Seneca e l’ira tragica: il rapporto tra il De Ira e la Medea

(di Gian Mario Mollar)

 

 

L’obiettivo di questa esposizione sarà quello di evidenziare una serie di assonanze intercorrenti tra due opere senecane apparentemente molto lontane tra loro: un’opera filosofica, il De ira, la cui datazione, incerta, viene collocata dopo il 41 d.C., anno della morte di Caligola, e una tragedia, Medea, probabilmente composta dopo il 54 d.C..

Prima di entrare nel vivo della trattazione, mi sembra utile fornire una breve sintesi della tragedia, in modo da facilitare la comprensione degli argomenti sviluppati in seguito. L’antefatto è costituito dalla spedizione degli Argonauti: Giasone rivendica dal fratellastro di suo padre, Pelia, il trono di Tessaglia, ma questi si dichiara disposto a darglielo solo a condizione di ottenere il vello d’oro. Così Giasone organizza una spedizione in Colchide a bordo della nave Argo, accompagnato da cinquanta eroi greci (tra cui Eracle, Orfeo, Teseo…) con i quali affronta molti pericoli. Giunto nella terra di Eeta, riesce ad impadronirsi del vello d’oro solo grazie all’aiuto di Medea, figlia del re e abile maga, che, per amor suo, giunge persino ad uccidere e smembrare il fratello Absirto. Tornato in patria, sarà ancora una volta Medea a permettere a Giasone di strappare il trono al restio Pelia, inducendo le figlie di quest’ultimo ad ucciderlo in modo atroce. La vicenda narrata nella tragedia si svolge circa dieci anni dopo: i due coniugi si sono rifugiati a Corinto, e Medea ha partorito due figli al marito, che però in parte perché stanco della barbara strega, in parte per garantire ai suoi figli un futuro, decide di ripudiarla per sposare Creusa, la figlia del re Creonte. Alla vigilia delle nozze, però, Medea, folle per il rancore, che né la nutrice, né Giasone riescono a placare, con un incantesimo dà alle fiamme Creonte e Creusa, e, in un estremo gesto di vendetta, uccide i due figli concepiti con Giasone. Al termine della tragedia, la maga si invola su un carro alato trainato da draghi.

 Ad una prima considerazione, l’argomento di questa tragedia ci appare in patente contraddizione con il resto della produzione filosofica di Seneca. Che cosa spinge il filosofo stoico, che nei suoi trattati esalta la ratio e la bona mens e condanna le passioni, a fornire una rappresentazione scenica dell’ira e del furor così enfatica e marcata, a tratti grand-guignolesca? In realtà, questa apparente polarità schizofrenica decade se si considera il ruolo fondamentale svolto dall’exemplum nel pensiero di questo filosofo. Tutto il De ira, infatti, è costellato di aneddoti tratti dalla vita di personaggi eminenti dell’antichità greca e romana, che contemporaneamente svolgono una funzione parenetica-esortativa e valgono come moniti. In quest’ottica, si può considerare la Medea, e in generale tutto il corpus tragicus senecano, come un grande exemplum, la cui lettura può essere affiancata al De ira per approfondire alcune tematiche, o per vedere drammatizzate e messe in movimento quelle che nella prosa filosofica erano statiche definizioni. La tragedia di cui ci occupiamo, quindi, costituisce uno straordinario repertorio fenomenologico dell’ira, che viene analizzata da un punto di vista psicologico ed emotivo, e anche una sorta di “banco di prova” per le teorie filosofiche espresse nel trattato sull’ira. Così facendo, Seneca si lascia alle spalle la riprovazione platonica per l’arte drammatica, considerata come un potenziale corruttore dell’anima in quanto sollecitatrice di passione e in quanto tendente a privilegiare il fato a scapito dell’iniziativa umana. Preferisce, piuttosto, dare vita ad un teatro etologico in cui si possono “toccare con mano” gli esiti ultimi delle passioni. In ogni caso, Seneca non è il primo filosofo stoico a interessarsi di teatro, e non sarà neanche l’ultimo. Si possono rinvenire tracce di un interesse per la drammatizzazione già nella produzione dello scolarca Cleante, che espresse in versi ameibei una sorta di “botta e risposta” tra la ragione (logismòs) e il desiderio (thumòs), in cui il secondo cerca in ogni modo di ottenere il controllo dell’anima[1]. Anche il celebre Inno a Zeus di Cleante denota un interesse e un’inclinazione per l’espressione poetica[2]. Sappiamo, inoltre, da Diogene Laerzio, che Crisippo amava infarcire le sue opere con citazioni tratte dalle tragedie, e in particolare con la Medea di Euripide, tanto da riportarla quasi per intero in un suo testo[3]. Anche Epitteto sosteneva l’utilità della tragedia al fine di “imparare a conoscere ciò che ci appartiene e ciò che non ci appartiene”[4]. Con le parole di G. Mazzoli si può sostenere che Seneca “salda etica e poetica come anelli di una sola inscindibile catena e … assegna indubbiamente all’arte una funzione pedagogica, lungi dall’ammettere un’art pour l’art. Non delectent verba nostra, sed prosint (Ep. 75,5): ecco il compito primario di chi aspiri ad essere un sapiens, cioè generis humani pedagogus (Ep. 89,13)…da moralista stoico coerente, Seneca respinge un’arte ridotta a oblectamentum sensuale”[5]. Questo stretta interdipendenza tra sfera etica e sfera estetica costituiva una cifra dello stoicismo antico, che viene sviluppata dal filosofo romano[6]. Dunque, il teatro senecano è innanzitutto utile e funzionale per la formazione morale dello spettatore.

L’intento esemplare e didascalico di questa tragedia emerge tanto più nel momento in cui la si raffronta con l’omonima opera teatrale di Euripide: tutto ciò che nel tragediografo greco è più sfumato e ambiguo viene semplificato dallo stoico romano in un drastico e violento chiaro-scuro, che fa emergere con violenta evidenza il punto di vista di Seneca. Mentre Euripide rappresenta una Medea, travagliata e combattuta, che è la prima vittima di una colpa che trascende la volontà individuale, schiacciata da una tÚch che la sovrasta, Seneca, di contro, descrive sin dall’inizio un’eroina decisa a vendicarsi, volontariamente disposta a compiere le azioni più turpi per conseguire i suoi scopi[7]. Si può fornire una dimostrazione sufficiente di questi differenti atteggiamenti semplicemente comparando i diversi esordi delle due eroine. La Medea euripidea sale sulla ribalta lamentando la propria misera condizione: “Ahimè infelice, quanto patire, quanto dolore e pianto”[8] e, poco oltre: “Ahi ahi, mi trafigga il capo folgore celeste! Perché vivere ancora? A che giova? Che io disciolga nel fiume della morte questa abbominevole vita”[9]. Ben diverso il piglio dell’eroina di Seneca, che comincia rivolgendo una preghiera alle divinità infere, nella quale si profilano già ben definite le sue intenzioni: “… Ora venitemi vicino, dee vendicatrici dei delitti (i.e. le Furie)…date la morte alla nuova sposa e la morte al suocero e alla prole del re, date a me qualcosa di più grave, una sventura che io possa augurare al mio sposo”[10]. È una donna che, per sua stessa ammissione, non perde tempo a lamentarsi invano, ma preferisce scagliarsi sui nemici senza esitare[11]. Pertanto, Seneca scoraggia in ogni modo gli atteggiamenti simpatetici del pubblico nei confronti di una fattucchiera infuriata, che da subito esprime la sua lucida e consapevole sete di vendetta; Euripide, invece, esita ad esprimere giudizi netti su una donna che compie, sì, un atto riprorevole, ma solo per esservi indotta dal colmo della sventura. Come fa notare G. Mazzoli, Seneca, “di tutta la trama che compone l’umana psicologia, … sembra nel suo teatro analizzare…solo le corde estreme: la greve pateticità, le tensioni maggiori nell’ambito di ciascuna situazione, di ciascun carattere…ogni elemento sia nel bene che nel male è ugualmente eccezionale, monoliticamente grande”[12].

Del resto, nel De ira, Seneca sostiene che “non bisogna pensare che l’ira dia un qualche contributo alla grandezza d’animo (magnitudinem animi); non è magnanimità quella, ma orgoglio (tumor)”[13]. Quindi all’eroina senecana viene negata anche l’ammirazione che si può tributare ad un gesto tragico: Medea non è grande per il fatto stesso di cedere all’ira, mentre per essere grandi occorre essere anche buoni, ovvero saldi e tetragoni alle passioni[14]. Le differenze tra i due tragediografi non si limitano a questo: anche il giudizio su Giasone è differente. Seneca ce lo presenta come un uomo di buon senso; Giasone esordisce lamentandosi per la crudeltà del fato, giustifica la sua scelta di risposarsi per mezzo dell’affetto paterno e giunge persino ad invocare la Giustizia come garante delle sue parole: “Oh destino sempre crudele e sorte aspra (O dura fata semper et sortem asperam), ugualmente sciagurata quando infuria e quando risparmia!… Se avessi voluto mantenermi fedele alla mia sposa per i suoi meriti verso di me, avrei dovuto offrire il mio capo alla morte; se non volevo morire dovevo- infelice- rinunciare alla fedeltà verso la sposa. Non la paura ha vinto la fedeltà, ma un trepidante affetto paterno: perché la prole avrebbe dovuto seguire nella morte i suoi genitori. Santa giustizia… invoco e chiamo a testimone la tua divinità”[15]. Euripide, invece, fa sentire una voce di dissenso verso l’operato di Giasone, per bocca della nutrice: “certo coi suoi egli è manifestamente malvagio”[16]. Inoltre, Seneca si sforza di conferire maggiore compattezza al dramma, in modo da renderne più efficace l’impatto sull’uditorio, eliminando alcune scene e personaggi (Egeo e il pedagogo) presenti nella tragedia di Euripide.

Dunque Seneca è più interessato a fornire un’esemplificazione paradigmatica dell’ira che non un personaggio tragico a tutto tondo, anche se ciò non significa che la sua indagine psicologica non raggiunga risultati estremamente rilevanti e profondi. Medea è una vera e propria personificazione dell’ira, quasi una prosopopea, e lo si evince confrontando, innnanzitutto, le descrizioni del suo aspetto con quelle presenti nel De ira. Una prima descrizione dei sintomi (indicia) dell’ira è all’inizio del dialogo: “tali sono i sintomi (signa) delle persone adirate: gli occhi sono ardenti e accesi (flagrant et micant oculi), in tutto il volto si diffonde un intenso rossore (rubor) poiché il sangue ribolle dal profondo del cuore, le labbra tremano, i denti si serrano, i capelli si levano ritti sul capo, il respiro è faticoso e rumoroso (spiritus coactus ac stridens), si avverte il rumore delle articolazioni che si contorcono, un gemere e un muggire (gemitus mugitusque), un parlare smozzicato (sermo praerupturus) con parole non chiaramente espresse, un frequente batter di mani e calpestio di piedi sul terreno, l’intero corpo agitato ed esprimente grandi e irose minacce, l’aspetto sconcio a vedersi e spaventoso di chi deforma i lineamenti e si gonfia di collera (horrenda facies depravantium se atque intumescentium)”[17]. Il passo testè citato concorda con la descrizione che la nutrice fornisce di Medea: “come incerta trascina i passi pieni del dio la menade, quando accolto il dio dentro di sé si dà alla follia,…, così costei corre su e giù con un movimento furioso, recando in volto i segni di una forsennata pazzia (furoris signa). Il suo volto è infiammato (flammata facies), prende fiato dal profondo (spiritum ex alto citat), urla (proclamat), riga gli occhi di abbondante pianto, ride, assume l’espressione caratteristica di ogni sentimento (omnis specimen affectus capit): esita, minaccia, si agita, si lamenta, geme (gemit)…conosciamo i segni dell’antica ira (irae novimus veteris notas)”[18]. Non è difficile dimostrare come le due descrizioni siano quasi coincidenti. In entrambi i casi, infatti, l’autore ha l’intenzione di stilare un elenco di tratti distintivi, definiti signa, indicia oppure notae, con i quali distinguere le persone adirate analizzandone il corpo e gli atteggiamenti esteriori. Molti di questi signa ricorrono in entrambe le descrizioni: gli occhi, il volto arrossato, la tendenza ad agitarsi, il respiro affannoso ecc… È importante sottolineare che non si tratta di un mero esercizio stilistico e letterario, ma di una dottrina più profonda, che vuole che il corpo sia una sorta di libro da cui si possono leggere le modificazioni fisionomiche come lettere per interpretare gli stati dell’anima[19]. Quest’idea è sicuramente connessa al monismo materialistico stoico, che attribuisce anche all’anima una consistenza materiale, definita dagli stoici antichi pneàma e tradotta in latino con il termine spiritus, un soffio vitale che alberga nel corpo: questo spiega i riferimenti al fiato e al respiro che sono diffusamente presenti in entrambi i passi. Non essendoci un dualismo mente-corpo, è naturale che, nella prospettiva stoica, esista un rapporto simpatetico tra gli eventi dell’anima e quelli del corpo: se nell’intimo soffio dell’individuo si verificano dei ribollimenti magmatici, anche il corpo, dall’esterno, sarà squassato da movimenti disarmonici. Seneca esprime chiaramente questo concetto nel passo del dialogo in cui parla dell’ira allo specchio: l’aspetto di un corpo gonfio d’ira è sconcio, ma anche il suo animo, qualora fosse visibile, non apparirebbe certo più leggiadro, e si mostrerebbe “nero, pieno di macchie, ribollente, deforme e gonfio (ater, maculosusque et aestuans et distortus et tumidus)[20]”. Ma se l’interno del corpo può influire sull’aspetto esteriore, inversamente anche l’esterno può influire sull’interno: per questo motivo il filosofo indica, come primo passo per vincere l’ira, il soffocamento dei suoi sintomi (utilizza ancora il termine signa), e il tenerla nascosta per mantenerla sotto controllo, dal momento che “brama balzar fuori e infiammare il nostro sguardo e mutare il nostro aspetto (cupit enim exilire et incendere oculos et mutare faciem)”[21]. Questo consiglio è molto simile a quelli dati inutilmente a Medea dalla nutrice: “Taci, ti scongiuro, e affida i tuoi lamenti nascosti a un segreto dolore”[22]; “fermati e reprimi la tua ira (comprimere iras), frena il tuo impeto”[23]. Significativa è anche la comparazione di Medea ad una menade: allo stesso modo in cui le donne devote a Dioniso erano invasate dal dio al punto da perdere il controllo (il tragediografo usa il termine entheos, una traslitterazione dal greco, che indica il fatto di essere riempite dalla divinità), così Medea decide di fare del suo corpo un ricettacolo per la passione dell’ira, scacciando da sé la ragione. Questa dinamica può essere approfondita con un ulteriore riferimento al De ira, in cui si dice che “la ragione non ha voce una volta che la passione è entrata in noi”[24]; l’ira viene paragonata al nemico, che deve essere respinto finchè è fuori delle mura, perché una volta entrato non lo si riesce più ad arrestare. L’economia interna dell’anima è tale che ragione (ratio) e passione (adfectus) sono condizioni dell’animo (mutatio animi)[25] mutuamente escludentisi: se si sceglie di abiurare la prima, la seconda la farà da padrona, proprio come fa il dio con le donne che gli si dedicano.

Per completezza, è bene confrontare un'altra coppia di frammenti, in cui viene ulteriormente descritto l’aspetto esteriore dell’ira: si tratta di De ira, libro II, cap. 35, par. 3 e di Medea vv. 853-861. Forse, però, non è il caso di citarli interamente, perché ripetono i signa analizzati sopra: si accenna nuovamente, in entrambi, al tumultuoso susseguirsi degli stati d’animo sul volto di chi è adirato e di Medea in particolare, dell’imporporarsi del volto e della frenesia del corpo. Nel passo della tragedia, Medea è paragonata nuovamente a una menade, ma anche a una “tigre orba dei figli (tigris orba natis)” che corre furiosa nella selva. In questo frangente, il filosofo stoico pare quasi contraddire se stesso, dal momento che nel De ira dichiara espressamente che “sbaglia chi pone a confronto con gli uomini quegli esseri che in luogo della ragione hanno l’istinto: l’uomo in luogo dell’istinto (impetus) ha la ragione (ratio)”. Superficialmente, si potrebbe ascrivere questa défaillance a una banale licenza poetica, ma dietro a questo accostamento, apparentemente anomalo, si cela qualche cosa di più profondo. In un frammento di Crisippo, si legge che “anche le fiere hanno familiarità con i loro piccoli, in ragione dei loro bisogni, tranne che nel caso dei pesci, dato che i loro piccoli sanno nutrirsi da sé”[26]. Dunque, implicitamente Seneca ci vuole comunicare che, se anche una tigre, una crudele fiera, riesce a provare pena per i suoi piccoli, allora Medea, che li uccide, deve essersi posta, sulle ali dell’ira, in una condizione ancora più turpe di quella dei bruti. L’animale, però, è giustificato per il fatto di essere infuriato, perché dispone soltanto dei propri impulsi, mentre Medea no: essa, infatti, avrebbe la possibilità di ricorrere alla ragione per frenarsi.

Tutto ciò è connesso con un sovvertimento della concezione stoica di una familiarità universale, l’oikéiosis, di cui si tratterà in seguito.

Un altro nodo da sciogliere, che accomuna le due opere, è quello inerente alla volontarietà dell’ira. Nel dialogo si legge che “l’ira non si limita a muoversi, ma arriva a correre, poiché è uno slancio aggressivo (impetus) e lo slancio aggressivo non si dà mai senza il consenso della mente (adsensu mentis), poiché non si può riflettere sulla vendetta e sul castigo senza che l’animo se ne accorga”[27]. L’intera tragedia è disseminata di affermazioni di Medea dalle quali traspare chiaramente il carattere consapevole e volontario della sua dedizione alla vendetta: “cerca una via per la vendetta… animo mio, abbandona le femminee paure… cingiti d’ira e preparati alla distruzione con tutta la furia possibile (accingere ira teque in exitium para furore toto)”[28]. In questo brano si esprimono due tendenze, entrambe esecrate da Seneca nel dialogo: l’adsensus mentis a compiere fatti nefasti e l’impiego dell’ira a scopo strumentale, come se si trattasse di un’arma da usare in battaglia (accingere è, infatti, un termine che ha valenza militare, e si trova spesso associato all’ablativo dell’arma che si indossa: per esempio accingere armis, ense significa cingersi delle armi, o della spada). L’adsensus mentis è, per Seneca, un impulso successivo all’offesa subita, che può e deve essere evitato per evitare di perdere il controllo su se stessi; non c’è quindi alcuna giustificazione per questa decisione, che viene presa scientemente: “non pensi certo che si possa attaccare o fuggire qualcosa senza l’assenso della mente”[29]. Questa concezione sembra contraddire il motto socratico secondo il quale “nessuno compie il male volontariamente”. Se non possiamo evitare di essere turbati da un’offesa in un primo momento (ictum), abbiamo però pieno controllo sul secondo momento, potendo scegliere se dare o no il nostro assenso alla reazione; il frutto di una nostra eventuale scelta sbagliata è “il terzo impulso… ormai sfrenato” che “vuole vendicarsi in ogni caso… e ha ormai debellato la ragione”[30]. Si possono leggere questi tre momenti come un’esposizione sistematizzata delle reazioni di Medea: 1. Medea subisce un’offesa che non può evitare, quella di essere ripudiata dal marito; 2. potrebbe scegliere di non vendicarsi, o almeno di non cedere all’ira, ma opta per il contrario; 3. viene completamente travolta dall’ira e uccide i suoi figli. Anche l’uso strumentale dell’ira è respinto da Seneca, in polemica con Platone (anche se egli si scaglia con Aristotele attribuendogli erroneamente la paternità di questo concetto): se l’ira è un’arma, è un’arma pericolosa anche per chi la usa, perché non è posseduta, ma possiede[31].

Ma, nel seguito della tragedia, si possono trovare altre affermazioni atte a suffragare l’assunto che l’ira è un “voluntarium animi vitium”[32]. Dopo aver prodotto l’incantesimo che distrugge tra le fiamme Creonte e la sua figlia, Medea si compiace così: “Perché, animo mio, esiti? Prosegui il tuo primo felice slancio (felicem impetum)…Cerca un genere di punizione non consueto e preparati ormai così: ogni diritto divino si ritiri, il pudore, scacciato, si allontani; è una vendetta ben lieve quella che lascia le mani pure. Gettati nell’ira (incumbe in iras), sprona te stessa, ora che sei così fiacca, e dal profondo del petto con violenza attingi l’antica foga… Ora sono la vera Medea; il mio ingegno è cresciuto passando attraverso ogni dolore”[33]. In questo passo assistiamo ad un’autoesortazione della maga, che sceglie di consacrarsi interamente alla vendetta. Nonostante questa risolutezza, Medea non può fare a meno di esitare, davanti al sacrificio della vita dei suoi figli, ma si tratta soltanto di un attimo, perché l’ira, ormai saldamente insediatasi nel suo animo, non può più essere trattenuta[34].

Il discorso filosofico passa poi a considerare i nessi intercorrenti tra l’ira e la crudeltà: la prima, qualora venga reiterata, sfocia inevitabilmente nella seconda e l’impulso vendicativo si trasforma in piacere gratuito per la sofferenza altrui. Seneca sostiene che la crudeltà (feritas/crudelitas) “ha origine dall’ira, la quale, quando giunge attraverso il continuo esercizio e la sazietà a dimenticare la clemenza e caccia dall’animo ogni umano patto, da ultimo si trasforma in crudeltà”[35]. Anche questa tesi è fedelmente rispecchiata dal testo teatrale, allorchè Medea afferma lapidariamente che “il frutto dei delitti è non considerare niente più un delitto (fructus est scelerum tibi nullum scelus putare)”[36]. E la stessa maga non fa mistero del suo provare piacere nel compiere i delitti: “Mi piace, mi piace aver strappato la testa di mio fratello, mi piace aver sezionato le sue membra…” Dunque, Seneca non esita a rappresentare i meandri di una psiche turbata, approfondendone anche i risvolti più macabri e oscuri.

Tuttavia, l’ira di Medea non si arresta alla crudeltà, ma giunge alla pazzia. Nel De ira ci sono riferimenti precisi a riguardo: “non c’è strada che porti più spedita alla follia (insaniam). Molti dall’ira passarono alla pazzia (furorem), e non recuperarono più il senno (mentem)che avevano cacciato” e proprio di seguito si cita il caso di Aiace, un altro eroe tragico[37] oppure “definisce qualcuno sano di mente (sanum) costui che, come travolto da una bufera, non avanza, ma è sospinto e si fa schiavo d’una malattia furiosa… assassino delle persone più care?”[38]. Un passo della Medea sembra riprendere da vicino quest’ultima affermazione: “Incerta, forsennata, dalla mia mente folle sono trascinata per ogni dove (mente non sana feror partes in omnes)”[39].

Medea rappresenta, per molti aspetti, un’immagine rovesciata dell’imperturbabile saggio stoico. In primo luogo, è una donna, e per il filosofo romano le donne sono particolarmente inclini all’errore e ad essere travolte dalle passioni[40]. In secondo luogo, le sue stesse modalità espressive sono ben lungi dall’essere apodittiche. Gli spunti dialogici sono limitati, perché Seneca, non è tanto interessato al meccanismo drammatico quanto, piuttosto, a trovare l’occasione per esprimere dei temi. In questo modo, Medea si esprime o per mezzo di lunghe preghiere e incantesimi rivolti a divinità infere, o per mezzo di sticomitie, cioè battute di un solo verso, e addirittura di emisticomitie, battute che occupano mezzo verso soltanto, che danno al testo un andamento di “botta e risposta” estremamente concitato. Infine, Medea sfoga la sua ira in modo irrazionale.

Nel De ira Seneca compila una sorta di lista di cose sulle quali non è bene, oppure è inutile, riversare la propria ira, perché si tratta di elementi incapaci di recare offesa. Gli oggetti elencati sono, nell’ordine: le cose inanimate (quaedam sine sensu sunt), i muti animali (mutis animalibus), i ragazzi (pueris) e gli dei immortali (di inmortales)[41]. Medea investe con la propria ira gli ultimi due elementi, e nel fare ciò, in qualche modo, sovverte due capisaldi della filosofia stoica.

L’omicidio dei propri figli, oltre ad essere totalmente ingiustificato perché coinvolge individui in cui “la sconsideratezza (inprudentiam) ha valore di innocenza (innocentia)”[42], è un gesto che va contro natura, perché contraddice il sentimento di oikéiosis che accomuna i genitori e i figli. È problematico fornire una traduzione del termine greco, ma, sulla scorta della sua affinità con il termine oikìa, casa, possiamo esprimerlo come un sentimento di solidariètà e comunità che lega tutti gli uomini tra loro. Un passo del De finibus bonorum et malorum di Cicerone espone come l’amore filiale costituisca la premessa, l’incipit, di ogni relazione sociale umana: “…per natura i figli siano amati dai genitori: del resto, proprio da qui trae le sue origini quella comunità umana in senso generale (communem humani generis societatem)…è evidente che la natura ci costringe … ad amare quelli che abbiamo generato”[43]. Dunque, Medea si scaglia contro il fondamento stesso della società e, dal momento che questo fondamento ha basi naturali, si mette anche in contrasto con la “natura”, la legge razionale che regge l’universo. Tutto ciò è simbolicamente espresso in un passo della tragedia senecana, in cui Medea proclama di aver sovvertito il susseguirsi naturale delle stagioni[44]. Ma mutare il corso della natura, è, agli occhi del filosofo stoico, un gesto non solo insensato, perché “non siamo noi il motivo per cui l’universo ripropone l’inverno e l’estate: questi fenomeni hanno le loro leggi, mediante le quali si realizza il volere divino”[45]. Quindi, il gesto magico che porta Medea a sostituirsi all’ordine del cosmo è un gesto di tracotanza, di ubrij, che è molto vicino all’empietà. La scelta di Medea si inquadra perfettamente nel contesto della magia, che spesso fa ricorso ad un vero e proprio sovvertimento del mondo, pretendendo di imporre una volontà umana a cose che invece sono organizzate da una più alta razionalità, cercando di inserire delle modificazioni strutturali (per esempio “tirare giù il cielo”) in un assetto naturale già perfetto di per sè. La magia cerca di costringere le potenze sovrumane, ponendo l’uomo, in qualche modo, al loro livello. Sulla base di una pretesa e ricercata communio loquendi cum diis, una familiarità con il mondo divino, il mago nell’antichità tendeva, infatti, ad estromettersi dal consesso umano, come si evince dagli stessi rituali, che non sono comunitari, come nel caso della religione ufficiale, bensì individuali, ed hanno per unico referente le divinità. Questa tendenza può essere riscontrata agevolmente nella Medea di Seneca, che spesso invoca le divinità infere per ottenerne i favori. La magia, inoltre, tendeva ad assecondare le passioni, anziché sopirle: ci si rivolgeva ad un mago per ottenere vendetta, o per assecondare la propria lussuria, o per ottenere beni materiali… tutte aspirazioni estranee ad una prospettiva stoica. Per avere testimonianza di questa tendenza, è sufficiente vagliare l’impressionante numero di defixiones pervenuteci, delle lamine di piombo recanti l’incisione di un incantesimo, e spesso nascoste nella tomba di qualche deceduto di morte prematura o violenta[46]. In esse si vede dispiegarsi un intero repertorio di ambizioni represse e di passioni esacerbate. 

Non a caso, questo ribellarsi al lògos immanente nel mondo ha un’ulteriore espressione nel secondo oggetto dell’ira della maga, gli dei. L’empia attitudine di Medea è attestata in ben due passi della tragedia. Dapprima la donna si esorta ad assalire gli dei e a far tremare ogni cosa (invadam deos et cuncta quatiam)[47], e poco oltre anche la nutrice ne fornisce conferma: “L’ho vista spesso…assalire gli dei (aggressam deos), trascinando giù il cielo (caelum trahentem)”[48]. L’empietà di Medea trova riscontro, nel De ira, nel gesto di Caligola, che durante un banchetto giunge a sfidare Zeus a duello[49]. Il filosofo si dissocia risolutamente da tali gesti, ma la spiegazione fornita in questo dialogo non è particolarmente esaustiva, in quanto egli si limita a dirci che gli dei “né vogliono, né possono fare il male; la loro natura è mite e tranquilla, tanto lontana dall’offendere gli altri quanto dall’offendere se stessa”[50]. Si possono ottenere lumi più precisi circa l’atteggiamento da mantenere nei confronti degli dei consultando l’Epistola 95, in cui si afferma che gli dei “signoreggiano il mondo e lo governano con la loro potenza, che hanno cura di tutti gli uomini, benchè talora trascurino i singoli”[51]. Seneca mutua dagli stoici antichi, e in particolare da Crisippo, l’idea che il Fato e il destino siano dati da un intreccio irreversibile di cause, che costituisce l’ordine naturale e necessario di tutte le cose. Come ben sintetizza G. Reale, “tutto è come la ragione vuole che sia e come non può non volere che sia”[52]. Dunque, Fato e Provvidenza sono la stessa cosa. Ma, a differenza degli stoici antichi, Seneca non assume una posizione antropocentrica: l’uomo non è il perno su cui ruota l’universo, pertanto deve adattarsi all’ordine delle cose e accettare anche le catastrofi naturali, invece di aspirare al dominio su tutto. Ancora una volta, Medea fa l’esatto contrario di ciò che è opportuno: bestemmiare gli dei è un gesto che sussume in sé la ribellione alla Provvidenza, mentre l’unica soluzione plausibile, di fronte ad una sorte avversa, è “pati et necessitatibus suis obsequi”, sopportare e obbedire al proprio destino[53]. Può essere interessante notare che tale gesto è connaturato alla natura stessa di maga: è noto da fonti letterarie e papiracee che nel mondo greco e romano esistevano una serie di rituali, chiamati generalmente diabolai o anche lògoi epànankoi (discorsi che costringono), che consistevano nel “forzare la mano” alla divinità, inducendola a manifestarsi per mezzo di ingiurie[54]. Il mago cerca di esercitare una coercizione laddove Seneca incita ad accettare semplicemente il fato, perché non vi può essere niente di meglio per noi. Se tutto è predisposto dalla divinità, non c’è spazio per la riottosità magica: fata volentem ducunt, nolentem trahunt. Tuttavia, anche in seno al razionalismo stoico erano presenti i germi di un atteggiamento tradizionalmente ritenuto magico e soprannaturale: la divinazione, definita da Crisippo come “la capacità di interpretare, riconoscere e spiegare i segni che gli dei mandano agli uomini. Il suo compito è quello di fare previsioni sulle intenzioni degli dei, sugli uomini e sul loro significato, al fine di scongiurarli e di renderli innocui”[55]. La possibilità di questa operazione viene considerata come un diretto conseguente dall’esistenza degli dei: “se gli dei esistono, esiste la divinazione; ma gli dei esistono, dunque c’è la divinazione”[56]. Il processo divinatorio si poteva ottenere o per via naturale (per mezzo dei sogni) o per via artificiale, in modi molteplici, tra cui ricordiamo l’aruspicina (manipolazione dei visceri degli animali), la mantica augurale che si concentrava sul volo degli uccelli… Alla radice di tutte queste forme, tuttavia, c’è l’idea di una simpatia cosmica (aliqua in natura rerum contagio)[57]. Se il destino è dato dallo snodarsi di una serie di cause, all’uomo è data la possibilità di indagarne le connessioni e le articolazioni: così, la screpolatura nel fegato di un topo può essere connessa con il ritrovamento di un tesoro[58]. A questo punto, però, ci si imbatte in un’empasse logica: da un lato abbiamo un succedersi indefettibile di cause, che coincidono con un ordine provvidenziale e che per questo sono immodificabili e indefettibili (a questo proposito Crisippo amava citare Omero, quando afferma “Dico che nessun uomo riesce a sfuggire alla Moira”[59]), dall’altro vediamo profilarsi la possibilità di un intervento umano, per mezzo della divinazione. Si tratta di un problema particolarmente difficile da risolvere, perché tocca da vicino il rapporto tra libertà e necessità, che da sempre travaglia la speculazione filosofica. Per lo stesso Crisippo non è agevole trovare una soluzione univoca. È interessante rilevare, però, che, considerando lo status quaestionis, egli si trovi a dover trarre degli esempi dalla produzione tragica, e in particolare dall’Edipo di Sofocle. Edipo e Alessandro figlio di Priamo (che impalmò Elena dando origine alla guerra di Troia) non poterono essere uccisi, malgrado tutti i tentativi operati dai loro genitori, che cercavano di scansare le disgrazie predette loro dagli oracoli. Di fronte a questa casistica, Crisippo si vide costretto a concludere che “l’essere stati preavvertiti del male futuro non fu per loro di alcuna utilità, perché la causa dipendeva dal destino”[60]. Si può dire, di conseguenza, che una notevole differenza separa la divinazione magica tradizionale da quella interpretata dagli stoici: nel primo caso si mira ad ottenere una modificazione del corso degli eventi futuri, nel secondo caso, invece, ci si limita ad una semplice constatazione dei medesimi. In Crisippo, tuttavia, alla divinazione viene riconosciuto anche un carattere di utilità, a scopi morali e pratici: “è falso dire che all’uomo non interessa conoscere quello che sarà perché, se ne fossimo a conoscenza, saremmo anche più prudenti (erimus enim cautiores, si sciemus)”[61]. Quindi, la divinazione serve per essere preparati ed evitare, così, di essere turbati da eventi imprevisti. Si tratta, in ogni caso, di una divinazione profondamente razionalizzata e depurata dalle superstizioni, con motivazioni risalenti ad una concezione fisica di un universo in cui tutto è connesso con tutto, e da cui viene cancellato quasi ogni riferimento alla trascendenza del divino.

La testimonianza citata è doppiamente utile in quanto, oltre a fornire informazioni sul piano speculativo, offre un’ulteriore conferma di una tesi enunciata in apertura, secondo la quale, per i filosofi stoici e per Seneca e Crisippo in particolare, filosofia e teatro non sono due settori impermeabili, anzi, spesso concorrono e si sostengono l’una con l’altro.

Ma torniamo alla tragedia di Seneca: l’opposizione di Medea agli dei non potrebbe essere testimoniata in modo più eclatante che nel grido finale indirizzatole da Giasone, mentre sta per dipartirsi sul carro: “Va’ per gli alti spazi dell’eccelso etere; testimonia che per dove tu passi, non ci sono dei (Per alta vade spatia sublimi aetheris, testare nullos esse, qua veheris, deos)”[62]. Questa chiusura, così sconcertante da impressionare anche un eminente lettore come T. S. Eliot[63], viene raffinatamente commentata da M. Nussbaum, che scrive: “lo shock risulta… ancora più forte all’interno di una concezione stoica del mondo. Perché in essa dio è ovunque. Nell’universo non c’è spazio che non sia abitato dalla ragione divina. Non importa dove Medea stia andando, la sua rabbia e il suo amore verranno giudicati come male in riferimento al volere di dio, che sarebbe come dire alla perfetta virtù morale. Tutto l’universo viene moralizzato, e ogni cosa dev’essere o buona o cattiva; se non è buona, allora è per forza cattiva”[64]. L’autrice prosegue, addirittura, accostando l’operato di Medea a una volontà nietzschiana di porsi al di là del bene e del male, ma si tratta, a mio modesto parere, di un’attualizzazione un po’ troppo rischiosa e travisante, perché tenui davvero sono le trame che uniscono questi due filosofi.

Al termine di questa esposizione, si può affermare che il De ira e la Medea di Seneca sono due opere che non si possono considerare l’una indipendente dall’altra, perché si tratta di due approcci alla problematica dell’ira, diversi nello stile letterario ma non, sostanzialmente, nel contenuto.



[1] Cfr. Stoici Antichi, Tutti i frammenti. Secondo la raccolta di Hans von Arnim., a cura di R. Radice, Bompiani, Milano, 2002, SVF I, 570, Galenus de Hipp. Et Plat. Plac V 6

[2] Cfr. Stoici Antichi, Tutti i frammenti. Op.cit, SVF I, 537, Stobaeus Ecl. I 1, 12

[3] Cfr. Stoici Antichi, Tutti i frammenti. Op.cit, SVF II, 1, Diog. Laert. VII 179

[4] G. Reale, La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima, Bompiani, Milano, 2003, p. 177

[5] G. Mazzoli, Seneca e la poesia, Meschina, Milano, 1970., pp. 26-27.

[6] Ivi, p. 35.

[7] Una terza e interessante rappresentazione di Medea ci è stata fornita da Ovidio. Questo poeta fa una scelta diversa sia da Seneca che da Euripide: la sua eroina non è né esasperata dall’ira né eccessivamente travagliata. Si tratta di una Medea più femminile, quasi immersa nella quotidianità, che rivendica, nei confronti del “perfidus Iason” i valori della fides, della fedeltà. Di grande bellezza e delicatezza sono i versi in cui la donna descrive il suo innamoramento per Giasone: “et formosus eras, et me mea fata trahebant/ abstulerant oculi lumina nostra tui”. Ben difficilmente si riesce ad immaginare la Medea di Seneca intenta a pronunciare parole così soffuse di tenerezza e nostalgia! L’eroina senecana, nel suo diventare immagine dell’ira, ha perso, oltre alla ragione, anche gran parte della sua femminilità. Cfr. Ovidio, Heroides. Lettere di eroine, Mondadori, Milano, 1994, pp. 108-119.

[8] Euripide, Medea, a cura di M. Valgimigli, Bur, Milano, 1982, vv 111-113.

[9] Ivi, vv. 144-147.

[10] Seneca, Medea, a cura di G. Giardina, Utet, Torino, 1987, vv. 13-20.

[11] Ivi, vv. 26-27.

[12] G. Mazzoli, op. cit., pp. 135-136

[13] Seneca, L’ira, a cura di C. Ricci, Bur, Milano, 1998, Libro I, cap.20 par. 1

[14] Cfr Ibidem, cap 20, par 6

[15] Ivi, vv. 431-441

[16] Euripide, Medea, cit., v 84.

[17] Seneca, L’ira, cit., Libro I, cap.2 par. 4

[18] Seneca, Medea, cit., vv382-394

[19] Cfr. L. Repici, lezione del 16/03/06.

[20] Seneca, L’ira, cit., Libro II, cap.36 par. 2

[21] Ivi, Libro III, cap.13 par. 2

[22] Seneca, Medea, cit., vv 150-151

[23] Ivi, vv. 381

[24] Seneca, L’ira, cit., Libro I, cap.8 par. 1 e 2

[25] Ibidem

[26] Cfr. Stoici Antichi, Tutti i frammenti. Op.cit, SVF II, 724, Plutarchus

[27] Ivi, Libro II, cap.3 par. 5

[28] Seneca, Medea, cit., vv. 40-52

[29] Seneca, L’ira, cit., Libro II, cap.3 par. 5

[30] Ivi, Libro II, cap.4 par. 1

[31] Cfr. Ivi, Libro I, cap.17-19

[32] Ivi, Libro II, cap.2 par. 2

[33] Seneca, Medea, cit., vv. 890-910

[34] Cfr. ivi, vv. 927-930

[35] Seneca, L’ira, cit., Libro II, cap.5 par. 3

[36] Seneca, Medea, cit, vv. 563-564

[37] Seneca, L’ira, cit., Libro II, cap.36 par. 5

[38] Ivi, Libro III, cap.3 par. 3

[39] Seneca, Medea, cit., vv. 123-124

[40] Cfr. Seneca, L’ira, cit., Libro I, cap.20 par. 3 “L’ira è un difetto tipico delle donne e dei bimbi” e ivi, Libro II, cap.30 par. 1 “Mulier est: errat”

[41] Cfr. Cfr. Seneca, L’ira, cit., Libro II, cap.26

[42] Ibidem

[43] Stoici Antichi, Tutti i frammenti. Op. cit.SVF III, fr. 342, Cicero de finibus III 62.

[44] Seneca, Medea, cit., vv. 759

[45] Cfr. Cfr. Seneca, L’ira, cit., Libro II, cap.27, par 2

[46] cfr. F. Graf, op. Cit., cap 5.

[47] Seneca, Medea, cit.,vv. 423-424

[48] Ivi, vv. 673-674

[49] Seneca, L’ira, cit., Libro I, cap.20 par. 8

[50] Ivi, Libro II, cap.27 par. 1

[51] Seneca, Lettere a Lucilio, a cura di E. De Negri, Fabbri Editori, Milano, 1996, Ep. 95.

[52] G. Reale, La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima, Bompiani, Milano, 2003, p. 115

[53] Seneca, L’ira, cit., Libro III, cap.16 par. 1

[54] F. Graf, La magia nel mondo antico, Laterza, Bari, 1995, p.175

[55] Stoici Antichi, Tutti i frammenti. Op. cit.SVF II, fr. 1189, Cicero de divin II 63, 130.

[56] Ivi, SVF fr. 1193 Cicero de divin. II, 41. Da notare come la formulazione ricalchi la struttura del primo tipo di ragionamenti anapodittici (se p, allora q, ma p, dunque q)

[57] Cfr. ivi, SVF 1211, Cicero de divin. II 33.

[58] Ibidem.

[59] Ivi, SVF 925, Diogenianus apud Eusebium praep evang VI p 261 c

[60] Ivi, SVF II, fr. 939 Diogenianus apud Eusebium praep evang IV 3 p. 136

[61] Ivi, SVF II fr. 1192, Cicero de divin. I, 38, 82

[62] Seneca, Medea, cit., vv. 1026-1027.

[63] Cfr. G. Reale, op. cit., p.181

[64] Citato ibidem.

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