EMANUELE SEVERINO

Parmenide

1. Professor Severino, quali possono esseri i motivi che ci spingono oggi a interessarci della filosofia greca e in particolare di un filosofo come Parmenide?

Certamente questa domanda tocca un tasto dolente, e cioè quello della nostra cultura, la quale pensa di potersi disinteressare del pensiero greco e di non aver nulla a che fare con esso. Invece si tratta di rendersi conto che non solo la nostra cultura, ma l'intera nostra civiltà si sviluppa all'interno delle categorie che sono state espresse per la prima volta dal pensiero greco. Ci sono anche dei segnali che fanno capire l'importanza dei Greci e in particolare modo di Parmenide. È vero del resto che oggi qualche autore - ad esempio Popper - si interessa di Parmenide, e in generale c’è il segnale che non si tratti proprio di uno sconosciuto. Per quanto riguarda i filosofi antichi, sappiamo che ad esempio Platone lo chiama "venerando e terribile". Aristotele, che in genere è così compassato, dice che quelle di Parmenide sono maníai, cioè follie. Eppure questa "pazzia" di Parmenide è il punto di riferimento per l'intera storia del pensiero filosofico. Si tratta di capire che il pensiero greco stabilisce il terreno su cui noi oggi ci muoviamo, si tratta del terreno che potremmo chiamare ontologico.

"Ontologia", questo termine così tecnico, vuol dire riflessione sul senso dell'essere e del niente. Queste due parole, "essere" e "niente", sembrano estranee al linguaggio nostro di tutti i giorni, ai nostri interessi, all'articolazione concreta del sapere scientifico; eppure queste due categorie costituiscono l'ambito all'interno del quale tutta la storia dell'Occidente è cresciuta, e si tratta anche di comprendere che queste categorie sorgono per la prima volta con i Greci. Questo è importante perché i Greci non solo portano alla luce una teoria, cioè una comprensione del mondo che non era mai apparsa, ma anche una comprensione del mondo che consente di porsi come la prima grande forma di rimedio contro il dolore. Quindi, secondo al mia opinione è errato insistere e considerare il pensiero greco, sin dalle sue origini, come una mera elaborazione teorica che non abbia il compito di prendere posizione rispetto a ciò che vi è di più angosciante nell'esistenza, e cioè il dolore. Io credo che la nostra riflessione potrebbe procedere cercando di vedere quali sono i rapporti tra le categorie dell'ontologia greca e il dolore dell'esistenza.

 

2. In generale si pensa alla filosofia di Parmenide e a tutta l'ontologia greca in relazione al desiderio di conoscenza. Come si inserisce in questo ambito la categoria del dolore?

Aristotele dice che la filosofia nasce dalla meraviglia, e la parola che egli usa per indicare la meraviglia è yaËma (thaûma). Ma anche qui, come in tutte le grandi parole del nostro linguaggio, thaûma non significa semplicemente la meraviglia ma vuol dire anche terrore, vuol dire il terrore di fronte all'angosciante. Non sto dicendo, alla Nietzsche, che la forza della teoresi, la forza della teoria sta nella sua capacità di risolvere i problemi pratici; non è stato certo questo l'intento dei greci e si può giustamente rilevare che i filosofi greci abbiano avuto innanzi tutto la vocazione per la teoria disinteressata, contemplativa. Ma intendo dire che proprio il carattere disinteressato della teoria, e cioè il suo essere verità, consente di affrontare il problema dell'esistenza e della vita. Il problema della vita è innanzitutto la terribilità del dolore: allora io non sostengo che l'unico valore della teoria consiste nel suo essere semplicemente uno strumento in base al quale, conoscendo come stanno le cose, si fa argine contro il dolore; dico che proprio perché la teoria intende essere verità - e cioè non una teoria qualsiasi ma la teoria assolutamente vera - proprio questo consente di andare incontro al dolore con occhio diverso da quello che gli uomini possiedono quando ancora non sanno. A tale proposito bisogna vedere qual è il rapporto tra teoria e dolore, perché anche il modo in cui spesso si tratta Parmenide prescinde da questa tematica, isolando il momento teorico; al contrario o credo che Parmenide dia la prima grande risposta al problema del dolore.

Dicevo prima che i Greci portano per la prima volta alla luce il senso dell'essere e del niente. Se noi crediamo di morire senza saper nulla del senso del niente - e quindi del senso dell'essere a cui il niente si contrappone - la nostra morte è profondamente diversa dal modo in cui moriamo quando sappiamo che noi andiamo nel niente. Questo vuol dire qualcosa di eccezionale e cioè che con i Greci gli uomini incominciano a morire - e quindi a nascere - in modo diverso da come nascono e muoiono prima dei Greci, prima di saper qualcosa del niente. I Greci evocano questo significato terribile e radicale - il significato del niente - nella sua contrapposizione infinita all'essere, come l'assoluta negatività che non ha alcunché dell'essere. In questo modo il processo del mondo acquista un carattere estremamente angosciante, proprio perché il pensiero greco e questa cosa apparentemente astratta che è l'ontologia - la riflessione sull'opposizione infinita tra l'essere e il niente - evoca la minaccia estrema, quella dell'esistenza portata innanzi dall'annientamento delle cose. Ma il Greco evocatore della minaccia estrema é insieme il Greco che va alla ricerca del rimedio contro la minaccia estrema. Parmenide, trovandosi proprio all'inizio di questo processo è l'evocatore; infatti non abbiamo notizia che prima di Parmenide si sia parlato dell'essere o del niente, della contrapposizione infinita tra l'essere e il niente. Il modo in cui Parmenide pensa è un modo singolare - e poi si tratterà di vedere che ne è nella storia della nostra cultura di questa singolarità. Parmenide evoca l'estrema minaccia, la contrapposizione infinita tra l'essere e il niente, ma insieme evoca il modo singolare di costruire un rimedio contro questa minaccia: il rimedio è dato dalla metafisica e l'ontologia.

 

3. In che modo Parmenide pone il nulla nella condizione di non nuocere?

Parmenide si trova in una posizione singolare perché in un certo senso dà la prima risposta dell'Occidente alla minaccia e al carattere nocivo del niente, dell'annientamento delle cose, interrogandosi sul significato del niente; in un cert'altro senso è il punto di maggiore vicinanza dell'Occidente all'Oriente. Vorrei fermarmi su questo punto. In generale la prima grande soluzione, la prima grande forma di rimedio al dolore è la filosofia: se noi dovessimo fare rapidamente l'elenco delle forme di rimedio dell'Occidente dovremmo dire che la prima è la filosofia, cioè il fatto di sapere in modo incontrovertibile il senso del mondo, il senso unitario del mondo. Poi la grande forma di rimedio è - quando l'esperienza antica del pensiero filosofico è andata al tramonto - il Cristianesimo e poi la scienza.

La posizione di Parmenide è singolare perché è anche il punto di maggiore contatto con l'Oriente. Qual è infatti la soluzione che la filosofia dell'Occidente dà al problema del dolore e dell'annientamento? Che cosa ci angoscia quando noi abbiamo a che fare con il dolore? Non parlo del dolore che noi attualmente patiamo, perché ciò che patisco in questo momento - poniamo - ormai è accettato, è lì e non c'è nulla da fare, perché ormai è recepito. Mi riferisco invece all'angoscia del fatto che il dolore abbia a continuare, facendoci chiedere: "che ne sarà di me tra un momento, domani, tra un anno? Continuerà questo dolore?" Voglio dunque dire che l'angoscia si riferisce all'imprevedibilità del futuro, e in questo caso il rimedio non può essere altro che la previsione del senso del tutto; ecco perché prima ho parlato anche di scienze, perché la previsione scientifica sarà in un certo senso l'erede della previsione filosofica. Previsione filosofica vuol dire §pistÆmh (epistéme), questa grande parola greca che significa, alla lettera, la capacità di stare; "steme" deriva infatti dal verbo ·stasyai (hístasthai), la capacità di stare, mentre epí vuol dire sopra: dunque si tratta di "stare sopra tutto ciò che intende negare ciò che sta". Ciò che sta è l'apertura di senso, l'apertura del senso del tutto che intende stare e che si ritiene capace di imporsi su ciò che presume negarla, e insieme su tutti gli eventi che sopraggiungono e che costituiscono quello che oggi noi moderni chiameremmo la novità della storia. L'epistéme è al di sopra di ogni innovazione storica: questo è stato il grande sogno della filosofia da Parmenide ad Hegel. Se si conosce incontrovertibilmente, stando sopra ogni negazione e ogni evento sopraggiungente, il senso del tutto, allora si è in grado di prevederlo e la previsione rende spiegabile il dolore. "Perché il dolore, dice Eschilo, getta nella follia?" Proprio perché non ha senso fintantoché non si vede il senso del tutto. Ebbene la soluzione di Parmenide è singolare, perché successivamente l'Occidente intenderà costruire un sapere che sta sopra la minaccia del divenire controllandola, guidandola e quindi costruendo al di sopra di esso quella serie di strutture immutabili che vanno dal Dio teologico al Dio cristiano, alle strutture necessarie secondo le quali si sviluppa la storia.

Parmenide adotta un'altra strada che non sarà percorsa dall'Occidente - dicevo prima che era la strada più vicina all'Oriente. Di fronte al divenire l'Occidente dice: "Tu non mi minacci più perché io ti prevedo e quindi prevedo il senso di ciò che tu, divenire, fai irrompere su di me". Prevedendo il senso di ogni irruzione, l'irruzione non è più l'imprevedibile angosciante e il dolore acquista senso: lo stesso annientamento si inscrive in un ordine. Questa è la voce della filosofia dell'Occidente dopo Parmenide. La sua voce invece è diversa e singolarmente vicina all'Oriente perché Parmenide dice al divenire: "Tu non esisti". Questo è molto singolare, perché tutto il pensiero, non solo filosofico, dopo Parmenide dice al divenire: "Tu esisti ma io ti domino"; e chi parla è appunto il rimedio, cioè il sapere epistemico.

L’affermazione di Parmenide non viene pronunciata per un semplice desiderio - ormai purtroppo il senso radicale della filosofia in certe forme della nostra cultura va perdendosi - ma perché vi sono delle strutture concettuali che lo portano a dire questo. In questo modo, mentre nella soluzione post-parmenidea il dolore è vinto perché c'è un padrone che domina il divenire, la soluzione radicale di Parmenide è questa: il divenire non minaccia più, non può essere nocivo perché non esiste. Con questa cancellazione del divenire entriamo nel grande paradosso del pensiero di Parmenide, che è la cancellazione del mondo, con cui tutto l'angosciante, tutto il terribile, tutto l'orrendo del mondo è illusione; questo è il senso della doxa di Parmenide. Ebbene questa è anche la strada percorsa dall'Oriente: i Veda, le Upanishad, la ripresa buddista del bramanesimo sono tutti grandi motivi che convergono su questo punto: l'uomo è infelice perché non sa di essere felice, perché non sa che il dolore è al di fuori di lui, e che lui è un puro sguardo che non è contaminato dal dolore che gli passa innanzi, così come lo specchio non è contaminato dall'immagine che si riflette in esso. Questa è la vicinanza di Parmenide rispetto all'Oriente, ma bisogna anche guardarsi dallo spingere troppo l'analogia perché c'è anche una radicale diversità; Parmenide è l'inventore dell'ontologia, l'Oriente è la saggezza che si sviluppa prima, indipendentemente dall'ontologia. Questa non è una differenza da poco, perché l'Oriente muore non sapendo nulla del niente; potremmo dire che la morte dell'Oriente è lieve e non ha la perentorietà, non ha quel carattere di lama assolutamente affilata che ha la morte nel nostro tempo - a partire da Parmenide - proprio perché la morte è vista in connessione con la assoluta negatività del niente. La differenza tra l'Occidente come patria, luogo dell'ontologia e l'Oriente come dimensione pre-ontologica non va quindi trascurata.

4. In Parmenide vi è questa radicale distinzione tra la alétheia, la verità, e la dóxa, l'opinione, quasi che coincidano con l’essere e non essere. Per Parmenide l'opinione - l'opinione comune e gli oggetti che noi guardiamo tutti i giorni - l'apparente movimento e il divenire di tutte le cose, sono una pura illusione dei sensi oppure sono qualcosa che semplicemente ha un carattere finito e pertanto è un non-essere?

Non è un caso che tutto il pensiero filosofico abbia fatto riferimento a Parmenide, proprio perché lo scandalo consiste nel dire: "Il mondo non è, il divenire non è, non c'è il mondo". Ma ciò è motivato - ci tengo a sottolinearlo - da un’articolazione logica che forse è il caso di tener presente, poiché accostarsi a Parmenide, come è per lo più accaduto fino agli anni '50 - partendo dal linguaggio, impoverisce il suo pensiero. Vi è ad esempio la tesi sostenuta, anche in modo estremamente intelligente, da Guido Calogero, nei suoi Studi sull'eleatismo, secondo cui l'essere di Parmenide sarebbe l'ipostasi della copula, di modo che la singolarità della copula, della parola "è", avrebbe attratto l'attenzione di questo altrettanto singolare pensatore il quale avrebbe fatto di una voce del linguaggio uno stato. L’idea che la singolarità del linguaggio e quindi della lingua che Parmenide parla - che è una singolarità delle lingue indoeuropee; la preminenza della copula in ceppi linguistici non indoeuropei è assente - abbia potuto spingerlo a soffermarsi, a prestare attenzione al significato di questa parola apparentemente irrilevante - cioè l’"è" - è ammissibile. Ma si tratta appunto di una spinta, mentre la grandezza di Parmenide sta invece nell'intendere l'essere come l'assolutamente "altro" dal niente.

Le parole usate da Parmenide sono: e‰nai (eînai), che è l'infinito del verbo essere, §Òn (eón), che è la forma participiale arcaica che corrisponde allo ˆn (ón) del linguaggio platonico-aristotelico. L'ón, l'essere, è l'assolutamente opposto al niente; c'è chi si scandalizza delle tautologie di Parmenide, ma io vorrei augurare a ogni discorso di essere tautologico, perché la tautologia potrà non interessare solo chi è alla ricerca curiosa delle differenze del mondo, quelli che Platone nella Repubblica (480 a) chiamava i filÒdojoi (philódoxoi), gli amanti delle opinioni. La tautologia è qualcosa di formidabile, è l'identità con sé di qualcosa che è assolutamente non smentibile. Certo, le grandi tautologie di Parmenide incutono il timore reverenziale; si tratta di capire, non di alzare le spalle. Perché Parmenide dice: "L'essere è, il non-essere non è"? Che cosa vuol dire? Innanzitutto il significato di questa affermazione porta a quelle conseguenze paradossali di cui parlavamo prima, il che vuol dire che la tautologia non è così innocua come potrebbe sembrare se porta al paradosso, al più grande paradosso che sia mai apparso nella storia della nostra cultura - e si potrebbe dire della cultura in generale.

Noi delle volte vogliamo sapere come si scandisce la storia e allora, per esempio, parliamo del grande passaggio dal matriarcato al patriarcato come uno dei segnali che scandiscono il movimento storico. Oppure si parla di Gesù, che ha diviso la storia in due. Io direi, senza timore di sembrare a mia volta paradossale, che il pensiero di Parmenide segna una frattura tra il passato e il nostro tempo ancora più radicale che non il passaggio dal matriarcato al patriarcato, ancora più radicale della stessa nascita di Gesù. Perché dico questo? Perché lo stesso messaggio di Gesù è diventato quello che è diventato solo in quanto si è inscritto nelle categorie del pensiero greco. Se noi eliminiamo queste categorie dal messaggio cristiano, questo si impoverisce - e purtroppo oggi, volendo de-ellenizzare il Cristianesimo, si sta riuscendo ad impoverire il Cristianesimo che non dice più nulla, essendo stato distolto dal contesto ontologico in cui esso parla.

 

5. Come si sviluppa l'argomentazione di Parmenide?

Secondo una prima articolazione esso suona così: se l'essere è assolutamente opposto al niente, allora la prima conseguenza è che esso è immutabile, eterno, incorruttibile, ingenerabile. Perché? Anche in questo caso, Parmenide non si limita ad affermarlo, poiché egli dice - e qui l'attenzione deve diventare massima - che se si generasse o si corrompesse, esso sarebbe stato niente e tornerebbe ad essere niente. Ma l'essere non è il niente, dunque è impossibile che sia stato niente, che torni ad essere niente; questo vuol dire che è impossibile che non sia, e dunque deve essere eterno, ingenerabile, immutabile. Si può dire che questo discorso che abbiamo esposto così alla svelta, è uno dei discorsi che devono essere messi nei tabernacoli della filosofia.

L'altra articolazione si riferisce alla negazione del molteplice - questa è senz'altro l'interpretazione che di Parmenide danno tutti quelli che l'hanno seguito, cominciando da Empedocle, a Democrito, Platone, Aristotele, fino ad Hegel. Che il molteplice non "è" vuol dire che il mondo così come ci sta davanti nella sua straordinaria ricchezza, differenza di forme, colori, di luci, di situazioni, non "è". Anche in questo caso si arriva a questa conclusione perché è in gioco la tautologia. Vediamo come. Noi possiamo chiamare le differenze per nome: la lampada, la telecamera, gli arredamenti della stanza, poi le stelle, il cielo; possiamo semplificare e dire A, B, C, D chiamando con tali lettere le varie cose del mondo. Ci dobbiamo chiedere: "A", come poi "B" e "C", significa "essere"? Supponiamo che "A" sia il brillare delle stelle; Tentiamo di lasciar parlare Parmenide: "Luce significa essere?". "No!". Questo "no" lo dice Parmenide per la prima volta, ma poi lo diranno tutti gli altri e se noi chiedessimo ad un linguista se "essere" significa luce, anche il linguista, con tutta la sua correttezza scientifica, ci direbbe che "essere" non significa "luce". Ma allora luce non è "essere"; ma "non essere" vuol dire "ni-ente" che vuole dire "non-ente" - io amo sostenere questa etimologia della nostra lingua - e allora "luce" è "non essere". Ma lo stesso discorso lo possiamo dire di tutte le cose che ci stanno attorno che costituiscono il punto di riferimento della nostra vita. Ognuna di queste determinazioni della vita non significa essere e quindi è niente.

Prendiamo ora la grande tautologia che dice: "L'essere non è il niente", e a questo punto si fa innanzi la conclusione che ci riguarda - noi uomini della civiltà della tecnica - molto da vicino: dire che la luce, i colori, le cose, le case, gli uomini "sono", significa ammettere che il niente "è". Vorrei ripetere questa cosa. Le differenze del mondo hanno un significato che non coincide con il significato dell'essere; questa non coincidenza vuol dire la loro diversità dall'essere, e cioè che sono "non essere". Se allora l'amante o amico del mondo vuol dire: "il mondo è", egli deve anche dire: "Il niente è". La ragione dell'Occidente nasce qui, dall'esigenza di tener ferme le determinazioni - potremmo dire l'esigenza di non contraddirsi. Se si afferma che il mondo molteplice è, si afferma che il niente è. Allora abbiamo questa conclusione straordinaria: Parmenide, proprio per evitare che il niente sia, proprio per evitare di identificare l'essere al niente, afferma che le cose sono niente, che le differenze sono niente; se si afferma il mondo, se si è amici del mondo si sta nella pazzia che identifica l'essere e il niente.

A questo punto abbiamo gli elementi per rispondere alla Sua domanda. Il lógos, che costituisce il pensiero incontrovertibile perché si appoggia sulla tautologia dice appunto che il divenire non è, e che non esiste molteplicità. Qual è il significato di questa negazione? Vuol forse dire che Parmenide non vedeva il divenire e non vedeva la molteplicità? Sarebbe strano, avremmo a che fare con un qualche cosa che non appartiene alla nostra esperienza; noi vediamo il mondo, vediamo il divenire e la molteplicità delle cose e ne godiamo, perché senza di esse la nostra vita non avrebbe significato. L'Oriente dice invece che la nostra vera vita è al di là del molteplice e del divenire.

Parmenide invece dice che l'essere è immutabile e semplice - semplice vuol dire non molteplice e non differenziato; in questo caso l'apparire del mondo come diveniente è molteplice e non verità, cioè è illusione, è dóxa. Con una battuta direi che tutto il pensiero successivo, ma non solo filosofico, anche scientifico - e dico scientifico sapendo che questa affermazione può suonare paradossale - intende salvare il mondo da Parmenide, perché egli pone il mondo come non verità.

 

6. Non le sembra che forse Parmenide, per un eccesso di cautela nei confronti dell'essere, abbia alla fine consegnato - proprio grazie a questa assoluta separazione tra essere e non-essere, tra verità e dóxa - agli scettici, ai futuri sofisti, i quali si potranno sbarazzare di questo essere proprio perché non c'è nessuna possibilità di comunicazione tra l'essere e il non-essere ?

Questo è accaduto storicamente. Lo scetticismo, per esempio la forma di scetticismo pirroniano, prende spunto da Parmenide, perché se il mondo è illusione, quando non si crederà più nel logos di Parmenide rimarrà il gioco illusorio del molteplice e del divenire. Ma il problema ancora più consistente, non sono gli esiti scettici della filosofia di Parmenide, ma quello di salvare il mondo, perché la grande storia dell'Occidente non è fatta in prima battuta dallo scetticismo; lo scetticismo è prezioso perché è il pungolo che tallona e impedisce di riposarsi e di acquietarsi nel dogmatismo; - quindi Hegel faceva bene ad invitare a un salutare bagno nello scetticismo.

 

7. Il mondo di Parmenide è un mondo della necessità assoluta, è un mondo immobile, eterno, e quindi senza tempo. Evidentemente ci sono stati dei motivi di critica che hanno spinto i filosofi successivi a prendere le distanze, a compiere questo "parricidio" nei suoi confronti, come ad un certo punto sembra fare Platone. Ci può spiegare bene questo passaggio?

La volontà di andare contro Parmenide si sprigiona in Occidente e costituisce l'Occidente, mentre l'Oriente non l'ha fatto, sia per motivi cronologici, sia per motivi di attitudine psicologica. Noi oggi diciamo che la civiltà della tecnica domina sulla Terra e quindi domina sull'Oriente, ma non dimentichiamo che la prima grande invasione dell'Oriente è di Alessandro Magno che arriva fino in India. Ciò vuol dire che la cultura greca, che arriva e domina l'Oriente, controlla la stessa saggezza orientale. La protesta contro Parmenide esprime la nostra psicologia, la volontà che il mondo "sia", e noi occidentali dominiamo il pianeta perché non rinunciamo al mondo, mentre l'Oriente ha rinunciato al mondo. La civiltà della tecnica non è qualcosa che non ha nulla a che fare con Parmenide e la filosofia greca, perché la civiltà della tecnica è il portato ultimo e più rigoroso della protesta della filosofia greca contro la celebrazione del mondo. Ma potrebbe sembrare una pretesa arbitraria. Non ci ha detto Parmenide che il mondo è illusione e che la verità invece è l'eternità e immutabilità dell'essere? Invece a questo punto si tratta di comprendere che Parmenide ha in se stesso il proprio nemico; proprio perché è lui stesso a sostenere l'illusorietà dell'apparire del mondo, egli avrebbe dovuto dire che oltre all'essere, anche l’illusione "è". Questo è quello che Parmenide non può dire, perché la sua logica lo porta a dire che solo il semplice "è", e ciò che non è il semplice è niente. Dunque Parmenide è negatore di questo mondo, ma ne riconosce l'esistenza proprio in quanto lo nega: ecco il nemico che parla dentro l'animo di Parmenide. Egli ha in sé questa contraddizione, questa antinomia tragica, cioè il riconoscere che l'illusione "è" tanto quanto l'essere. In questo modo, l'essere non è l'uno, perché oltre all'uno c'è l'altro, il mondo dell'illusione. La conseguenza per la civiltà occidentale è che la coscienza incontrovertibile non è solo la ragione, il logos, cioè l'opposizione di essere e niente, ma è la coscienza dell'apparire del mondo - e questo riconoscimento comincia, prima di Platone, con Empedocle.

Dopo Parmenide ci si è resi conto che l'apparire del mondo è tanto innegabile quanto è innegabile il principio che dice: "l'essere non è il niente". Il parricidio che Platone compie nel Sofista nei confronti del pensiero di Parmenide ha lo scopo di mostrare come l'apparire del mondo non implichi l'assurdo dell'identificazione dell'essere e del niente. Il grande compito è dunque quello riuscire a salvare il mondo, ovvero, secondo l’espressione di Platone, s—zein tå fainÒmena ("sózein tà phainómena "): "salvare i fenomeni", e cioè le cose che appaiono, il mondo nella sua concretezza illuminata e manifesta. Il parricidio di Platone forma per così dire lo scudo - sulla cui consistenza nutro dei dubbi - al riparo del quale si porrà tutta la storia dell'Occidente, con tutte le sue grandi costruzioni, contro la minaccia di Parmenide.

 


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