma perché subordina al suo disegno imperscrutabile la potenza smisurata di cui dispone: in Bonaventura, l’onnipotenza si modera da sé, accettando l’arresto di fronte agli eccessi, quasi svestendo i panni dell’autorità e dell’imposizione che spesso l’uomo rapporta a personali criteri di dominio e assoggettamento.

 

4. L’onnipotenza dal Padre al Figlio: alcune implicazioni trinitarie

 

Nell’ambito di uno studio sull’onnipotenza divina, come in rapporto ad ogni altra proprietà che riguardi Dio, non si possono escludere le difficili implicazioni che accompagnano il dispiegarsi dell’unicità nell’espressione del mistero trinitario. Qualunque riflessione teologica che voglia dirsi appropriata al contesto qui preso in esame, pertanto, marcherà i punti di contatto nell’approssimazione dell’idea d’onnipotenza alle restanti Persone, con il proposito di chiarire in quale misura, nel pensiero di Bonaventura, sia dominante la tematica trinitaria. L’occasione offerta permetterà, così, di analizzare la generazione sia come atto dimostrativo dell’onnipotenza del Padre, sia, sul versante cristologico, come ipotesi critica per l’identità delle Persone.

Contro la minaccia dell’averroismo latino, che appellandosi ad Aristotele compromette il patrimonio offerto dalla Rivelazione, Bonaventura fa del Bene un fondamento dell’essenza trinitaria e delle persone divine. L’assetto trinitario custodisce l’esposizione di Dio al mondo, riassumendo e smentendo le carenze dell’idea aristotelica che propone una divinità preoccupata soltanto di sé.[40] Quando, nell’eternità, la potenza è unita all’atto, la generazione del Figlio è necessaria poiché non si possono distinguere i momenti come se appartenessero ad una sequenza propriamente temporale:[41] a testimoniare una forma eccelsa d’onnipotenza, la generazione indica, almeno a prima vista, un risultato effettivo come atto d’indecifrabile immensità.

Se non sussiste alcuna differenza tra il Padre e il Figlio, l’onnipotenza espressa nella capacità di generare appartiene anche al Figlio[42] che, pur essendo generato, è identico al Padre. Il parere di Lombardo conduce ad un chiarimento che investe la notionem ossia il piano linguistico del poter generare e del poter essere generato: tra Padre e Figlio si distinguono i ruoli del dare e del ricevere, in una sorta di scambio che implica dipendenza. La potenza del Figlio nel generare quanto (quam) il Padre, assume una duplice valenza: sia in rapporto all’atto che solo il Padre può compiere,[43] sia in rapporto alla volontà di generare, che è peculiare del Padre, e di essere generato, assunta dal Figlio.[44]

Ciò che il Lombardo affronta sotto il profilo linguistico risolvendo il problema con la privazione nel Figlio della volontà di generare (propria, invece del Padre), Bonaventura lo dibatte richiamando l’univocità che identifica un simile potere come incapace di accogliere la generazione del Figlio entro l’ampio raggio dell’onnipotenza:[45] citando il parere di Riccardo di San Vittore, Bonaventura ripropone la prova della coeternità delle Persone mai distinte temporalmente e antepone il volere del Padre (emanationem secundum rationem voluntatis) alla ragione (emanationem secundum rationem intelligendi), volta a raggiungere tale volere appropriandosene. Soltanto per appropriationem l’onnipotenza riconosce la generazione sotto di sé. 

Ad infittire la trama della dimostrazione bonaventuriana, si propongono i modi specifici della seconda Persona, oggetto delle tormentate dispute affrontate durante i concili di Calcedonia ed Efeso nel V secolo: la netta cesura proposta dal Lombardo come impossibilità da parte del Figlio di fare tutte le cose che Dio fa,[46] è ulteriormente passata al setaccio di proprietà fondanti come l’onniscienza. Un Figlio che riceve dal Padre, accoglie ciò che non sembra possedere per natura; ma quest’impostazione esclude ogni principio d’identità tra le Persone. Inoltre, se il Figlio ricevesse l’onnipotenza, sarebbe presto smentita l’argomentazione che vincola l’agire divino alla generazione irrealizzabile di un Dio identico, questione sondabile nelle diversità della manifestazione di una sola sostanza.

Il complesso rapporto tra natura umana e divina nel Figlio, va riscoperto nelle numerose direzioni che un trasferimento di ruoli e simbologie comporta: la natura umana del Figlio (come creatura), come visto altrove, non può ricevere l’onnipotenza.[47] Menzionando altre proprietà rilevanti, Bonaventura arriva, quasi in progressione, a sminuire la natura umana e, per contro, ad esaltare quella divina: stabilitas, simplicitas, immensitas,[48] sono le determinazioni che accompagnano quest’ultima nell’insuperabile unicità. Una potenza in grado di precedere l’onniscienza, si riconosce nel vantaggio di affermare se stessa sia rispetto all’atto interiore, sia rispetto a quello esteriore promosso nella pratica: i termini che ricorrono sono gli stessi incontrati nel potere e nel volere, adatti a giustificare la maggiore estensione dell’onnipotenza in riferimento al soggetto.[49] I connotati divini legati al conoscere e al fare tutte le cose, allineati in un solo Essere, narrano attività e passività nell’azione: il conoscere esprime la passività dell’apprendimento adattabile all’oggetto; il fare muove con intraprendenza il soggetto, al fine di ottenere un risultato originale: l’immagine paradossale della difficoltà di fare una formica piuttosto che di conoscere il cielo, rende chiaramente questa distinzione.[50] L’onniscienza del Figlio è un posse scire omnia come infinità della potenza passiva,[51] che non pregiudica affatto la riuscita di ciò che si conosce quanto il fare che, al contrario, individua l’artefice (potens) nel merito o nel demerito.[52]

A sostenere le prove sull’assenza di onnipotenza nel Figlio, i due teologi si servono anche di approfondimenti sulla sostanza che richiama una sola onnipotenza da decifrare nell’ambito delle singole persone: prese isolatamente, esse non sono dette proprie onnipotenti (forse ad eccezione del Padre) poiché non sono tre onnipotenti ma uno.[53] La soluzione di Lombardo permette di tralasciare la svolta linguistica in Bonaventura.[54]

Da una sola onnipotenza, si torna, con Agostino, a discutere la superiorità del Padre rispetto al Figlio: Lombardo individua nella trasmissione della potenza al Figlio una concessione che rende il Figlio potente come il Padre. Non sussistono valide ragioni per affermare l’inferiorità del Figlio se non la debolezza o l’invidia del Padre.[55] Con il rischio di contraddire quanto affermato altrove,[56] Lombardo deve conciliare le posizioni trinitarie con il parere di una auctoritas come Agostino: il suo tentativo è spiegato allora dalla soluzione linguistica già proposta, nella quale il Padre si dice tale perché genera il Figlio, mentre quest’ultimo può dirsi soltanto generato. Ricordando Sapienza 18,15,[57] Bonaventura si accosta all’idea dell’uguaglianza precisando una potenza essenziale che riconosce appartenere ad entrambi[58]. Una comune lettura del problema, permette la condivisione dell’onnipotenza, assente nella natura umana del Figlio: soltanto nell’essenza, Padre e Figlio sono una sola cosa, soltanto in essa l’onnipotenza è una.[59] 

Risulta, quindi, decisiva la riflessione bonaventuriana a supporto e correzione delle informazioni piuttosto scarne suggerite dal Lombardo: pur concordando sulla privazione d’onnipotenza nel Figlio, Bonaventura risolve la spinosa questione trinitaria aiutato da un’indagine abbastanza declinabile; in Lombardo, l’assenza di un metodo filosofico è compensata dal taglio psicologico e dall’intento conciliativo riportati. Aiutato da solidi statuti linguistici ed ontologici, Bonaventura suggerisce una lettura eminentemente filosofica, nel rispetto dell’ortodossia.

 

5. Il gene dell’onnipotenza

 

La coordinata ontologica dell’onnipotenza accentra le pretese teologiche su quell’aspetto di Dio non ulteriormente perfettibile. Nel considerare apertamente nuovi spunti di ricerca, si potrebbe ampliare questo tentativo nella direzione di rispettabili maestri come Ruperto di Deutz (†1129), autore di un’opera pervenuta con il titolo De Omnipotentia Dei.[60] Inoltre, la vastità dell’argomento qui preso in esame, consente di rivolgere la massima attenzione alle diversità dogmatiche e simboliche che continuano a rinnovarne l’interesse nell’ambito delle grandi religioni monoteistiche: se l’onnipotenza è ancora il “marchio” distintivo di Dio e unico pilastro teologico, necessita di approfondimenti sia quanto alla sua genesi come concetto, sia come parametro del più adeguato rapporto umano con il divino.   



[1] M. Sgalambro, De mundo pessimo, Adelphi, Milano 2004, p. 213.

[2] Ibidem.

[3] Kant, Critica della Ragion pura, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1999, p. 621.

[4] M. Sgalambro, op. cit., p. 214: “Mi basta rimaneggiare l’indicazione di San Bonaventura nel Breviloquium per ottenere che il lavoro del teologo è quello di elaborare razionalmente la sfiducia. Ora, poiché lo stato di sfiducia in Dio appartiene allo stato di empietà, è l’empietà che diventa il sentimento fondamentale a cui si deve riportare la sfiducia”.

[5] Ibidem.

[6] Gen. 17,1 affianca luoghi analoghi nel Pentateuco: Gen. 18,14; 35,11; 43,14; 48,3; Num. 11,23; tra i libri Storici: 1Sam. 14,6; 2Cron. 14,11; tra i libri Sapienziali: Gb. 42,2; Sap. 11,22; Is. 40,10ss; 46,9; 50,2; 59,1; Ger. 32,17.27; Zac. 8,6; nel N.T.: Mt. 3,9; 19,26; 26,53; Mc. 9,23; 10,27; 14,36; Lc. 1,37; 3,8; 18,27; Ef. 3,20; Apoc. 16,7.14; 19,6. 

[7] A. Huxley, La filosofia perenne, Adelphi, Milano 1995, p. 46.

[8] Huxley sembra intimamente motivato da una ricerca pratica di Dio, diretta ad annullare la sfrontatezza dell’uomo piuttosto che ad avvicinarlo intellettualmente all’irraggiungibile unità divina.

[9] In I Sententiarum, XLII, q. III, resp.

[10] Agostino scrive nel De vera innocentia: “Deus, ita est omnipotens, ut numquam rationis suae instituta evellat”.

[11] Autori come Descartes e Malebranche conservano posizioni contrastanti sulla natura delle idee divine: il primo, convinto della loro provenienza da Dio; il secondo portato a considerarle piuttosto come regole dell’attività divina.

[12] Boezio, Consolatio Philosophiae, a cura di O. Dallera, Rizzoli, Milano 2001, p. 256: “Malum igitur, inquit, nihil est cum id facere ille non possit, qui nihil non potest”.

[13] Nella Consolatio non è presentata una prova esplicita dell’esistenza di Dio, ma la serie delle argomentazioni è sapientemente costruita per orientare il lettore verso quest’idea.

[14] Bonaventura affronta il problema in rapporto all’eternità in In I Sententiarum, III, dub. II, resp.: “Dicunt enim quod omnipotentia et aeternitas, cum sint infinitae non possunt sufficienter probari per creaturas, quae sunt finitae”.

[15] Sententiae, I, XLII, c.1 (184). L’opera agostiniana è contenuta in PL 35, q. XCVII.

[16] Ivi, c.2 (185).

[17] Ivi, c.3 (186), 3.

[18] Ibidem: “Non ergo negavit eum posse omnia quae convenit ei posse. – Similiter, cum dicit: “Non ob aliud veraciter dicitur omnipotens, nisi quoniam quidquid vult, potest”, non negat eum posse etiam ea quae non vult, sed adversus illos qui dicebant Deum multa velle quae non poterat, affirmat eum posse quidquid vult, et ex eo vere dici omnipotentem, non ob aliud, quia potest quidquid vult”. Lombardo puntualizza l’opinione generica di Agostino, estranea alle implicazioni ontologiche che il termine omnipotentia richiama.

[19] Per le moderne indagini sull’onnipotenza cfr. D. Garota, L’onnipotenza povera di Dio, Paoline, Milano 2001.

[20] Sententiae, I, XLII, c.3 (186), 4: “Non enim vult facere nisi quod facit, nec posse nisi quod potest. Sed non potest facere quidquid vult fieri: vult enim salvos fieri qui salvandi sunt; verumtamen eos salvare non valet. Deus autem quidquid vult fieri, potest facere”.

[21] Ivi, c.3 (186), 6: “Et omne quod vult fieri, vult se posse; sed non omne quod vult se posse, vult et fieri: si enim vellet, et fieret, quia voluntati eius nihil resistere potest”.

[22] In I Sententiarum, XLII, q. II, contr. 1,2,4.

[23] Ivi, q. II, resp.

[24] Ivi, q. II, ad ob.

[25] Sententiae, I, XLIII, c.un. (187), 1: “Non potest Deus aliud facere quam facit, nec melius facere id quod facit, nec aliquid praetermittere de his quae facit”.

[26] Ivi, c.un. (187), 2: “Non potest facere id quod ipse, qui est summa iustitia, non vult facere, falsum est”.

[27] Ibidem: “Si autem intelligas his verbis eum non posse facere id quod iustitiae eius convenire non potest,verum dicis”.

[28] In I Sententiarum, III, dub. II: “Nihil enim valet: fecit magna, ergo est omnipotens vel potest facere omnia”.

[29] Si vedano i passi del VII capitolo del Breviloquium nei quali è ribadito per due volte il medesimo concetto.

[30] In I Sententiarum, XLIII, q. I, resp.: “Nam potentia divina est omnino in se simplex”.

[31] Ibidem: “Nulla est actu infinita, sed solum in potentia. Et quia infinitum in potentia pendet ex infinito in actu, ideo omnis infinitas durationis creatae et operationis pendet ex infinitate virtutis increatae”.

[32] D. Cress, Echoes of Bonaventure in Descartes, in « San Bonaventura maestro di vita francescana e di sapienza cristiana (a cura di A. Pompei). Atti del Congresso Internazionale per il VII Centenario di San Bonaventura da Bagnoregio, Vol. II, Roma 19-26 settembre 1974 », Roma 1976, p. 134: “A potential infinite is an infinite in the sense that nothing prohibits continuos addiction or fragmentation to what is being dealt with”.

[33] In II Sententiarum, XLIV, q. II, concl.

[34] Ivi, q. II, concl. 5.

[35] Ibidem: “et propter ea velle peccare velle est, posse autem peccare non est posse; et ideo dictum fuit in primo libro, quod Deus est omnipotens, et tamen non dicitur omnivolens”.

[36] In I Sententiarum, XLV, q. II, 1: “Quia Deus non dicitur omnipotens, eo quod possit omnia, sed quia potest omne quod decet eius potentiam – non enim potest mala – sed similiter Deus vult omne quod decet voluntatem eius velle”.

[37] Si considerino le difficoltà dei medioplatonici di conciliare l’esistenza della materia eterna con il Dio creatore della materia, soprattutto in rapporto alla genesi del male. Si rimanda al volume di C. Moreschini, Storia della filosofia patristica, Morcelliana, Brescia 2004.

[38] In I Sententiarum, II, q. I, ad ob. 4: “De alio vel de nihilo non potest producete summum simpliciter, sed in genere, non propter defectum potentiae agentis, sed propter defectum creaturae, quam necesse est esse limitatam”.

[39] Ivi, q. I, contr. 2: “Item, plura bona sunt meliora paucioribus: sed plures dii sunt plura bona: ergo melius aliquid erunt duo quam unus”.

[40] A questo proposito, si vedano le convergenze di Gilson nell’opera citata (p. 96) e di L. Elders, Les citations d’Aristote dans le “Commentare sur les Sentences” de saint Bonaventure, in « San Bonaventura maestro di vita francescana e di sapienza cristiana (a cura di A. Pompei). Atti del Congresso Internazionale per il VII Centenario di San Bonaventura da Bagnoregio, Vol. I, Roma 19-26 settembre 1974 », Roma 1976, p. 839: “Pour saint Bonaventure les créatures sont, de par leur être même, des vestiges de Dieu. A cela s’ajoutait la ferme conviction de Bonaventure que la raison ne connaîtra pas la vérité des choses, si elle ne regarde pas Dieu et les mystères de la foi. Dans l’aristotélisme, au contraire, la raison se prend elle-même comme règle”.

[41] In I Sententiarum, VI, q. I, c.: “Sed in aeternis potentia est coniucta actui”.

[42] Sententiae, I, VII, cap. 2 (20), 2: “Eandem enim habet potentiam penitus Filius quam et Pater, qua Pater potuit gignere, et Filius potuit gigni. Eadem enim potentia est in Filio qua potuit gigni, quae est et in Patre qua potuit gignere”.

[43] Ivi, cap. 2 (20), 4: “Si enim dicatur ‘non habet Filius potentiam generandi quam et Pater, id est qua potens sit ad generandum, id est ut genuerit vel generet sicut Pater, verum est”.

[44] Ibidem: “Ita etiam eadem est voluntas qua Pater vult esse Pater, non Filius, et Filius vult esse Filius, non Pater; et eadem est voluntas Filii qua vult esse genitus et Patrem genuisse, et Patris qua vult esse genitor et Filium genitum”.

[45] In I Sententiarum, VII, q. 4, dub. II, resp: “generatio Filii non continetur sub omnipotentia”.

[46] Sententiae, III, XIV, cap. 2 (40), 1: “Non est autem ei datum posse facere omnia quae Deus facit, ne omnipotens, et per hoc Deus putaretur”.

[47] In III Sententiarum, XIV, III, resp.: “et ideo non potest esse omnipotens, cum non possit totum producere”. Cfr. anche quanto si afferma in XIV, III, resp. 4.

[48] Ibidem: “Sicut igitur soli Deo convenit summa stabilitas, summa simplicitas, summa immensitas”.

[49] In III Sententiarum, XIV, III, resp. 2: “Cum autem dicitur omnipotentia esse in aliquo, hoc non intelligitur respectu actus interioris tantum, sed etiam respectu exterioris”.

[50] Ivi, III, resp. 6: “multo enim difficilius est facere unam formicam, quam cognoscere caelum et terram”.  

[51] Ivi, III, resp. 4: “Quoniam ergo posse facere infinita dicit infinitatem potentiae activae, sed in ipsa est infinitas potentiae passivae”.

[52] Ivi, III, resp. 6: “Cognoscens enim, eo ipso quod cognoscens, non influit in ipsum cognitum; potens vero, in eo ipso quod potens est, comparatur ad ipsum possibile sicut ad effectum”.

[53] Sententiae, I, XXII, cap. 5 (94), 2: “Dicimus enim: Pater est Deus, Filius est Deus, Spiritus Sanctus est Deus: quod secundum substantiam dici nemo dubitat; non tamen dicimus hanc Trinitatem esse tres deos, sed unum Deum. […]Ita et omnipotens Pater, omnipotens Filius, omnipotens Spiritus Sanctus; non tamen tres omnipotentes, sed unus omnipotens”.

[54] Per approfondimenti sull’opinione di Bonaventura cfr. In I Sententiarum, XXII, dub. III, resp.

[55] Sententiae, I, XX, cap. 3 (86), 5: “Si non potuit, infirmus; si noluit, invidus invenitur”.

[56] Sententiae, I, XIV, cap. 2 (40), 1.

[57] “Cum enim quietum silentium contineret omnia et nox in suo cursu medium iter haberet omnipotens sermo tuus de caelo a regalibus sedibus durus debellator in mediam exterminii terram prosilivit glaudius acutus insimulatum imperium tuum portans” (Mentre un placido silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte già era a metà del suo corso, l’onnipotente tua Parola, dal cielo, dal tuo trono regale, discese come un terribile guerriero in mezzo a quella terra destinata allo sterminio, recando come spada punitrice, il tuo inflessibile decreto).

[58] In I Sententiarum, XX, q. 1, resp.: “quod Pater et Filius aequaliter sunt potentes quantum ad extensionem possibilium”.

[59] Ivi, q. 1, resp., ad ob. 3: “et quia essentia est indivisa in Patre et Filio, ideo et potentia et actio, proinde et productio illa. Quia vero producere Filium est producere personam, ideo productio illa et potentia dicit quid personale; et quoniam Pater et Filius non conveniunt in persona, sed in essentia”.

[60] Opera in Migne PL 170, 453.

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