La provocazione dell’assurdo. Weischedel e Camus

di Francesco Paolella

 

 

 

   L’opera più nota di Wilhelm Weischedel (1905-1975) è, senza alcun dubbio, Il Dio dei filosofi, tre volumi editi in Germania tra il 1971 ed il 1972. In essi il filosofo tedesco, allievo di Martin Heidegger, studia la possibilità di una teologia filosofica nell’epoca del nichilismo. Il nostro tempo è il tempo del nichilismo. Questa la convinzione che più di tutte ha caratterizzato la vasta produzione di Weischedel, che lo ha spinto a vagliarne le cause e ad approfondirne le conseguenze, anzitutto sul piano etico. All’origine del nichilismo attuale, dal quale non si può prescindere se si vuole continuare a filosofare seriamente, Weischedel individua un percorso spirituale che affonda le sue radici fin nelle origini della filosofia stessa e che si è sviluppato nei secoli, talvolta palesemente, talvolta in modo sotterraneo, e che oggi tende al dominio assoluto. Ci si riferisce qui alla scepsi, intesa non solo e non tanto come corrente filosofica storicamente determinata, ma come fondamentale atteggiamento dell’uomo verso la realtà tutta. Non che ogni dubbio sia di per sé filosofia. La filosofia è intesa da Weischedel come «interrogare radicale», frutto di una decisione esistenziale da parte di chi filosofa, decisione totale, esistenziale proprio nel senso che coinvolge dalle fondamenta tutta l’esistenza. Parlare di decisione non deve, però, trarre in inganno: la problematicità della realtà non nasce dalla volontà di chi interroga, ma è l’interrogazione a porre le domande proprio a partire dalle esperienze della problematicità dell’esistenza.

   La filosofia è decidersi a «reagire» alle provocazioni della realtà, è interrogare sull’essere e sul senso dell’essere. Si tratta di un interrogare radicale, appunto, nel senso che non può lasciare campi sottratti all’indagine. Il termine «ragione» non è che una diversa denominazione dell’interrogare radicale. L’assurdo che investe l’uomo è lo stimolo alla filosofia. Il filosofare sradica da ogni immediatezza. L’esistere di chi filosofa è «determinato in ogni risvolto dalla seria accettazione della problematicità radicale. In questo modo chi fa filosofia si allontana dalla realtà. Di fronte a tutto ciò che esiste si stende per così dire un velo formato da nient’altro che dall’idea della problematicità»[1]. Applicarsi nella filosofia comporta un distacco dalla realtà. L’uomo è «un essere della distanza, del distacco dall’altro essente, da altri suoi simili e persino da se stesso»[2].

   Decidersi per la filosofia non è che la radicalizzazione del comune interrogare umano. La filosofia non è un compito per tutti. Non v’è necessità all’origine del filosofare. Alla base dell’atteggiamento dell’interrogare radicale vi è una decisione, una risoluzione continuamente rinnovata. Weischedel la chiama «decisione filosofica fondamentale». Il domandare della filosofia significa «non lasciare qualcosa così come appare immediatamente, ma chiedersi se sia veramente così come appare. La domanda specificamente filosofica suona di conseguenza: che cos’è questo o quello in verità?»[3]. Nessuna risposta può far tacere l’interrogare radicale. Esso è alla continua, intensa, ricerca di una verità, ma, allo stesso tempo, non può accontentarsi di alcuna verità acquisita[4]. In questo senso, l’interrogare radicale è scetticismo. Weischedel stesso comprende i rischi legati a questa definizione. E’ lui stesso il primo a distinguere tra l’interrogare radicale ed il semplice gioco disimpegnato dello scetticismo, inutile dubitare.

   L’interrogare radicale non è per Weischedel una delle possibili concezioni della filosofia. Ciò non vuol significare che tutta la storia del pensiero filosofico possa ridursi a storia dello scetticismo. «Io penso però [...] che la definizione del filosofare come interrogare radicale sia la necessaria conseguenza della storia della filosofia fino ad oggi, e che essa conduca la filosofia alla sua essenza più profonda»[5].

   Scetticismo, nichilismo, problematicità radicale: sono queste le parole chiave del pensiero weischedeliano. Questo intervento avrà, come primo obiettivo, quello di illustrare le concezioni di scetticismo e nichilismo definite dal filosofo di Francoforte. Nel paragrafo seguente, la discussione verterà sul percorso di Weischedel dall’esperienza fondamentale della filosofia – quella della problematicità radicale – fino alla consapevolezza della presenza ineliminabile del mistero ed alla possibilità di una rifondata teologia filosofica. Infine, l’obiettivo sarà quello di tentare, prendendo spunto da alcune notazioni dello stesso Weischedel, un accostamento tra la filosofia di weischedeliana e la concezione camusiana dell’assurdo, così come emerge da Le mythe de Sisyphe.

 

Scetticismo e nichilismo in Weischedel.

 

   Sia ne Il problema di Dio nel pensiero scettico, sia in Etica scettica, gli ultimi due saggi di Weischedel tradotti in italiano, possiamo leggere due ricostruzioni della storia dello scetticismo. Anzitutto, il Nostro distingue tra una definizione in senso stretto, storiografico, di scetticismo ed una, che dà conto più di un modo di pensare che di una scuola o di una corrente. In quest’ultimo senso, il significato fondamentale di scetticismo è «guardare intorno scrutando», è riflessione critica, vaglio critico di ciò che appare. Ripercorrendo la storia della scepsi, dall’età antica e passando per Montaigne, Pascal, Descartes, Hume e Kant, Weischedel giunge ad Hegel. Non che si possano ricondurre tutte le filosofie moderne allo scetticismo, ma ciò non toglie che elementi scettici vi si possano ritrovare. In particolare, è interessante vedere come il Nostro pensa il rapporto tra l’hegelismo e la scepsi. Hegel «paga sì il suo tributo allo scetticismo, ma non lo comprende come un modo autonomo di far filosofia, bensì solo come il presupposto – per altro necessario – del filosofare»[6]. Hegel assorbe lo scetticismo nella vera filosofia, perché esso permette di mettere in questione l’apparente certezza del finito, in vista della conciliazione finale del finito con l’infinito. Lo scetticismo è il primo gradino di un autentico filosofare. Non ci si può però fermare a questo livello. La scepsi deve trascendersi e giungere a maturazione[7].

   «Il pensiero scettico non giunge dunque con Hegel a pieno sviluppo. Non ancora [...] è posto in moto e già viene neutralizzato: assunto e trasceso in quel sapere assoluto che impronta di sé tutta la filosofia di Hegel»[8]. Dopo la morte di Hegel, entra in crisi il modello della metafisica assoluta. E’ un contesto più che mai favorevole all’instaurarsi di una nuova epoca scettica. Lo scetticismo, «non più costretto entro i ceppi di una filosofia assoluta, potrà ora realizzarsi nella sua autentica natura e liberamente dispiegarsi»[9]. L’avvento della filosofia di Nietzsche coincide per Weischedel con la manifestazione dello scetticismo autentico. Nietzsche non fa che constatare che il pensiero del suo tempo è pensiero segnato dallo scetticismo. Ma in Nietzsche lo scetticismo non rappresenta la fine del processo. Per Nietzsche, gli scettici credono pur sempre nell’esistenza di una verità assoluta, anche se essa non risulta essere conoscibile. «Questo svilimento dello scetticismo non induce tuttavia Nietzsche a svicolare in un’affermazione positiva. Per lui non è che ci sia troppo scetticismo, bensì ce n’è troppo poco»[10]. Nietzsche critica ogni scetticismo che non si elevi a nichilismo[11]. «Il nichilismo è per Nietzsche una radicalizzazione dello scetticismo, in quanto non si limita a mettere in dubbio la possibilità della verità, ma la nega recisamente»[12].

   Il riferimento a Nietzsche e al nichilismo è particolarmente significativo proprio per la concezione weischedeliana della filosofia come interrogare radicale e scetticismo.

 Questi sono per Weischedel i caratteri essenziali dello scetticismo:

 

   1. lo scetticismo è quella concezione filosofica, cui – ad un approfondito esame critico, tutto appare in grado maggiore o minore problematico.

2. Lo scetticismo è contraddistinto da una fondamentale sfiducia nella capacità del conoscere umano di giungere alla verità e alla certezza.

3. Lo scetticismo può presentarsi in forme più o meno conseguenti.

4. Lo scetticismo può intendere se stesso come necessario punto di partenza e di passaggio del filosofare, anche però come suo punto di arrivo.

5. Quanto più la filosofia si avvicina al presente, tanto più lo scetticismo si afferma nella sua autenticità e radicalità in contrapposizione ad ogni metafisica.

6. La situazione attuale della filosofia è caratterizzata dal fatto che lo scetticismo – proprio per il suo intendere il filosofare come problematizzare, e per il suo portare alle estreme conseguenze questo pensiero – tende al dominio assoluto[13].

 

   Oggi lo scetticismo tende, dunque, al dominio assoluto. Chiunque voglia affrontare la filosofia non può prescinderne. Lo scetticismo non s’impone soltanto nella filosofia in senso stretto, ma nelle manifestazioni più diverse dell’agire e della creatività umane (dall’arte alla politica, dall’economia alla scienza). «Mancanza di orientamento, perdita di valori riconosciuti come certi sono fenomeni sempre più universalmente diffusi»[14]. In particolare, Weischedel si interessa della cosiddetta «perdita di valori», tentando di conciliare etica e scetticismo, proponendo un’etica che non si fondi su una fede positiva o su una metafisica.

   La crisi dei valori tradizionali accompagna il cammino dello scetticismo imperante. Dicendo «Dio è morto», il nichilismo, radicalizzazione dello scetticismo, diventa un fatto compiuto. Non potendo ignorare lo scetticismo, né vincerlo dall’esterno, poiché ogni confutazione dovrà comunque affrontare l’interrogare radicale, alla filosofia non resta dunque che assumerlo radicalmente con tutte le sue conseguenze. Weischedel, però, è ben lungi dall’affermare che il nichilismo demolitore risulti essere una fatalità per il pensiero contemporaneo. Non esiste solo il nichilismo che nega ogni essere tout court, dogmaticamente. Il nichilismo dogmatico rappresenta, in un certo senso, un tradimento dello scetticismo, inteso come interrogare radicale. Se è vero che il nichilismo rappresenta un momento necessario nella storia dello spirito europeo, esso non deve essere considerato come l’esito più autentico dello scetticismo, inteso come «autentico movente della storia del pensiero»[15].

   Certo è che il nichilismo dogmatico non può essere confutato razionalmente. «Una confutazione sufficiente potrebbe avvenire [...] solo in modo indiretto, se venisse cioè dimostrata l’esistenza, per lui schiacciante, di un senso incondizionato»[16]. Ancora, il nichilismo dogmatico non risulta confutato anche se si utilizza il classico argomento, utilizzato contro gli scettici. Se il nichilista afferma che non esiste alcun senso incondizionato, egli affermerebbe comunque un’affermazione sensata. Sarebbe, in altri termini, auto-contraddittorio. Il nichilista, però, può associare la sua stessa affermazione alla generale assenza di senso, dicendo che tutto è insensato, anche il fatto che la stessa asserzione sull’insensatezza venga pronunciata. D’altra parte, il nichilismo dogmatico non è neppure dimostrabile.

 

   Questo nichilismo dogmatico è tuttavia altrettanto poco dimostrabile quanto l’opposta tesi dell’esistenza di un senso incondizionato. Nessuna scepsi per giunta così radicale può fornire un argomento positivo per la necessità della sua accettazione, che lo possa rendere una sicura e fondata posizione cosmogonica. Potrebbe essere addotta tutt’al più una prova indiretta, partendo dall’inesistenza di un senso incondizionato. Ma ciò presupporrebbe che questa stessa inesistenza venga dimostrata valida»[17].

 

   Volendo riassumere la sua posizione sul nichilismo, Weischedel afferma: «Superamento del nichilismo significa: trovare un atteggiamento che non ne violi i diritti ma senza caderne vittima»[18]. L’obiettivo è quello di privare il nichilismo del suo carattere più angustamente dogmatico, trasformandolo in nichilismo aperto. Il nichilismo aperto si collega direttamente allo scetticismo, inteso come interrogare radicale. Lo scetticismo stesso «non può certo irrigidirsi su una posizione scettica, come fosse una base sicura: in tal caso verrebbe ad essere solo una nuova forma negativa di dogmatismo»[19]. Lo scetticismo non può irrigidirsi fino a trasformarsi in nichilismo dogmatico, non può affermare, se vuole conservarsi coerente con se stesso, che niente esiste. Lo scetticismo non può che rimanere indeciso se qualcosa esiste oppure no. Ma possiamo davvero pensare – si chiede Weischedel – che niente esiste? Né l’io, né il mondo esistono?

 

   Questa radicale e totale negazione dell’essere – se ben si guarda – non è possibile. Posto anche che non solo tutto ciò che mi appare, ma me stesso io posso vedere come niente – resta, incontrovertibile, la realtà di quel processo del problematizzare radicale in forza del quale è appunto possibile che quanto sembra essere mi appaia nulla. In questo processo della problematizzazione radicale tutto precipita nell’incertezza e nella problematicità: tutto può essere e può non essere. Però l’atto dello scettico, in virtù del quale avviene quel precipitare nell’assoluta incertezza permane come certezza ultima. Se anche questa si volesse porre in dubbio, allora cesserebbe il processo stesso del porre in dubbio, processo che, se deve esserci uno scetticismo radicale, deve pur restare in atto[20].

 

   La problematicità si fonda su se stessa. «Non si può dubitare che qualcosa di reale esista»[21]. La funzione antimetafisica del nichilismo non può trascendere in un antitetico, ma speculare dogmatismo. Lo stesso Weischedel riconosce l’apparente conformità fra la sua difesa di uno scetticismo aperto e il procedimento adottato da Descartes per superare la scepsi. Per il filosofo francese in ogni dubitare non si può dubitare dell’io che dubita. «Eppure c’è una differenza. Nel processo problematizzante [...] quel che si sottrae al dubbio non è l’io, perché anche l’io è andato, nella radicale problematicità, sommerso: è il processo problematizzante in quanto tale»[22].

   In sintesi, lo scetticismo deve conservarsi nella posizione più difficile di tutte, in una non-posizione, oscillante fra gli estremi dogmatici dell’affermazione e della negazione. Di più, non si può negare che l’interrogare radicale di Weischedel non agisca nel nulla. Esso nasce, pur con un forte dubbio sulle capacità umane, nell’attesa di una risposta. Non si pone come inutile interrogare a vuoto. Weischedel non elimina, perché lo stesso scetticismo non glielo permette, uno sfondo di senso. Eppure, «l’interrogare esperisce, attuandosi, il continuo sfracello delle risposte: proprio per questo si trasforma in scetticismo radicale. Esserne capace e non soccombervi è, sul piano del pensiero, il compito che essenzialmente si pone all’uomo contemporaneo»[23].

 

L’interrogare radicale e il mistero.

 

   Weischedel individua due ambiti distinti, ma in fin dei conti convergenti, in cui si manifesta il nichilismo: il problema dell’essere ed il problema del senso. Due sono le tesi che risultano dall’irruzione del nichilismo in questi campi: non esiste alcun essere, non esiste alcun senso. A queste formule corrispondono due diverse definizioni di nichilismo: ontologico e noologico. Queste due forme di nichilismo convergono anche in un altro punto: nel problema della verità.

 

   In entrambe viene messo in dubbio se quanto si pensa e si dice su essere e senso sia vero. Anzi, nel nichilismo vero e proprio viene affermata la falsità di tutto ciò: Una tesi dice: nell’essere non sussiste alcuna verità; in verità non c’è alcun essere. L’altra tesi sostiene: nel senso non sussiste alcuna verità; in verità non c’è alcun senso. E questo in generale significa: non c’è in assoluto verità alcuna. In questo senso nell’ambito della verità il nichilismo viene a coincidere con lo scetticismo dogmatico[24].

 

   Questa forma di nichilismo non può soddisfare l’interrogare radicale. Allo stesso modo, né il nichilismo ontologico, né quello noologico lo possono. Weischedel vede il problema del senso come una vera e propria urgenza per l’esistenza attuale rispetto al problema dell’essere. «Che senso ha l’esistenza dell’uomo in generale? Che senso ha l’essere del mondo? C’è un senso assoluto in o sopra di tutta la realtà? Tutti questi problemi ottengono nel nichilismo noologico una risposta puramente negativa, dogmatica: non c’è alcun senso siffatto; l’elemento ultimo è l’assenza di senso»[25].

   Weischedel è chiaro su questo punto: il filosofare, l’interrogare radicale non può legarsi a una tale forma di nichilismo, alla tesi della completa assenza di senso. Se è vero che l’interrogare radicale non risparmia alcun senso che gli si presenti, esso non nega (non si nega) aprioristicamente la possibilità di raggiungerne uno. «Resta aperto per un incontro con una possibile sensatezza»[26]. La sensatezza corrisponde all’avere un senso: il senso aderisce al sensato. Esiste una presunta oggettività del senso, anche se ciò non comporta che necessariamente un senso oggettivo esista. «L’asserzione di una presunta oggettività del senso rimane all’interno della prospettiva e dell’intenzione del comprendere, vale a dire in una visione fenomenologica»[27]. Il fatto è che tale senso è visto in tale prospettiva come insito nella cosa, a cui si attribuisce sensatezza.

   Il senso non è che il fondamento del sensato. Il senso non risiede in ciò che lo possiede, ma in ciò che lo fornisce ad altro. Avere un significato è rimandare a qualcosa d’altro, dal quale provengono significato e senso. Il senso è il principio giustificante della sensatezza. Weischedel intende qui il fondamento non come una causa prima, ma come «ciò da cui deriva che qualcosa sia sensato»[28]. Ora, però, un’analisi più approfondita del senso non può che trasferire il problema della sensatezza ad un livello sempre superiore. Ciò che fornisce senso, deve a sua volta risultare sensato. La problematicità del senso non si può esaurire in un solo passaggio. «Anche il senso conferitore di senso pertanto è sottomesso alla necessità di giustificare la propria sensatezza e renderla indubbia»[29]. Ben si vede come questa catena del senso non può che porre il problema dell’esistenza di un senso incondizionato.

 

   Nessuna cosa singola ha infatti fondamento in se stessa, ma rimanda costantemente ad un qualcosa di sensato che la congloba. Questo nesso di rimandi non è d’altra parte percorribile all’indietro; la fine non può quindi ripercuotersi sull’inizio. In questo caso, però, deve esserci, al termine ultimo della catena di senso, un qualcosa di onnicomprensivo che dona senso e ha senso di per se stesso, che non possiede senso e significato in virtù di qualcos’altro, ma per forza propria: un qualcosa che sia assolutamente sensato[30].

 

   Anche qui è necessaria una precisazione: che esista l’esigenza di qualcosa assolutamente sensato, non può condurre a ritenere che questo qualcosa assolutamente sensato debba necessariamente esistere. Non si può, in altri termini, sostenere una prova ingiustificata dell’esistenza di Dio. Affermare che, se una singola cosa deve avere un senso, allora deve esserci un senso assoluto, incondizionato, non elimina la problematicità di questo «se».

   Weischedel non può che chiedersi se chi filosofa possa accettare l’idea che vi sia un tale senso incondizionato. La risposta non può che essere negativa. La filosofia non può comportarsi come la fede religiosa, che afferma di vedere in Dio il senso assoluto. «Ma [...] la fede non può venir ammessa nei presupposti di un serio filosofare, fintanto che questo è inteso come interrogare radicale e pertanto deve sforzarsi di scalzare i suoi presupposti, anche quelli eventualmente legati alla fede»[31]. Già si intende la posizione di Weischedel rispetto alle rivelazioni religiose: l’interrogare radicale non può, se vuole conservarsi tale, accettare la fede religiosa.

   Chi filosofa non può che mantenersi in una posizione mediana, oscillante: se non può ricuperare la certezza immediata del senso, posseduta quando non si aveva ancora conosciuto l’interrogare radicale, egli non può nemmeno gettarsi all’estremo opposto: non può accettare il nichilismo dogmatico che nega la possibilità di un senso. La problematicità del senso rimane in sospeso. L’interrogare radicale è in costante oscillazione. Filosofare non è un tranquillo tenersi saldi in equilibrio, ma un sorreggersi dominato dall’inquietudine, dalla tentazione di fuggire se stessi.

 

   Tenersi in oscillazione è effettivamente cosa audace e pericolosa. Chi fa filosofia in questo modo perde in ogni riparo. Dato che costa enorme fatica sopportare l’oscillazione interrogando radicalmente, egli viene continuamente sedotto dalla tentazione di scivolare nella postulazione dogmatica di un senso e di un senso incondizionato e di una assoluta assenza di senso ritrova veramente se stesso. [...] Il filosofare insiste nell’interrogare e non si fissa su alcuna risposta. Ma non esclude neppure semplicemente la possibilità di una risposta. La lascia aperta e resta disponibile per essa Interrogando, la tensione tra senso incondizionato e assoluta assenza di senso cessa[32].

 

   Dobbiamo ora riflettere su due elementi fondamentali legati alla concezione della filosofia come interrogare radicale. Anzitutto consideriamo l’origine dell’interrogare radicale. Si è già osservato il fatto che, in Weischedel, l’inizio della ricerca filosofica coincide con una decisione fondamentale per la filosofia. Non si tratta, d’altra parte, di una decisione fra le tante.

 

   La domanda filosofica è piuttosto una risposta, e precisamente risposta ad una provocazione. Ma che cos’è che può originariamente provocare una domanda? Nient’altro che un’esperienza della problematicità precedente l’interrogare. Prima che, ad esempio, mi interroghi espressamente sulla realtà della mia esistenza, questa mi deve essere divenuta problematica di per se stessa. Ma il filosofare è interrogare radicale. La provocazione che muove l’uomo alla radicalità dell’interrogare, deve quindi essere essa stessa un’esperienza radicale della problematicità, un’esperienza tale cioè che in essa si faccia incontro quella problematicità che determina nel fondamento tutto il reale[33].

 

   Weischedel parla della provocazione dell’assurdo come origine dell’interrogare radicale. In altri termini, la scenario che appare a chi filosofa è determinato da un’esperienza radicale della problematicità. Legata all’idea di esperienza radicale della problematicità è soprattutto collegata la necessità di rivedere il concetto di realtà. Nell’esperienza radicale di problematicità è dato cogliere tutto il reale, compresa la stessa esistenza di chi esperisce. Ora, il reale è colto sotto una duplice foggia: come qualcosa che è, ma può pure non essere e come qualcosa che forse non è, ma che misteriosamente si mostra come essente. In questa duplice apparenza è il cuore della problematicità. «Veramente reale non è [...] la presunta consistenza delle cose o del proprio io. Veramente reale non è però nemmeno il niente, come alcunché di certo, anche se negativo. Veramente reale è piuttosto quell’evento, in cui tutto ciò che si presume reale scivola via nell’inafferrabilità»[34]. La realtà corrisponde proprio all’oscillare nella problematicità, in una regione mediana fra l’essere e il non-essere.

   L’esperienza della problematicità non riguarda d'altra parte solo il rapporto fra un’esistenza ed il mondo. Il limite estremo dell’esperienza radicale è l’interrogarsi su se stessi. La problematicità del reale non è un prodotto dell’interrogare. E’ essa che assalta e schiaccia chi si interroga. «Io sono in sua balia. Essa mi getta in uno stato di impotenza. La esperisco quindi nel senso eminente dell’esperire, cioè come esperienza di qualcosa di reale, che di per se stesso agisce su di me»[35].

   Ancora qualche parola sull’esperienza radicale della problematicità. Essa rappresenta l’origine del filosofare. Se ne può trovare traccia in tutta la storia del pensiero. Weischedel è convinto che «la vera storia della filosofia è [...] la storia delle esperienze filosofiche fondamentali che la percorrono in modo sotterraneo»[36]. A partire da Anassimandro, alla base della domanda filosofica è la caducità di tutte le cose. «Se le cose avessero consistenza, se si potesse far affidamento su di esse, allora non si arriverebbe alla domanda filosofica»[37]. E’ «l’esperienza dolorosa della finitudine». Tutta la filosofia moderna è segnata dall’ampliarsi della potenza di questa esperienza. Si prendano, a titolo di esempio, le Meditazioni di Descartes. Il profondo abisso del dubbio è il principio del filosofare cartesiano. Questo dubbio è espressamente descritto come esperienza. Lo stesso vale per Spinoza, Kant o Hegel. «Ancora sotto altra forma si trova l’esperienza della problematicità all’inizio del pensiero hegeliano: e cioè come esperienza della potenza della negazione. [...] Questo è ciò che lo stesso Hegel chiama l’“esperienza” del pensiero»[38].

   Altra caratteristica dell’esperienza della problematicità è quella di avvenire come esperienza concreta nell’esistenza dell’uomo. Essa si ripresenta più e più volte nel corso di un’esistenza, segnando l’uomo fin nel suo fondamento. Può presentarsi sotto i più diversi aspetti e nelle situazioni poco vistosi o in momenti particolarmente intensi e vitali. Certo è che «decisivi non sono gli esempi in quanto tali, bensì ciò di cui essi sono esempi; quella universale possibilità dell’esperienza della problematicità di ogni cosa»[39]. Ovviamente, quasi ogni nostra esperienza scivola via senza lasciare traccia, ma anche l’occasione più insignificante può essere il momento di vivere uno straordinario sconvolgimento, di penetrare più profondamente nella struttura del reale, di abbandonare la superficialità quotidiana. Quando ci si rende conto che qualcosa alla nostra vista non è in ordine, la singola esperienza tende ad allargare il proprio potere fino a coinvolgere e sconvolgere tutta l’esistenza. Allora si afferma: «Qualcosa, nella mia esistenza, non è in ordine».

   Così Weischedel riassume il passaggio successivo: « Ciò che propriamente non è in ordine, è il mio essere inserito nel mondo, il mio essere-nel-mondo. Se però il mio essere-nel-mondo si dimostra scombinato, allora tale è anche il mondo in cui mi trovo»[40]. Alla fine del percorso, è il reale nella sua totalità a risultare fuori ordine, scombinato. Il filosofo tedesco elenca diversi tipi di possibili esperienze radicali: dal subire un tradimento all’assistere alla morte di una persona cara, o ancora dallo sconvolgimento che accompagna la guerra al trovarsi in pericolo imminente di vita. Ognuna di queste esperienze determinate ha la facoltà di scatena un vortice, di espandersi fino a investire la totalità dell’esistenza. La caducità ed il fallimento potrebbero, però, essere considerate esperienze solo parziali della realtà: considerarli quindi come esperienze fondamentali sarebbe, in ultima analisi, una scelta unilaterale.

 

   In effetti c’è anche un altro aspetto: di fronte al tradimento l’esperienza della fedeltà, di fronte alla mancata riuscita l’esperienza della buona riuscita del mio agire. Ciò è incontestabile. E tuttavia non dice niente contro ciò che è stato appena esposto. Non sostengo infatti che nel mondo ci sia solo fallimento e solo tradimento; questa sarebbe una generalizzazione, non giustificabile a partire dai fenomeni. Piuttosto io affermo soltanto: un mondo in cui esiste il fallimento – anzi forme così molteplici di fallimento – e in cui esiste il tradimento – anzi forme così molteplici di tradimento – un tale mondo è in se stesso altamente problematico[41].

 

   Weischedel utilizza l’immagine del tarlo nel legno. Per dire che un legno sia malato, non è necessario che esso sia completamente intaccato dai tarli.

   Tra le esperienze della problematicità ne sottolineiamo qui soltanto altre due: quella della noia e quella di chi si trova ai margini di una radura, in un pomeriggio estivo. Nella noia tutto ristagna, il tempo pare fermarsi, tutto opprime. Si può fare esperienza della problematicità di tutte le cose nella situazione più rarefatta e calma. Davanti ad una radura, d’estate, «enigmatico diventa per me il fatto che l’albero che vedo davanti a me sia così come esso è, anzi il fatto che esso in assoluto sia. Enigmatico diventa per me l’essere dell’uomo che si muove di fronte a me dall’altra parte della radura. Enigmatico diventa per me il fatto che io stesso sia, io che vedo e che sento tutto ciò»[42]. L’esperienza della problematicità può dunque scaturire dalla semplice osservazione di una cosa. Di qui all’esperienza della possibilità del nulla il passo è breve. Si tratta di un’esperienza che non avviene «a freddo», nell’intelletto, ma in ragione di un profondo scompiglio esistenziale. Weischedel non si stanca di sottolineare che l’esperienza della problematicità non è esperienza del nulla, ma della possibilità del nulla. Allo stesso modo, essa oscilla fra essere e nulla, perché è ciò che viene esperito ad oscillare fra essere e nulla. E’ lo stesso moto che investe l’interrogare radicale. Non vi è mera negazione, la positività vi rimane comunque presente, anche se solo nella possibilità.

   L’esperienza della problematicità è immediatamente presente a chi esperisce. «Nella presenza del singolo evento è totalmente presente la stessa problematicità di ogni cosa»[43]. In ogni caso «la problematicità di ogni cosa è immediatamente presente. Si può quindi dire a ragione che l’esperienza filosofica fondamentale non viene raggiunta per via deduttiva, bensì reca in se stessa il carattere dell’immediatezza»[44]. L’esperienza della problematicità radicale, che è l’esperienza fondamentale della filosofia, è di per se stessa attiva e, nella sua attività, potente.

   «Di fronte a tutto ciò si è costretti a domandarsi da dove provenga questa esperienza della problematicità. Questa è la domanda che conduce alla svolta decisiva»[45]. Il da-dove della problematicità non si riferisce anche in questo caso alla ricerca di un ente-fondamento, inteso secondo il pensiero di una metafisica oggettivista. Si tratta piuttosto di un concetto che si rifà alla interpretazione della realtà come problematicità. «Se l’essenza della realtà è la problematicità, allora il potente da-dove della problematicità può essere definito come la realtà delle realtà o come la realtà assoluta»[46]. Qui trae origine lo studio weischedeliano sulle possibilità di una teologia filosofica all’epoca del nichilismo. Che nome dare alla realtà assoluta, individuata nella problematicità radicale? L’assoluto è l’obiettivo di ogni filosofia. «E’ certamente problematico se una filosofare all’altezza dei tempi possa e sia in grado in generale di adoperare ancora il concetto di Dio. Ma se esso parla di Dio, può certo intenderlo solo come il potente da-dove della problematicità»[47]. Il filosofare come interrogare radicale non può, in questo assecondando il nichilismo, che rifiutare la tradizione teologico-metafisica, la tradizione della rivelazione cristiana. La realtà assoluta non può più essere l’Ente degli enti. al posto del concetto di essere, abbiamo ora quello di problematicità.

   In Weischedel non può che esservi correlazione fra problematicità e mistero. Il mistero della realtà si impone immediatamente. Il mistero è reale. «E’ il mistero stesso che, da sé, si fa incontro al pensiero scettico e gli si impone: il mistero, che l’interrogare, per tentativi che faccia, mai riesce a debellare. Non siamo propriamente noi a sollecitare il mistero, è il mistero che ci investe»[48]. Non è la scepsi a rendere misteriosa la realtà. Il mistero precede ogni pensare e viene esperito dall’interrogare radicale come non ulteriormente problematizzabile. Soltanto l’interrogare radicale stesso e il mistero vincono la distruzione della scepsi. «L’interrogare radicale non si troverebbe in moto se il mistero, che cerca di penetrare, non gli si fosse prima manifestato, sollecitandolo»[49].

   Non c’è bisogno di «convertirsi» per incontrare il mistero, dunque. Certo, non si può ignorare la somiglianza fra il mistero, che muove alla filosofia, e le esperienze della fede, in particolare le esperienze dei mistici e della teologia apofatica. Si pensi, ad esempio, alla esperienza del silenzio. «Gli homines religiosi hanno compreso il silenzioso mistero di ogni realtà come presenza della divinità. Dio è per essi in fondo silenzio»[50]. In Weischedel il linguaggio del silenzio è il linguaggio che, senza usare le parole, sa rendere al meglio la realtà misteriosa che ci attornia[51]. Fuggire il silenzio significa fuggire l’introspezione, la visione più autentica e più problematica dell’io.

   Quella fra mistero come esperienza della problematicità ed esperienze religiose, è, però, di una somiglianza soltanto «formale». Il mistero è punto di partenza dello scetticismo e, quindi, si può affermare: «la riflessione, partendo dal pensiero scettico, si trova immediatamente sospinta sul problema di Dio»[52]. Ma è lo stesso scetticismo a impedire l’identificazione fra mistero e Dio, se con il termine Dio ci si rifà ad un Dio personale, creatore, rivelato (specie come lo intende il cristianesimo). «Quando si abbia in mente il concetto cristiano di Dio, il “mistero” dunque non è Dio»[53]. Non che lo scetticismo possa esprimere un giudizio di falsità a proposito del Dio cristiano. Semplicemente, non può ammetterLo senza tradirsi.

 

L’assurdo in Camus in relazione allo scetticismo weischedeliano.

 

   Passiamo a considerare Le mythe de Sisyphe alla luce di quanto è emerso del pensiero di Weischedel. In particolare, tenteremo di enucleare gli elementi di «prossimità» tra la concezione dell’assurdo di Albert Camus e la concezione weischedeliana di filosofia come interrogare radicale, come scetticismo. Come si accennava nell’introduzione, è lo stesso Weischedel a fornirci degli argomenti a favore di questo parallelo. Leggiamo in Etica scettica: «Una forma particolarmente significativa di scetticismo la troviamo in Camus: e precisamente nel suo concetto d’assurdo. Camus considera l’assurdo come tipico del nostro tempo»[54]. Camus compare in Weischedel subito dopo Nietzsche nelle ricostruzioni della presenza scettica nella storia della filosofia.

   Camus apre Le mythe de Sisyphe con la dichiarazione di volersi occupare «d’une sensibilité absurde qu’on peut trouver éparse dans le siècle – et non d’une philosophie absurde que notre temps, a proprement parler, n’a pas connue»[55]. Questo iniziale riferimento alla sensibilità assurda non può che rimandare alla concezione weischedeliana dell’esperienza della problematicità radicale. Camus parla di un sentimento dell’assurdo, non di una sua deduzione logica. Ad esempio, cita «le sentiment de l’absurdité au détour de n’importe quelle rue peut frapper à la face de n’importe quel homme»[56].

   Camus dà diverse esemplificazioni di cosa sia «assurdo». Crediamo che la più efficace sia quella del divorzio, divorzio che si consuma fra il desiderio dell’uomo di unità, di razionalità e ragionevolezza e l’irrazionalità, l’irragionevolezza del mondo. L’assurdo è un dissidio, stridente e doloroso, fra uomo e mondo. Non c’è più alcun Dio a moderare questa relazione, questa lotta. Non c’è verità che salvi dal dissidio. Weischedel concorda con Camus, quando lo scrittore algerino afferma: «Ce monde en lui-même n’est pas raisonnable, c’est tout qu’on peut dire. Mais ce qui est absurde, c’est la confrontation de cet irrationnel et de ce désir éperdu de clarté dont l’appel résonne au plus profond de l’homme»[57]. L’assurdo nasce con la comparsa della coscienza umana sulla terra. L’assurdo è, ad oggi, l’unico legame che leghi uomo e mondo.

   Camus non nega la ragione tout court. Egli nega che l’esistenza in questo mondo possa risolversi in una formula razionale. Egli nega che la storia porti un senso non comprensibile alla luce della limitata ragione umana. Egli nega che dalla realtà tutta possano emergere leggi universali. Comprendere è unificare, e tutti i tentativi di comprensione sono falliti o, comunque, si sono rivelati impotenti.

 

   Si l’homme reconnaissait que l’univers lui aussi peut aimer et souffrir, il serait réconcilié. Si la pensée découvrait dans les miroirs changeants des phénomènes, des relations éternelles qui les puissent résumer et se résumer elles-mêmes en un principe unique, on pourrait parler d’un bonheur de l’esprit dont le mythe des bienheureux ne serait qu’une ridicule contrefaçon. Cette nostalgie d’unité, cet appétit d’absolu illustre le mouvement essentiel du drame humain. Ma que cette nostalgie soit un fait n’implique pas qu’elle doive être immédiatement apaisée[58].

 

   Comprendere è ridurre all’umano. La ragione non è, se non ad immagine dell’uomo. Il desiderio di chiarezza è lo stimolo a riconoscere l’assurdo, così come, in Weischedel, non è di impedimento a sperare nella verità, anche se, nello stesso tempo, porta a riconoscere l’incapacità permanente (nel senso di: «che permane ancora») a trovarla e mantenerla. Come nel filosofo tedesco la problematicità radicale, così in Camus l’assurdo è l’unica certezza. L’autore algerino afferma di non poter colmare la distanza fra la certezza di esistere ed il contenuto, che egli vuole attribuire all’esistenza stessa. «Ces parfums d’herbe et d’étoiles, la nuit, certains soirs où le coeur se détend, comment nierais-je ce monde dont j’éprouve la puissance et les forces? Pourtant toute la science de cette terre ne me donnera rien qui puisse m’assurer que ce monde est à moi»[59].

   Pur considerando le differenti prospettive e i differenti campi d’azione fra Camus e Weischedel, emerge una consonanza di fondo, in nome di un nichilismo aperto, non dogmatico, fondato sul rapporto, radicalmente problematico, fra uomo e mondo. In entrambi si nota la volontà di evitare sia le speranze ingenue, sia il vortice sterile della disperazione (si pensi alle considerazioni camusiane sul suicidio). Ancora, dalla scrittura di entrambi si denota la permanenza di una nostalgia per il senso e la verità, nostalgia certo compensata dalla dichiarata consacrazione alla lucidità.

 L’uomo assurdo è straniero a se stesso. Il risveglio all’assurdo, la perdita dell’innocenza incosciente, in fin dei conti banale, squarcia l’unità dell’io. Allo stesso modo, l’interrogare radicale non può esimersi dal rivolgersi anche verso se stesso. L’uomo parla, mentre il mondo irragionevole rimane in silenzio. Come in Weischedel, così in Camus il silenzio domina il mondo, ed il mondo domina l’uomo assurdo, lo investe. «L’hostilité primitive du monde, à travers les millénaires, remonte vers nous. [...] Le monde nous échappe puisqu’il redevient chez lui»[60]. Aprire gli occhi davanti all’assurdo significa mantenere uno stato di peccato, pur perdendo la speranza nella salvezza, in una redenzione.

   Weischedel e Camus hanno una posizione simile verso il cosiddetto «salto nella fede». Camus lo definisce «suicidio filosofico» e sottopone alla sua critica le conversioni di chi – come Chestov, Kierkegaard – , pur accorgendosi dell’assurdo, non vi si è trattenuto. Leggiamo alcune parole di un altro grande autore, Karl Löwith, il quale pure ha esaminato i rapporti fra scetticismo e fede: «La skepsi dunque non conduce alla fede perché urta contro i confini del sapere. Essa porta soltanto al confine del sapere e questo confine si può varcare solo quando alla volontà dell’uomo vengono incontro la grazia e la rivelazione di Dio»[61]. Quest’ultimo passo rimanda, fra l’altro, alla conclusione dell’Apologia di Montaigne:

 

   “Che cosa vile” [afferma Seneca] “e abietta è l’uomo, se non s’innalza al di sopra dell’umanità!”. Ecco una bella frase, e un utile desiderio, ma ugualmente assurdo. Poiché fare il pugno più grande della mano, la bracciata più lunga del braccio e sperar di fare il passo più lungo della gamba, è impossibile e contro natura. Come è impossibile che l’uomo s’innalzi al di sopra di sé e dell’umanità: poiché non può vedere che con i suoi occhi, né afferrare che con le sue capacità. Egli s’innalzerà se Dio gli porgerà eccezionalmente la mano; si innalzerà, abbandonando i propri mezzi e rinunciandovi, e lasciandosi alzare e sollevare da mezzi puramente celesti. Sta alla nostra fede cristiana, non alla sua virtù stoica, aspirare a questa divina e miracolosa metamorfosi[62].

 

   Una speranza soltanto umana e un uomo conscio dei limiti del suo orizzonte e delle sue forze: questo lega gli «scettici» davanti alla possibilità della fede. Niente è più legato al problema della speranza che il problema del senso. L’assurdo è «la mancanza di senso, il non-senso o, addirittura, il controsenso, ciò che non è dato comprendere»[63]. Anche Camus elenca le esperienze più diverse come possibili origini dello scatenarsi del sentimento dell’assurdo: ad esempio, la morte o la banalità, la routine quotidiana. Il senso dell’esistenza, un senso che sia ragionevole, comprensibile, è il vero tormento di Camus. L’orizzonte di un senso possibile non lo abbandona mai. Camus non può che lottare contro l’assurdo: «L’absurde n’a de sens que dans la mesure où l’on n’y consent pas»[64]. L’assurdo, lo scetticismo radicale non consegnano all’inazione, all’apatia, all’indifferenza. Essi rappresentano un rischio, ma anche – e ciò è un paradosso soltanto se non si considera che l’assurdo e il nichilismo sono irrimediabilmente parte dell’orizzonte del nostro tempo – il punto di partenza per un nuovo possibile inizio. La riflessione etica e politica è propria sia del pensiero di Camus che di quello di Weischedel. Basti pensare, in Camus, allo stesso Le mythe de Sisyphe o a L’homme révolté, e, in Weischedel, all’ultimo suo importante saggio, la già più volta citata Etica scettica, in cui lo scetticismo si avvicina, sempre come interrogare radicale, ai grandi temi della libertà, della responsabilità, della tolleranza.

 

 

 

Francesco Paolella



[1] Wilhelm Weischedel, Il Dio dei filosofi. Fondazione di una teologia filosofica nell’età del nichilismo, I-III, Il melan-golo, Genova 1988-1994, vol. III, p. 321.

[2] Ibidem.

[3] Wilhelm Weischedel (con Helmut Gollwitzer), Credere e pensare. Due prospettive a confronto, Marietti, Casale Mon-ferrato 1982, p. 105.

[4] «Chi filosofa, deve abbandonare ogni pensiero consolidato e ritornare sempre di nuovo ad interrogare» (ibidem).

[5] Ibidem.

[6] Wilhelm Weischedel, Etica scettica, Il nuovo melangolo, Genova 1998, p. 40.

[7] «Per Hegel è quindi una necessità insita nella cosa stessa che il filosofare passi sì attraverso lo scetticismo, ma lo lasci alla fine alle sue spalle» (ivi, p. 42).

[8] Ibidem.

[9] Ivi, p. 43.

[10] Ivi, p. 44.

[11] A proposito del nichilismo nicciano, si veda la discussione di Weischedel, contenuta ne Il Dio dei filosofi, cit. alla nt. 1, vol. I, § 82 sgg.

[12] Wilhelm Weischedel, Etica scettica, cit. alla nt. 6, p. 44.

[13] Wilhelm Weischedel, Il problema di Dio nel pensiero scettico, Il nuovo melangolo, Genova 1979, p. 41, (corsivo nostro).

[14] Ivi, p. 42.

[15] Ivi, p. 43.

[16] Wilhelm Weischedel, Il Dio dei filosofi, cit. alla nt. 1, vol. III, p. 227.

[17] Ivi, p. 226.

[18] Ivi, p. 229.

[19] Wilhelm Weischedel, Il problema di Dio nel pensiero scettico, cit. alla nt. 13, p. 43.

[20] Ivi, p. 49.

[21] Ivi, p. 50.

[22] Ivi, p. 49.

[23] Wilhelm Weischedel, Etica scettica, cit. alla nt. 6, p. 50.

[24] Wilhelm Weischedel, Il Dio dei filosofi, cit. alla nt. 1, vol. III, p. 210.

[25] Ivi, p. 213.

[26] Ivi, p. 214.

[27] Ivi, p. 216.

[28] Ivi, p. 219.

[29] Ivi, p. 220.

[30] Wilhelm Weischedel (con Helmut Gollwitzer), Credere e pensare, cit. alla nt. 3, p. 299-300.

[31] Wilhelm Weischedel, Il Dio dei filosofi, cit. alla nt. 1, vol. III, p. 224.

[32] Ivi, p. 230.

[33] Wilhelm Weischedel (con Helmut Gollwitzer), Credere e pensare, cit. alla nt. 3, p. 137 (corsivo nostro).

[34] Ivi, p. 138.

[35] Ivi, p. 139.

[36] Ivi, p. 213.

[37] Ibidem.

[38] Ivi, p. 218-219.

[39] Ivi, p. 268.

[40] Ibidem.

[41] Ivi, p. 270.

[42] Ivi, p. 290.

[43] Ivi, p. 321.

[44] Ibidem.

[45] Ivi, p. 139 (corsivo nostro).

[46] Ivi, p. 140 (corsivo nel testo).

[47] Ibidem (corsivo nostro). Lo stesso termine «teologia filosofica» nasce solo quando il pensiero filosofico «esperisce il da-dove della problematicità di ogni cosa come la realtà assoluta» (ivi, p. 141, corsivo nel testo).

[48] Wilhelm Weischedel, Il problema di Dio nel pensiero scettico, cit. alla nt. 13, p. 53.

[49] Ivi, p. 54.

[50] Wilhelm Weischedel, Il linguaggio del silenzio. Sulla dialettica di parola e silenzio, in Domenico Venturelli (a cura), Ermeneutica e destinazione religiosa, Il nuovo melangolo, Genova 2001, p. 51.

[51] «Appartiene all’essenza del mistero di poter essere conosciuto nel silenzio e solo nel silenzio. Il mistero rivelato non è più un mistero» (ivi, p. 46).

[52] Wilhelm Weischedel, Il problema di Dio nel pensiero scettico, cit. alla nt. 13, p. 55 (corsivo nel testo).

[53] Ivi, p. 56.

[54] Wilhelm Weischedel, Etica scettica, cit. alla nt. 6, p. 45.

[55] Albert Camus, Le mythe de Sisyphe. Essai sur l’absurde, Gallimard, Paris 1942, p. 16.

[56] Ivi, p. 26.

[57] Ivi, p. 39.

[58] Ivi, p. 34.

[59] Ivi, p. 37.

[60] Ivi, p. 30-31.

[61] Karl Löwith, Storia e fede, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 28 (corsivo nel testo).

[62] Montaigne, Saggi, 4° ed., Adelphi, Milano 2002, p. 804-805.

[63] Wilhelm Weischedel, Etica scettica, cit. alla nt. 6, p. 45.

[64] Albert Camus, Le mythe de Sisyphe, cit. alla nt. 55, p. 52.

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